ETNA (A. T., 27-28-29)
L'Etna (gr. Αἴτνη forse da αἴϑω "ardo, fiammeggio") era chiamata Gebel (monte) al tempo degli Arabi, poi Mongibello (monte-gebel) dalle persone colte; dagli abitanti è detta la Montagna. Esso è uno dei maggiori colossi eruttivi della terra, il massimo vulcano d'Europa, e costituisce una grandiosa montagna, così isolata da giustificare quasi il volo poetico di Pindaro che la chiamò la colonna del cielo.
Visto da S., l'Etna ha l'aspetto di un gigantesco cono; da E. invece si presenta come una maestosa piramide, troncata in alto, verso i 2800 m., e limitata a N. e a S. da due imponenti colline, le quali entrambe dagli abitanti dei rispettivi versanti ricevono il nome di Montagnola. Nel mezzo, fra esse, sorge maestoso e fumante il cono principale del vulcano, scavato da un'ampia e profonda voragine craterica.
L'altitudine, che nel 1864 (triangolazione De Vecchi) era di 3313 m., ha subito delle variazioni, come avviene in tutti i crateri attivi: fu trovata di m. 3274 nel 1900 (Grechi e Loperfido), e i franamenti avvenuti in seguito hanno allargata la bocca del gran cratere, con qualche danno all'altezza di esso. Abbastanza stabile si è mantenuto invece l'altipiano sottostante, ove, a 2917 m., si osservano i ruderi di un'antica costruzione romana, la cosiddetta Torre del Filosofo, e ove sorge l'Osservatorio etneo a 2942 m. e alla latitudine di 37°44′ 8′′ (Paci): il meridiano a un'ora da Greenwich (15° E.), detto dell'Europa centrale, passa per il cratere dell'Etna, e quindi ben a ragione gli è stato anche dato il nome di meridiano dell'Etna.
Nel suo fianco orientale, a una fertile pianura alluvionale, seguono ripidi gradini e colline, finché, a circa 1000 m., si osserva un enorme squarcio, di oltre 5 km. di larghezza, tra le opposte serre del Solfizio e delle Concazze, chiamato la Valle del Bove, brullo per numerose colate di lave recenti. Le sue pareti ripidissime, da 600 a 1200 m. di altezza, con i banchi di lava e di tufo, attraversati da numerosi e grandiosi dicchi intrusivi, ci fanno conoscere la struttura interna di un grande edifizio vulcanico di tipo etneo.
La parte SE. della Sicilia è stata teatro di un'attività vulcanica molto intensa, migrata a mano a mano verso il N. Durante l'era quaternaria, nell'attuale Piana di Catania e là ove ora sorge la massa dell'Etna, esisteva un grande golfo, limitato a N. e a O. da colline terziarie; in esso ebbero luogo manifestazioni eruttive, in parte sottomarine, che produssero i basalti preetnei, cui seguirono le formazioni basaltiche della Grotta delle Palombe e quell'imponente serie di potenti banchi di lave, con tufi intercalati, che costituisce la Timpa (rupe) di S. Maria la Scala: questi banchi formarono il primo basamento periferico del vulcano.
I prodotti delle eruzioni vulcaniche si sono accumulati, sia sul fondo del mare, sia sulle colline terziarie adiacenti, sia al di sopra delle formazioni argillose e alluvionali che andavano depositandosi contemporaneamente, principalmente nel versante orientale, e che si andavano sollevando. I movimenti bradisismici di emersione, in parte anche storici, constatati nell'Isola dei Ciclopi e nelle colline di Aci Trezza, e l'età recentissima delle argille, spintesi a oltre 700 m. s. m. a S. Maria la Vena, dimostrano che ad aumentare l'altezza dell'Etna ha contribuito largamente il lento sollevamento bradisismico.
La base dell'Etna ha un perimetro sinuoso, quasi ovale, che si estende per oltre 150 km., ed è abbastanza ben delimitata dal Mare Ionio e dai corsi dei fiumi Alcantara e Simeto. Il pendio nella parte bassa è abbastanza dolce, interrotto da gradini e terrazzi di origine tettonico-sismica, poi si accentua fin verso i 1000 m., e maggiormente ancora dai 1500 m. in su, fin che si giunge all'altipiano detto del cratere ellittico.
La regolarità del pendio è interrotta non solo dalla Valle del Bove e da gradini e terrazzi, ma specialmente dalle centinaia di coni secondarî, di svariate dimensioni (fino a 300 e più metri sulla loro base), sorti per accumulamento dei prodotti frammentarî sulle squarciature eruttive.
Sono stati contati ben 262 distinti sistemi eruttivi, non obliterati dai prodotti di successive eruzioni; la densità di distribuzione è varia, massima nel settore meridionale. Ciascun sistema eruttivo raramente ha formato uno o pochi monti isolati; il più delle volte risulta da numerosi coni allineati su una o più squarciature del suolo. Il numero di tali sistemi va crescendo con l'altitudine e presenta il massimo a quota 1000 nel settore S. e a quota 2400 nel settore N., il che è stato messo in relazione sia con la maggiore resistenza delle colline terziarie cingenti il golfo preetneo, sia con l'esistenza di un vecchio edifizio vulcanico, una specie di Monte Somma sotterrato, anteriore all'attuale centro eruttivo.
La regione dell'Etna, celebre per la serenità e la limpidezza del cielo, ha un clima dolce, nelle basse pendici litoranee, con inverni miti, e con i calori estivi rinfrescati dalle brezze di mare. Le precipitazioni, scarse nel semestre estivo, predominanti nel semestre invernale sono di regola fra 600 e 700 mm. Con il crescere dell'altitudine, cessa l'influenza delle brezze marine, la temperatura diminuisce e aumenta la piovosità, cosicché oltre gli 800 m. ci si trova in una zona temperata, e dai 1800 m. in su si passa a un clima crudo, eccessivo, con estati relativamente calde per l'infocarsi superficiale dei neri lapilli inariditi, con freddi intensi in inverno, e con abbondanti precipitazioni di neve. La neve però non persiste durante i mesi estivi se non è protetta da uno straterello di sabbie e lapilli, che le bufere vi possono trasportare sopra. Allora, in estate, nei canaloni, il lapillo inumidito dalla neve sottostante spicca per il suo colore scuro, sul fondo grigio di quello circostante, asciutto: e da ciò è derivato il nome di tacche "macchie" agli accumuli di neve. Non di rado le infocate lave fluite sopra un banco di neve, così coperto di materiali coibenti, non sono riuscite a struggerla. Ed è così che l'uomo, imitando la natura, protegge la neve ricoprendola, per utilizzarla nella stagione estiva e provvederne i paesi etnei.
L'Etna, nelle parti elevate, è poverissimo di acque, e la sua idrografia presenta interessanti analogie con quella dell'assetato Carso, sebbene qui manchi la solubilità della roccia. Le correnti di lava sono intersecate da innumerevoli fessure di contrazione; i conglomerati, le scorie, i lapilli, formano banchi permeabilissimi, e pertanto le precipitazioni si disperdono subito e si sprofondano nel terreno. Dal fronte delle tacche di neve fluisce un abbondante rigagnolo, che perde subito di portata, e a qualche decina di metri è già scomparso, assorbito nel sottosuolo. Pertanto, nelle alte pendici dell'Etna mancano le sorgenti e si trova acqua solamente ove affiora qualche strato di tufo finissimo, poco permeabile. Ma in profondità, ove, sotto i materiali vulcanici, esistono i terreni argillosi, l'acqua non può scendere, imbeve le rocce soprastanti e vi forma strati acquiferi ricchissimi. E così le enormi quantità di acque di cui la montagna s'imbeve nel periodo piovoso e con la fusione delle masse di neve vengono smaltite o convogliate sotterraneamente ad arricchire il Simeto e l'Alcantara, e a formare tre celebri fiumi sepolti sotto le lave, l'Amenano, il Fiume Freddo, e il mitico ruscello in cui venne trasformato il pastorello Aci, schiacciato sotto i massi lanciatigli dal geloso ciclope Polifemo.
Sull'Etna sono frequenti le grotte e qualche abisso. Le più grandiose sono dovute al deflusso delle liquide lave attraverso le bocche effusive, cosicché nelle parti superiori dei crepacci eruttivi rimangono lunghe gallerie interrotte per franamenti, talora comunicanti con la superficie per profondi spiragli (abissi), sfogo delle emissioni gassose. Altre si formano nelle correnti di lava, allorché la superficie si è abbastanza consolidata e la massa fluida sottostante ha potuto aprirsi un varco e defluire. Talora nei banchi di lava di molto spessore si osservano piccole grotte che sono vere bolle di espansione dei gas e vapori, mentre le cosiddette intumescenze laviche sono piccole cupole spaccate per contrazione, ma non cave internamente (Monte Cardillo, Monte Po).
Le tre classiche zone di vegetazione dell'Etna, descritte da Strabone, oggi conviene distinguerle in quattro: 1. zona a vegetazione subtropicale; z. zona temperata; 3. zona dei boschi; 4. zona deserta. Nelle parti inferiori e meglio riparate della prima, vegetano rigogliose, all'aperto, banane, anone e altre piante subtropicali, che di raro son danneggiate da qualche ondata di freddo eccezionale; vi si è sviluppata l'industria degli ortaggi primaticci. Più su, fino a 500 m. o poco più, si spingono i granati, i fichi, le opunzie, ma la cultura più importante della prima zona è quella degli agrumi, nella quale la Sicilia, per la qualità delle arance e per i limoni, non ha rivali nel mondo. Nella seconda zona, che va fino a circa 1300 m., predominano i vigneti insieme a molti alberi fruttiferi, mentre magnifici giardini di noccioli, meli, peri e pistacchi costituiscono le coltivazioni più importanti nelle parti elevate di essa. Queste due ricche zone formano attorno all'Etna un'ampia fascia di varia larghezza, nella quale si addensa l'industre popolazione, che con paziente, tenace lavoro di scasso e con costruzioni di muri e terrazzi, e captando le preziose acque sotterranee, ha saputo rendere produttive estese superficie di lave aspre e brulle. Il limite superiore della terza zona (dei boschi) è circa a quota 2100, con scarsissima popolazione che vi risiede solo in estate. Delle impenetrabili foreste, decantate dagli antichi, poi in gran parte distrutte dall'uomo e dalle eruzioni, esistono pochi avanzi. Nella parte meno alta predominano boschi di querce e faggi, seguono pinete, molto belle nel versante N., poi boschi di betulle, e infine poveri e rachitici ginepri. I castagneti, non rari anche nella seconda zona, si spingono fino a quasi 1800 m.: sono assai famosi il castagno dei cento cavalli, il castagno della Nave e altri colossali, tutti vicino a S. Alfio la Bara. La vegetazione erbacea, ostacolata dai venti e dalla mobilità delle arene vulcaniche, si addensa sopra i curiosi cumuli formati dall'Astragalus aetnensis. Qua e là si coltiva la segala e qualche po' di granturco. Nella parte bassa, qualche raro tentativo di coltivazioni ortive ha dato risultati molto promettenti. La quarta zona, detta deserta, ha vegetazione scarsa e stentata, ostacolata dalla brevità del periodo estivo, dalla grande permeabilità del terreno. Quivi, oltre l'astragalo e il tanaceto, esistono solamente tre fanerogame particolari dell'Etna (Anthemis aetnensis, Robertia taraxacoides e Senecio aetnensis), che rifugiandosi a ridosso dei naturali ripari si spingono fino a 3000 m.
Nelle zone inferiori, percorse dalla ferrovia circumetnea, v'è una rete di strade rotabili abbastanza sviluppata. Nella zona boschiva non vi sono che mulattiere e sentieri. Tale deficienza di vie di comunicazione non permette la razionale utilizzazione dei boschi, ostacola l'industria della neve e la coltivazione del fertile terreno, e lo sviluppo di villeggiature estive.
La superficie delle lave etnee è generalmente scoriacea, a blocchi (aa), raramente a corde (pahoehoe). Frequenti sono le lave a lastroni, formate dalla crosta superficiale di consolidazione, di piccolo spessore, spezzatasi in lastre, che il movimento della lava fluida sottostante ha trascinato, accatastato, e raddrizzato fantasticamente. La sezione tipica di una comune corrente di lava etnea presenta in basso, sul terreno preesistente arrossato e bruciacchiato, uno strato di scorie e lapilli (detto la rifusa), indi la potente massa di lava compatta, che per contrazione si scinde in prismi irregolari e superiormente un secondo strato di scorie e blocchi. Talora la corrente non presenta che poche e sparse porzioni di lava compatta, e tutta la massa risulta costituita di blocchi, di detriti, lapilli e sabbie. Talora il materiale minuto e polverulento, giallastro per alterazione, è così abbondante, che la corrente di lava sembra addirittura un banco di tufo. In alcune antiche lave, la massa compatta si è divisa in sottili lastre, sonore, e assume un aspetto scistoso (S. Maria la Vena, Ripe).
Le lave moderne dell'Etna devono ascriversi alla famiglia dei basalti plagioclasici a olivina; nonostante la spiccata uniformità petrografica, si può notare la tendenza a deviazioni verso altri tipi. Fra le antiche, sono frequenti quelle che si riconnettono alle andesiti augitiche, e anche fra le moderne talvolta sembra affermarsi uno spiccato carattere di alcalinità, per abbondanza di sodio, che giustifica il loro avvicinamento alla famiglia dei basalti alcalini. Esse sono costituite dai seguenti elementi: plagioclasî (fra i termini andesitici e bytownitici), pirosseno augitico, olivina e magnetite. Fra gli accessorî è notevole l'apatite; non rara è l'orniblenda sodifera e titanifera, in alcune lave antiche. La quantità di vetro è molto variabile da lava a lava e anche nelle diverse parti di una stessa colata.
Delle seguenti analisi, la prima dimostra il carattere basaltico che predomina nelle lave recenti dell'Etna, generalmente simili a quelle del 1928; la seconda, per l'alto tenore di Al2O3, di Na2O, di K2O, nonché della silice, indica il carattere andesitico e alcalino del magma medio dell'Etna, per cui le lave etnee furono chiamate trachidoleriti dal Rosenbusch, e passanti da trachiandesiti a trachibasalti dal Lassaulx.
Fra i tufi, sono molto interessanti quelli palagonitici ricchi di belle zeoliti (Acicastello) e quelli con fossili vegetali (rupe di S. Maria la Scala). La ricchezza nelle lave etnee di P2O3, di K2O, nonché di azoturi (riscontrati dal Grassi) dà ragione della grande fertilità del terreno che deriva dal disfacimento di esse.
Le lave compatte, ferrigne, resistono per secoli alla degradazione meteorica, e rendono difficile e costosa l'opera dell'uomo per renderle coltivabili. Invece le frammentarie, a blocchi, con molto materiale minuto, o coperte di uno spesso mantello di scorie e ceneri, si coprono rapidamente di vegetazione. Vi si comincia a coltivare la ginestra, e, ove il clima lo comporta, il fico d'India, piante preziose che insinuano le radici nelle sottili fessure, allargandole, e accelerano il disfacimento della lava, preparandola in breve tempo a coltivazioni più redditizie.
Le lave dell'Etna, ottimo materiale per costruzioni edilizie e portuali e per pavimentazioni stradali, sí adoperano largamente, non solo nella Sicilia orientale, ma anche in parecchie città marittime del Mediterraneo. Lucidate o no, si adoperano, insieme a marmi e diaspri, nei monumenti, o per portali e fregi architettonici. Particolarmente pregiata è la lava di Monte Stornello, per la facilità di lavorazione, nonché quella del 1381, per la sua resistenza agli acidi, che ha permesso di sostituirla alla lava di Volvic per la costruzione di torri di Glower.
Gli antichi conoscevano già la natura vulcanica dell'Etna, che fu indicata come fucina di Vulcano e dei Ciclopi, o come la colonna del cielo, sotto cui giaceva il gigante Encelado o Tifone, che, dibattendosi, faceva tremare il suolo. Le grandi descrizioni esiodee, che muovono forse dal ricordo di eruzioni etnee, erano state precedute dai semplici accenni che, degli stessi fenomeni, si hanno nei poemi omerici. Pindaro ed Eschilo descrivono in modo meraviglioso l'eruzione del 475 a. C. Si attribuisce a un'eruzione dell'Etna l'emigrazione dei Sicani dalle regioni orientali verso quelle occidentali dell'isola. Le eruzioni ricordate nei testi sono circa 90, numero inferiore a quelle che si suppongono realmente avvenute, se si considera che soltanto nel sec. XIX si contarono 18 eruzioni escluse le intracrateriche.
La più celebre è l'eruzione del 1669. Preceduta da tre giorni di terremoti, l'11 marzo si aprì uno squarcio, che da Nicolosi si estendeva fin quasi al cratere centrale. Nella parte inferiore si formò il teatro eruttivo, con numerose bocche esplosive, i cui materiali costruirono diverse colline, fra cui giganteggiano i Monti Rossi. A pie' di essi, dalle bocche effusive, venne fuori un immenso torrente di lava fluida che, distruggendo campi e villaggi, raggiunse Catania, ne seppellì una parte e si avanzò nel mare.
Nel sec. XIX si contano 18 eruzioni, fra cui quella del 1842, verso Bronte, la cui lava, raggiunto un terreno molto umido, vi esplose con violenza uccidendo molti curiosi; quella terribile del 1852, che minacciò Zafferana e formò i Monti Centenari e la celebre cascata di lava al Salto della Giumenta; l'altra del 1865, il cui primo trabocco lavico, investendo i pini a pie' di M. Frumento, li rivestì di un astuccio lapideo senza bruciarli: parecchi, continuando a crescere, spezzarono l'involucro ed erano ancora vegeti e belli nel 1887. Notevole anche l'eruzione del 1879, che s'iniziò contemporaneamente sui versanti S. e N. dell'Etna, lungo una squarciatura diametrale, dando due correnti, e finalmente le tre del 1883, 1886 e 1892 che si succedettero in posti gradatamente più alti, lungo una grande frattura apertasi nel fianco S. del vulcano da quota 1050 al cono terminale e oltre. Al più grandioso dei crateri avventizî del 1886 fu dato il nome di M. Gemmellaro; la sua lava si arrestò così vicina all'abitato di Nicolosi, che le autorità avevano già fatto sgomberare il paese. Quella del 1892 irruppe più in alto, e formò parecchi crateri, detti M. Silvestri: essa è celebre per le sistematiche, rigorose misure di temperatura del Bartoli, rimaste classiche. Una grande esplosione centrale chiuse nel luglio 1899 la serie di manifestazioni eruttive del secolo scorso.
La prima eruzione di questo secolo avvenne improvvisamente il 29 aprile 1908: da un profondo crepaccio apertosi a E., presso le Rocche di Giannicola, la lava zampillò fuori, e defluì in doppia cascata, giù nella Valle del Bove. La seconda scoppiò il 23 marzo 1910, a S. sopra una frattura di suolo che da quota 1900 si estendeva fino al cratere centrale: si formarono diversi crateri, i Monti Riccò, e da essi fluì un'impetuosa corrente di lava che, seppellendo boschi e campi, si avanzava minacciosa verso l'abitato di Belpasso. Il 27 maggio 1911, alla base NE. del gran cratere principale, si aprì un'ampia voragine di sprofondamento, che poscia andò ingrandendosi per franamenti; e cominciò ben presto a dare fenomeni eruttivi quasi uguali a quelli del cratere principale, ma in seguito assunse un'attività propria, anche stromboliana ed effusiva. Nelle prime ore del 9 settembre 1911 ebbe luogo la terza eruzione laterale. Numerose scosse sismiche nel versante settentrionale diedero origine a una frattura di suolo ampia, profonda e talora duplice, a partire dalla voragine di NE., per 8 km., verso N., fino a M. Nero, a O. e a E. del quale si formarono due apparati eruttivi, da cui erompevano furiose due correnti, che confluendo formarono una unica grandiosa colata, la quale raggiunse ben presto i terreni coltivati, coprì la linea ferroviaria e le strade rotabili e procedeva minacciosa verso il fiume Alcantara. Il 24 giugno del 1917 dalla voragine di NE. venne lanciato un grandioso getto di fluidissima lava, a un'altezza di quasi mille metri, la quale ricadendo attorno formò una pseudo-colata di lava, mentre le scoriette leggiere, trascinate dal vento, raggiunsero il mare, sul quale rimasero in gran parte galleggianti. La voragine di NE. fu ricolma, ma ben presto si riaprì per dare sfogo a correnti di lava intracrateriche, e poi di nuovo a esplosioni stromboliane, e in seguito a nuove correnti, che nella primavera del 1918 fluirono abbondanti nel versante NE. del monte. Nell'autunno dello stesso anno si aprì una nuova squarciatura nel fianco NO. del cratere centrale, e su di essa si formarono due apparati eruttivi, uno al piede del cono principale e ne traboccò una corrente lunga un paio di chilometri, l'altro oltre M. Lucia, costituito da conetti di scorie e da una piccola colata di lava.
Saltuariamente dall'autunno del 1919 al maggio 1923, la lava riapparve ora al cratere centrale, ora alla voragine di NE. ora in entrambi, costruendo con le esplosioni stromboliane, un conetto nel fianco interno del cratere centrale nel settore NE., e un altro nella voragine di NE. Nella notte del 2 al 3 maggio 1923, senza alcuna scossa di terremoto, dalla voragine di NE. cominciò a defluire la lava, che formò dapprima due correnti, una verso N., l'altra verso NE., e poi altri bracci e diramazioni e nuove correntelle, nel versante orientale. Nella notte dal 16 al 17 giugno cominciò una serie di scosse sismiche, e, accompagnata da forti boati, si aprì un'immensa fenditura, in parte coincidente con quella dell'eruzione del 1911. Tra le quote 2500 e 2000, per un tratto di circa 3 km., ebbero luogo i primi trabocchi di lava; ma in seguito la bocca effusiva si mantenne sul fianco N. del M. Ponte di Ferro. Il tratto più alto della fenditura fu sede d'intensi fenomeni esplosivi; ivi, a E. dei Monti Umberto e Margherita, si formarono grandi crateri ai quali fu dato il nome di Vittorio Emanuele III, mentre quelli dell'altra serie, sul flanco N. del M. Ponte di Ferro, più prossimi alla bocca effusiva, furono chiamati Monti Mussolini. Il furioso torrente di lava attraversò la pineta di Castiglione e in poche ore raggiunse il Piano di Pallamelata, tagliò la ferrovia circumetnea e la rotabile e si fermò a pie' del M. Santo, dopo aver distrutto la stazione di Castiglione, le case di Cerro e parte del villaggio Catena. Un fenomeno eccezionale fu la comparsa di una specie di fontana ardente sulla lava in via di raffreddamento, nella parte bassa della corrente, a pochi metri dalla rotabile aperta sulla nuova lava. In un tratto di poco più di 10 metri quadrati per quasi due anni la lava, costellata di numerose fiammelle di gas combustibili, si mantenne infocata e incandescente.
Il 2 novembre del 1928, verso le ore 18, ebbero luogo getti e trabocchi di lava, di breve durata, da una fenditura apertasi nell'alta valle del Leone. Alle 3 del mattino successivo, dal versante esterno della Serra delle Concazze profondamente squarciato, cominciò a defluire una copiosa corrente di lava, che oltrepassata la zona boschiva, si fermò durante la notte. Ma la squarciatura si era andata prolungando in basso, verso levante, fino alle Ripe della Naca, ove, alle 21 del giorno 4, si rinnovò impetuoso l'efflusso, la lava formò imponenti cascate, s'incanalò nel torrente Pietrafucile, tagliò la ferrovia circumetnea e la sera del 6 raggiunse Mascali, che il giorno 7 fu quasi completamente sepolta, avanzò ancora, invadendo la strada nazionale e la ferrovia dello stato, raggiunse Carrabba e si arrestò il giorno 16, pur continuando fino al 20 deboli fenomeni stromboliani alle nuove bocche della Naca.
L'apparato eruttivo terminale ritornò tosto in fase solfatariana, interrotta da qualche saltuaria esplosione (purtroppo in quella del 2 agosto 1929 vi furono due vittime umane, le sole prodotte da esplosioni etnee) e in tale stato si mantiene tuttora. Nell'interno del profondo e ripidissimo cratere centrale vi è un'ampia terrazza qua e là fumante, e presso il centro di essa si sprofonda la voragine principale, quasi inattiva. Il conetto addossato alla parete interna di NE. e la voragine esterna di NE., formatesi nel 1911, sono in attività solfatarica molto più intensa. L'intervallo medio fra due eruzioni laterali successive (a partire dal 1755) è di 5-6 anni, ma fra le eruzioni intracrateriche e subterminali è solo di un anno.
L'Etna è il vulcano che conta il più gran numero di colate laviche di data certa, ed è quello che meglio si presta per lo studio delle variazioni magnetiche dei tempi passati, rimaste, per così dire, pietrificate nella lava, che, come è noto, assume il magnetismo dell'epoca in cui avviene il suo raffreddamento. L'Etna con il suo continuo pennacchio di fumo, che serve anche a farci conoscere la direzione e l'umidità dei venti superiori, con la varietà e l'imponenza delle sue fasi eruttive, con i fenomeni vulcanici secondarî delle sue pendici (salinelle di Paternò, fontane ardenti di S. Gregorio e Bronte, mofete, sorgenti minerali svariate), con i suoi sismi e bradisismi è un centro di studî geofisici di primissimo ordine.
V. tavv. LXXV-LXXVIII.
Per le città che ebbero il nome di Etna v. inessa; catania.
Bibl.: F. v. Waltershausen Sartorius e A. v. Lasaulx, Der Aetna, Lipsia 1880; G. De Lorenzo, L'Etna, Bergamo 1907; O. Silvestri, Un viaggio all'Etna, Torino 1879. Numerosi e importanti studî sulle eruzioni, sulle lave, ecc., in Atti dell'Accademia Gioenia di scienze naturali, Catania, 1825 segg.