Etica
sommario: 1. La crisi della morale. 2. La ricostruzione dell'etica. 3. Il linguaggio dell'etica. 4. La revisione dell'utilitarismo. 5. Dal mercato ai diritti. 6. La morale come alternativa. □ Bibliografia.
1. La crisi della morale
Si è spesso sostenuto che la cultura del Novecento avrebbe messo in dubbio l'esistenza di principî o regole universali di comportamento, riconosciute - anche se non sempre osservate - da tutti, capaci di assicurare il bene degli individui come dei gruppi ai quali essi appartengono, o addirittura di tutta l'umanità. In realtà questa crisi della morale è un'eredità ottocentesca. Infatti la cultura dell'Ottocento ha spesso creduto di scorgere alla propria origine una rottura della società tradizionale, una società finita con la Rivoluzione francese o con la nascita della società industriale. Una parte della cultura ottocentesca ha considerato questi eventi come fatti positivi, frutto del progresso e dell'evoluzione della società occidentale; un'altra parte ha invece condannato la rottura della tradizione, alla quale ha proposto di ritornare. ‛Libertà degli antichi e libertà dei moderni', ‛società militari e società industriali', ‛società fondate sulla solidarietà e società fondate sulla specializzazione', ‛comunità e società' sono alcune delle formule usate, talvolta in un senso e talvolta nell'altro, per indicare la contrapposizione tra tradizione e nuovo corso della storia. E nell'intensa urbanizzazione, nello sviluppo di società di massa, nell'estensione delle libertà politiche, nello svincolamento di un numero crescente di persone dalle regole di vita dettate dalle credenze tradizionali e così via, la cultura ottocentesca ha visto le cause o gli effetti delle trasformazioni sociali che sembravano entusiasmare o angosciare gli uomini di quel tempo. La letteratura verista raffigurava la dissoluzione morale della nuova società urbana e produttiva, ma poeti come Baudelaire e D'Annunzio esaltavano la trasgressione, mentre Freud scopriva moventi delle azioni umane ben diversi da quelli descritti dalle teorie etiche tradizionali. E un filosofo come Nietzsche poteva essere considerato insieme il simbolo del suo tempo e il teorico della rivolta contro la morale tradizionale, in particolare contro la morale cristiana, semplice strumento di controllo e di oppressione dei forti da parte dei deboli.
A questa che sembrava una crisi ‛reale' della morale si accompagnava una crisi ‛epistemologica', che colpiva l'etica nella sua pretesa di essere una disciplina filosofica autonoma, con leggi e principî propri, come le discipline scientifiche. Minacce allo statuto dell'etica venivano da sociologia, antropologia, politica, diritto, economia: i cultori di queste discipline ritenevano di poter rivelare le vere forze che determinano il comportamento umano o perfino di poter indicare i criteri autentici per prendere decisioni valide, occupando così il campo dell'etica e mettendo in luce addirittura gli ‛errori' di prospettiva dai quali erano nate le pretese della morale. Ma anche all'interno della cultura filosofica la concezione tradizionale dell'etica entrava in crisi. La filosofia dell'Ottocento era spesso ricorsa a Kant per sostenere che esiste un'unica morale razionale, basata su solidi principî, perché la filosofia di Kant si proponeva di ricondurre i contenuti disparati dell'esperienza umana a pochi concetti presi dalla tradizione filosofica. Era però risultato difficile applicare il programma kantiano alla cultura scientifica ottocentesca, che presentava teorie irriducibili a un unico contenuto concettuale. E qualcosa di analogo accadeva per l'etica: diventava arduo sostenere l'unicità della morale di fronte ai molteplici tipi di società, distribuiti nello spazio e nel tempo, messi in luce dalle indagini storiche e dalle discipline sociali ed etnologiche. All'idea kantiana secondo cui esiste una morale unica, fondata su principî indiscutibili, si sostituiva quello che veniva chiamato il ‛relativismo etico', secondo il quale le regole morali sono appunto relative ai diversi tipi di società e ai diversi momenti storici. E così la minaccia che le discipline non filosofiche rappresentavano per l'etica filosofica veniva fatta propria dalla stessa filosofia.
2. La ricostruzione dell'etica
Non solo il Novecento non è il secolo della crisi dell'etica o della sua distruzione, ma è piuttosto quello della sua ricostruzione, che si sviluppa lungo due linee diverse.
Una di queste linee è rappresentata dalla ‛filosofia dei valori', che era una risposta allo storicismo e al relativismo, dallo storicismo ora esplicitamente sostenuto, ora meramente implicato. Infatti gli storicisti, come gli idealisti, pur affermando il primato della storia, non credevano che questa fosse un processo indirizzato a un esito predeterminato, e la intendevano piuttosto come un divenire che passa da un'epoca all'altra, ciascuna chiusa in se stessa in modo da costituire un sistema. Ciò che dà unità al sistema e permette di comprenderlo sono i valori intorno ai quali esso si costituisce. Nell'etica tradizionale - quella di Platone e di Aristotele, ma anche degli epicurei e degli stoici, come dei teologi cristiani - si riteneva che le azioni umane si determinassero in base a ‛mezzi' e ‛fini': gli uomini si propongono fini, che possono essere apprezzati in se stessi o essere mezzi in vista di altri fini. Le scuole filosofiche sostenevano che ci fosse un fine unico per tutti, inerente alla natura umana, anche se spesso gli uomini, traditi da pregiudizi e da difetti della volontà, lo interpretavano male. Del resto gli stessi filosofi raffiguravano in modi diversi il fine naturale di cui asserivano l'esistenza.
I filosofi dei valori accettavano il fatto che i fini non fossero uniformi, e infatti non li ponevano come termini assolutamente dominanti nelle decisioni umane; ma al di sopra di essi collocavano i ‛valori': questi avrebbero dovuto costituire dei sistemi abbastanza stabili, e soltanto al loro interno i fini avrebbero potuto essere uniformi. I sistemi di valori, però, si collocavano tutti sullo stesso piano, e questo rischiava di giustificare il relativismo etico che la filosofia dei valori si proponeva di superare. Per trovare una qualche unità tra i sistemi di valori, Wilhelm Windelband (v., 1884) era ricorso al kantismo, che consentiva di riportare gli oggetti delle attività umane a funzioni del soggetto: così i valori erano ricondotti alla capacità soggettiva di giudicare. La conoscenza che interviene nelle azioni umane non concerne in primo luogo i mezzi e i fini, tra i quali c'è pur sempre un nesso causale, come tra le cose, ma si riferisce appunto ai valori, che sono criteri di valutazione e che assegnano un posto ai fini. Guardando perciò alla facoltà di giudicare, Heinrich Rickert (v., 1896-1902 e 1899) pensava di poter trovare una base comune ai diversi sistemi di valori, grazie alla quale, pur assumendo contenuti specifici nel corso della storia, essi manterrebbero comunque una validità formale assoluta. L'opera di Rickert segnava uno dei tentativi di ‛ricostruzione dell'etica' che caratterizzavano appunto gli inizi della cultura del nostro secolo.
Il relativismo etico non si era esaurito con la comparsa della filosofia dei valori, e anzi si andava sviluppando in modo significativo nelle opere di Georg Simmel (v., 1910 e 1918), Karl Jaspers (v., 1919) e soprattutto Oswald Spengler (v., 1918-1922 e 1931), i quali sottolineavano con grande enfasi l'irriducibilità reciproca dei sistemi di valori. La teoria dei valori elaborata da Max Scheler (v., 1913-1916) tentò di rispondere alle forme più radicali di relativismo abbandonando il soggettivismo kantiano e costruendo un'‛etica materiale dei valori'. Per sottrarre la morale alla sfera delle cose, Kant le aveva dato dei principî assolutamente universali, che non possono riferirsi a un oggetto di qualsiasi tipo. Secondo Scheler, Kant era stato ingannato dai suoi pregiudizi, perché intendeva gli oggetti come ‛cose' e credeva che queste fossero come la scienza meccanico-matematica della natura le dipingeva. Ma Scheler respingeva il primato della scienza e della tecnica, nel quale anzi vedeva un pericolo per la civiltà contemporanea, e riteneva che esistessero ‛oggetti che non sono cose', come appunto i valori, dai quali perciò si può partire per dare un contenuto all'etica, senza timore di comprometterne l'universalità. Il relativismo aveva dato importanza alla vita, nella quale aveva posto l'origine di tutti i valori e anche la fonte dell'instabilità di tutti i contenuti culturali; Scheler (v., 1923) ammetteva l'esistenza di ‛valori vitali', ma sosteneva che essi si collocano in una gerarchia di valori nella quale sono dominati da valori più alti, come i valori spirituali, che sovrastano anche i valori concernenti i nostri rapporti con le cose.
Uno sviluppo diverso alla filosofia dei valori dava invece Max Weber, che considerava i valori come strumenti indispensabili per la comprensione dell'agire umano, ma non era disposto a rinunciare alla razionalità che opera selezionando i fini in base ai mezzi disponibili. Anzi, egli riteneva che con questo procedimento si sarebbero ottenuti risultati univoci perfettamente razionali, anche se questo avrebbe rappresentato un caso limite di razionalità formale, perché di fatto i fini sono selezionati dai valori (v. Weber, 1922). Ma, a differenza dei filosofi dei valori, Weber riteneva che i valori non dovessero abolire del tutto la funzione selezionatrice esercitata dai mezzi. Già la razionalità formale era una sorta di ‛calcolo delle conseguenze', nel senso che sono disponibili i fini compatibili con i mezzi che generano le conseguenze meno svantaggiose. Weber (v., 1919), però, contrapponeva anche un'‛etica della responsabilità' - nella quale anche i valori, e perciò i fini che essi suggeriscono, vanno pesati in base alle conseguenze - a un'‛etica dell'intenzione', nella quale, cioè, si scelgono i mezzi indipendentemente dalle loro conseguenze.
Partendo dalla filosofia dei valori Weber recuperava temi utilitaristici, perché la razionalità formale era in fondo una specie di calcolo utilitaristico e l'etica della responsabilità era un'approssimazione (quella che Weber riteneva storicamente possibile) al modello utilitaristico. Come una confutazione dell'utilitarismo si presentava invece l'altra importante opera che segnava la ricostruzione dell'etica nel Novecento, i Principia ethica di George Edward Moore (v., 1903). Dell'utilitarismo Moore riprendeva la critica al formalismo kantiano e alla morale del dovere, sostenendo che le leggi morali indicano soltanto comportamenti che ‟generalmente" non producono conseguenze negative. Ma dell'utilitarismo respingeva la tesi fondamentale, affermando che il bene non va identificato con il piacere, anzi non va identificato con nulla, perché l'aggettivo ‛buono' è un termine non scomponibile in elementi costitutivi di una possibile definizione: il bene non può essere ridotto a ciò che di volta in volta viene considerato buono, così come del colore prodotto da una vibrazione con una determinata lunghezza d'onda si può dire che è giallo, ma il ‛giallo' non consiste in quella vibrazione. Non tener conto di questo costituisce un errore di principio grave, una ‟fallacia naturalistica".
Un'altra strada per la ricostruzione dell'etica fu intrapresa da filosofi inglesi i quali - a differenza di Moore, che operava a Cambridge - appartenevano all'Università di Oxford. Per Harold Arthur Prichard (v., 1908) i termini primari della morale sono non cose ma ‛obbligazioni', che compaiono in ogni occasione nella quale si profili una possibilità di agire: esse sono in un certo senso ‛date' e costituiscono delle intuizioni morali. Come per la filosofia dei valori e per la teoria del bene di Moore, anche per l'etica dell'obbligazione nella morale agisce una forma speciale di conoscenza, irriducibile alla conoscenza delle cose.
Moore, come Weber, accettava una parte (anche se non la medesima parte) del programma utilitaristico, quando sosteneva che il dolore è sempre un male e che il piacere è un ingrediente necessario del bene; ma il piacere non può essere ridotto a un'azione delle cose su di noi. L'azione umana si riferisce a complessi (che Moore chiamava ‟totalità organiche"), disposti in una scala alla cui sommità si trovano quelli costituiti da piaceri sociali ed estetici che non comportino sofferenze per qualcuno. In sostanza, le decisioni morali si prendono mettendo a confronto delle alternative ed esprimendo ‟preferenze". Perciò, al di là dell'apparato teorico, la filosofia dei valori e l'etica di Moore avevano un punto in comune, costituito dal tentativo di individuare un ordine precostituito delle preferenze in base a una gerarchia. In tal modo, in fatto di sicurezza nelle decisioni si dovrebbero raggiungere risultati comparabili a quelli del finalismo etico tradizionale e dell'utilitarismo. Su questo punto l'etica dell'obbligazione aveva una posizione diversa. Le obbligazioni non sono necessariamente coerenti e possono entrare in conflitto tra loro: ci sono sì obbligazioni prevalenti - che William David Ross (v., 1930) avrebbe chiamato ‟doveri prima facie" - e tuttavia non è possibile darne una lista completa, valida per tutti e disposta in una precisa gerarchia, sicché quando più doveri prima facie entrano in conflitto essi vanno confrontati e ‟soppesati".
3. Il linguaggio dell'etica
La filosofia dei valori e l'etica di Moore tentavano di stabilire una gerarchia tra le preferenze in base al loro oggetto, ma in fondo erano delle petizioni di principio, perché costruivano gli oggetti e il loro ordinamento in base al tipo di preferenze alle quali volevano conferire il primato. E così, affidandosi alle preferenze, quelle filosofie rischiavano di non porre rimedio all'anarchia delle scelte individuali su cui faceva leva il relativismo etico, che quelle teorie si proponevano di combattere. In realtà, quelle filosofie avevano cercato di sfuggire all'anarchia delle preferenze sostenendo, come aveva fatto Moore, l'irriducibilità delle nozioni etiche a conoscenze di stati di fatto o collocando la conoscenza dei valori sopra la conoscenza dei fatti, come avevano fatto i filosofi dei valori: tutti modi per sostenere che le preferenze sono una forma speciale di conoscenza, intrinsecamente ordinata. Senonché le preferenze potevano essere contrapposte alle conoscenze di fatto in tutt'altro modo. Alfred Jules Ayer (v., 1936) affermava che le preferenze si manifestano in espressioni senza ‟significato letterale": cioè, prese alla lettera, non significano nulla, come le interiezioni. E già nella Lecture on ethics del 1929 o 1930, Ludwig Wittgenstein (v., 1965) aveva detto che esse non possono essere né vere né false e sono semplici espressioni di emozioni. Questa era la differenza tra linguaggio etico e linguaggio scientifico, essendo quest'ultimo costituito da proposizioni logiche o descrittive, suscettibili di controllo e capaci di riferirsi a stati di fatto.
L'etica poteva però essere riabilitata partendo dalla sua attribuzione alla sfera emotiva. Del resto il pragmatismo faceva della conoscenza non una descrizione delle cose, ma un modo di reagire a esse, mai privo di aspetti emotivi, nel quale erano coinvolti rapporti tra uomini. Un filosofo pragmatista come Dewey sosteneva che l'etica doveva condurre a un arricchimento della vita emotiva. E Charles Leslie Stevenson (v., 1944) sostenne che, anche se solo le proposizioni scientifiche sono vere o false, tuttavia al significato descrittivo delle parole, che suscita credenze, se ne aggiunge uno emotivo, che suscita atteggiamenti. L'etica diventava così un modo per correggere valutazioni emotive facendo uso del significato descrittivo delle parole, perché si considerava possibile cambiare la direzione delle valutazioni cambiando, con una ‟definizione persuasiva", il significato descrittivo dei termini nei quali essa si esprime.
Questa interpretazione dell'etica rispettava il divieto di fallacia naturalistica sancito da Moore, perché non ricavava valutazioni da conoscenze fattuali, ma mostrava che il territorio della morale, come di qualsiasi disciplina normativa, è costituito da un intreccio di credenze e valutazioni. Questo riconoscimento non consentiva di costruire un'etica come corpo unitario di valori o regole, ma indicava un modo per condurre i conflitti morali senza far ricorso a imposizioni e a confusioni tra significati descrittivi e significati emotivi. Anche se la preoccupazione di evitare la fallacia naturalistica continuava a essere primaria e induceva a insistere sul carattere non sistematico dell'etica (v. Toulmin, 1950; v. Nowell-Smith, 1954), si faceva però strada il progetto di passare attraverso la considerazione del linguaggio morale come linguaggio normativo al fine di ricostruire una teoria etica che avesse una potenza paragonabile a quella di Moore. L'attacco principale contro la pretesa dell'etica di costituirsi in disciplina autonoma era venuto dai filosofi che l'avevano contrapposta alla conoscenza scientifica, intesa come conoscenza empiricamente verificabile. I filosofi che avevano accolto questa contrapposizione avevano accettato l'interpretazione della scienza come discorso costituito da proposizioni puramente logiche e da proposizioni suscettibili di verifica empirica. Questo tipo di analisi aveva però anche indotto ad ammettere che esiste un piano, ‛metalogico', sul quale si colloca l'enunciazione delle regole logiche impiegate nelle teorie scientifiche. Un risultato analogo si sarebbe potuto ottenere con una ‛metaetica' che chiarisse le regole con le quali si fanno ragionamenti etici.
Per costruire la metaetica bisognava però rinunciare a ricondurre la morale alla sfera emotiva e rifarsi invece alla teoria delle obbligazioni e dei diversi usi linguistici elaborata dai filosofi di Oxford. Su questa base Richard Mervyn Hare (v., 1952, 1963 e 1981) insisteva non tanto sulle emozioni alle quali un'espressione linguistica può essere associata, ma sul fatto che una certa espressione (‟chiudere la porta") può avere un significato descrittivo (‟egli chiude la porta") o un significato prescrittivo (‟chiudi la porta!"). È possibile ricavare prescrizioni particolari da principî generali, per esempio ‟chiudi la porta!" da ‟chiunque è passato per una porta la chiuda" o ‟chiunque ha modificato una situazione la ripristini". Questi principî sono generali perché in essi intervengono significati descrittivi - ‟chiunque è passato per una porta" o ‟chiunque ha modificato una situazione" - ma questi da soli non bastano a giustificare le prescrizioni particolari. Infatti un ragionamento deduttivo non può introdurre nella conclusione ciò che non sia già assunto nelle premesse; e questa è anche una garanzia contro il pericolo di fallacia naturalistica. Nei principî di proposizioni prescrittive compaiono predicati che, come ‛buono', sembrano descrittivi, analogamente a ‛rosso', ma in realtà sono valutativi, perché implicano sempre degli imperativi: questa era un'interpretazione di ‛buono' diversa da quella di Moore, che vi vedeva una qualità. Non tutte le proposizioni normative generali sono però principî morali: non lo è una proposizione come ‟è bene chiudere le porte per non prendere il raffreddore". I principî morali devono poter essere sottoposti alla prova di ‛universalizzazione', non vincolata al raggiungimento di uno scopo particolare (come nell'esempio sopra indicato) e impegnativa anche per chi propone la norma. Una proposizione che potrebbe essere un principio morale è ‟nessuno deve dire menzogne", dove ‛menzogna' ha un significato descrittivo mentre ‛deve' ne ha uno prescrittivo. Da questo principio si può ricavare l'imperativo ‟devi dire la verità a un morente sulla sua sorte", che può essere in conflitto con una prescrizione che si potrebbe ricavare dal principio ‟non si devono infliggere sofferenze inutili". Conflitti di questo genere avviano discussioni etiche che possono condurre alla revisione dei principî. Da questa impostazione usciva la proposta di una morale razionale, kantiana nella forma, che, sotto la protezione di principî formali universali, avrebbe dovuto rendere possibile la convivenza di regole di vita anche diverse.
4. La revisione dell'utilitarismo
Gli utilitaristi avevano criticato il rigorismo kantiano e Moore aveva ereditato le loro riserve; del resto gli stessi filosofi dei valori avevano respinto il formalismo di Kant, cercando di dare un contenuto all'etica filosofica. Ma le revisioni, alle quali fin dall'Ottocento l'utilitarismo era stato sottoposto, avevano condotto alla riscoperta degli aspetti formali dell'etica kantiana, e un moralista autorevole e fortunato come Sidgwick ne aveva tentato un recupero e una conciliazione con l'utilitarismo. La riscoperta di Kant doveva venire addirittura dall'interno dell'utilitarismo apparentemente meno filosofico, a opera di un economista. R. F. Harrod (v., 1936), infatti, osservava che ci sono atti i quali comportano conseguenze non lineari, cioè maggiori di quelle che potrebbero derivare dalla loro semplice esecuzione caso per caso: una bugia, presa singolarmente, potrebbe avere un effetto benefico ma, considerata come violazione della regola che prescrive di dire la verità, potrebbe avere conseguenze di portata ben maggiore, minando la credibilità in generale. In questi casi il principio utilitaristico che prescrive di valutare le conseguenze va applicato non ad atti singoli, ma alle regole che prescrivono atti. Gli atti singoli sono mezzi per produrre il maggior benessere individuale possibile, ma c'è anche un benessere collettivo e i mezzi per conseguirlo si esprimono in obbligazioni, cioè in imperativi nel senso kantiano.
Questa interpretazione dell'utilitarismo - che R. B. Brandt (v., 1959) chiamò ‟utilitarismo della regola", contrapponendolo alla forma tradizionale di utilitarismo, considerata un ‟utilitarismo dell'atto" - era stimolata anche da considerazioni economiche. Ci sono attività economiche che in certe circostanze possono dare rendimenti crescenti in modo più che proporzionale agli investimenti fatti e ai rischi corsi. Sono casi nei quali bisogna passare dall'economia di mercato a quella pianificata, introducendo obbligazioni che impediscano quei profitti ingiustificati.
Sullo sfondo di questa posizione c'era la complessa trama di relazioni tra economia e utilitarismo. Quest'ultimo aveva sempre asserito il principio della sovranità del consumatore, in base al quale i singoli collocano il proprio interesse e la propria felicità in ciò che preferiscono, e la felicità collettiva consiste nella somma delle felicità individuali. In nome di questo principio gli utilitaristi potevano dichiarare che non esistono principî morali assoluti e che ogni principio può essere cambiato se genera conseguenze sgradevoli. Un libero mercato poteva sembrare la realizzazione migliore di questa concezione etica, e di fatto utilitarismo e scienza economica come teoria dello scambio sembrarono andare nella medesima direzione. Ma l'utilitarismo, con la sua formula popolare ‟la maggior felicità per il maggior numero di persone", supponeva che in una società nella quale ciascuno avesse potuto rendere massimo il proprio benessere individuale anche il benessere collettivo, costituito dalla somma delle soddisfazioni individuali, sarebbe stato massimo. Quella formula in realtà conteneva un errore, perché rendeva massimi contemporaneamente il numero delle persone felici e la felicità di ciascuna di esse (v. von Neumann e Morgenstern, 1944), mentre gli economisti, considerando il mercato un sistema di relazioni nel quale i singoli hanno la migliore opportunità di trovare le cose che desiderano, non necessariamente implicavano che esso avrebbe permesso di generare la maggior quantità assoluta di piacere globale sommando liberamente tutti i piaceri individuali.
Tuttavia gli economisti scoprivano che i mercati reali sono ben diversi dal mercato ideale, e perciò è possibile correggerli per migliorarli. Qui sembrava aprirsi uno spazio per l'utilitarismo: se il benessere collettivo è la somma dei benesseri individuali, rendendo massimo il benessere collettivo si sarebbero migliorati anche i benesseri individuali, ponendo rimedio alle storture dei mercati reali. Di fatto questo avrebbe però significato che per rendere massimo il benessere collettivo si sarebbe potuto intervenire sui benesseri individuali, togliendo agli uni e dando agli altri, posto che il bene B, tolto a i e dato a j, avesse prodotto l'utilità Uj > Ui. Così però veniva in luce l'insostenibilità della massimizzazione contemporanea del benessere collettivo e del benessere individuale. Inoltre quella procedura presupponeva che le utilità di i e j fossero del tutto omogenee e scambiabili.
Su questo punto l'utilitarismo porgeva un aiuto, perché riconduceva tutte le forme di utilità a gradi del piacere, confrontabili, misurabili con numeri cardinali e intercambiabili. Ma non era facile tradurre quel programma filosofico in termini economici. Harrod, che si richiamava all'utilitarismo per giustificare la pianificazione come strumento di correzione dei rendimenti ingiustificati prodotti dai mercati reali, si trovò a dover riformare lo stesso utilitarismo, introducendovi un elemento di ispirazione kantiana. Infine, gli economisti dovevano ammettere di non poter dare una misura cardinale dell'utilità collettiva. Se si intende, secondo i canoni dell'utilitarismo, che la funzione di utilità collettiva W sia la somma delle funzioni di utilità individuale U1 + U2 + ... + Un di n individui, ma a W non si può assegnare un numero cardinale che rappresenti il suo massimo, perché le U non sono determinate secondo una scala cardinale, la situazione cui sarà associata la W dovrà essere ‛ottimale' nel senso di Pareto. Ciò accade quando, date due situazioni sociali S, si può dire che Sj è migliore di Si se, essendo entrambe indifferenti per tutti gli altri membri della collettività, c'è almeno un membro j che preferisca Sj a Si. Il fatto che non si potesse indicare con un numero cardinale il valore delle U, perché ogni individuo può usare la propria scala di valori, fa sì che anche la W possa essere determinata soltanto attraverso la scelta degli individui.
Da questa sistemazione usciva un utilitarismo indebolito perché se, come volevano gli utilitaristi, bisognava applicare le stesse procedure per le scelte private e per quelle collettive, anche la funzione di utilità collettiva diventava un oggetto diretto di preferenza, e non era determinabile con la somma dei valori cardinali delle U o con qualche altro metodo. Tuttavia, per determinare in modo univoco una W Pareto-ottimale a partire dalle U, bisognava supporre di poter assegnare alle preferenze un numero ordinale in modo univoco: le situazioni sociali S1 ... Sn offerte alla scelta avrebbero dovuto poter essere messe in un ordine tale che, date Si e Sj, si potesse dire se Si viene prima di Sj, o viene dopo, o occupa lo stesso posto, cioè quale delle due sia preferibile rispetto all'altra o se esse siano indifferenti. Perciò non sarebbe mai dovuto accadere che, se Sj è preferibile a Si, Si sia poi preferibile a Sj. Questo potrebbe accadere se, date nS disposte in ordine di preferibilità crescente, in modo che S1≤S2≤ ... ≤ Si≤ Sj≤ S(n-1) ≤ Sn, (dove ≤ significa meno o ugualmente preferibile rispetto a ...) si desse poi Sn ≤ S1, cioè se l'ordinamento fosse ciclico. Senonché l'unico modo per disporre delle prospettive in ordine di preferenza facendole scegliere dagli individui è una votazione, ed era da tempo noto che, dati almeno tre elettori che debbano scegliere tra almeno tre prospettive comparate due a due, non si può escludere che ne risulti un ordinamento ciclico (v. Arrow, 1951 e 1983).
Per uscire da questa difficoltà bisognava introdurre una cardinalità nelle scelte collettive. Uno dei modi per farlo era associare le scelte collettive a probabilità oggettive. Nelle scelte individuali ciascuno può ordinare le proprie preferenze in base alla probabilità oggettiva attribuibile agli esiti che si perseguono o si vogliono evitare, oppure, quando queste non sono note, in base alla stima soggettiva della probabilità e a quanto si è disposti a scommettere sulle proprie scelte. Ma in questo modo si ottengono ordinamenti individuali di preferenze non confrontabili e che non determinano una funzione di utilità collettiva. A questa si può invece arrivare costruendo prospettive diverse rappresentate dalle posizioni sociali che possono essere occupate da n individui di una società, dal primo individuo (quello nella posizione sociale migliore) all'n-esimo individuo (quello nella posizione sociale peggiore). Se si considerassero equiprobabili quei livelli, chi facesse propria la funzione di utilità così costruita darebbe peso uguale agli interessi di ciascun individuo. Così la funzione di utilità collettiva sarebbe la funzione di utilità individuale di un individuo che ha la medesima probabilità di occupare un posto qualsiasi della società.
La funzione di utilità così costruita sarebbe un giudizio morale, cioè quello che potrebbe formulare ‟un osservatore simpatetico ma imparziale", una persona che avesse un interesse positivo per il benessere di ciascun partecipante senza avere, al contempo, alcuna parzialità in favore di un partecipante particolare. Si potrebbe anche dire che è il giudizio che una persona potrebbe formulare ‛mettendosi al posto di' una qualsiasi altra persona. A giudizi di questo genere dovrebbero ispirare le proprie scelte giudici e pubblici ufficiali quando agiscono nelle loro funzioni di guardiani del ‛pubblico interesse'. Come volevano gli utilitaristi, il giudizio morale sarebbe pur sempre un giudizio di utilità, cioè sarebbe pur sempre un giudizio costruito come quelli privati di utilità, ma sarebbe non la somma di funzioni di utilità individuale, bensì un giudizio sul livello medio di utilità di cui n individui di una società potrebbero godere (v. Harsanyi, 1953, 1955, 1958, 1976 e 1977).
5. Dal mercato ai diritti
Per riproporre l'utilitarismo non bastava ancora assumere come giudizio morale la funzione di utilità individuale di chi avesse considerato uguali le proprie probabilità di occupare tutti i livelli della società. Un individuo del genere non dovrebbe conservare tutte le proprie preferenze personali reali, ma formulare delle preferenze estese, immaginarie o verbali, censurare quelle antisociali e considerare gli atti come applicazioni di una regola, secondo il canone dell'utilitarismo della regola. La stessa possibilità di distinguere un utilitarismo dell'atto da un utilitarismo della regola è stata messa in discussione (v. Lyons, 1965), ma la riformulazione dell'etica utilitaristica in termini kantiani ne ha favorito la penetrazione anche nella metaetica, che pure aveva tratto una delle sue ispirazioni dall'etica dell'obbligazione; e proprio la metaetica si è avvalsa della distinzione tra un livello etico e uno metaetico per assegnare a piani diversi l'utilitarismo della regola e l'utilitarismo dell'atto (v. Hare, 1976).
Nonostante le revisioni subite, l'assorbimento di elementi kantiani e la convergenza con la metaetica, l'utilitarismo non ha mai cessato di essere oggetto di critica sia da parte della cultura di tradizione socialista e marxista, sia da parte di quella di orientamento religioso. Ma la critica dell'utilitarismo ha preso nuovo vigore alla fine degli anni sessanta, quando è entrata in crisi la mentalità affermatasi nei paesi industriali dell'Occidente dopo la seconda guerra mondiale, una mentalità che l'utilitarismo sembrava rispecchiare.
Si trattava di una mentalità per la quale un'economia di impostazione liberale, capace di stimolare la produzione con ingenti spese pubbliche, avrebbe promosso un benessere collettivo che tutti avrebbero apprezzato. Il progresso economico avrebbe dovuto assicurare automaticamente una migliore distribuzione delle risorse e un ampliamento delle libertà: e questo autorizzava a subordinare le pretese morali e le rivendicazioni di diritti alle compatibilità economiche, una subordinazione che sembrava perfino una garanzia della loro futura realizzazione.
La crisi di queste aspettative alla fine degli anni sessanta sembrò indebolire l'utilitarismo e aprire la strada per una revisione dell'etica in generale. Alle teorie metaetiche, che avevano accettato il primato dei linguaggi descrittivi e avevano dato la preferenza alle regole del linguaggio etico rispetto ai suoi contenuti, si contrappose il ritorno a un'etica normativa, capace di proporre contenuti anziché semplici procedure. Era anche un modo per respingere le stesse revisioni dell'utilitarismo, che avevano pur sempre proposto procedure, ancorché più determinate di quelle elaborate dall'analisi logica delle norme. Tuttavia, un suggerimento emerso dalle revisioni dell'utilitarismo fu accolto. Nella ricerca di una caratteristica capace di distinguere il giudizio morale dalle scelte ispirate all'utilità individuale, senza violare il principio utilitaristico che imponeva di considerare identici i modi in cui si prendono decisioni morali e decisioni economiche, si era supposto che fossero scelte etiche quelle che si fanno in un alone di ignoranza: chi fa una scelta economica cerca di avere il massimo di informazione, mentre chi fa una scelta morale prescinde dalle informazioni che concernono i suoi interessi individuali.
Anche l'etica normativa immaginava una ‛situazione originaria' nella quale, prima di entrare a far parte di una società, individui razionali debbano stipulare un ipotetico contratto ‛sotto un velo di ignoranza', cioè senza sapere esattamente quale posizione avrebbero occupato nella società. In questa situazione essi accetterebbero di vivere ‛secondo giustizia come equità', che si specifica attraverso due principî fondamentali: 1) ciascuno deve aver diritto al più ampio sistema di libertà fondamentali compatibili con il godimento del medesimo diritto da parte di tutti gli altri; 2a) le diseguaglianze sociali ed economiche devono giovare ai meno avvantaggiati; 2b) esse devono essere connesse a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza. Le diseguaglianze sociali sono computate in termini di ‛beni sociali primari', cioè di quei beni - come diritti e libertà fondamentali, possibilità di mutare occupazione, istruzione, ricchezza, reddito, ecc. - che sono strumentali per realizzare i progetti più diversi. Questa forma di etica normativa, come il neoutilitarismo, faceva riferimento alle procedure economiche, presentando la condotta morale come ‟scelta razionale", nel senso che anche i neoutilitaristi davano a questo concetto. Ma anziché adoperare il criterio della massima efficienza media, invocato dai neoutilitaristi, con il principio 2a si faceva intervenire nelle scelta morale la massimizzazione dei livelli minimi (maximin), cioè la massima protezione dei meno avvantaggiati (v. Rawls, 1971).
Anche questa teoria morale, come il neoutilitarismo, aveva di mira soprattutto la distribuzione di risorse tra i membri di una società, forse con minore preoccupazione per l'efficienza produttiva della società e con un orientamento esplicito alla sua giustizia. Ma, mentre il neoutilitarismo tendeva a fare della giustizia il prodotto di una scelta adottata secondo i criteri della razionalità economica da un operatore che trascurasse la propria posizione nella società, in questo caso l'etica si presentava essa stessa come una ‟teoria della giustizia": l'instaurazione e il mantenimento della giustizia era cioè una scelta morale autonoma e non semplicemente una scelta economica presa in particolari condizioni di informazione. La teoria della giustizia risentiva della crisi dell'economia del benessere, cioè del progetto, storicamente legato alla filosofia utilitaristica, di costruire una società nella quale il benessere collettivo fosse garantito direttamente e integralmente con misure economiche, capaci di instaurare una società giusta e di mantenerla. La teoria della giustizia tendeva a non presupporre un'idea comune di benessere da ricavare estraendo in qualche modo il benessere collettivo dai contenuti attribuibili ai benesseri individuali. L'assetto giusto di una società era sì frutto di una scelta razionale, ma di una scelta morale, che verteva su principî, una scelta ricavabile immaginando quale potesse essere il contenuto di un contratto che potrebbero stipulare i membri di una società da costituire.
Queste trasformazioni dovevano però aprire diverse alternative all'interno della stessa teoria etica. La teoria della giustizia di Rawls era assai impegnativa e ricca di contenuti, tanto da costituire una sorta di ‛equivalente morale' dell'economia del benessere. Ma negli anni settanta furono formulate altre versioni di etica normativa. Anche quella di Nozick partiva dall'idea del contratto istitutivo della società, ma ne ricavava una teoria morale che prevedeva un intervento ‟minimo" dello Stato, tale da non poter in alcun modo ledere i diritti originari degli individui. Lo Stato dovrebbe infatti garantire non la redistribuzione dei beni, ma solo diritti relativi alla sicurezza, e la morale dovrebbe suggerire non l'accettazione di principî ispirati all'interesse dei livelli minimi della società, ma il perseguimento di un ‛egoismo vincolato'. La scelta razionale dovrebbe cioè suggerire non tanto il maximin, cioè la massimizzazione dei livelli minimi - che è la strategia di un giocatore che vuol contenere al massimo le perdite - , ma il perseguimento del massimo di utilità, da limitare solo per non ledere i diritti degli altri, riducendo al minimo la massimizzazione (minimax) - che è il gioco di chi vuol vincere, pur tenendo conto che anche gli altri giocatori vogliono la stessa cosa. Tuttavia questa, per Nozick, non è tutta la morale: entro una cornice minima di morale comune ciascuno può poi proporsi i contenuti morali che preferisce, sotto forma di ‟utopia" che può liberamente cercare di realizzare. L'interpretazione utopica della morale poteva essere vista come il risultato estremo della difficoltà di ricondurre i contenuti delle scelte individuali a un metro comune, difficoltà che in economia era emersa come impossibilità di trovare una misura cardinale delle preferenze (v. Nozick, 1974).
Nel frattempo, però, anche gli economisti avevano analizzato non solo il comportamento di un attore che cerca di rendere massimo il proprio vantaggio di fronte a cose scarse ma, utilizzando gli schemi elaborati dalla ‟teoria della decisione" e dalla ‟teoria dei giochi", anche l'interazione di attori sociali che tengono conto dei rispettivi comportamenti. Il coordinamento delle condotte era un terreno sul quale l'interpretazione della morale imperniata sull'idea di contratto poteva trovare un nuovo rapporto con l'economia. La teoria dei giochi costruiva modelli più complessi per interpretare l'interazione costituita dalla ‟contrattazione", ponendo il problema di riformulare il rapporto tra comportamento morale e comportamento economico. Quest'ultimo tende pur sempre a massimizzare un vantaggio, e nella contrattazione economica il punto di equilibrio è quello in cui è proporzionalmente massimo il vantaggio che ciascuno ricava dalla trattativa. Quando invece si tratta di scelte morali, nelle quali è perseguita l'‟intesa in se stessa" e non l'utilità, ogni contraente si attesta intorno alla minima tra le concessioni massime che si possono fare per raggiungere un accordo o al minimo tra i vantaggi massimi che un accordo potrebbe dare, purché anche gli altri contraenti facciano lo stesso (v. Harsanyi, 1956 e 1982; v. Tucker e Luce, 1959; v. Gauthier, 1986 e 1990).
Ma la ripresa dell'ipotesi del contratto istitutivo della società rientrava anche in una ridiscussione del rapporto tra diritto e morale. L'idea del contratto era contenuta nelle teorie liberali moderne classiche ed era stata respinta dalle dottrine giuridiche ottocentesche, in nome dello storicismo o del positivismo giuridico. Il suo rifiuto si era inquadrato nella tesi del primato del diritto sulla morale: per assicurare la certezza del diritto, perseguita dalla società moderna, occorreva portare in primo piano la disciplina giuridica positiva e subordinare completamente alle leggi positive i ‛diritti naturali', considerati in se stessi semplici pretese soggettive, quando non fossero garantiti da leggi positive. Tutto questo portava a confinare la morale stessa nel limbo della soggettività; e c'era una certa corrispondenza tra questa concezione dello Stato e quella presupposta dall'economia del benessere, perché in entrambe l'ordine sociale, che si pretendeva capace di rispondere alle esigenze comuni dei membri della società, doveva precedere le scelte degli individui.
Come la rivolta contro l'utilitarismo aveva condotto a svincolare la rivendicazione dei diritti dalle compatibilità imposte dall'ordine economico, così si poteva rendere la morale indipendente dall'ordine giuridico precostituito e riparlare di diritti che ‛precedono' gli ordinamenti positivi, i cosiddetti ‛diritti umani', che la politica internazionale e gli organismi sovranazionali erano venuti riscoprendo dopo la seconda guerra mondiale. Aveva nuociuto a quelle idee il loro radicamento nella teoria classica della legge di natura, ma soprattutto la supposizione che esistesse una legge di natura organizzata più o meno come una legge positiva. Ma ora i diritti potevano essere fondati in documenti storicamente esistenti, come appunto le ‛dichiarazioni dei diritti' o anche gli strumenti costituzionali, quali la Costituzione degli Stati Uniti. Questi documenti non hanno la stessa funzione delle leggi ordinarie: essi contengono principî dai quali si possono ricavare decisioni che possono essere contrapposte a leggi positive attraverso sentenze di corti o facendo valere il vincolo di convenzioni internazionali sulle legislazioni nazionali. Questo orientamento era importante soprattutto nella cultura americana, dove per un certo periodo la giurisprudenza aveva seguito un indirizzo ‛utilitaristico', dando interpretazioni che tendevano a subordinare i diritti fondamentali a una certa idea del benessere economico collettivo. Con la formula ‟i diritti vanno presi sul serio", i diritti venivano considerati una priorità alla quale dovevano essere subordinati il progresso economico e la legislazione positiva.
Respingendo la concezione scolastica del diritto naturale, la nuova teoria dei diritti non intendeva più i documenti fondamentali come un elenco finito di disposizioni legislative di tipo positivo, né come una serie di premesse dalle quali derivare delle conseguenze ‟in modo meccanico". I diritti si possono ricavare da principî con ragionamenti: ragionamenti che tutti gli interessati devono poter seguire, controllare ed eventualmente condividere, ma privi di cogenza deduttiva e rivedibili in presenza di ragionamenti contrari. Il positivismo giuridico aveva invece guardato ai procedimenti deduttivi di tipo euclideo e assiomatico, che anche le teorie metaetiche avevano assunto come modello; inoltre, ispirato soprattutto all'organizzazione burocratica dell'ordinamento tedesco, aveva dato la preferenza al procedimento con il quale il giudice ricava la sentenza in modo automatico dalle norme scritte. La cultura giuridica di tradizione inglese e americana, al contrario, dava la preferenza alla libera formazione dei convincimenti nel corso di un dibattito processuale e assumeva come modello l'argomentazione che gli avvocati svolgono di fronte a una corte di giustizia. In questa prospettiva i principî non costituiscono un orizzonte chiuso e non sono neppure principî ‛giuridici' che si contrappongano a principî ‛morali': avvocati e giudici possono benissimo appellarsi a principî molto elevati e generali dai quali discendono tanto regole morali quanto regole giuridiche (v. Dworkin, 1977; v. Gewirth, 1982).
6. La morale come alternativa
A partire dagli anni settanta, si è venuta approfondendo la contrapposizione tra le teorie etiche, da un lato, e le interpretazioni positivistiche del diritto e le teorie economiche, dall'altro. Ma un contrasto ancora più radicale si è venuto profilando tra etica filosofica e conoscenza scientifica. Una parte notevole dell'etica filosofica novecentesca non sviluppatasi nel solco della tradizione utilitaristica aveva tentato di costruire un linguaggio morale diverso da quello scientifico, introducendo nelle proprie premesse proposizioni normative, oppure riconoscendo l'esistenza di una ‛logica delle norme', dotata di regole proprie rispetto alla logica delle proposizioni descrittive (v. Prior, 1949 e 1976; v. Rescher, 1966; v. Ross, 1968; v. von Wright, 1968 e 1983): due modi per evitare la fallacia naturalistica. Ma proprio questo scrupolo è stato inteso come il segno di una concezione ristretta dei fatti, ereditata dall'interpretazione neopositivistica della scienza. Perché ‛fatti' sono anche quelli nei quali si inseriscono le norme, i comportamenti e gli impegni che si assumono; e il linguaggio non ha solo la funzione di enunciare qualcosa o di imporre un comportamento. John Langshaw Austin (v., 1962) aveva mostrato che, oltre agli atti linguistici ‛illocutori', con i quali si agisce su qualcuno pronunciando parole - come quando si minaccia, si consiglia, si ingiunge - esistono atti linguistici ‛perlocutori', con i quali parlando si esegue qualcosa - come quando si promette. E la nozione di gioco linguistico usata dal secondo Wittgenstein andava nella medesima direzione. J. R. Searle (v., 1969) ha sviluppato questi motivi sostenendo che il prescrittivismo aveva misconosciuto l'uso perlocutorio del linguaggio in virtù del quale promesse, impegni, responsabilità, diritti diventano fatti primari: e da questi si possono fare inferenze eticamente rilevanti, senza che intervengano valutazioni o prescrizioni come le intendevano i prescrittivisti. Anche negli Stati Uniti D. Davidson (v., 1980), muovendo dalla critica della filosofia neopositivistica, ha costruito una teoria dell'azione fondata sul primato del carattere comunicativo del linguaggio.
Così la situazione si è capovolta: se la metaetica delle prescrizioni e la logica delle norme consideravano il linguaggio scientifico-descrittivo una specie di modello, perfetto nella sua sfera, adesso esso rappresentava un caso-limite, in fondo illusorio. La morale non doveva confrontarsi con esso, ma doveva collocarsi in una tradizione addirittura alternativa a quella nella quale si era sviluppata la scienza moderna. L'‛ermeneutica filosofica', proposta in Germania da Hans-Georg Gadamer (v., 1960), poteva tornare a proposito, poiché sosteneva che l'interpretazione è una forma di conoscenza superiore alla conoscenza scientifica e tecnica e ha per oggetto in primo luogo la tradizione, cioè il messaggio lasciato da persone ad altre persone. Collocata in questa prospettiva, la morale poteva liberarsi dalla condizione di ‛inferiorità conoscitiva', della quale aveva sofferto rispetto alla conoscenza scientifica della natura, e rivendicare anzi una superiorità nei confronti di quest'ultima. Su questi presupposti si innesta la cosiddetta ‛filosofia pratica' (v. Riedel, 1972), che pretende di riallacciarsi a una tradizione che andrebbe da Aristotele a Hegel e che proclama l'indipendenza della morale dalla conoscenza delle cose. Nell'ermeneutica come nella filosofia pratica, ma in generale in gran parte dell'etica filosofica, si è riscoperto il linguaggio della tradizione filosofica, che il primato della cultura scientifica aveva messo in ombra. Non solo si assiste a un imponente ritorno all'etica kantiana, ma anche alla ripresa delle nozioni di virtù e di bene, riportate alle loro origini aristoteliche (v. MacIntyre, 1981). E non è raro che si ritorni all'esaltazione della ‛comunità', intesa come una forma associativa dominata da valori, sulla ‛società', intesa come una forma associativa dominata da interessi: un tema che la critica ottocentesca della società industriale aveva già ampiamente sfruttato.
Uno degli sviluppi più recenti dell'etica è costituito dall'‛etica applicata', che consiste nell'elaborazione di regole morali adatte a campi particolari. I suoi settori più importanti sono la bioetica, l'etica degli affari, l'etica ambientale e l'etica pubblica. In molti casi l'etica applicata interferisce con le etiche professionali dei medici, degli uomini d'affari, della pubblica amministrazione e così via. Ma l'etica applicata diventa una specie di ‛supplemento morale' alle etiche professionali tradizionali: queste infatti sembrano contenere norme subordinate alle esigenze tecniche dei singoli settori, volte a salvaguardare le corporazioni formatesi in quei settori e i rapporti tra operatori e clienti. Invece l'etica applicata dovrebbe costruire difese contro le minacce che si sono profilate nella società tecnico-scientifica contemporanea: la medicina altamente tecnologica, le grandi organizzazioni produttive e commerciali e la pianificazione pubblica.
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