estetica
Dal gr. αἴσϑησις «sensazione», «percezione», «capacità di sentire», «sensibilità». Ciò che tale termine innanzitutto indica è quel particolare tipo di esperienza che ci capita di fare quando giudichiamo ‘bello’ qualcosa, per es., un’opera d’arte, ma anche un oggetto, un individuo, un paesaggio naturale. L’esperienza estetica, in questo caso, consiste proprio nel fatto che ‘qualcosa’ cattura la nostra attenzione, producendo in noi, in modo del tutto inspiegabile e imprevedibile, emozioni e stati d’animo molteplici. Di fatto, è come se quel determinato oggetto, l’oggetto che appunto viene giudicato bello, nel momento stesso in cui si offre alla nostra visione, manifestasse un ‘di più’: qualcosa che non riusciamo a definire mai in modo compiuto e che tuttavia ci coinvolge, stimolando il nostro pensiero e sollecitando la nostra immaginazione. Esistono ambiti del sapere dei quali possiamo individuare con chiarezza e precisione non solo l’oggetto esaminato ma anche il metodo di studio, i concetti essenziali. È quanto accade quando ci occupiamo di campi e settori disciplinari rigorosamente delimitati quali, per es., la chimica, la fisica, la biologia e, più in generale, le scienze cosiddette sperimentali. Questa possibilità di determinare con esattezza e rigore l’ambito disciplinare specifico e l’oggetto dello studio che stiamo affrontando, non vale quando parliamo di e., dal momento che questa, lungi dal presentarsi come una dimensione perfettamente omogenea e trasparente, appare caratterizzata invece da una indeterminatezza di fondo. Abbiamo quindi a che fare con una nozione i cui confini non sono mai dati una volta per tutte ma, al contrario, tendono a spostarsi, a estendersi, a trasformarsi continuamente. Il risultato è, evidentemente, l’impossibilità di definire tale nozione di e. in modo univoco, sulla base cioè di criteri oggettivi, validi in modo universale e necessario.
È il filosofo tedesco Baumgarten che per primo usa il termine estetica nell’accezione moderna. Secondo Baumgarten, infatti, l’e. è, sì, conoscenza, ma conoscenza propriamente «intuitiva» e «sensibile». Questo significa che per Baumgarten, accanto alla verità espressa dalla matematica e dalla filosofia, c’è posto per un altro tipo di verità: quella storica, poetica e retorica. Si tratta appunto della verità estetica, cioè della verità conosciuta in modo sensibile. Con la nascita dell’e. l’arte viene vista in modo assolutamente nuovo e la stessa bellezza non è più giudicata come raggiungimento di una perfezione misurata in base a canoni o norme precostituiti. Ciò che caratterizza la riflessione estetica moderna è il riconoscimento che l’arte e il bello sono nozioni individuali e storiche, e in quanto tali fanno ap- pello non all’intelletto e alle sue regole bensì al sentimento. Il riconoscimento della connessione inscindibile tra e. e sentimento è centrale nel dibattito filosofico settecentesco, da Hume a Rousseau. È quanto troviamo, per es., in Shaftesbury, che, descrivendo la facoltà della percezione estetica come una «sensazione corporea, immediata, non riflessiva, senza ‘principi’ e definitiva», identifica il sentimento con la fonte stessa della valutazione estetica. Sempre a partire dal 17° sec., nella riflessione estetica accanto alla nozione di sentimento viene maturando anche quella di ‘gusto’; si tratta di una nozione che, lungi dall’essere riconducibile a regole fissate una volta per tutte e valide dunque a priori (in modo cioè universale e necessario), appare caratterizzata da una vaghezza di fondo, da una irriducibile indeterminatezza. Ma se l’e. si basa su nozioni soggettive quali appunto il sentimento e il gusto, sembra allora che si perda quella dimensione universale che dovrebbe caratterizzare il nostro giudizio quando definiamo bello qualcosa.
È questo il problema affrontato da Kant con la Critica della facoltà di giudizio (o Critica del giudizio ➔) (1790). Fondamentale, nella riflessione estetica elaborata da Kant, è la distinzione tra «giudizio determinante» e «giudizio riflettente»: se, nel primo caso, che è il caso della conoscenza scientifica, l’universale (ossia la regola, il principio, la legge) è qualcosa di già dato e se il giudizio, da questo punto di vista, consiste nella mera sussunzione del particolare (il dato empirico) sotto l’universale, al contrario, nel secondo caso – quello del giudizio riflettente, sul quale secondo Kant si fonda la possibilità stessa dei giudizi estetici –, ciò che è dato è non l’universale bensì il particolare. Nel caso dei giudizi estetici infatti l’universale, lungi dal costituire una norma predeterminata, è qualcosa che deve essere ‘trovato’, non indipendentemente dalla contingenza dell’empiria, ma appunto al suo stesso interno, ossia nella concretezza e nella determinatezza del particolare. Ora, se è vero che quello propriamente estetico è un giudizio pronunciato non sulla base di una definizione logica, bensì sulla base di un sentimento, allora il problema che si pone è come conciliare la soggettività di tale giudizio con quella necessaria intersoggettività e dunque universalità che si manifesta nel momento stesso in cui il soggetto pronuncia un tale giudizio, giacché con esso si pretende il «consenso di ognuno». In questo senso, secondo Kant, i giudizi estetici sono «soggettivamente universali». Questo significa che in un giudizio estetico ciò che propriamente viene alla luce è un «senso comune», ossia un senso o sentimento condiviso, qualcosa insomma di universalmente comunicabile.
Come si è detto, centrale nella riflessione estetica è la questione del particolare, la questione cioè relativa a tutto ciò che, nella sua irriducibile individualità e singolarità, tende a sottrarsi a ogni possibilità di spiegazione e di definizione in termini logico-concettuali. Da questo punto di vista la sfera dell’individuale e del particolare è qualcosa che, escludendo ogni determinazione di carattere normativo, fa appello piuttosto a una conoscenza di tipo storico. Ed è proprio il riconoscimento del carattere radicalmente e costitutivamente storico dell’esperienza artistica il tratto specifico che, a partire dal Romanticismo, caratterizza la riflessione estetica moderna e contemporanea, arrivando a vedere nell’arte qualcosa di superabile. È quanto troviamo in Hegel, per il quale l’arte, pur essendo uno dei modi, una delle forme fondamentali in cui la verità realizza sé stessa nel tempo, è tuttavia una dimensione destinata a essere superata storicamente, prima dalla religione cristiana e poi dalla filosofia che, meglio dell’arte, riescono a manifestare l’Assoluto. Più in generale, per Hegel, compito dell’e. è mostrare come l’arte, e in partic. il bello, sia la manifestazione, l’apparizione sensibile dell’idea, ossia dell’intelligibile, e come tale manifestazione dia luogo, nel tempo, a una molteplicità eterogenea di forme (l’arte simbolica, l’arte classica, l’arte romantica), che corrispondono ai diversi gradi e livelli di sviluppo dell’Assoluto. Così, se nell’arte simbolica (essenzialmente quella orientale) l’idea è ancora prigioniera dell’elemento sensibile, e se l’arte classica è caratterizzata dal raggiungimento di un perfetto equilibrio di ideale e reale, di materia e spirito, il tratto caratteristico dell’arte romantica invece è la capacità di esprimere, a un livello superiore di autocoscienza, il processo di emancipazione dell’intelligibile dal sensibile: la piena liberazione dell’interiorità (l’idea) da quei vincoli e condizionamenti di carattere fisico-materiale (la natura) che, tanto nell’arte simbolica quanto nell’arte classica, risultano ineliminabili. Nella seconda metà del 19° sec. la centralità che il sensibile assume nella riflessione estetica è sottolineata in partic. da Nietzsche. Così, contro quella tradizione metafisica che – da Platone a Hegel, passando attraverso il cristianesimo – ha affermato il primato assoluto dell’intelligibile rispetto al sensibile, e quindi dello spirito rispetto al corpo, al centro della riflessione estetica nietzscheana c’è proprio la rivalutazione non solo dell’apparenza e del sensibile, ma anche della corporeità e di tutto ciò che le è connesso: la finitezza, la contingenza, la caducità. In questa prospettiva quello che Nietzsche propone è non tanto un mero capovolgimento della tradizione platonico-cristiana – come se ora il primato fosse assegnato al sensibile e al corpo, in opposi- zione allo spirito e all’intelligibile – quanto la consapevolezza che l’intelligibile si dà solo e proprio attraverso il sensibile; è quanto troviamo nella Prefazione alla seconda edizione della Gaia scienza (➔) (1887), quando Nietzsche afferma che la verità, come la bellezza, si mostra solo in quanto velata. Questa rivalutazione del sensibile emerge già nella Nascita della tragedia (➔) (1872), attraverso la tematizzazione del rapporto inscindibile che lega «apollineo» e «dionisiaco» – ossia visibile e invisibile, forma e vita. Proprio nella Nascita della tragedia, appunto sulla base della distinzione tra apollineo e dionisiaco, Nietzsche afferma che la bellezza – ossia la forma, in quanto ‘bella apparenza’ – è una dimensione che i Greci hanno inventato per rendere sopportabile la vita e tutto ciò che la caratterizza: la sofferenza, il dolore, la morte. È quanto emerge, in modo esemplare, dall’epica omerica. E tuttavia, sempre secondo Nietzsche, se l’opera d’arte suprema è costituita non dall’epica omerica bensì dalla tragedia attica, questo dipende dal fatto che, mentre nel caso dell’epica, la forma apollinea serve a nascondere il pathos dionisiaco, presentandosi così come una liberazione ‘dal’ dionisiaco, al contrario, nel caso della tragedia, quello che emerge è un perfetto equilibrio di pathos e forma, nel senso che il dionisiaco si scarica nella forma apollina, sì che questa si presenta come una liberazione ‘del’ dionisiaco.
Nell’ambito della prima metà del Novecento, una delle figure più significative, nel campo dell’e., è senza dubbio quella di Lukács, del quale si può distinguere una produzione cosiddetta giovanile da una più matura, segnata dal confronto sistematico con la filosofia di Marx. La questione centrale negli scritti del giovane Lukács è quella relativa al rapporto, già tematizzato da Nietzsche, che lega arte e vita, ossia arte e realtà. È quanto emerge da una delle sue prime raccolte di saggi, L’anima e le forme (1910), dove, contro la pretesa tipicamente romantica di realizzare nella vita l’assoluto, Lukács sottolinea come al conseguimento dell’opera d’arte, in quanto ‘forma’, sia inscindibilmente connesso il sacrificio della vita. Proprio mettendo in questione tale subordinazione della vita rispetto all’opera, Lukács introdurrà quella nozione di «bontà», intesa appunto come rispetto della vita – giudicata irriducibile a ogni possibilità di spiegazione logica –, che sarà decisiva per la comprensione dei personaggi e dell’opera di Dostoevskij. È quanto troviamo in quel Manoscritto-Dostoevskij, del quale la Teoria del romanzo avrebbe dovuto costituire un’introduzione e che invece sarà pubblicata autonomamente nel 1916. Nella Teoria del romanzo, un’opera fondamentale per qualunque riflessione relativa al grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Lukács sostiene che proprio il romanzo è la forma d’arte che, nel mondo moderno, meglio porta a rappresentazione la perdita di quella totalità, intesa come immanenza del senso nella vita, che invece caratterizzava il mondo greco quale era espresso dall’epos omerico. Inoltre, grazie alla presenza di quell’elemento riflessivo dal quale nessun autentico romanzo può prescindere, la totalità, ossia il senso, che il romanzo mostra, è una totalità non «organica», come nell’epica classica, ma propriamente «creata»: qualcosa che appartiene non alla vita ma al romanzo stesso. Ed è proprio in virtù della sua capacità di conservare la differenza tra arte e realtà, che il romanzo, si distingue da quella che Lukács definisce «letteratura amena». Nelle opere della maturità al centro della riflessione di Lukács assumono invece un’importanza decisiva le nozioni di «realismo» e di «rispecchiamento». Così nell’Estetica (1963), Lukács afferma che vedere nella grande arte un «rispecchiamento» della realtà, significa considerarla non come una mera riproduzione naturalistica dell’esistente bensì come la rappresentazione delle contraddizioni immanenti alla realtà. Di qui, per un verso, l’importanza assegnata alle grandi opere dell’arte non a caso definita «realistica» – da Goethe a H. Balzac, da Th. Mann a L.N. Tolstoj – e, per altro verso, l’aspra critica che Lukács rivolge alle avanguardie letterarie e artistiche della prima metà del 20° sec., considerate come l’espressione, la punta estrema dell’ideologia irrazionalistica promossa dalle classi borghesi dominanti. Resta tuttavia il fatto che, come sottolineerà Adorno, nella riflessione estetica di Lukács manca una vera attenzione agli elementi propriamente formali dell’opera.
Anche nella riflessione estetica sviluppata da Benjamin, come in quella di Nietzsche, la questione del rapporto che unisce verità e bellezza assume un’importanza centrale. Il fatto è che, per entrambi, sia la verità che la bellezza si manifestano solo in quanto «velate». Di qui il loro carattere strutturalmente inafferrabile, ossia mai del tutto esprimibile. È quello che emerge, in partic., dalla Premessa gnoseologica che apre l’Origine del dramma barocco tedesco (1928), e dal saggio dedicato alle Affinità elettive di Goethe (1922). Questo riconoscimento dell’inafferrabilità del bello è decisivo per capire la nozione di «aura» attraverso la quale Benjamin designa l’«apparizione unica di una lontananza per quanto questa possa essere vicina». Da questo punto di vista ciò che l’aura manifesta è l’insuperabilità della distanza che divide eternità e tempo, assoluto e contingente. Non solo, ma la condizione perché si possa parlare di aura è l’esistenza di quella forma grazie alla quale abbiamo a che fare non con un oggetto naturale o industriale ma appunto con una vera opera d’arte. Già nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) Benjamin mette in evidenza come, nella modernità, alla perdita irrimediabile di una tale dimensione auratica, ossia dell’unicità e irripetibilità dell’opera, sia strettamente connessa una produzione artistica basata sulla «riproducibilità tecnica»: è quanto mostrano la fotografia e il cinema. È questa una dimensione profetica del saggio di Benjamin del 1936, se consideriamo il fatto che, negli ultimi decenni del Novecento, la perdita dell’aura e dell’importanza assegnata alla forma darà luogo a quella che sarà definita «perdita della esemplarità dell’arte». Nel Novecento l’autonomia dell’e. dalla storia è stata difesa da quelle posizioni antiromantiche che si sono opposte alla prospettiva di un’integrale dissoluzione dell’arte nel processo storico. È quanto emerge dalla Teoria estetica (1970) di Adorno nella quale, proprio in riferimento alla questione dell’autonomia o meno dell’arte, viene introdotta la distinzione tra arte tradizionale, arte moderna e arte d’avanguardia. Così, se nell’arte tradizionale, che separa arte e vita, e dunque opera e cosa, l’opera d’arte è caratterizzata dai requisiti della bellezza e dell’eternità al contrario, nell’arte d’avanguardia, caratterizzata dalla perdita di ogni distinzione tra arte e vita (ossia tra arte e realtà), la negazione dell’autonomia artistica porta a confondere opera e cosa, con il conseguente venir meno di quei requisiti di bellezza ed eternità ai quali anche l’arte moderna rinuncia, pur mantenendo l’autonomia dell’opera. In questa prospettiva l’arte moderna è un’arte che, lungi dal presentarsi come mero oggetto di contemplazione e (in termini kantiani) come fonte di un sentimento di piacere disinteressato, deve offrirsi in modo pienamente consapevole alla contingenza del mondo e alla temporalità. Il risultato è, per un verso, la tendenza dell’opera a risolversi in qualcosa di irriducibilmente caduco e precario e, per altro verso, l’esigenza di salvaguardare quell’autonomia della sua forma grazie alla quale soltanto l’opera riesce a opporsi all’empiricamente esistente; solo così l’opera si sottrae a quei processi di livellamento e di omologazione che l’«industria culturale» promuove e che, di fatto, riducono ogni espressione artistica a mera ratifica dell’esistente. Tale nozione di ‘forma’, assolutamente centrale nella riflessione estetica di Adorno, è intesa come «contenuto sedimentato». Questo significa che la stessa forma è portatrice di un «contenuto di verità», vale a dire di una «storicità immanente» e, come tale, è memoria di tutto ciò che nel mondo è stato represso, rimosso, cancellato. Di qui la funzione propriamente critica dell’arte moderna, la sua forza utopica: la capacità di mostrare non l’altro ‘dal’ mondo, bensì l’altro ‘del’ mondo, quell’altro cioè che non ha avuto alcun accesso all’esistenza (il mondo dei vinti, dei morti, di quanti hanno sofferto). Così, contro le diverse forme dell’avanguardia e della neoavanguardia – contro quelle tendenze che conducono a una dissoluzione dell’arte nelle azioni (dadaismo), nell’espressione (espressionismo), nella rivoluzione della vita quotidiana (surrealismo) – viene ribadita la necessità di una rigorosa distinzione tra arte e vita e, quindi, tra finzione e realtà. Più in generale, interrogandosi sul senso e sulla legittimità dell’esperienza estetica, in partic. dopo la tragica frattura di Auschwitz, Adorno mette in evidenza come al punto di vista strettamente estetico, proprio dell’arte tradizionale – un’arte fondata sul tentativo di mostrare l’irrappresentabile (l’assoluto, l’eterno) attraverso il rappresentabile (la contingenza, il finito, il tempo) – l’arte definita «moderna» abbia invece sostituito il punto di vista propriamente etico della testimonianza. Testimoniare, in questo senso, significa raccontare (ossia rappresentare) quello che è impossibile raccontare del tutto e in modo definitivo: significa parlare in nome di quanti non hanno più, o non hanno mai avuto, la possibilità di parlare. In questa prospettiva l’‘altro’ del quale la forma custodisce la memoria – l’invisibile – è non una presenza che si manifesta, e che manifestandosi annulla il visibile, bensì un’assenza rispetto alla quale il visibile (la forma) è ciò che resta: ciò che resta, appunto, quale testimonianza di ciò che l’arte non può dire, con la conseguenza che, oggi, tale impossibilità, consapevolmente assunta e tematizzata dall’arte, fa tutt’uno con la sua stessa possibilità. Insomma, le parole all’interno di una poesia, i segni sensibili di un’opera pittorica, testimoniano il silenzio, ne sono i rappresentanti. Così il compito residuale, che l’arte secondo Adorno deve assumere nella modernità, si esprime innanzitutto nella consapevolezza che bisogna continuare a parlare, appunto per far sentire che c’è qualcosa che non è stato ancora detto, che non può essere mai del tutto detto e che proprio l’opera d’arte permette, in qualche modo, di riconoscere. Questo significa che, soprattutto dopo Auschwitz, è ancora legittimo produrre qualcosa come un’opera d’arte, a condizione però che ciò che definiamo ‘arte’ sia davvero in grado di dare forma alla stessa crisi della forma tradizionale, alla perdita irrimediabile della sua ovvietà.
Anche per Croce, come per Hegel, l’e. si inscrive in modo coerente all’interno di una filosofia pensata come sistema. È quanto emerge, in partic., non solo dall’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (➔) (1902), ma anche dal Breviario di estetica (1912). Nella prospettiva crociana l’e. è scienza dell’intuizione e, come tale, è distinta e separata non solo dalle attività che appartengono al dominio pratico (l’economia e l’etica), ma anche dalla logica che, pur appartenendo, come l’e., all’ambito propriamente teoretico, tuttavia se ne distingue in quanto conoscenza dell’universale. Il fatto è che, secondo Croce, l’e. è conoscenza non dell’universale bensì del particolare: una conoscenza appunto intuitiva, in quanto fondata sulla apprensione immediata dei contenuti che si offrono alla nostra percezione sensibile – immagini, colori, suoni – e, come tale, irriducibile a quella conoscenza che invece si fonda sui processi di concettualizzazione e di classificazione della realtà messi in atto dall’intelletto. In questo senso, facendo dell’e. la scienza dell’intuizione e affermando la piena identità di intuizione e arte, Croce si collega al senso originario del termine estetica, intesa nell’accezione moderna come scienza della sensibilità (Baumgarten). Più in generale, sempre secondo Croce, l’intuizione non può essere considerata una mera affezione prodotta dal mondo esterno, qualcosa come una registrazione passiva (secondo lo schema ‘stimolo-risposta’); al contrario l’intuizione è costruzione, sintesi del dato esterno, e in questo senso essa non è materia bensì forma. Di qui la piena identità di intuizione ed espressione: non c’è intuizione senza espressione e viceversa. Così, se è vero che tutte le intuizioni sono propriamente arte, tanto che la differenza che sussiste tra le intuizioni dell’uomo comune e quelle espresse dall’artista è non una distinzione di qualità bensì solo di quantità, tuttavia ciò che caratterizza l’arte vera e propria è la piena coincidenza di espressione e intuizione, ossia di segno e significato. Di conseguenza, in ogni opera d’arte non c’è alcuna differenza tra l’immagine mentale dell’artista e la sua effettiva realizzazione, e questo significa che l’immagine artistica si presenta come qualcosa di già compiuto prima ancora della sua estrinsecazione. In questa prospettiva, il supporto fisico-materiale, nel quale l’artista ha tradotto la propria intuizione, resta privo di ogni autentico rilievo estetico. Di qui l’idea dell’arte come dimensione «lirica», come «intuizione pura», svincolata da ogni dimensione tecnica e da ogni elemento concettuale. Se, come abbiamo visto, al centro della riflessione estetica di Croce c’è il riconoscimento del valore non pratico bensì innanzitutto conoscitivo dell’arte, al contrario, nell’ambito del dibattito filosofico e teorico-artistico che si sviluppa in Italia a partire dalla prima metà del Novecento, quello che emerge è l’esigenza di rivalutare l’idea dell’arte in quanto fare. Di qui, allora, il recupero di quella vasta costellazione di temi, problemi e aspetti – la questione della tecnica artistica, l’analisi delle differenze che sussistono tra arti e generi diversi, l’attenzione ai mezzi espressivi, la nozione di ‘poetica’ – che l’e. crociana aveva svalutato, riducendoli a mero fatto empirico, a elementi del tutto accessori. È quanto ritroviamo, in forme eterogenee e con diverse accentuazioni, non solo all’interno dell’e. di ispirazione fenomenologica – da Formaggio, a Dorfles, a G. Diano – ma anche nell’ambito dell’e. ‘marxista’ proposta da Della Volpe. Di qui la rivalutazione delle ‘poetiche’, intese non come apparato di carattere normativo ma come riflessione sviluppata dagli artisti stessi intorno al proprio lavoro. È quello che emerge, per es., dall’opera di Anceschi, nel quale l’attenzione al piano pragmatico della riflessione sull’arte si traduce nel riconoscimento del rapporto inscindibile che lega il momento dell’autonomia e quello della eteronomia. In questo contesto, contro la tematizzazione crociana del carattere eminentemente «lirico» e prediscorsivo (e dunque radicalmente a-logico) dell’arte, tendono a prevalere posizioni fondate piuttosto sulla accentuazione delle istanze propriamente intellettuali connesse al fare artistico (come in Della Volpe e in Anceschi). Tra le opere che meglio esprimono l’esigenza di rinnovamento teorico-culturale nella fase postcrociana, l’Estetica di Pareyson, apparsa per la prima volta nel 1954, è senza dubbio quella caratterizzata dalla forma più compiuta e sistematica. L’e. di Pareyson, nata sul terreno dell’ermeneutica e sviluppata secondo forme e orientamenti diversi da alcuni studiosi provenienti dalla sua scuola – da Umberto Eco a Vattimo –, si configura come «teoria della formatività». Se è vero infatti che ogni espressione dell’agire umano – inclusi l’agire morale e la conoscenza – è qualcosa che si realizza in ‘forme’, è anche vero che, nell’esperienza estetica, tale formatività, intesa come agire innovativo e costruttivo, si rende prevalente e intenzionale. In questo senso l’attività artistica è l’esibizione «esemplare» di quella formatività che caratterizza ogni attività umana e che consiste non nella corretta applicazione di regole prefissate e assunte come valide a priori, bensì in un fare che «mentre fa, inventa il modo di fare», nel senso che, lungi dal limitarsi a eseguire un progetto già stabilito, definisce – e, di volta in volta, riscopre – la regola dell’opera, nel momento stesso in cui la porta a compimento. Di qui, allora, il riconoscimento non solo del carattere costitutivamente dinamico, operativo e processuale della forma artistica, ma anche della sua natura eminentemente interpretativa: come la formatività è essenzialmente un procedere per tentativi, così l’interpretazione, ossia l’unica forma conoscitiva appropriata all’attività artistica, consiste in un processo di adeguazione sempre fallibile e di fatto infinita.
Nella riflessione di Garroni l’e. è non un settore particolare della filosofia ma fa tutt’uno con la filosofia stessa. Muovendo infatti da un ripensamento complessivo della filosofia kantiana e, in partic., da una rilettura della Critica della facoltà di giudizio, Garroni propone una definizione dell’e. come «filosofia non-speciale della condizione estetica dell’esperienza in genere». In questa prospettiva l’arte, lungi dal presentarsi come l’oggetto epistemico di una ‘filosofia dell’arte’, è piuttosto il referente privilegiato, ossia l’esibizione esemplare di una riflessione che, stando consapevolmente all’interno dell’esperienza, tenta di risalire verso le sue condizioni di possibilità. Si tratta cioè di risalire verso quel senso che, in quanto apertura-instaurazione dei molteplici diversi significati via via esplicitabili e determinabili, ne costituisce l’orizzonte implicito non ulteriormente analizzabile, e che, come tale, si affida non a un principio di carattere intellettuale bensì a un sentire. Di qui, allora, quella definizione dell’e. come «guardare-attraverso» che esibisce il carattere irriducibilmente e costitutivamente paradossale della filosofia stessa, intesa come filosofia critica, ossia come interrogazione sempre rinnovata. È quanto emerge in particolare nei volumi Senso e paradosso (1986) ed Estetica. Uno sguardo-attraverso (1992). In questa prospettiva le opere d’arte costituiscono non una ‘classe’ di oggetti definiti da un tratto pertinente comune ma una ‘famiglia’, cioè un intreccio di somiglianze e differenze. Non solo, ma se è vero che l’arte, nell’accezione moderna del termine, costituisce non l’oggetto epistemico ma il referente privilegiato della riflessione estetica, è anche vero che nulla garantisce che essa debba continuare a esserlo. È quanto forse sta già accadendo. La conseguenza è appunto la perdita di quella esemplarità che alle opere d’arte è stata riconosciuta, di fatto, solo da qualche secolo e che, in questo senso, ne costituisce una dimensione non necessaria bensì contingente.
Questa perdita di esemplarità dell’arte si presenta, sotto il profilo este- tico, come uno dei fenomeni più complessi e significativi della contemporaneità. Il fatto è che sempre più, le manifestazioni artistiche sembrano aver perduto quelle caratteristiche che in passato ci facevano parlare non solo di qualcosa come una ‘grande opera d’arte’, ma anche di quel ‘contenuto di verità’ grazie al quale soltanto le opere d’arte – era esattamente questa la posizione di Adorno – sono in grado di riferirsi al mondo. La conseguenza di questa perdita di esemplarità dell’arte è duplice e in gioco c’è, evidentemente, la questione del rapporto che si stabilisce tra arte e realtà e, con ciò stesso, la possibilità di distinguere i due piani. In questa prospettiva, quello che emerge è, da una parte, la tendenza dell’arte a farsi mondo, e, dall’altra, la tendenza del mondo a farsi arte. Ed è appunto in virtù di questa confusione tra arte e realtà che l’e. finisce col riferirsi a una molteplicità estremamente eterogenea di manifestazioni che, a ben vedere, non sono più artistiche. Di qui la nozione di ‘estetismo diffuso’ con la quale, non a caso, si indica la tendenza a ‘estetizzare’ le manifestazioni più diverse: dagli oggetti d’uso comune alla politica, dalle varie forme di spettacolo agli eventi sportivi. Il risultato è, inevitabilmente, una sorta di ‘cosmesi’ della vita in generale, che sembra non risparmiare nulla e nessuno e il cui esito è, di fatto, l’affermazione del kitsch o anche di quella che Adorno definiva «industria culturale». Abbiamo insomma a che fare con manifestazioni che, chiudendosi in sé stesse e trovando in sé stesse l’unico significato possibile, ci negano quella apertura a una comprensione sempre rinnovata del mondo che invece era propria della grande arte.