Estetica
di Mikel Dufrenne
Estetica
sommario: 1. Introduzione. 2. La natura e l'arte. 3. L'arte: creazione e ricezione. 4. L'estetica soggettivistica. 5. L'estetica oggettivistica: la semiologia dell'arte. 6. Come l'estetica sia spinta dall'arte d'oggi a politicizzarsi. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Qualche parola di avvertenza: questo testo non si propone di presentare, neppure a grandi tratti, la storia dell'estetica - il cui battesimo e la cui istituzione ufficiale sono d'altro canto, come sappiamo, relativamente recenti - né di passare in rassegna le scuole che oggi occupano il campo della disciplina. Esso vuol essere una libera riflessione su taluni dei principali problemi che si pongono all'estetica: pone domande piuttosto che dare risposte, e, se si trova ad invocare talune teorie, le utilizza piuttosto come punti di riferimento, come contrassegni del suo procedere, senza tradirle (spero), ma anche senza giustificarle. Alcuni di questi problemi attraversano tutta la storia dell'estetica; l'attualità ne pone però altri, ovvero modifica i termini dei primi. Noi faremo riferimento appunto all'attualità (a un'attualità politica, come vedremo), a una problematica viva.
E anzitutto, venendo alla situazione presente dell'estetica stessa, osserviamo che da qualche anno l'estetica è duramente contestata. ‟A che serve riflettere sulle arti? - dicono talvolta gli studenti - È meglio praticarle e goderle". Liquidare così la riflessione è indubbiamente disinvolto: è sempre possibile riflettere sull'irriflesso, e senza sconfessarlo. Ma questa diffidenza ha altre ragioni: il fatto è che l'estetica non è stata solo riflessiva, ma normativa; oggi ha rinunciato ad esserlo, ma qualcuno continua a serbargliene rancore; allo stesso modo è sempre sospetta la parola ‛bello', per quanto il suo uso abbia anch'esso cessato di essere autoritario. Nondimeno, da qualche anno mi pare che l'estetica sia in via di riabilitazione. Anzitutto perché assume un nuovo volto. Da un lato si è liberalizzata nel suo contenuto: non rinuncia forse a evocare la bellezza, ma, in ciò seguendo sempre l'insegnamento di Kant, rifiuta di sostantivare il predicato; non evoca più ‛il' bello come un trascendentale bisognoso di una definizione autoritaria, ma tenta solo di dire come gli uomini considerino belli certi oggetti o eventi, cioè come ne traggano piacere; e possiamo forse negare o ignorare davvero questo piacere, e l'attività mirante a destarlo, ad aguzzarlo, a prolungarlo? D'altronde, imitando in ciò la sorte delle arti, l'estetica è andata sempre più assottigliandosi, tanto da andare in pezzi. Certo, all'università, dove peraltro è spesso trattata da parente povera, il suo nucleo resta localizzato nell'ambito della filosofia. Ma anche colà essa non appare più come una parte in un tutto articolato: anche la filosofia ha rinunciato a erigersi in sistema; invece di un sapere assoluto, essa configura una presa di coscienza attonita, di cui il filosofo non ha più il monopolio; con nostalgia, racconta a se stessa la sua storia, si mette in scena nei ‛dipartimenti di filosofia', ma è altrove ch'essa è presente e viva.
Simile è la sorte dell'estetica; essa s'insinua un po' dappertutto: nei discorsi degli storici, dei critici, degli artisti, talvolta perfino degli uomini politici, ovunque si rifletta sull'arte. Accade che in questi discorsi l'estetica non sia nominata, per discrezione o per diffidenza; ma che importa? Tutto il pensiero occidentale se n'è occupato senza nominarla, fino a Baumgarten. Essa ha il diritto di considerare suoi quei discorsi, e senza che la si possa accusare di accaparramento, in quanto essa stessa si lascia accaparrare da essi. Il solo tratto che la specifichi è il carattere riflessivo dei discorsi; e per lo più i discorsi sono in qualche misura riflessivi, in quanto la riflessione non perde mai i suoi diritti, neppure quando sia strettamente associata, o addirittura subordinata, a una prassi.
Se l'estetica è oggi rivalutata, ciò si deve appunto al fatto che la pratica su cui essa riflette sperimenta uno slancio notevole, che richiede riflessione. Ciò per ragioni su cui torneremo, ma di cui occorre dichiarare subito la natura politica: in molti ambienti l'estetica suscita interesse nella misura in cui si politicizza, e si politicizza nella misura in cui si politicizza l'arte; quest'ultima si politicizza nella misura in cui diventa popolare, s'impegna nella quotidianità, trasforma i suoi modi di produzione e di consumo. E, nello stesso tempo, la pratica artistica riflette su se stessa. È sparita la figura del genio ispirato e inconsapevole (per quanto sia ancora possibile trovarle un senso e un uso); l'artista è un lavoratore, un ingegnere o un bricoleur; è spesso anche un teorico dell'arte: non solo la sua opera si propone al sapere (per es. all'approccio strutturalistico o semiologico), ma talvolta rivendica di essere un sapere: le ‛proposte' dell'arte concettuale pretendono di esibire il concetto (per es. dell'arte) senza doverlo vestire e dissimulare nel sensibile, come pretendeva Hegel. Lo studioso di estetica è dunque direttamente sollecitato dall'arte; se non è egli stesso un artista, dà il cambio all'artista nel lavoro di riflessione.
2. La natura e l'arte
Riflessione su che cosa? Senza dubbio sulla pratica artistica, che dovremo a nostra volta determinare. Ma l'oggetto dell'estetica è solo parzialmente coincidente con questa pratica; esso è in genere tutto ciò che concerne l'aisthesis, il sentire e il sensibile, il gusto e quel che viene gustato. E non c'è ragione di limitare il gusto al buon gusto, al gusto che giudica le opere dell'arte. Gustare non significa solo esercitare l'attività propria di un determinato senso, come fa l'assaggiatore di vini; e anche in questo caso entrano in gioco la maggior parte dei sensi, che sono solidali tra loro: tutto il corpo dell'assaggiatore si mobilita per gustare il ‛corpo' del vino, la sua stoffa, il suo calore, perfino il suo colore; e tutti i sensi che collaborano nel gusto sono a loro volta capaci di gusto. Gustare significa entrare in un certo rapporto col sensibile, rendergli giustizia, prenderne possesso pur lasciandosene possedere. Ora, il sensibile che entra in questa comunione con il sentire non è solo l'opera d'arte, ma anche quella che Merleau-Ponty chiama la carne del mondo. Ogni carne nel mondo può essere gustata come oggetto estetico, perfino l'orinatoio di Duchamp, per quanto talune cose vi si prestino meglio di altre; infatti il gusto estetico non estetizza sovranamente e arbitrariamente, ma risponde a una sollecitazione dell'oggetto: l'acqua non stimola il gusto come il vino, né un orinatoio come una statua.
Si presenta qui l'occasione di una prima estensione del campo dell'estetica, che è invero la più notevole e anche la più facile; basta infatti ricordare la lezione di Kant: prima ancora che l'arte, la natura ci offre le sue bellezze, un fiore, un paesaggio, o anche, sul fondo dei mari, un corallo. Questo semplice fatto, come sappiamo, è una chiave per la Critica del giudizio: la ‟benevolenza della natura verso il nostro potere di conoscere" significa che, se possiamo sussumere le nostre intuizioni sotto concetti, se per questa via il nostro intelletto dà alla natura le sue leggi, non lo fa da legislatore sovrano: la natura ci aiuta in tal compito, e forse ad esso ci invita. Certo, il giudizio di gusto è autonomo, essendo riflettente: il soggetto prova in sé il libero gioco e l'accordo dell'immaginazione e dell'intelletto; esso è però sollecitato dalla natura. In altri termini, noi siamo al mondo come nella nostra patria. Inoltre, l'interesse di una riflessione estetica sulle ‛bellezze naturali', sulla natura in quanto estetizzabile ed estetizzata, non è forse solo quel che Kant si aspetta. Per lui, il fatto che siamo capaci di un piacere disinteressato dinanzi a queste bellezze attesta che siamo capaci di moralità. Ma proprio il piacere che ne traiamo non è forse tanto disinteressato, né il nostro giudizio tanto riflettente. Resta il fatto che l'esperienza estetica della natura è esemplare: afferra perché noi siamo afferrati, in quanto tutto il corpo è mobilitato per il godimento. Gustare un paesaggio, non vuol dire solo contemplarlo da qualche punto privilegiato; vuol dire anche penetrarvi, vagarvi, sentire la vivacità dell'aria o l'ardore del sole sul viso, udire il canto degli uccelli, fiutare gli odori dell'erba, accedere a una comunione carnale con tutte le zone erogene del sensibile.
Qui, un'osservazione. Quando si parla di un'esperienza estetica della natura, bisogna opporre la natura soltanto all'arte, e non agli oggetti nati dall'artificio degli uomini. L'isola deserta è natura, ma anche la città lo è. È natura tutto ciò che l'uomo incontra, che (anche se è stato lui a produrlo) gli si impone con l'evidenza del ‛c'è', in cui egli può tanto perdersi quanto sentirsi a casa sua. Se volessimo azzardare una filosofia della natura, diremmo che la natura è la matrice da cui nascono tutte le cose, e anche l'uomo; è l'Essere bruto non ancora illuminato da uno sguardo umano. È attraverso l'uomo che ogni cosa diventa cosa in un mondo; ma al di qua dell'uomo c'è il Grund, la cupa e silenziosa opacità di un in sé che non è ancora per noi. Basta che questo pre-umano affiori talvolta nel mondo, che l'uomo possa presentirlo assentandosi da se stesso o tornando alla propria nascita, e si capirà com'esso incomba sopra tutte le cose, in quanto la matrice reca in sé ogni cosa: ogni cosa è originariamente naturale. Ma per ora, quando parliamo di natura, alludiamo al naturato e non al naturante, a un naturato però che, a differenza dell'arte, non è stato prodotto dall'uomo.
Possiamo poi pensare che l'esperienza della natura abbia una certa priorità, o almeno un certo impatto, su quella dell'arte. L'uomo si è messo a produrre bellezza indubbiamente perché è stato sensibile alla bellezza grazie alla sua presenza al mondo. La cultura non sempre si oppone alla natura; può procedere da essa: è per aver gustato le curve delle colline e quelle delle spalle femminili che l'uomo, come ad esempio Cézanne, ha voluto sposare le une alle altre su una tela. Le ha forse imitate? Si è ripetuto a sazietà che l'arte imita la natura. Ma l'imitazione non è necessariamente la mimesis. Imitare la natura non significa sempre riprodurne un'immagine; può significare produrre un oggetto a sua immagine: un oggetto che abbia la densità, la pienezza, lo splendore, la polivalenza della cosa quando essa è bella, un oggetto che basti a se stesso e che nondimeno si apra alla sensibilità e all'immaginazione, faccia appello alla comunicazione. Se il quadro non può essere ‛brucato' dall'occhio - secondo l'espressione di Klee - come il paesaggio viene esplorato dal viandante, se la scultura non rivela la rugosità della pietra, se la musica non avvolge l'ascoltatore come l'acqua sostiene il nuotatore e non richiede la stessa capacità di abbandonarsi pur nella padronanza di sé, allora l'opera è fallita. Ed è indubbiamente per essere fedele alla natura che l'arte ha talvolta cambiato volto: la musica è diventata concreta o informale, l'astrazione è diventata lirica, la poesia grido, la danza gesticolazione. Ma anche l'arte classica è a modo suo fedele alla natura. La natura infatti, come prova l'esperienza estetica, è insieme, come in Esiodo, Urano e Caos, Apollo e Dioniso. Se il tratto che noi ne afferriamo è talvolta la necessità - la forza dell'ontico - questa necessità può esser compresa in modi diversi: come la necessità razionale che produce l'armonia delle sfere e porta l'arte alla razionalità stessa, o come la necessità bruta dell'esserci, la forza e l'opacità della cosa, l'imprevedibilità dell'evento, che porta l'arte all'esplosione delle strutture e al delirio dell'improvvisazione.
Alla stessa preoccupazione di naturalizzare l'arte potremmo indubbiamente attribuire i collages, gli assemblages, le esibizioni di oggetti qualunque: in tal modo il reale viene introdotto nell'opera, o perfino la costituisce. Senza dubbio un reale siffatto non appartiene a quella che comunemente si chiama la natura: si tratta piuttosto di oggetti consueti, perfino tecnici, e a volte di rifiuti; ma almeno è la ‛cosa stessa', e non la sua riproduzione, così come, per la musica concreta, la materia è ‛il rumore stesso'. E accade anche che l'artista si porti a contatto con la natura, non per piantarvi il cavalletto e dipingere a tema, come facevano gli impressionisti, ma per segnarla col suo sigillo: uno imballa delle rocce, un altro traccia un solco sulla pianura, un altro pianta fiori di carta su una spiaggia. Certo, la natura porta allora la traccia dell'uomo: il paesaggio è sottoposto a trattamento, come accade al rumore nella musica concreta, e al gesto naturale nella danza. L'artificiale si inscrive però nel naturale; non sarebbe sufficiente dire che l'opera somiglia alla natura: essa appartiene alla natura, la natura è la sua materia. Nondimeno, l'artificio è clamoroso. Più che imitare la natura, la land art la traveste, la sovverte; lo stesso accade per le collezioni o i musei privati: questa raccolta più o meno ossessiva di oggetti eterocliti è espressione di fantasmi umani, non è naturale. L'arte imita meglio la natura quando l'opera ‛arieggia' alla natura, piuttosto che non quando trae dalla natura la sua materia. O allora occorre che, lavorando sulla natura, invece di farle violenza o di stravolgerla in derisione, l'arte la induca a dispiegarsi, come fa indubbiamente la musica concreta per il rumore: ma Christo è meno fedele alla natura del giardiniere. Imitare la natura, quando non vuol dire riprodurla, significa produrne un equivalente: un artificiale che si riconosca come tale e che abbia insieme, in forza della sua necessità interna, un carattere di natura. Il prodotto può allora evocare in chi lo consuma la natura: le tele su cui Pollock ha ‛danzato' suggeriscono, senza rappresentarlo, l'indefinito spazio vergine calpestato dai pionieri del Far West, la musica di Debussy i giochi d'acqua o l'azzurro dei mari caldi, le forme di Henry Moore la voluttà del corpo femminile.
Ma quest'evocazione - sempre aleatoria in quanto soggettiva - è possibile solo se il ricettore è davvero presente all'opera, se l'opera, dovendo esser gustata, non è solo oggetto di rappresentazione, ma oggetto davvero presente. Ed è - ripetiamolo - l'esperienza estetica della natura che insegna a essere presenti: non si tiene il paesaggio a distanza per contemplarlo, si è in esso, ci si mescola ad esso, ci si accorda con esso dall'intimo del corpo come il lupo nella steppa, l'antilope nella savana, il gorilla nella giungla. E questi animali posson fare anch'essi dell'arte proprio perché hanno trovato il loro luogo naturale. Giocare e danzare per celebrare le nozze con la femmina, ma anche con l'ambiente che li ospita e ove essi delimitano il loro territorio; la loro arte non sta nel rappresentare ma nell'esser presenti. Si dirà che una tela appesa al muro in un museo non può di fatto richiamare se non alla contemplazione. È vero. Il primo effetto della cultura è la repressione del naturale. Soprattutto quando la cultura è quella imposta dalla classe dominante, per la quale la raffinatezza non va esente da riserbo e deferenza nei confronti dell'opera: si entra nel museo come in una chiesa, a passi felpati, e il capolavoro mormora: noli me tangere. Sacrilego chi portasse la mano su quegli oggetti unici, preziosi e fragili, che hanno resistito alla prova del tempo. L'occhio soltanto può avere con essi un rapporto inoffensivo; e, almeno, può farsi agile e penetrante come la situazione richiede. Per il resto, se si eccettuano le pie mani del restauratore, è la mente che entra in contatto con le opere; ed è così che, piuttosto che oggetto di piacere, esse diventano oggetto di sapere; come vedremo, il discorso non cessa di commentarle, conferendo al suo autore un prestigio quasi pari a quello che il possesso conferisce al collezionista. Ma è anche vero che l'arte contemporanea produce opere meno smaniose di durata, che richiedono un rapporto più familiare, un'esperienza più viva, che talvolta non si lasciano chiudere in recinti sacralizzanti, ma penetrano nei luoghi quotidiani e talvolta nella natura. Situandosi in mezzo agli alberi, la scultura assume sembianze di natura, come la musica risonando all'aperto in qualche festival. Analogamente - non bisogna infatti intendere la natura in senso troppo limitativo - il murale che decora una facciata, l'illuminazione che dà luce a una via, il disegno stesso di questa via trasportano l'arte nei luoghi familiari, in cui la sua presenza, anche insidiosa, è più pregnante.
Ritroviamo qui taluni procedimenti dell'arte già menzionati. Esempi siffatti servono a due fini: illustrano da un lato le conseguenze di un'esperienza estetica della natura e dall'altro l'estensione del campo dell'arte, che oggi va ampliandosi forse fino al punto di farne esplodere il concetto. In altri termini, essi ci insegnano da un lato che molti oggetti naturali possono essere estetizzati, dall'altro che molti oggetti fabbricati possono essere, se azzardiamo questo neologismo, artistizzati: molte attività, cioè, che parevano estranee all'arte tradizionale - come tracciare un solco in una pianura o illuminare una via - possono esser considerate artistiche. Vedremo fino a dove può giungere questa esplosione dell'arte, e ne misureremo le applicazioni politiche. Per ora osserviamo che la riflessione estetica può impegnarsi in due direzioni: in una filosofia del bello o in una filosofia dell'arte. Queste due filosofie hanno come patroni due grandi nomi: Kant e Hegel. La linea seguita all'inizio, che poteva richiamarsi a Kant, porta a una filosofia del bello. Interrogarsi sul gusto significa interrogarsi su ciò che lo desta e costituisce la materia del suo giudizio: il bello. Occorrerà ritornare sull'idea di bellezza, benché l'estetica oggi rinunci con ragione a definirla. Ma tra gli oggetti belli, o piuttosto gli oggetti estetizzabili, cioè suscettibili di esser gustati come belli, bisogna annoverare i prodotti dell'arte, e quindi approdare a una filosofia dell'arte. Invero le due direzioni che così si aprono non cessano di incrociarsi: Kant muove da un'analisi del gusto per arrivare a una teoria dell'arte e dell'artista; Hegel, che medita sull'arte come primo momento dello spirito assoluto e sulla sua storia come divenire dello spirito, muove da una riflessione sul bello e su ‛l'ideale del bello'. Analogamente, nel nostro ragionamento, il riferimento alla natura ci ha portato a evocare talune forme d'arte.
3. L'arte: creazione e ricezione
Veniamo dunque all'arte. Per importante che sia esaminare l'esperienza estetica della natura, l'arte è l'oggetto privilegiato dell'estetica, e la riflessione sull'arte può portare parimenti a una riflessione sul bello. Ma che cos'è l'arte? Non è questa una domanda a cui rispondere in via preliminare? È una domanda difficile: nuove pratiche non cessano di allargare il suo campo, e noi ne indicheremo altre, ispirate stavolta alla sua politicizzazione; fin dove, dunque, estendere il campo dell'arte? A dire il vero, come ha notato bene A. Cauquelin, l'estetica tradizionale non si è preoccupata di determinare le frontiere. Questa determinazione è piuttosto faccenda degli artisti stessi; sono loro che, a partire dal Rinascimento, e perché evidentemente il contesto culturale autorizzava e perfino sollecitava la loro rivendicazione, hanno reclamato per l'opera e per se stessi un certo status, un riconoscimento e un'istituzionalizzazione dell'arte che assicurassero loro insieme una certa libertà e un certo prestigio; sono loro che si staccarono dal ‛vile' mestiere dell'artigiano, loro ad essere dotati di genio, loro che impongono la distinzione tra arti maggiori e minori. Certo, molto tempo è passato da quando l'arte ha ricevuto questa consacrazione. Oggi molti artisti rinunciano a contrassegni siffatti: genio, oracolo, ‛maledetto'...; mettono in discussione i loro privilegi, e F. Léger tra i primi ha detto: noi pittori siamo lavoratori come gli altri; se essi sono ancora degli emarginati, non si trovano però su un piedistallo, ma a fianco degli esclusi e dei clandestini. Altri però non condividono quest'umiltà: sono ancora sicuri che l'arte sia loro monopolio. Così, gli artisti ‛concettuali' affermano, abbastanza cinicamente, che le loro opere sono opere d'arte in quanto essi sono artisti: Quia nominor leo... In ogni caso il pubblico ha seguito gli artisti. E l'estetica tradizionale anche: per essa l'arte è una faccenda degli artisti. Forse non di quelli viventi (sebbene, quand'era normativa, quando il teorico dell'arte era un critico dotato di autorità dal potere, come ai tempi in cui Colbert in Francia fondava l'Accademia, l'estetica ponesse sotto giudizio i contemporanei), ma di quanti la tradizione ha consacrato come artisti, salvo, nel caso siano vissuti prima dell'istituzionalizzazione dell'arte, ad accordar loro una promozione postuma: gli scultori dei capitelli romanici erano artisti senza saperlo, come i fabbricanti di maschere nelle società africane: basta per questo che Braque o Picasso li abbiano riconosciuti come tali, e che le loro maschere abbiano fatto il loro ingresso nei musei. Non tentiamo - dice questa estetica - di sapere che cosa esse significassero per quelli che le fabbricavano e per quelli che le portavano; basta averle riconosciute degne di entrare nel Museo ideale. Non attardiamoci a individuare un'essenza dell'arte, siamo empiristi: l'arte è l'insieme delle opere d'arte, secondo quanto decidono la tradizione e gli esperti; e per maggior sicurezza, quanto trattiamo di arte, riferiamoci ai valori sicuri: il Partenone, Leonardo, Shakespeare, Mozart.
Perché no? Anche noi possiamo per il momento rinviare il problema della natura e della funzione dell'arte, prendere l'arte come scontata. Bisogna però almeno avvertire che, accettando provvisoriamente l'istituzionalizzazione dell'arte, accettiamo l'ideologia ch'essa trasmette. La caratteristica dell'ideologia infatti - come Althusser ha ben mostrato - è proprio di fare assumere una certa realtà, per mascherata che sia talvolta, come scontata. La realtà che si afferma qui è quella dell'arte in quanto specialità per artisti e conoscitori (dilettanti o studiosi), attività marginale di lusso, che fa onore all'individuo ed eventualmente allo Stato che la patrocina. D'altro canto questa istituzionalizzazione dell'arte prepara e giustifica la sua commercializzazione: oggetto d'uso per chi la usa, l'opera è senza prezzo; oggetto di scambio quando si instaura un mercato dell'arte, essa ha un prezzo e può dar luogo a speculazioni redditizie, non sempre confessate: il valore estetico può servire a camuffare l'interesse che si nutre per il valore venale. Questa ideologia elitaria - necessariamente elitaria nella misura in cui l'ideologia è quella della classe dominante - esclude, come si vede, l'esperienza estetica dalla natura, la quale è molto più comune e tutto sommato volgare (se la integrasse, ciò accadrebbe nella misura in cui il contatto con una natura ormai commercializzata divenisse a sua volta un privilegio: il sole e il mare concessi solo ai clienti fortunati del Club Méditerranée). L'estetica tradizionale quindi - è l'ideologia a richiederlo - è certo un'estetica dell'arte.
Ma anche altre ragioni raccomandano di privilegiare un'estetica siffatta. Principalmente la seguente: l'arte invita a sdoppiare lo studio dell'esperienza estetica, ad aggiungere uno studio della creazione a uno studio della ricezione, mentre, a prima vista almeno, l'esperienza estetica della natura non invita ad uno studio della creazione. Nondimeno, notiamolo, l'estetica kantiana, quando determina il posto che l'arte occupa, comporta uno studio siffatto; nella misura stessa in cui legittima una rivendicazione che non ha cessato di esprimersi sin dal Rinascimento, essa propone un'idea del genio che si inserisce insieme in un'estetica del bello e in un'estetica della natura. Il genio sta sullo stesso piano della natura; le dà le sue leggi creando, ma si lascia ispirare da essa. Qui Kant prefigura il romanticismo. Oggi però quest'idea non trova più eco. Il termine stesso ‛creazione' è contestato: per le sue connotazioni teologiche, si dice. Ma deve questo termine essere riservato al vocabolario teologico? Invece di aver sempre paura di lasciarsi contaminare e catturare, la riflessione non può catturare a sua volta? E il termine ‛produzione' non è anch'esso carico di connotazioni? Esso induce a considerare l'artista come un lavoratore: ma non sarebbe ora di considerare il lavoratore come artista e di organizzare una società in cui egli potesse fare appello alla sua creatività? L'idea di creatività non incontra gli stessi sospetti di quella di creazione; ma anche il termine creazione è in via di riabilitazione (ne è testimone il recente libro di O. Revault d'Allonnes, La création artistique et les promesses de la liberté, Paris 1973). Ma non è solo una questione di parole. Quel che si contesta nell'idea di creazione è in fondo la filosofia del soggetto, come confermerà l'esame di alcune teorie.
Occorre però, prima, osservare ancora che la nuova dicotomia di creazione e ricezione, introdotta dallo studio dell'arte, non è più irriducibile di quella di natura e arte. Anche essa deriva dall'ideologia legata all'istituzione: ci sono artisti che producono opere, c'è un pubblico di spettatori che le contempla e di clienti che le acquistano; il creatore è attivo, il ricettore è passivo. Ma, a guardar più da presso, si vede che i ruoli possono scambiarsi. Anzitutto l'artista: egli è ricettore nella misura in cui il suo fare è sempre legato a una percezione; via via che crea, il pittore non cessa di guardare la sua tela, il musicista di ascoltare quel che vien componendo, lo scrittore di leggersi; anche l'architetto, se disegna o fa plastici, non lo fa solo per attrarre il cliente, ma per vedere quel che progetta di costruire. Per giudicare l'effetto del lavoro e quindi proseguirlo, e fors'anche per confrontare l'abbozzo col progetto, bisogna ben percepire ogni tappa successiva dell'opera in gestazione. L'artista è - in realtà - passivo in un senso ancor più profondo: è chiamato (‟sfruttato" dice Souriau) dall'‟opera da fare"; non la percepisce come oggetto presente, e neppure come immagine; non sa che cosa sarà; non la apprende se non facendola via via; curiosamente, sa però che cosa essa dev'essere e anche che cosa non deve essere; e quando è compiuta, egli la ‛riconosce' come se l'avesse già conosciuta. Per l'opera in gestazione le cose vanno un po' come per l'oggetto del desiderio: il desiderio non sa che cosa vuole, non può definire il proprio oggetto - l'amore, la giustizia, la bellezza -, erra instancabilmente, può reprimersi (o almeno interiorizzare la repressione), dissimularsi a se stesso, investirsi in qualunque cosa; ma non si creda che sia totalmente inconscio: basta che si realizzi, sia pur solo momentaneamente, ed esso si riconosce. E non è forse il desiderio che ispira la passione di creare, in tutti i sensi del termine passione? Più profondamente ancora, potremmo arrischiarci a dire che l'artista riceve dal di fuori codesto desiderio che lo possiede: dalla natura stessa, che lo ispira in quanto essa aspira a dirsi nell'arte, come già aspira ad apparire in quella luce naturale che è rappresentata dall'umanità.
Consideriamo ora il ricettore: pur passivo, egli è anche attivo. Indubbiamente, percepire non è creare: ricevere un messaggio non equivale a emetterlo; ma percepire non è neppure semplicemente ricevere, o equivale a ricevere nel senso in cui si riceve un ospite: prodigandosi per accoglierlo. Occorre infatti che con l'opera - e più ancora, come dicevamo, con le bellezze naturali - si stabilisca uno scambio. E ciò anche quando la deferenza sia d'obbligo perché richiesta dal codice della contemplazione; vorremmo infatti, allora, che almeno lo spirito sia attivo, che entri in gioco un sapere, che il giudizio si eserciti: la teoria intellettualistica della percezione può qui offrire i suoi servigi. Ma lo spirito è forse attivo senza che lo sia il corpo, senza che l'occhio si renda agile per seguire gli itinerari che il quadro propone alla sua lettura, senza che i muscoli abbozzino movimenti per seguire il ritmo della musica nel momento stesso in cui le orecchie si aprono, senza che il corpo intero giri attorno alla scultura per seguire il molteplice gioco dei volumi? Indubbiamente, quest'attività non è produttiva: convertire l'opera in oggetto estetico non vuol dire crearla, anche se vuol dire adempierla; ma significa forse ricrearla. Proprio a questo tende infatti lo sforzo del ricettore: egli tenta di ritrovare nell'opera il movimento in forza del quale essa si produce e si presenta, che è il movimento stesso della sua creazione: quale tema - musicale, plastico, poetico - genera l'opera? Quale ritmo ne governa lo sviluppo? Quali forze agiscono in essa? Quel che si cerca non è tanto il segreto dell'artista, quanto il segreto dell'opera, una sorta di interna legge di composizione; di questa autoproduzione l'artista non è che lo strumento: in ciò passivo, ripetiamolo; è necessario però essere, o farsi, artista per venire incontro a un'esigenza del genere. E in realtà, certi ‛dilettanti' si esercitano nell'arte e apprendono determinate tecniche non per produrre essi stessi opere, ma semplicemente per meglio percepire quelle degli altri. A ciò appunto invita l'arte contemporanea. L'artista non conserva più gelosamente il segreto delle tecniche nel suo laboratorio, ma le espone volentieri; e tutti possono comprare i tubetti dei colori; e neppure è difficile, come i giovani sanno, iniziarsi ad una certa musica, l'accesso alla quale non è più impedito da trattati di armonia e di contrappunto. Il pubblico è così invitato a ‛partecipare'.
Ma la partecipazione ha ancora un altro senso: significa co-creazione, quando ad esempio lo spettatore costruisce l'oggetto plastico con gli elementi che gli sono dati, quando J. Cage lo invita a suonare nel Music circus, quando Mnuškin lo invita a danzare con gli attori per celebrare la Presa della Bastiglia. E questa forma di partecipazione è antica quanto la più antica delle arti. Alain pone infatti la cerimonia all'inizio del Système des beaux-arts; e giustamente: il primo materiale dell'arte, il solo che gli animali conoscano e di cui si servano felicemente, è il corpo, ed è appunto nella cerimonia che il corpo umano si disciplina e si trasmuta. Ora, la caratteristica della cerimonia sta nel fatto che in essa i ruoli si scambiano: l'individuo è tutt'insieme attore e spettatore. Non è uno scambio tra attore e spettatore - tutti sono in scena -, è uno scambio tra attore e attore; ma ogni attore si vede vedendo l'altro, si riconosce nella risposta che riceve dall'altro; il pas de deux offre di ciò l'esempio più eloquente, e i gesti di cortesia un'eco attenuata. Senza dubbio noi abbiamo oggi un'idea diversa da quella di Alain riguardo alla prima delle arti; non siamo più sicuri che l'arte abbia come vocazione quella di purgare le passioni, di reprimere l'immaginazione, di socializzare l'individuo insegnandogli la padronanza di sé. Piuttosto che alla cerimonia, noi pensiamo alla festa, in cui non ci dispiace che Apollo venga a patti con Dioniso e perfino (si veda il recente libro di J. Duvignaud, Fêtes et civilisations, Paris 1973) Eros con Thanatos. La nostra civiltà repressiva e conformistica ci ispira nostalgia della festa primitiva, e la nostra arte tenta di risuscitarla. Sarebbe questo infatti il mezzo più radicale di rompere con l'arte istituzionalizzata e con l'ideologia che la sostiene; è proprio in queste forme di arte collettiva, infatti, che si cancella la distanza tra il creare e il ricevere, e la creatività diventa generale; e se si obietta che si tratta di una creatività di second'ordine, non dimentichiamo che è l'ideologia che lo dice. Evidentemente, non si tratta di negare ogni differenza tra il creatore e il ricettore; questa differenza però non va neppure irrigidita, attività e passività potendo, almeno, alternarsi e cooperare nello stesso individuo. Soprattutto non bisogna rifiutare l'idea che quanti sono ridotti al ruolo di ricettori possano elevarsi alla dignità di creatori. Poco importa che il termine ‛creazione' abbia una connotazione teologica; quel che conta è che non abbia più una connotazione aristocratica.
Abbiamo detto che, se questo termine venisse rifiutato, ciò accadrebbe soprattutto perché implica una filosofia del soggetto, che ha oggi scarso credito e alla quale la filosofia contemporanea oppone volentieri un anti-umanismo. Recitiamo quindi il nostro mea culpa: finora, senza esplicitare la cosa, ci siamo situati proprio nella prospettiva di una filosofia siffatta. Invero a ciò ci induceva Kant: la critica del giudizio estetico riferisce questo giudizio al soggetto, che giudica in funzione di un piacere disinteressato in cui si riconosce, e che esercita altrettanto liberamente il suo gusto creando. E come negare che sia un soggetto colui che fa l'esperienza estetica, sia essa quella del creatore o del ricettore? Ma lo studio del soggetto è forse il solo capace di mettere in moto l'estetica? No, appunto per questo il nostro conto con lo studio dell'arte rimane aperto. Questo studio richiede infatti anche l'esame delle opere d'arte in se stesse, le quali, sono cosiffatte che, una volta create, si distaccano dal loro creatore e si impongono al ricettore. L'estetica assume allora una nuova direzione, e affronta un nuovo problema. C'è infatti anche un'estetica dell'oggetto: delle singole opere, delle arti e di quelle che Hegel chiama le forme di arte, potremmo dire gli stili. Un'estetica soggettivistica sotto l'egida di Kant, un'estetica oggettivistica sotto quella di Hegel: quest'opposizione attraversa la storia dell'estetica; e, all'inizio di questo secolo, dà luogo in Germania a vivaci conflitti tra l'Ästhetik, che si riferisce al soggetto, e la Kunstlehre, che si richiama alla scienza ed elabora uno studio dell'oggetto. Non possiamo ignorare questo dibattito, e dobbiamo dare almeno una presentazione sommaria delle teorie che in esso si affrontano secondo le discipline in cui si manifestano e nel linguaggio che è oggi loro proprio. Queste teorie si distribuiscono secondo gli stessi due grandi assi. Se anche può venir appianato il conflitto che le oppone sulla priorità, ed essere negoziata una forma di pacifica coesistenza, la dicotomia fra le due estetiche non cessa di sollecitare la riflessione e, dunque, solleciterà ora la nostra, dal momento che la posta in gioco è squisitamente filosofica ed esige una scelta di fondo: è o non è necessario ribadire la tradizionale distinzione fra soggetto e oggetto e considerarla irriducibile?
Per l'estetica, questo problema viene incessantemente rilanciato dall'altra dicotomia già menzionata, quella tra ricezione e creazione. L'esame della ricezione suggerisce infatti di conservare la dualità soggetto-oggetto: la teoria tradizionale della contemplazione approfondisce il distacco tra essi, come la rappresentazione teatrale approfondisce quello tra spettatore e spettacolo. Questo distacco è d'altro canto presupposto dal creatore, quand'egli esplicita il sistema della visione per costruire la prospettiva, come vediamo negli schemi dell'Alberti, dove il soggetto è raffigurato come un occhio, unico e immobile, posto a distanza ottimale dal quadro. L'esame della creazione può invece attenuare il distacco; è vero che il soggetto, essendo creatore, può apparirvi sovrano; ma lo studio della creazione invita anche a trasferire l'accento sull'oggetto, e soprattutto, se si sforza di seguirne la gestazione, tale studio può suggerire che il soggetto in cui ha luogo la gestazione sia in qualche modo abitato dall'opera fino a che questa non sia compiuta e non si separi da lui. Se abbiamo proposto di sfumare la distinzione tra ricezione e creazione, l'abbiamo fatto in nome di una filosofia, diciamo, d'ispirazione monistica, che rifiuti di rendere rigido il dualismo di soggetto e oggetto.
È questa stessa ispirazione che ci impone ora di non irrigidire l'opposizione tra le due estetiche nelle quali si ripartiscono le dottrine, e quindi tra le dottrine stesse. Lo statuto del soggetto è invero essenzialmente ambiguo; e ciò vale per il soggetto estetico, il solo che ci interessi qui, come per ogni soggetto: scientifico, pratico, morale (queste stesse distinzioni non sono univoche). Il suo statuto è ambiguo perché la sua relazione con l'oggetto è ambigua (dialettica, si dirà, ma la dialettica non è forse, con buona pace di Hegel, il nome nobile dell'ambiguità, come tutto il pensiero contemporaneo suggerisce?). In altri termini, è ambiguo il rapporto tra uomo e natura: l'uomo viene al mondo, è nel mondo e nondimeno non è del mondo, divenendo, del mondo, lo specchio se non il padrone; la natura lo genera, lo ospita e tuttavia gli assegna come vocazione quella di separarsi: egli infatti si separa, diventa adulto. Ma lo è mai completamente? Il desiderio che lo spinge è forse il desiderio di nascere in un altro mondo in cui non avrebbe bisogno di nascere, il desiderio di una totalità che lo accoglierebbe in sé permettendogli di perdervisi senza morire, sentendosi infine a casa sua, tutto nel Tutto. Forse, possiamo dire, è a questo che mira l'esperienza estetica, oggi più chiaramente di ieri, attraverso la sua politicizzazione.
Ma torniamo alle discipline estetiche. Evitare di irngidirne l'opposizione significa evitare di cadere nelle due trappole ch'esse tendono cedendo alla tentazione dell'imperialismo e del terrorismo (e sappiamo ch'esse sono volentieri terroristiche oggi, a immagine di una civiltà poliziesca). La prima trappola è quella dell'idealismo, cioè della fretta di concludere, dal fatto che l'oggetto è sempre ‛per' un soggetto, che esso è fatto ‛da' lui. La forma degradata di questo idealismo è lo psicologismo, quel che negli Stati Uniti il new criticism denunciava come intentional fallacy: l'idea che l'opera tragga non solo la sua esistenza, ma il suo senso dal proprio autore, e che occorra allora cercarne la chiave nella vita e nella psicologia di questi. L'altra trappola è quella dell'anti-umanismo: constatando che l'opera porta il suo senso in se stessa, dal momento che il suo significato risiede nella sua struttura, e che, non appena lasciata al pubblico, sfugge all'autore, si giunge a voler ‟cancellare l'autore", come dice M. Foucault; si conserva l'idea di una ‛funzione-autore', rifiutandosi però di vedere che nulla funziona senza un agente, e che l'agente qui è l'individuo. Che le dottrine ci tendano queste trappole secondo che pongano l'accento sul soggetto o l'oggetto non è inevitabile; perché ciò accada, occorre che si dogmatizzino e pronuncino il bando l'una contro l'altra, e non sempre i teorici lo fanno. Se, anziché racchiuderci in esse, prendiamo le distanze dalle singole dottrine, vedremo che può istituirsi tra esse un'altra relazione: non di opposizione ma di complementarità; ognuna conduce all'altra, anziché condannarla. Ed appunto questa complementarità fa apparire l'ambiguità del soggetto e della sua relazione con l'oggetto. La nostra posizione è dunque la seguente: non tentare un'esposizione sistematica di ogni singola dottrina, ma seguire il movimento della riflessione, che conduce dall'una all'altra.
4. L'estetica soggettivistica
Prima di passare alle dottrine rientranti in un'estetica dell'oggetto, cominciamo da quell'estetica del soggetto nella cui orbita ci siamo mossi finora. Tale estetica può essere rappresentata anzitutto dalla fenomenologia, e infatti il nostro approccio è stato implicitamente fenomenologico. Notiamo peraltro che un'estetica soggettivistica può fare appello anche alla psicologia: talora ad una psicologia che non dice il suo nome, in quanto tiene a conservare le distanze rispetto alla scienza, com'è il caso dei teorici tedeschi dell'Einfühlung - dottrina che possiamo peraltro considerare anticipazione di certa fenomenologia - o della teoria dell'intuizione in Croce; talora invece ad una psicologia che vuol essere decisamente scientifica, e che ispira un'estetica sperimentale. Anche qui mi si permetterà di suggerire che il dibattito ‛scienza o non scienza', se ha avuto un senso ai tempi del positivismo, non ne ha più alcuno oggi, con l'incontro di psicologia e fenomenologia: studiando mediante manipolazioni di cifre la percezione della musica o il giudizio di gusto nei bambini, Francès (v., 1968) intraprende appunto una fenomenologia dell'esperienza estetica. In ogni caso è alla fenomenologia che faccio qui riferimento: a quella fenomenologia liberamente interpretata, di cui l'opera di Merleau-Ponty è la migliore illustrazione, che sfocia in un'ontologia, o, come noi abbiamo indicato, in una metafisica della natura.
La fenomenologia ortodossa, che rientra nella tradizione di Cartesio e di Kant, è essenzialmente una filosofia del soggetto. Per essa il soggetto è insostituibile; la coscienza è datrice di senso, è aperta, ma nello stesso tempo costitutrice; è solo per essa che c'è un mondo, che l'oggetto è oggetto. L'oggetto però esiste, ed è per questo che l'analisi fenomenologica non è esattamente l'analisi kantiana: Kant descrive le sintesi mediante le quali una forma (della sensibilità e dell'intelletto) viene imposta ad un contenuto, che è come una materia prima di cui non possiamo saper nulla; Husserl procede ad un'analisi intenzionale, da lui chiamata noetico-noematica, che dipana, per descriverli, i fili dell'intenzionalità. Applicata all'estetica, in particolare da Ingarden, questa dottrina mostra come l'opera d'arte sia convertita (costituita) in oggetto estetico; ciò che generalmente descriviamo come atteggiamento estetico viene allora più finemente analizzato, e al tempo stesso si pone il problema dello statuto di un oggetto esistente solo nell'ordine del sensibile. Quest'analisi lavora a distinguere l'atteggiamente estetico, che costituisce l'oggetto estetico scoprendo nell'opera d'arte una certa ‛armonia delle sue qualità' e che culmina nel piacere, dall'atteggiamento critico, che non costituisce quell'oggetto e si limita alla conoscenza emotivamente neutra dell'opera d'arte. Per questa via Ingarden è indotto a dire che l'atteggiamento estetico è autenticamente ‛creatore', il che, diciamolo di nuovo, accosta la ricezione alla creazione. Resta il fatto che questa ‛creazione' non è una creazione ex nihilo. L'insieme di atti che attualizza l'oggetto estetico viene sollecitato dall'opera; come l'amore è suscitato dall'oggetto amabile cui mira, così lo sguardo è sollecitato dalla pittura, la lettura dell'espressione dall'espressività dell'oggetto espressivo. Appunto perciò l'analisi può procedere tanto dall'oggetto quanto dal soggetto. L'estetica fenomenologica non è idealistica.
Ad essa si potrebbe muovere l'obiezione di privilegiare la teoria della ricezione a scapito della poietica. Ma l'estetica fenomenologica può altresì contribuire ad un'estetica dell'esperienza creatrice. Infatti, analisi come quelle dedicate da E. Souriau alla relazione tra creatore e opera da farsi, pur non richiamandosi all'estetica fenomenologica, potrebbero esser poste sotto il suo patrocinio, com'è il caso, comunque, di quelle dedicate da Merleau-Ponty alla relazione tra pittore e mondo da dipingere. Ogni descrizione appena rigorosa, e che non presuma di spiegare, è fenomenologica. Prendendo la fenomenologia in questa ampia accezione, le si possono riconoscere, nello studio della ricezione, due meriti che, a mio avviso, rendono la sua posizione incomparabile. Da un lato, lungi dal considerare sempre sovrano il cogito, ed essendo invece preoccupata di esplorare il campo noetico-noematico, essa impegna la riflessione a portarsi, come si vede in Merleau-Ponty, sulla percezione selvaggia: una percezione il cui soggetto è ancora tutto mescolato con l'oggetto, e in cui quindi l'oggetto non è ancora veramente costituito. È forse a una siffatta percezione che ci invita una certa arte contemporanea, ad esempio quando la pittura rinuncia alla prospettiva - che serviva non solo a costruire l'oggetto pittorico, ma a tenere lo spettatore a distanza - e suggerisce invece allo spettatore di esser presente all'oggetto fino a venire ad abitarvi, a perdersi in esso; o quando la musica mobilita e investe l'ascoltatore tutto intero. Se l'arte contemporanea ammette un determinato approccio singolo, questo è proprio la fenomenologia degli inizi della percezione, fenomenologia selvaggia di una percezione selvaggia. Proprio per questo Bachelard lettore di poesia ha lasciato anch'egli la psicanalisi - una psicanalisi peraltro elementare - per la fenomenologia. D'altronde, volgendosi verso l'originario, la fenomenologia illumina il fenomeno dell'espressione, che è tanto importante per l'estetica. L'oggetto estetico, infatti, ha forse come differenza specifica la sua espressività: al di là di quel che possa significare, esso esprime un mondo unico. Non è - come troppo spesso si dice - l'autore che si esprime, o almeno (concediamolo all'anti-umanismo) questo importa poco; è l'oggetto che si esprime esprimendo un mondo: varcando il limite e al tempo stesso aprendosi a noi. Ed è la percezione selvaggia che può leggere questa espressione: io penetro in questo mondo lasciando risuonare in me l'oggetto che lo dischiude; la lettura che faccio allora, e per la quale non c'è bisogno di saper leggere (non c'è bisogno che di sentire) è la verità della percezione estetica. E qui vediamo come la fenomenologia renda giustizia allo studio dell'oggetto nella misura in cui il soggetto è tutto legato all'oggetto: il legame intenzionale ha qui la densità di un nesso ontologico, l'uomo e il mondo sono una stessa carne.
Ma contro l'estetica fenomenologica si possono sollevare altre obiezioni. Possiamo dire anzitutto che le nozze, ch'essa celebra, tra soggetto e oggetto non lasciano spazio al desiderio. Se è vero che il desiderio è assente in Husserl e anche in Merleau-Ponty, ciò è forse dovuto al fatto che la fenomenologia rifiuta di essere una psicologia; essa pretende, almeno in Husserl, di mirare ad un'essenza e di coglierla, e il soggetto di cui descrive gli atti non ha esistenza empirica. È anche vero che, come filosofia della coscienza, essa si guarda dall'ipostatizzare l'inconscio, in cui Freud colloca le pulsioni. Resta il fatto che non, si può amputare il soggetto di questa dimensione, e che il desiderio ha il suo ruolo nell'esperienza estetica: del creatore, certo, ma anche del ricettore. E soprattutto quando l'analisi tenta di svelare una realtà originaria; infatti, se è un soggetto arcaico, appena nato, quello che si trova mescolato all'oggetto in una relazione ordinata secondo il principio di piacere piuttosto che secondo quello di realtà, come negare che in esso si dispieghino i processi primari? Si capisce bene come un certo romanticismo, pur obbedendo ad una certa ideologia dell'arte e dell'artista, abbia potuto, e possa ancora, identificare genio e follia: il creatore è fuori di sé, rapito dal desiderio; in lui, come dice Deleuze dello schizofrenico, si compie il puro processo. Questo processo può essere un processo secondario in quanti, come Valéry, preferiscono il lavoro di lima all'ispirazione e pretendono di essere perfettamente coscienti: ma il processo è allora reso primario: l'ostinazione che questi artisti mettono nell'esser lucidi, la loro perseveranza, la minuzia maniacale del loro lavoro sono sempre tratti del desiderio, al pari dell'entusiasmo degli altri. Quanto al ricettore, se gioca con l'oggetto, se tutto ciò che Sartre, nell'Imaginaire, chiama l'affettivo-motorio è mobilitato in lui per aprirlo all'oggetto e perdersi in esso, anch'egli attinge il primario, il desiderio anima la sua esperienza e desta in lui la dimensione fantasmatica. Così l'analisi intenzionale praticata dalla fenomenologia può essere anche una psicanalisi. E una psicanalisi intenzionale, noematica oltreché noetica; ancora una volta l'estetica del soggetto richiede un'estetica dell'oggetto, dell'oggetto percepito. Come Lyotard mostra, occorre psicanalizzare l'opera. Ma l'opera ammette forse l'approccio psicanalitico perché il suo creatore ha espresso in essa i suoi fantasmi? È così che spesso la cosa viene intesa; e Ch. Mauron, ad es., con molta ingegnosità cerca in essa i sintomi che permettano di diagnosticare un ‛mito personale', e forse perfino di identificare ‛la roccia dell'evento' su cui esso si fonda. Ma ciò non equivale ancora a cedere alla intentional fallacy, e comunque a presupporre un soggetto autosufficiente, capace di una fantasmatica privata? Possiamo d'altro canto dire anche, con Lyotard, che il lavoro dell'artista consiste nel rovesciare il lavoro del sogno, nel creare uno spazio per il fantasma senza esibirlo, senza offrirlo al ricettore. Se si separa l'opera dal suo autore, lo si fa per meglio congiungerla al ricettore, e anche per considerarla meglio come un quasi-soggetto direttamente psicanalizzabile. L'opera è infatti tutta mischiata al soggetto che l'accoglie. Ma sarebbe troppo semplice dire che l'affetto e l'immaginario sono soggettivi e che il soggetto a cui appartengono li proietta nell'oggetto. Di questa mistione di oggetto e soggetto, che costituisce l'oggetto estetico percepito in modo selvaggio (prima che divenga oggetto di sapere o di commercio), non è il soggetto ad essere responsabile; non basta dire, come fa il Sartre fenomenologo, che le qualità affettive dell'oggetto - il tragico di questo colore, l'allegria di questo ritmo, la maestà di questa costruzione - sono lette sull'oggetto come il freddo sul bianco della neve; bisogna dire ancora che il soggetto è afferrato dall'immaginario dell'oggetto, dall'aureola di possibili che lo dilatano e lo espandono in mondo. Il desiderio stesso è il suo desiderio? Sì, ed è desiderio di essere, ma che nell'oggetto risponde a un desiderio di apparire, o piuttosto è un desiderio deposto nel naturato dalla natura naturante di cui l'oggetto dà testimonianza. Seguendo questa via, si restituisce l'opera alla natura e non soltanto nel senso kantiano: è la natura che oscuramente si indica in essa e che il soggetto, con felicità o con angoscia, presagisce abbandonandovisi: in ciò egli pure varca il limite e si perde, cosicché l'esperienza estetica può adempiere il suo desiderio.
Nondimeno, il pensiero contemporaneo si batte spesso per una più completa spersonalizzazione del soggetto; senz'assegnare il desiderio a una Natura, rifiuta di assegnarlo ad un soggetto, che viene concepito alla stregua di una forza anonima e imprevedibile, le cui mutazioni scandiscono una storia che cessa di essere quella degli uomini. Non ci sono allora più individui, e in loro vece G. Deleuze pone ‟delle singolarità libere e nomadi", che sono eventi nei quali il soggetto si dissolve. Restano in presenza, come sostanza della storia, ‟il campo sociale e il desiderio". Ma questo campo sociale non ha anch'esso, al pari di tutte le cose, la sua base nella Natura? E bisogna volatilizzare il soggetto che questa Natura genera e in cui si riverbera il desiderio? Bisogna fare del desiderio, dato che lo si concepisca come produttore, la sola molla della storia, il solo soggetto storico? Non lo credo. Questa filosofia ci invita tuttavia non a sconfessare semplicemente la fenomenologia come filosofia del soggetto, ma ad arricchirla nuovamente. Se consideriamo il campo sociale, ci si avvede che la fenomenologia è stata, salvo eccezioni, troppo indifferente alla dimensione sociale e storica del soggetto. Bisogna infatti convenire che anche la percezione è oggetto di apprendimento, tanto che un primitivo non percepisce come noi: ad esempio, non coglie ciò che un ritratto o una fotografia rappresentano, in quanto non dispone, come si dice, degli stessi codici percettivi; a maggior ragione si deve apprendere l'atteggiamento estetico, e sottomettersi in tal modo all'ideologia convogliata da ciò che è appreso: il soggetto estetico ha forza costitutrice solo in virtù di una lunga iniziazione. Il culturalismo ha dunque tutte le ragioni: noi siamo ‛nella' cultura, come siamo ‛nel' linguaggio; l'idea di primitivo è un'idea dell'uomo incivilito, e ci vuole molta cultura per approdare al ripudio della cultura. Ma questi sforzi per ripudiarla non costituiscono forse un tentativo di liberarci da quel che abbiamo appreso, e di ritrovare col mondo un contatto più originario? Dobbiamo ripeterlo: sollecitando una percezione selvaggia, l'arte oggi ci impegna appunto a ritrovare quest'innocenza.
Resta il fatto che occorre considerare bene le conseguenze di questa cultura, che è una seconda natura, e anzitutto prendere in considerazione questa cultura in se stessa. La fenomenologia non può limitarsi a descrivere l'essere nel mondo come un essere nel mondo delle cose; deve descrivere un essere nel mondo sociale, un essere nella cultura. E qui la storia e la sociologia offrono i loro servigi all'estetica, suscitando una storia dell'arte e una sociologia dell'arte. A prima vista, queste discipline non hanno nulla a che fare con la fenomenologia; se si richiamano all'individuo, si curano poco di considerarlo come un soggetto, ma che di un soggetto si tratti possiamo dirlo noi per loro. In realtà esse si orientano piuttosto verso un'estetica dell'oggetto. Ma osserviamo anzitutto che questi due orientamenti costituiscono una dicotomia, che occorre superare fino ad annullarla. Non v'è dubbio che la sociologia e la storia possano opporsi in quanto studio sincronico di uno stato e studio diacronico di un divenire. Il sociologo diventa però storico quando, del sistema sociale o culturale studiato, non cerca il senso solo nella struttura, nell'articolazione degli elementi, ma anche nel passato e nell'avvenire, e dunque nell'età di ogni elemento: un tratto culturale - ad esempio la pittura a olio, la scala temperata, l'alessandrino - funziona in modo diverso secondo che sia una sopravvivenza o sia stato appena messo a punto. Analogamente lo storico, quando è intelligente, quando non si appaga di datare gli eventi, di narrare aneddoti o redigere cataloghi, diventa sociologo appena si interroga a sua volta sul senso e la funzione di un dato evento, domandandosi ad esempio come l'invenzione di Zarlino o di Bach sia preparata da un certo passato della polifonia o quale futuro le sia destinato. La storia dell'arte ha tentato di definire l'arte come un settore relativamente autonomo entro il campo socio-culturale, e di determinare, per seguirne le vicende, una logica propria, che presiederebbe al suo divenire: così H. Focillon può seguire la vie des formes, o H. Wolfflin l'alternanza dei sistemi classico e barocco. Storia delle opere, dunque, o dei generi, o degli stili: storia insomma dell'oggetto, ma che si richiama al soggetto: agli individui come agenti storici, o comunque a coloro, per esempio, la cui opera è veramente storica in quanto esprime un momento della cultura e costituisce un evento nel senso che dà l'avvio a una nuova fase. Taluni oggi fanno dipendere una storia siffatta dai ‛dispositivi pulsionali', dai moti del desiderio; ma il desiderio, dicevamo, abita gli uomini; e, se il genio non spiega tutto - ed è anzi bisognoso di spiegazione -, pure, quando si parla di opera geniale, non è cosa vana riferirsi al genio. Sulla scena della storia, l'attore è lui.
Quanto alla sociologia dell'arte, essa è una riflessione della storia su se stessa: si interroga sulla legittimità di questa storia, cioè sulla realtà e l'autonomia dell'oggetto di cui tratta. Essa pone tre problemi principali: anzitutto, è davvero l'arte un settore differenziato e riconosciuto come tale, in altri termini istituzionalizzato, nel campo socio-culturale? Può ben darsi che in Occidente l'arte come monopolio degli artisti e come padrona del suo destino, secondo quanto esige una certa ideologia, sia di data recente. Non hanno gli uomini sempre danzato, cantato, dipinto, costruito? Senza dubbio, e il secondo problema è appunto: che senso, cioè quali funzioni hanno quelle attività nell'insieme della cultura? Se non vi rivendicano la propria indipendenza - e i loro privilegi - secondo che cosa si ordinano, secondo quale istanza predominante: la magia, la religione, la vita politica? E ancora: in che modo queste attività si ordinano tra loro? Sappiamo ad esempio come P. Francastel abbia messo in luce un'interazione fra teatro, architettura e pittura nel Rinascimento, o R. Wittkower tra musica e pittura. E vediamo che ancora una volta una siffatta riflessione sulla prassi artistica e sui suoi prodotti non ripudia la fenomenologia. Il senso di queste prassi e di queste opere è infatti un senso vissuto, e partendo appunto dal vissuto occorre tentare di ricostituirlo, per poi descriverlo. Indubbiamente, piuttosto che a un dato individuo concreto, occorre qui riferirci a quella che l'antropologia culturale chiama la personalità di base; ma, per essere un concetto operativo, non per questo la personalità di base è meno suscettibile di un approccio fenomenologico. La sociologia, infine, non pare debba più ricorrere ad un'estetica soggettivistica quando pone il terzo problema: qual è il rapporto tra l'arte e la società? Questo problema essendo più vasto del precedente, pone in causa la famosa nozione di rispecchiamento (nozione anch'essa sospetta, potendosene fare un uso facile e autoritario, come accade con la nozione freudiana di negazione: se dici che l'interpretazione è falsa, è perché è vera; analogamente, se l'arte pare rifiutare la società, è perché l'accetta e la rispecchia). Ma in che modo l'arte rispecchia la società? È ben nota la risposta semplicistica di un certo marxismo, ancora poco attento all'autonomia relativa delle sovrastrutture: l'arte rappresenta la società nella misura in cui è da essa unilateralmente determinata. Alcuni hanno sfumato questo determinismo. Così Goldmann cerca piuttosto di identificare un isomorfismo fra la struttura dell'opera e quella delle classi sociali; in ciò egli annuncia e illumina l'idea, invocata da Lévi-Strauss, di un ordine degli ordini. La Scuola di Francoforte d'altronde, occupata a valutare l'indipendenza e l'effetto rivoluzionario dell'arte, mostra che la forma è di per sé critica: denuncia ciò che rispecchia. Adorno e Marcuse lo sottolineano, in prospettive diverse. Adorno pone l'accento sull'invenzione, e dunque sull'avanguardia, su ciò che è già rivoluzione culturale. Marcuse, più conservatore per quanto riguarda l'arte, pone l'accento sulla sublimazione proposta dalla ‛grande arte' e sconfessa l'avanguardia, in quanto essa cospiri con la razionalità tecnologica suscitando una ‛desublimazione repressiva'; perché la realtà sociale sia criticata, occorre che l'arte inciti l'uomo a quel trascendimento per mezzo del quale egli acquisisce una seconda dimensione; di questo trascendimento Marcuse trova un'eco nella nozione brechtiana di straniamento. È in ogni caso evidente che, anche nelle sue opere più civilmente raffinate, l'arte è per essenza rivoluzionaria: rispecchia soolo per negare quel che rispecchia.
Ma questo effetto dell'arte, nel senso in cui Brecht parla di Verfremdungseffekt, non può esser descritto anch'esso nel soggetto che lo prova? Quali che siano i problemi che si pone, una sociologia dell'arte fa quindi appello a una fenomenologia; e vale naturalmente anche l'inverso: se l'estetica fenomenologica vuol descrivere l'essere dell'uomo nella cultura, si rivolge alla storia e alla sociologia. Lo stesso fa del resto l'estetica propriamente psicologica, come si vede bene in Francès. Mi si accuserà di confusionismo? Mi ostino a pensare che le dispute dottrinali siano vane: dispute di parole o di persone. Tutti i possibili approcci non sono di troppo quando si tratta di chiarire l'ambiguità dell'esperienza umana, e ognuno di essi si richiama agli altri. Ma vediamo anche che tutti questi approcci, ognuno per sé e tutti insieme, si rifanno ad un'estetica dell'oggetto. Di questa, dunque, occorre dire ora qualche parola.
5. L'estetica oggettivistica: la semiologia dell'arte
Istituita o no come tale, l'estetica ha sempre praticato lo studio dell'oggetto. Lo ha fatto, in modo del tutto naturale, quand'era normativa, quando diceva quale oggetto bisognava produrre e come andava prodotto: così nelle arti poetiche, nei trattati di architettura o di pittura; così ancora nei trattati di filosofia che, se non danno leggi, danno almeno legittimità alla prassi artistica. Quando lo studio dell'oggetto ha preteso di essere scientifico, la Kunstlehre in Germania è stata chiamata Kunstwissenschaft ed ha polemizzato con l'Ästhetik qualificata come soggettivistica. Svariate scuole hanno posto un siffatto studio nel loro programma: citiamo la Scuola della Sichtbarkeit in Germania, la Scuola formalista a Praga e in Russia, il new criticism negli Stati Uniti, l'Istituto Courtauld in Inghilterra. Questo studio può vertere sull'oggetto in quanto prodotto, e dunque sui materiali, gli strumenti, le procedure che la produzione pone in opera in un ambiente sociotecnico determinato; il suo interesse è troppo evidente perché sia necessario insistervi: per molte arti, le mutazioni della forma sono spesso governate dalle mutazioni del materiale o dello strumento, che danno alla prassi nuovi mezzi e le pongono nuovi problemi. Ma lo studio verte anche sull'oggetto in quanto si presenta, in quanto si significa. E si significa come segno, oggetto significante. Di qui l'importanza attribuita oggi alla semiologia dell'arte, che conviene discutere brevemente.
La novità apportata dalla semiologia è forse l'ambizione di radunare tutti i sistemi di segni, come voleva Saussure, e di costruire modelli abbastanza formalizzati perché vi operino le leggi universali del funzionamento simbolico, come voleva Ch. S. Peirce (impresa abbastanza analoga al progetto di una grammatica generale di N. Chomsky o di una grammatica pura di Husserl); nuova è anche la preoccupazione di ricorrere ad un apparato concettuale rigoroso. Si sa che questo apparato è generalmente preso in prestito da una scienza pilota, la linguistica. Prestito non privo di difficoltà, in quanto la materia delle unità significanti - quella che L. Hjelmslev chiama la sostanza dell'espressione - non sempre è la materia fonica, e varia da un'arte all'altra; ma queste stesse difficoltà - ad esempio circa la natura delle unità, il principio della doppia articolazione, la natura e l'autorità dei codici - alimentano la riflessione semiologica. Per giunta questo prestito è governato, oltre che dal prestigio epistemologico della linguistica, dall'idea di un'onnipresenza e quasi onnipotenza del linguaggio: il sensibile non è sensibile - e il visibile non è visibile - se non attraverso la mediazione del dicibile. Piuttosto che come oggetto di piacere, ancora una volta l'opera è allora ricevuta come oggetto di sapere, e quindi di discorso; la sua lettura è una lettura parlata. E l'opera è essa stessa parlante: alla lettera quando, come dice R. Barthes, ‟la sostanza visiva, ad esempio, conferma i suoi significati facendosi doppiare da un messaggio linguistico" - com'è il caso dei cartigli che compaiono in certi dipinti medievali -; metaforicamente, almeno in quanto convoglia un messaggio, sia che essa ‛rappresenti' qualcosa del mondo in figurazioni visive o gestuali, sia che ‛esprima un mondo' facendolo sentire, come ho tentato di mostrare altrove. Nell'ordine stesso della figurazione il messaggio può essere analizzato secondo diversi livelli di significazione, come quelli distinti da E. Panofsky per l'iconografia. Chi dice messaggio dice codice; chi dice codice dice sistema di elementi; chi dice combinazione di elementi dice sintassi e paradigma: ecco proporsi i concetti della linguistica, e segnatamente della poetica. E così, tra i mille esempi possibili, R. Jakobson si serve della coppia metafora-metonimia per opporre la pittura surrealista alla pittura cubista e il cinema di D. W. Griffith a quello di Chaplin; così ancora Barthes si serve della coppia sintagma-paradigma per ‟situare attorno alla trasgressione di questa ripartizione usuale parecchi e importanti fenomeni creativi": trasgressione che Marin illustra con un'analisi dei quadri di Poussin.
Così parla l'opera: attraverso la sua stessa struttura. Essa parla però a qualcuno, per qualcuno: per chi la decifra e ne riconosce la struttura. Dello stesso quadro di Poussin, in un altro articolo, Marin menziona cinque interpretazioni. In altri termini, l'opera è inseparabile dalla sua lettura; essa raggiunge il suo compimento sempre per un soggetto, sia come oggetto estetico, sia come oggetto di sapere. Il soggetto è ineludibile; ed è libero, sebbene non incondizionatamente: è vincolato dalla sua cultura, come abbiamo detto, e anche dalla struttura dell'oggetto. L'occhio può percorrere liberamente il quadro, ma gli assi della costruzione, le linee di forza, le consonanze plastiche, e naturalmente il sistema analogico della pittura figurativa gli propongono, senza imporglieli, certi itinerari. Lo statuto dell'oggetto, di cui una estetica oggettivistica intraprende lo studio, appare perciò ambiguo: in quanto legato a un lettore, il quadro è un ‛quadro-lettura'; il suo proprio senso gli sfugge, nella misura in cui esso gli è conferito da una ‛coscienza datrice'. Ma anche una siffatta coscienza si presta a che il senso le sfugga: la sua struttura comporta un margine capace di sollecitare il libero gioco della lettura. Parallelamente a questa nozione del quadro-lettura, potremmo menzionare la nozione di testo elaborata da Barthes, riecheggiando la nozione di opera aperta, elaborata da U. Eco: mentre l'opera è un oggetto chiuso, compiuto, che si chiude su di un significato, il testo è essenzialmente plurimo; è tessuto dal gioco indefinito dei significanti, è un momento sempre provvisorio nel lavoro dell'energia simbolica che lo restituisce all'intertestuale (le pratiche del collage, delle citazioni, delle allusioni, esplicitano appunto codesta esplosione del testo). Leggere il testo vuol dire sempre rileggerlo, sapere ch'esso è stato già letto, che può esserlo in mille modi, e significa scoprire ciò che a un tempo lo struttura e lo pluralizza: è la molteplicità dei codici, che lo animano e che producono lo spazio stereografico in cui la lettura lo muove, che lo costituisce come plurimo. Si sarebbe così tentati di dire che lo studio oggettivo disarticola e dissolve l'oggetto, che il testo va in briciole, che anche l'autore si volatilizza. Ma no! Se tutto è qui gioco, ci sono però dei giocatori: il lettore ‟suona il testo", come dice Barthes, lo riproduce, e la lettura è oggi spesso insieme scrittura, come il musicista che suona lo spartito lo interpreta o lo ricrea. Anche il testo ‛suona': si esibisce come una struttura sempre in corso di strutturazione, attraverso una radicale polisemia; ma in questo gioco, di cui è il conduttore, diventa in qualche modo se stesso, manifesta una singolarità irriducibile. E infine possiamo dire sia che il testo rinvia a tutta intera la letteratura, sia che rinvia soltanto a se stesso. Marin giunge a dire, per quando riguarda il quadro: il referente del quadro, quando cessa di essere il reale, in modo particolare nella pittura non figurativa, può essere la pittura stessa, ma è anche il quadro stesso: il quadro diventa allora un nome proprio e tutta la pittura assume un senso solo in esso. Esso è il suo proprio codice, e appunto perciò, analizzando lo stile, Granger distingue i codici a priori, che preesistono alla produzione dell'opera, e i codici a posteriori, che appaiono solo nell'opera e che spesso trasgrediscono i primi. E occorre allora daccapo far giustizia al creatore come al ricettore: l'oggetto designa il suo produttore, non più, certo, come suo padre, ma come suo figlio: ‟autore di carta", dice Barthes; sì, ma più vero dell'autore reale, che non aiuta certo a capire l'opera, ma è compreso in essa e da essa, espressione della sua singolarità.
Resta da dire come questa singolarità si manifesti: meno nell'analisi dell'opera che nell'esser presenti all'opera, nell'afferrare quella che chiamo l'espressione. È allora - ripetiamolo - l'oggetto che si esprime, e quel ch'esso esprime è un mondo; non ‛il' mondo, cioè un reale che può essere dato e conosciuto altrimenti, ma piuttosto un possibile, che si annuncia solo nell'opera. Proprio l'arte, infatti, sollecita una lettura primordiale, ancora ignara e ingenua, una percezione viscerale - come è talvolta quella del viandante nel paesaggio, - attraverso la quale il reale non sia ancora costituito dal sapere e dall'abitudine. Può darsi che questa innocenza sia difficile a ritrovarsi, e che occorra molta cultura per spogliarsi della cultura. In ogni caso, attraverso l'opera, per pienamente compiuta che sia - ma oggi la preferiamo non troppo perfetta -, si offre un pre-reale, o, come volentieri diremmo, l'originario. Non essendo determinato, questo pre-reale è ancora gravido di possibili, ed è un mondo possibile quello che l'opera esprime. Lo stesso vale per il sensibile: l'opera non dice questo mondo come un significato, né come un designato; non lo rappresenta come può rappresentare la realtà, ma è realtà nella sua stessa carne. Così, le ‛sgocciolature' di Pollock esprimono lo spazio vergine e inebriante battuto dai pionieri, la musica di Mozart esprime un'allegria tinta d'angoscia, la chiesa romanica il caldo silenzio di un mondo raccolto. L'espressività dell'opera, quando siamo ad essa sensibili, ci pone dentro la verità: ci apre un mondo che per un istante possiamo vivere. E quando l'analisi riassume i suoi diritti, se vuole a sua volta essere vera, bisogna che si ispiri a quel che si è offerto al nostro sentire nel momento precedente, quando abbiamo lasciato che l'oggetto manifestasse il suo essere.
Così, lo studio dell'oggetto presuppone o richiede un non-studio, il sapere un non-sapere: un'esperienza vissuta, ancora disarmata e perfino muta dell'oggetto, che è forse il miglior uso, e spesso il più felice, che se ne possa fare. Raccomandare quest'uso non significa affatto sbarazzarsi dell'estetica. Infatti quest'esperienza può essere anch'essa analizzata, ed è allora l'estetica del soggetto che si assume questo compito. Questa fenomenologia della presenza è richiesta dallo studio formale dell'oggetto, in quanto questo studio si lasci ispirare dalla prima impressione, dal momento cioè in cui si coglie l'espressione; e richiede a sua volta un siffatto studio formale, nella misura in cui tenta di render conto dell'esperienza primordiale, di conoscere quel che è già conosciuto. Tanto peggio per i dogmatismi! Anche l'estetica, come il testo, non può essere che plurima.
6. Come l'estetica sia spinta dall'arte d'oggi a politicizzarsi
Ma non sono solo gli obiettivi e i metodi dell'estetica che si diversificano; il suo oggetto privilegiato, l'arte, perde anch'esso i suoi contorni. Non ci siamo ancora posti il problema dei limiti dell'arte; tradizionalmente l'estetica preferisce interessarsi di opere consacrate; e una delle obiezioni che si possono fare alla semiologia - obiezione che essa si rivolge da sola - è che si sente più a suo agio con l'arte figurativa classica o, quando si occupa di musica, con la musica tonale e la forma-sonata. Ma ecco che oggi delle opere chiamano se stesse non-opere, ecco che degli eventi - happenings, feste, gesticolazioni - si sostituiscono alle opere. Dobbiamo dire che nella non-arte si consuma la morte dell'arte? Potremmo a prima vista crederlo: nei prodotti dell'arte contemporanea possiamo identificare dei sintomi apparentemente patologici: affanno, incertezza, ripiegamento su pratiche feticistiche; lo stesso disagio possiamo denunciarlo, all'inverso, in una certa frenetica ricerca della novità ad ogni costo, o anche in una riflessività insieme narcisistica e paralizzante: estenuazione del materiale, smaterializzazione dell'oggetto, arte dei rifiuti che si rivolge solo agli iniziati per destare in essi un equivoco piacere. Possiamo ancora invocare, all'opposto di quest'arte di élite, la proliferazione dell'arte di massa: un'arte deliberatamente destinata al consumo delle masse, la cui caratteristica è volentieri indicata nella sua mediocrità: le masse essendo considerate mediocri, incapaci di accedere all'arte vera, si offre loro un'arte di second'ordine, essa stessa prodotta in massa, con poca spesa e senza sforzo d'invenzione. Una situazione del genere dev'essere indubbiamente fatta oggetto d'osservazione, ma non autorizza una diagnosi circa l'orientamento attuale dell'arte. Il senso della ricerca attuale dev'essere cercato altrove.
Dove? Senza dubbio nella politicizzazione dell'arte, in una politicizzazione ‛a sinistra'. Certo, l'artista non sempre è impegnato; rari sono quelli che si iscrivono a un partito o a un'organizzazione per militarvi. Ma la politicizzazione significa qualcosa di diverso da un'adesione ufficiale; significa anzitutto una presa di coscienza e l'esercizio di una funzione critica. Gli artisti capiscono che l'istituzionalizzazione dell'arte li tiene chiusi in un ghetto economico e culturale. Come abbiamo detto, essi hanno reclamato, o almeno accettato, questa istituzionalizzazione; e non senza ragione. Essa assicurava loro una certa dignità, e soprattutto una certa libertà. Ed eccoli quindi preposti al ‛gratuito'; l'arte è un ornamento della vita, il riposo del guerriero, il lusso dell'uomo d'affari, la gloria dello Stato, e... null'altro. Sono autorizzati a creare, onorati in quanto creatori, ma considerati irresponsabili; la loro libertà è quella dei giullari del re. Al tempo stesso la loro creazione sfugge loro dalle mani. E non sfugge solo nel senso che intendono quelli che vogliono cancellare l'autore, cioè nel senso che la creazione si concepisce e si capisce non tanto in base al rapporto col creatore, quanto in base al rapporto con altre opere e con l'istanza artistica nel suo insieme. Essa sfugge loro più radicalmente, in quanto è esposta su un mercato: viene insieme commercializzata e ideologizzata. Certo, essi ne sono proprietari, e taluni - ma quanti? - traggono grandi profitti dai loro diritti d'autore. Ma il valore di scambio che la ‛borsa dell'arte' assegna all'opera non dipende da loro stessi. E soprattutto il valore di scambio introduce un valore d'uso che non risponde alle loro attese. L'opera riceve un nuovo senso, che non le vien dato dalla coscienza di un ricettore, ma dall'ideologia dominante nel sistema. Essa non è solo merce: è, come dice Baudrillard, merce-segno, strumento di innalzamento sociale e culturale. La si destina a un consumo ostentato, che distingue e onora il consumatore. C'è anzitutto il collezionista, che gioca su due tavoli, dedicandosi a una speculazione finanziaria e insieme inorgogliendosi di essere un esperto; e poi il dilettante, che non ha i mezzi per comprare, ma è raccomandato dal suo gusto, dalla sua raffinatezza, dalle sue stesse audacie; lo studioso infine, per il quale l'opera diventa oggetto di sapere, e il cui discorso attesta una cultura che lo distingue. Oggetto di una siffatta appropriazione, l'opera cambia volto, diventa un oggetto lussuoso e quasi miracoloso, caduto dal cielo, strappato alla storia, esibito nei luoghi in cui penetrano solo gli iniziati. Non è tanto l'autore che viene cancellato, quanto il suo lavoro, la sua lotta amorosa con la materia, e il suo inserimento nella storia; e dimentichiamo allora che, come mostrano Adorno e Marcuse, la forma estetica è di per se stessa critica. E, oltre che volto, l'opera cambia fine: non è più oggetto di piacere, se non di quel piacere riservato e narcisistico che distingue l'uomo di gusto nella buona società.
Senza dubbio, di questa ideologizzazione che la evira, l'arte è parzialmente responsabile. Ideologizzata, essa è stata talvolta ideologizzante: ha fatto il gioco delle classi dominanti, si è fatta veicolo della loro ideologia. Anche nelle società arcaiche, in cui era inseparabile dalla religione, l'arte esprimeva il volto del mondo; ma era il mondo della comunità quotidianamente vissuto, al tempo stesso reale e immaginario; non imitava il reale, si inscriveva in esso, era il reale. Quando appaiono le classi e i conseguenti rapporti di dominio, l'arte può diventare complice dell'ideologia; si industria allora a deformare il reale rappresentandolo, sostituisce il verisimile al vero, dà il reale come immutabile e scontato, e talvolta lo fa accettare facendolo sognare come oggetto di un desiderio che si realizza. Tale è l'ambiguità dell'arte classica: tutt'insieme critica e subordinata, aperta a due letture possibili. Ma pare che oggi lo spirito critico prevalga. L'arte rinuncia ad essere ideologizzante, come rifiuta di essere ideologizzata. Ciò che gli artisti intraprendono è spezzare l'istituzione che li destina all'ideologizzazione. Quando si parla di morte dell'arte, è morte dell'istituzione che bisogna intendere. Infatti la non-opera non è un fine: è il mezzo col quale si denuncia l'asservimento dell'arte. Diciamo di più: liberare l'arte significa forse liberare gli uomini, chiamati a goderne senza le costrizioni imposte da una cultura d'élite. Quando l'arte abbandona i luoghi dove era insieme riconosciuta e confiscata, quando scende nella strada, quando si inserisce nella vita quotidiana, cessa di essere un monopolio, si rivolge a tutti, senza per questo essere arte di massa, senza rinnegarsi. E nello stesso tempo essa non richiede più la deferenza, o una contemplazione raffinata, o un piacere elegante; invita alla familiarità, provoca al gioco e al godimento. Libera e rallegra. Possiamo anche dire che allora la funzione dell'arte non è solo critica ma militante: la rivoluzione nell'arte prefigura e avvia la rivoluzione nella società. Essa è così il più efficace mezzo di politicizzazione. Certo l'artista può anche militare al di fuori della sua arte, ad esempio aderendo ad un partito rivoluzionario o preteso tale; ma rischia allora di essere lacerato tra due esigenze contraddittorie: le sollecitazioni dell'arte e le consegne del partito. La cosa più importante è indubbiamente ch'egli resti impegnato nella sua arte, e agisca attraverso la sua pratica artistica.
Il fatto è che anche l'arte lo chiama e l'artista non può sconfessare la sua vocazione; egli può però obbedirle pur denunciando l'istituzione e partecipando alla lotta rivoluzionaria. Praticare la non-arte, produrre una non-opera può essere un mezzo di perseguire l'essenza dell'arte e insieme di mandarne in pezzi il concetto, di aprire il campo, secondo il movimento descritto da M. Blanchot in Hölderlin, Mallarmé, Kafka, e che si potrebbe cogliere anche in quanti producono oggetti abborracciati, precari, apparentemente improvvisati, ora aggressivi e ora insignificanti. Anche costoro sono in cerca dell'arte, e per questo si accaniscono a rifiutare una perfezione che sembra loro bugiarda e paralizzante perché si sottopone a norme: ogni determinazione del bello nega la passione della bellezza, la bellezza non può salvarsi se non in forza di quella che chiamiamo bruttezza - una bruttezza che sorprende, sconcerta, suscita insieme angoscia e godimento (e uno psicanalista come E. Zweig giustificherebbe un'asserzione siffatta: la forma, nella sua relazione con lo spazio inconscio da cui procede, trasgredisce l'ordine dello spazio conscio: è una forma antibuona). L'arte muore solo per compiersi. Ma vedremo ora aprirsi un'altra via verso il suo compimento.
Osserviamo anzitutto che questa pseudo-morte dell'arte non implica la morte dell'estetica. Si avrà una non-estetica, e sia; ma ciò vuol dire un'estetica che cospira con la non-arte; che si politicizza per rispondere alla politicizzazione dell'arte; che a sua volta esercita una funzione critica e forse militante. L'estetica può infatti associarsi a questo movimento dell'arte, per illuminarlo e comprenderlo, senza rinnegarsi: non è questo ciò che noi abbiamo tentato? Precisiamo quale diventa allora il compito delle diverse discipline estetiche. La sociologia dell'arte esplicita la situazione dell'arte nella nostra società, quale più o meno confusamente l'avvertono gli artisti e il loro pubblico. Lavori come quelli di Bourdieu o di P. Gaudibert identificano il nesso tra commercializzazione e ideologizzazione; illuminano anche la funzione sociale dell'arte, che consiste nel distinguere l'élite e nel distrarre la massa; stabiliscono che il popolo non ha accesso all'arte d'élite (come possono confermare gli studi psicosociologici concernenti la ricezione delle opere), e mostrano quanto siano ambigui e ancor poco efficaci i tentativi di democratizzazione dell'arte e di animazione culturale. La semiologia dell'arte, a sua volta, per scarsa che sia la sua volontà di critica, può porre l'accento sul carattere convenzionale e costrittivo dei codici, e distinguere - ma fino a che punto? - i codici in qualche modo naturali, come quelli che, nella percezione delle opere figurative, regolano l'analogia iconica, dai codici più arbitrari, come quelli che impongono un certo tipo di visione legata alla prospettiva. Essa può anche interpretare la perversione dei codici e la destrutturazione degli oggetti; la decostruzione è infatti ambigua, potendo essere selvaggia o dotta: la pittura informale o la musica di Cage si richiamano a quel che vi è di inconscio e di ribelle nel ricettore, menfre il testo plurimo si richiama alla cultura d'élite. La fenomenologia dell'esperienza estetica può infine incoraggiare la rivoluzione dell'arte descrivendo una percezione e una creazione selvagge; almeno come caso limite, in quanto la cultura e segnatamente i codici ci hanno da sempre investiti, informati, condizionati; ma le abitudini e le sedimentazioni possono essere a tratti messe da parte, come accade nel sogno, in cui operano processi primari, o nella festa, in cui sono sospese le interdizioni. Questa risalita verso l'originario è piena di senso. In prossimità delle sue origini, liberato dalle forme che lo imprigionano, l'uomo è rimesso in libertà, così come accade alle parole nella poesia, ai suoni nella musica; viene restituito alla sua natura, una natura che, ben lungi dallo specificarlo e determinarlo, lo unisce alla Natura. Innocenza, giustizia: l'essere bruto potrebbe diventare un mondo diverso, in cui l'uomo e il mondo possano equilibrarsi, e così pure gli uomini fra loro, ritrovando una fratellanza carnale nel luogo della loro nascita comune. Non è forse questo ciò che desidera l'utopia rivoluzionaria? La molla della rivoluzione non è forse questo ritorno al luogo natale dei possibili, questo procedere da una socialità costituita verso una socialità costituente?
Questa nuova repubblica dei fini dovrebbe aprirsi a tutti. E così l'arte. Ora, l'estetica può ancora non solo illuminare, ma forse orientare la prassi creatrice mostrando ciò di cui essa va in cerca, ma che gli artisti non nominano volentieri. Il senso ultimo della crisi dell'arte è forse l'avvento di un'arte popolare. Intendiamoci: non un'arte di massa, cioè un'arte prodotta ancora da artisti e destinata al popolo come massa anonima, ma un'arte prodotta dal popolo, cioè da tutti gli individui che si sentono stimolati a questo tipo di produzione. È allora che l'istituzione esploderebbe davvero: l'arte cesserebbe di essere monopolio degli specialisti, la riserva di caccia degli artisti; non ci sarebbero più artisti, in quanto tutti sarebbero in diritto di esserlo; come ha detto Marx, nella società comunista non ci saranno più pittori, ci saranno uomini che dipingono. E ciò è stato indubbiamente già vero per le società arcaiche, in cui l'arte non era nominata, circoscritta, e ‛amministrata' (come dice Adorno): essendo associata e confusa con la vita quotidiana, non era faccenda personale di alcuno, ma faccenda di tutti. Questa radicale democratizzazione dell'arte implica una nuova estensione del suo concetto, sino a capovolgerlo. Non si tratta, infatti, attenendosi a quella che oggi chiamiamo arte, di pensare che gli individui - ‛gli uomini del popolo' - si metteranno a ‛fare' come Cézanne, Debussy o Baudelaire; bisogna sfuggire a questa trappola, tesa dall'accademismo e dall'ideologia dell'arte; l'arte popolare non deve essere una copia misera e maldestra dell'arte tradizionale, deve inventarsi, ed il suo avvenire è imprevedibile. Non diciamo improvvisarsi; può ben darsi infatti che taluni individui vogliano ancora seguire gli insegnamenti della tradizione; e soprattutto nulla li dispenserà dall'esercitarsi e dall'apprendere: a improvvisare s'impara; ma essi impareranno sul posto, liberamente, e ci meraviglieremo di quel che inventeranno quando saranno abolite le costrizioni di un'educazione ufficiale, trasgrediti i codici e sconfessati i modelli.
Ma bisogna andare oltre: bisogna convenire che, più o meno clandestinamente, più o meno vigorosamente, l'arte popolare già esiste, se estendiamo a sufficienza il campo semantico dell'arte, al di là della pratica specializzata degli artisti. La casalinga che arreda il suo appartamento o si preoccupa della tappezzeria, o prepara la tavola per un pranzo festivo, il contadino rumeno o del Quebec che dipinge il fienile, colui che cura il giardino o si diverte cantando non sono artisti patentati, ma la loro prassi è estetica. Noi ci proponiamo di rovesciare esattamente quel che sessant'anni or sono diceva il teorico inglese dell'arte Clive Bell. Preoccupato di limitare rigorosamente il campo dell'estetica, egli ne cercava il tratto pertinente nella significant form, e non nella bellezza, in quanto ‟tutti usano il termine ‛bellezza' in senso non estetico", ad esempio per qualificare un fiore, una farfalla o una donna (nel qual caso - horresco referens - ‟the sexual flavour of the word is stronger than the aesthetic"). Vorremmo dire invece che tutto quel che è chiamato bello è ‛estetico' e che, se ciò che sollecita questo predicato è prodotto dall'uomo, questa produzione appartiene all'arte. Del resto, poco importa la parola! Quel che conta è riconoscere che il produrre e il prodotto suscitano un'esperienza estetica. E possiamo anche mettere sotto lo stesso titolo attività che sono creative, o se si preferisce inventive, e nello stesso tempo ludiche, anche se non producono un'opera, ma solo un evento: così una festa, la corsa di un atleta, una manifestazione, uno sciopero selvaggio. ‟Un bello sciopero", dicono gli operai (un uso del termine al quale Bell non ha pensato!): lo sciopero può essere arte, come la cucina, il giardinaggio, la sartoria; arte autenticamente popolare, vissuta in un'esperienza autenticamente estetica.
Ma, allora, l'arte non muore nell'indeterminato? Se consideriamo l'esperienza del creatore - o dell'attore, in quanto si confonde spesso con lo spettatore, come nelle cerimonie, o in quanto egli opera per sé più che per un pubblico o una clientela -, possiamo ancora dirla estetica a tre condizioni. La prima è che la pratica sia gioco. Il gioco qui non esclude affatto l'apprendimento, né il lavoro, tranne il lavoro coatto o alienato. Implica però la gratuità; si gioca per niente, per niente che sia utile o razionale; per il piacere di giocare, per ‛la bellezza del gioco', che è una bellezza prodotta dal gioco, e questo anche se si gioca per vincere, quando il gioco è competitivo. La gratuità del gioco non implica però la messa tra parentesi del reale: l'opposizione reale-irreale perde qui la sua pertinenza: la pista su cui corre l'atleta è sì separata dall'ambiente quotidiano, ma è reale sotto i suoi piedi; l'officina occupata dagli scioperanti è sì il luogo reale del lavoro, ma lo sciopero ne opera la metamorfosi e così lo ‛irrealizza', come lo scultore ‛irrealizza' una pietra reale col suo scalpello, il poeta una lingua ben reale nell'uso quotidiano. Quel che la gratuità del gioco implica, è la libertà del giocatore, una libertà attiva; a differenza del giocatore passivo, che lascia operare il caso, il giocatore-artista gioca con la materia, elude la resistenza delle cose o degli uomini, dei poliziotti o dei poteri, si prende gioco dell'ostacolo. La seconda condizione è che la libertà in questione sia felice, che possa dire, conservando al termine tutto il suo senso: questo è il mio piacere. Il piacere infatti resta sempre il criterio, ma abbiamo già suggerito, riferendoci all'esperienza estetica della natura, che occorre concepirlo in modo diverso da Kant: è piuttosto godimento. Lo si prova anzitutto nel produrre: per quanto sia tormentata la creazione, per quanto difficile l'impresa, l'angoscia o la pena non sono prive di piacere: uno sciopero è bello se è gioioso. Giocare col materiale significa far l'amore con una carne che tutt'insieme resiste e cede, come quell'argilla con cui lotta duramente l'‛immaginazione materiale' di cui parla Bachelard; il piacere estetico è quello dell'orgasmo, in cui l'individuo si riconosce perdendosi (e chi sa se, in questi casi limite, taluni - Mallarmé dinanzi alla pagina bianca, Marylin Monroe dinanzi alla macchina da presa, il manifestante dinanzi alla polizia - non facciano l'amore con la vera morte?). Questo godimento, il prodotto lo comunica al ricettore: la percezione selvaggia a sua volta fa l'amore con l'opera, e l'arte sarà popolare quando il pubblico ne godrà senza ritegni. Ora, il godimento sigilla per un momento il compiersi del desiderio. La terza condizione dell'esperienza estetica - ed avremmo potuto metterla al secondo posto - è che il gioco sia ispirato, che il desideno lo ispiri e vi si esprima. Quale desiderio? La filosofia contemporanea si compiace di disindividualizzare il desiderio; ma da qualunque direzione esso soffi (e per parte mia dirò che viene dal fondo, dal Grund o dalla Natura, piuttosto che dall'inconscio), esso attraversa e travaglia l'individuo; e conserva in esso la sua intenzionalità. A che mira qui il desiderio? Diciamolo: alla bellezza. La donna che si taglia un abito sogna che sia un bell'abito, lo scioperante che sia un bello sciopero, l'atleta che sia una bella corsa. Il giudizio di gusto non perde i suoi diritti per il fatto di essere esercitato dal popolo, quando il gusto cessa di essere il buon gusto proprio dell'élite per diventare a sua volta selvaggio e assaporare altre cose che capolavori. Ma il bello resta sempre ciò che fa piacere in quanto attesta una certa verità dell'oggetto o dell'evento, una verità che il gioco ha costretto a prodursi e che si riconosce nel sensibile senza necessariamente passare attraverso il discorso: un bello sciopero è un vero sciopero, un bel giardino è un vero giardino. E come lo sappiamo? Non esibendo il concetto, ma vivendo il sensibile in cui s'incarna. L'arte popolare riabilita il bello al di fuori di ogni dogmatismo, contro talune pratiche ultrariflessive sdegnose del piacere e repressive dell'immaginazione, per le quali non-arte significa non-bellezza. Ma questa bellezza che si annuncia non è, o non è esclusivamente, la bellezza di lusso propria delle opere della ‛grande arte', è una bellezza per tutti i giorni, per tutti i luoghi, e che può allora contribuire a cambiare la vita. Ecco perché la rivoluzione culturale che promuoverà un'arte popolare sarà una rivoluzione sociale.
Pensare in questi termini l'avvenire possibile che si prospetta nel nostro presente: questo è l'impegno dell'estetica. Essa non diventa una pratica: né una pratica artistica, né una pratica politica, e neanche nucleo invece che margine, secondo la terminologia di A. Cauquelin. Essa teorizza la pratica - la pratica di quanti aprono un avvenire. Ma la teoria non richiede di sorvolare dall'alto - da Sirio - la pratica militante; il teorico può far gruppo con il militante, come il ricettore può associarsi al creatore fino a partecipare alla creazione. Ed è proprio a questa condizione che l'estetica può restar viva, come è oggi: uscendo, al pari dell'arte, dal suo ghetto accademico, trasportandosi nei luoghi in cui accade qualcosa, insomma politicizzandosi. Ma non corre così, per salvarsi, il rischio di perdersi? Nient'affatto. Al pari della filosofia, l'estetica non si aliena. E quel che in essa c'è di filosofico rimane, semplicemente in forza del suo oggetto. Infatti l'esperienza estetica - e specialmente se è popolare, cioè più spontanea, più provocante, più lieta - è certamente un'esperienza metafisica: attualizza il riascendere dell'essere nel mondo verso l'originario, verso un altro essere del soggetto, verso quel fondo abitato dai possibili, da cui può emergere un mondo diverso. È infatti nella Natura che sta la garanzia della rivoluzione. E la metafisica a sua volta raggiunge e anima la politica. Infatti quel mondo diverso, che si lascia presentire nell'esperienza estetica e al quale mirano tanto il desiderio di bellezza quanto quello di giustizia, quel mondo bisogna promuoverlo, pur sapendo che non può instaurarsi in modo definitivo poiché il suo statuto è ambiguo al pari di quello dell'uomo, che è nel mondo senza essere interamente del mondo, che sogna insieme di emanciparsi e di restar bambino. In ogni modo, quanto di esso potrà essere realizzato non sarà l'azione riflessa e organizzata a promuoverlo: essa lo perde di vista. È l'azione utopica. E quella che abbiamo chiamato arte, nell'accezione più larga, è proprio la pratica utopica per eccellenza, e forse anche, meglio del sapere assoluto, la verità della filosofia.
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