Etnopsichiatria
Il termine 'etnopsichiatria', o psichiatria transculturale, designa un'area disciplinare in cui convergono gli interessi di alcuni antropologi, epidemiologi e psichiatri clinici. L'elemento unificante di questo nuovo campo d'indagine è la convinzione che la cultura influenzi profondamente i problemi psichiatrici, e che il provincialismo della psichiatria occidentale abbia sinora impedito a chi lavora nel settore di avere una chiara consapevolezza di questo fatto. Alcuni dei problemi affrontati dall'etnopsichiatria sono i seguenti: in che modo i fattori culturali sono connessi alle cause e al decorso delle malattie mentali? I disturbi psichici diffusi nel mondo occidentale sono presenti anche nelle altre società e viceversa? Quale efficacia hanno i metodi di cura dei disordini mentali praticati dalle altre società, ed è possibile trasferire le pratiche terapeutiche da una cultura all'altra? Le sporadiche informazioni provenienti da viaggiatori e medici nelle società coloniali non alfabetizzate avevano sollevato già nel secolo scorso problemi di questo tipo, ma solo nel secondo dopoguerra vennero riconosciute le potenzialità di una ricerca transculturale.
Lo studio delle malattie mentali nelle società occidentali si è dimostrato estremamente difficile, ma nei paesi del Terzo Mondo le difficoltà metodologiche sono ancora maggiori date le differenze di ordine linguistico, concettuale e comportamentale, e la mutevolezza delle stesse nostre definizioni e interpretazioni. Anche le differenze di formazione tra gli psichiatri dei vari paesi occidentali rendono difficile una comparazione tra i risultati delle ricerche; tuttavia, nonostante gli ostacoli concettuali e metodologici, è possibile trarre alcune conclusioni in via provvisoria.
I primi osservatori rilevarono che le malattie mentali erano rare o del tutto assenti nelle società più semplici, e si riteneva comunemente che ciò fosse dovuto al fatto che tali società erano immuni dagli stress della civiltà moderna (v. Torrey, 1980). Tali conclusioni però si basavano sulle impressioni di alcuni viaggiatori o su studi condotti negli ospedali che non tenevano conto della reale incidenza dei disturbi mentali nella popolazione. Studi più recenti, frutto per lo più di ricerche sul campo, hanno portato a conclusioni diverse ma pur sempre controvertibili. Un nuovo dogma della psichiatria, ad esempio, è che le forme principali di schizofrenia e di depressione sono diffuse in tutto il mondo in proporzioni pressoché eguali, e che le cause fondamentali di tali fenomeni sono di ordine biologico.
Secondo la tesi comunemente accettata dagli psichiatri, basata su alcuni studi condotti in Inghilterra e negli Stati Uniti, il rischio che si manifesti una sindrome schizofrenica nell'arco della vita riguarda l'1% della popolazione: indipendentemente dal contesto culturale, quindi, una persona su cento sarà colpita a un certo punto dalla malattia (v. Zubin, 1987, p. 114). Tale opinione però è priva di un solido fondamento, soprattutto se si considera che gli studi che misurano il rischio nell'arco della vita sono piuttosto scarsi e che per il Terzo Mondo mancano studi equivalenti a quelli condotti nei paesi occidentali. Per una serie di difficoltà metodologiche, la maggior parte degli studi epidemiologici (per esempio i tentativi di accertare tassi di malattia mentale che possono essere posti in relazione con caratteristiche quali la classe sociale, l'etnia o il sesso) cerca di definire i tassi di 'diffusione nel periodo', ossia il numero di casi che si verificano in un determinato periodo di tempo in una data popolazione. Più rari sono i tentativi di calcolare la 'diffusione in un dato momento' e in particolare l''ncidenza' (il verificarsi di nuovi casi in un dato periodo). Gli studi statistici sono stati ostacolati da difficoltà metodologiche relative all'individuazione e alla valutazione dei casi, che variano a seconda che si usino definizioni più ampie o più ristrette, dalla difficoltà di tradurre espressioni standardizzate in linguaggi diversi, nonché dai problemi concernenti l'attendibilità dei dati, il campionamento e i pregiudizi che influenzano le reazioni. La disparità di risultati tra questi studi rende pertanto piuttosto azzardata ogni comparazione transculturale (v. Kennedy, 1973; v. Murphy, 1982). Nei paesi in via di sviluppo, dove spesso mancano i laboratori medici, le analisi sono rese particolarmente difficili dalla necessità di distinguere accuratamente le situazioni psicotiche causate da malattie fisiche - ad esempio encefalite, epilessia, sindromi cerebrali, scompensi ormonali, ecc. - dalle 'psicosi funzionali' (v. Jilek e Aal-Jilek, 1970; v. Kennedy, 1973). Per di più, i nuovi criteri diagnostici, che impongono di tener conto di fattori quali la durata dei sintomi, rendono alquanto problematiche le diagnosi immediate. Anche i cinque nuovi studi della Epidemiological Catchment Area (ECA) negli Stati Uniti, che peraltro hanno risolto molti problemi di attendibilità attraverso modelli strutturati operazionalizzati, restano dubbi per quanto riguarda la loro validità.
Pertanto, il problema se la schizofrenia sia o no universale e uniformemente distribuita non è stato ancora chiarito in modo soddisfacente. Nel 1974 l'Organizzazione Mondiale della sanità (OMS) varò un programma di ricerca, l'International Pilot Study of Schizophrenia (IPSS) in sei paesi industrializzati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica, Cecoslovacchia, Danimarca, Taiwan) e in tre paesi in via di sviluppo (Colombia, India e Nigeria). Sulla base di criteri rigorosi e metodi di intervista sistematici, venne individuato in ogni paese un gruppo di pazienti che presentavano sintomi corrispondenti a quelli di una sindrome schizofrenica nucleare. Questo risultato è stato considerato generalmente una conferma della tesi assai diffusa secondo la quale la schizofrenia è universale. Altri studi - ad esempio quello di Hafner (v., 1987, p. 48) - basati su ricerche condotte in Europa e in America, sono giunti anch'essi alla conclusione che l'incidenza della schizofrenia è stabile in tutte le culture e varia dallo 0,01 allo 0,07%. Un altro programma di ricerca dell'OMS - Determinants of Outcome Study - istituito come prosecuzione dell'IPSS, indica un tasso di incidenza annuale che va dallo 0,07% di Arhaus, in Danimarca, allo 0,14% di Nottingham (v. Sartorius e altri, 1987). Tuttavia, nonostante questi risultati, è ancora prematuro trarre conclusioni circa l'universalità e l'uniformità di distribuzione della schizofrenia per i seguenti motivi:
1. Gli studiosi che hanno esaminato i dati con maggior attenzione hanno concluso che, anche dopo aver chiarito i problemi metodologici, continuano comunque a sussistere differenze reali nella diffusione della schizofrenia in diverse culture (v. Torrey, 1980; v. Warner, 1985; v. Murphy, 1982). Studi epidemiologici estremamente rigorosi, ad esempio, indicano tassi di diffusione nel periodo assai differenziati che vanno dallo 0,09% tra gli aborigeni di Taiwan e dallo 0,11% tra le comunità anabattiste degli utteriti del Nordamerica, allo 0,71% di alcune contee irlandesi (v. Torrey, 1980, p. 131) e allo 0,95% della Svezia settentrionale (ibid, p. 112); come si vede, si ha una variazione di un ordine di grandezza.
2. È possibile che molti dei casi psichiatrici classificati come sindromi schizofreniche nel Terzo Mondo non siano effettivamente tali. In queste società gran parte degli episodi psicotici tendono a una remissione totale, mentre si registrano poche psicosi croniche. Probabilmente molti di questi casi sono solo psicosi 'reattive', 'schizofreniformi' o 'atipiche'. Nei paesi del Terzo Mondo sono stati effettuati pochi controlli neurofisiologici, e molte sindromi diagnosticate come schizofrenia possono essere sindromi cerebrali, oppure conseguenze di malattie fisiche o di carenze alimentari (v. Jilek e Aal-Jilek, 1970).
3. La maggior parte delle società di cacciatori e raccoglitori e delle società di pastori non sono mai state accuratamente studiate. Perciò si ignora semplicemente se in esse esista o meno la schizofrenia quale la conosciamo.
4. Sebbene sia provato che la predisposizione alla schizofrenia abbia una debole componente genetica, tuttavia è alquanto improbabile che un gene della schizofrenia sia distribuito uniformemente in tutte le popolazioni. Se ciò fosse vero, "la schizofrenia rientrerebbe in una categoria a sé stante, e costituirebbe un'eccezione unica tra le malattie del genere umano" (v. Zubin, 1987, p. 116). Un'ipotesi più plausibile è che in alcune popolazioni questi geni siano stati eliminati da processi di selezione naturale.
Le reazioni psicotiche acute a uno stress intollerabile possono essere un fenomeno universale, ma la schizofrenia cronica in senso stretto ha probabilmente una diffusione più limitata. Alcuni studi recenti indicano che potrebbe trattarsi di una malattia relativamente nuova nel mondo occidentale, comparsa solo verso il 1800 (v. Torrey, 1980). Questa ipotesi è rafforzata da alcuni studi neurologici che propongono di dividere la schizofrenia in almeno due tipi di sindrome: una caratterizzata da sintomi 'positivi' quali allucinazioni, fissazioni e disordine del pensiero, l'altra da sintomi 'negativi' - ottusità emotiva, mutacismo, perdita di impulso. La sindrome di tipo positivo sembra reagire ai farmaci neurolettici e ha un esito migliore; quella di tipo negativo, invece, reagisce scarsamente ai farmaci e tende ad avere un esito peggiore (v. Crow, 1985). Questo convalida la vecchia tesi secondo la quale vi sarebbero diverse 'schizofrenie' e inoltre non contrasta con i dati che dimostrano la presenza di 'psicosi' nella maggior parte delle società a noi note (v., ad esempio, Murphy, 1982). Tuttavia le opinioni largamente condivise relative all'eguale distribuzione della 'schizofrenia' e alla sua universalità restano discutibili. Perciò, "nonostante quasi un secolo di ricerche [...] gli interrogativi sui tassi di ricorrenza di sindromi schizofreniche in popolazioni di diverse aree geografiche nonché nei vari gruppi d'età e nei due sessi all'interno di tali popolazioni, non hanno ancora avuto una risposta soddisfacente" (v. Sartorius e altri, 1987).
Uno dei problemi che incontra lo studio transculturale della psicosi è dato dal fatto che in contesti diversi la malattia si manifesta con alcune caratteristiche differenti. In genere, si ritiene che esista un nucleo di caratteristiche invarianti, che talvolta sono oscurate da altre caratteristiche superficiali, 'patoplastiche' o legate a una cultura specifica. Da un'analisi comparata di due campioni condotta da Opler (v., 1959), ad esempio, risultava che gli schizofrenici italiani avevano un comportamento chiassoso e aggressivo rispetto ai pazienti irlandesi, che erano invece passivi e introversi. Queste differenze sono da mettere in rapporto con i modelli culturali dei gruppi esaminati e non ineriscono alla sostanza del processo patologico. Tuttavia non è stato ancora dimostrato se i cosiddetti elementi 'patoplastici' influiscano o meno sull'incidenza e sul decorso della schizofrenia.
L'International Pilot Study of Schizofrenia (IPSS) condotto in nove paesi ha dato il sorprendente risultato che il decorso dei casi diagnosticati di schizofrenia è più favorevole nei paesi in via di sviluppo che non in quelli più avanzati (v. Sartorius e altri, 1987). Conclusioni analoghe erano già state tratte in precedenza da altri ricercatori (v., per esempio, Rin e Lin, 1962), ma lo studio su vasta scala dell'Organizzazione Mondiale della Sanità ha fornito una conferma basata su dati rigorosi.
Dai programmi di ricerca sulle emozioni espresse (EE), elaborati per la prima volta in Inghilterra, sono stati sviluppati una serie di studi che si propongono di accertare in che misura tale fenomeno sia da ricondursi a fattori ambientali. Da tali studi è risultato che un'alta frequenza di osservazioni critiche da parte dei membri della famiglia e l'eccessiva ingerenza materna hanno un ruolo importante nelle ricadute schizofreniche. I risultati di una ricerca transculturale condotta in India da Wig e altri (v., 1987) confortano tale ipotesi. Bisognerebbe comunque dedicare un maggior numero di ricerche alle condizioni socioculturali che possono spiegare i migliori esiti della malattia nei paesi non occidentali.
Il termine 'depressione' designa una gamma di stati d'animo disforici che vanno da una blanda tristezza e frustrazione a patologie acute e prolungate caratterizzate da disinteresse per la vita, insonnia, anoressia, incapacità di concentrarsi, pensieri ossessivi di morte, ecc. Non è ancora chiaro se le forme più gravi della depressione - malattia bipolare, malattia monopolare e depressione maggiore - siano universali. Tuttavia si può ipotizzare che la frequenza della depressione maggiore vari a seconda della concezione del sé e dei meccanismi di reazione all'ambiente delle diverse popolazioni. Anche in questo caso, date le differenti definizioni e le difficoltà metodologiche, è difficile una comparazione degli studi epidemiologici, e tuttavia dai loro risultati si possono inferire alcune conclusioni.
Sino agli anni cinquanta si riteneva che i popoli 'primitivi' non fossero afflitti dalle forme di depressione grave che caratterizzano la civiltà moderna. Poiché ricorrevano assai raramente agli ospedali coloniali si pensava ad esempio che gli indigeni africani fossero immuni dalla depressione. Tale opinione venne presto smentita da studi successivi che dimostrarono l'alta incidenza della depressione grave tra alcuni africani (v. Field, 1960). Studi ancora più recenti sembrano indicare che essa potrebbe essere addirittura più diffusa in Africa che nel mondo occidentale (v., ad esempio, Leighton e altri, 1963). Per spiegare tali discrepanze tra il passato e il presente riscontrate anche in altre regioni del mondo sono state formulate varie ipotesi: a) in molte società la depressione non era considerata un problema, e per questo motivo non veniva curata negli ospedali; b) la depressione era 'mascherata' da sintomi somatici; c) la depressione era considerata come una malattia di 'prestigio', appannaggio dei più evoluti Europei. I primitivi, con il loro Super-io 'sottosviluppato', non erano ritenuti all'altezza di tale malattia, che di conseguenza non veniva diagnosticata; d) con l'espandersi dell'urbanizzazione e degli stress che essa comporta aumenta la percentuale di individui che sviluppa sintomi depressivi, e questa sarebbe la ragione della maggiore incidenza della depressione rilevata attualmente (v. Prince, 1968). Ciascuna di queste ipotesi può spiegare in parte le differenze tra i vari dati osservativi, ma di tutte manca ancora una verifica rigorosa.
Non è ancora chiaro in che modo l'incidenza della depressione maggiore vari nelle diverse aree geografiche, ma alcuni elementi fanno ritenere che sussistano effettivamente delle differenze da popolazione a popolazione. Secondo il Diagnostic and statistic manual of mental disorders (DSM - III - R; v. American Psychiatric Association, 1987), che riassume i risultati di una serie di studi condotti sia negli Stati Uniti che in Europa, il tasso di 'diffusione nel periodo' della depressione maggiore varia dal 9% al 26% per le donne, e dal 5% al 12% per gli uomini; la diffusione in un dato momento oscilla invece dal 4,5% al 9,3% per le donne e dal 2,3% al 3,2% per i maschi (ibid, p. 229). Sempre secondo questo testo, la percentuale di adulti che ha sofferto di disordini bipolari varia dallo 0,4% all'1,2%. Analizzando un campione di 25.000 americani Roth e Luton hanno rilevato un indice di morbilità dello 0,07% per le psicosi depressive e dello 0,14% per le nevrosi depressive. Nell'isola norvegese di Samiso, invece, l'indice di morbilità per la psicosi depressiva era dello 0,65%, ossia dieci volte superiore a quello registrato da Roth e Luton negli Stati Uniti (v. Sorenson, 1961). Un'incidenza piuttosto bassa della psicosi depressiva (0,04%) è stata accertata anche a Formosa da Lin.Nella maggior parte degli studi effettuati la diffusione della depressione tra le donne è circa due volte quella registrata tra gli uomini. Alcuni studi condotti in India tuttavia hanno dato un risultato opposto (v. Carstairs e Kapur, 1976). L'incidenza della depressione inoltre è maggiore nelle classi sociali inferiori e nei contesti urbani rispetto a quelli rurali, ed è associata alle rapide trasformazioni delle società industrializzate (v. Robins e altri, 1984; v. Murphy, 1982).
Anche per la depressione, così come per la schizofrenia, si pone il problema dei fattori patoplastici. Tuttavia Sartorius e altri (v., 1987) sottolineano la sostanziale somiglianza dei sintomi depressivi rilevati in cinque aree urbane (Montreal, Teheran, Basilea, Tokyo e Nagasaki). In tutti questi contesti è stato rilevato un nucleo invariante di sintomatologia depressiva consistente in umore triste e abbattuto, angoscia, stati di tensione, mancanza di energie, calo dell'interesse e della concentrazione, senso di inadeguatezza e di inutilità. Sartorius e i suoi colleghi hanno individuato alcune differenze patoplastiche nella frequenza dei sintomi; l'agitazione psicomotoria ad esempio risultava più frequente a Teheran, mentre in Europa avevano una maggiore incidenza il senso di colpa e l'autoaccusazione (il 6,8% di Basilea contro il 3,2% di Teheran). Nonostante ciò i due autori hanno dato più rilievo alla generale uniformità dei sintomi nei diversi paesi.
Altri studi peraltro hanno posto l'accento sulle differenze dei sintomi nella cultura occidentale e in quella non occidentale, sostenendo ad esempio che il senso di colpa e l'autoaccusazione sono piuttosto frequenti in Occidente, ma ricorrono assai raramente nelle altre società (v. Murphy, 1982). Alcuni studi recenti sembrano smentire questa conclusione, dimostrando un'elevata incidenza del senso di colpa in alcuni paesi in via di sviluppo. (v. Field, 1960). Molto probabilmente la contrapposizione tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo è troppo generica, e per spiegare tali differenze occorre tener presente elementi più specifici quali la visione del mondo o il tipo di cultura. Murphy afferma che le religioni autopunitive, come quella giudaico-cristiana, possono determinare una maggiore incidenza del senso di colpa nella sintomatologia depressiva. Il senso di colpa si manifesterebbe con maggior frequenza anche in situazioni in cui l'ego individualistico ha soppiantato l'ego sociocentrico tipico delle società tradizionali. Sembra probabile che, lungi dall'essere un sintomo puramente patoplastico, un acuto senso di colpa possa dar luogo a una forma più grave di disturbo psicotico, sfociando nella maggior parte dei casi nella depressione cronica o nel suicidio.
Una differenza comunemente registrata tra culture non occidentali e culture occidentali è che nelle prime la depressione tende a manifestarsi attraverso sintomi di ordine somatico, nelle seconde attraverso sintomi di ordine cognitivo (v. Kleinman, 1988, p. 41). Casi di depressione somatizzata sono documentati ad esempio per la Cina, dove è assai frequente un'associazione di stati depressivi e di disturbi somatici definita nevrastenia (v. Kleinman e Good, 1985). Come hanno osservato Kleinman e Good, la tendenza a psicologizzare la depressione in stati d'umore disforici è un fenomeno relativamente tardo nella storia occidentale e si riscontra in un numero ristretto di società. Secondo i due autori, inoltre, la depressione somatizzata è ancora molto diffusa in America, il che spiega l'alta percentuale di pazienti che ricorrono a cure mediche. Nell'Occidente la somatizzazione è più frequente nelle classi sociali inferiori e nel sesso femminile. La psicologizzazione tende invece ad aumentare al crescere del livello di acculturazione, di urbanizzazione, di istruzione e di benessere sociale. Tale fenomeno viene spiegato spesso col fatto che chi vive nelle campagne e ha un basso livello di istruzione, in particolare le donne, spesso non dispone di un idioma psicologico mediante il quale dare espressione al proprio malessere.Alcune società non dispongono di termini che esprimano l'equivalente del concetto occidentale di 'depressione'; è il caso ad esempio degli Yoruba nigeriani (v. Leighton e altri, 1963). Tale carenza terminologica non significa peraltro che questi gruppi non siano in grado di esprimere l'esperienza depressiva, o che la depressione non esista, ma sembra indicare che il vocabolario delle emozioni può condizionare il modo in cui queste vengono esperite. Ad esempio, laddove manchino i termini per definirle è probabile che le frustrazioni derivate dai rapporti sociali o da perdite subite siano espresse attraverso sensazioni di dolore, insonnia, anoressia ecc. piuttosto che attraverso verbalizzazioni. 'Cuore' è spesso un termine idiomatico non occidentale per esprimere gli stati depressivi; tremiti ansiosi, dolori o pulsazioni accelerate, nonché emicranie, mal di schiena, dolori al corpo ecc., sono spesso delle dislocazioni somatiche dell'umore disforico.
Se per le principali sindromi psicotiche disponiamo di dati transculturali piuttosto scarsi e poco sistematici, le informazioni epidemiologiche relative alle neurosi e ad altri disturbi della personalità sono ancora più rare. Per i paesi del Terzo Mondo sono praticamente inesistenti gli studi sui disordini della personalità. Scarsissimi sono i dati transculturali sulla fobia o su altri comportamenti di tipo ossessivo-compulsivo. L'unica malattia neurotica sulla quale esistono studi per tutte le aree geografiche è l''isteria', categoria che peraltro non figura più nel DSMIII. I risultati degli scarsi studi sui disturbi d'ansia possono essere esaminati in breve.
In tre degli studi ECA negli Stati Uniti, il tasso di diffusione nell'arco della vita dei disturbi d'ansia (esclusa l'ansia generalizzata) variava dal 10,3% al 13,9%, mentre su un periodo di sei mesi i tassi di diffusione andavano dal 7,6% all'8,1%. Per l'agorafobia l'indice di morbilità oscillava dal 3,7% al 5,7%. Da queste statistiche risulta quindi che i disturbi d'ansia sono tra i disturbi mentali più comuni negli Stati Uniti (v. Wittchen, 1986).
Good e Kleinman, che hanno analizzato i dati transculturali sui disturbi d'ansia, calcolano tassi di diffusione assai più bassi, che vanno dall'1,2% al 2,7% (v. Kleinman, 1988). D'altro canto uno studio condotto su pazienti ospedalizzati di nove paesi diversi ha stabilito che in tutte le culture esaminate il tasso di diffusione in un dato momento per la categoria dell'ansia generalizzata oscilla tra il 10 e il 15%. L'autore di questa indagine citava i dati di altri studi relativi al Kenya e al Transkei per suffragare la sua conclusione secondo la quale i disturbi d'ansia esistono in tutte le culture (v. Reich, 1986). Questi scarni dati, assieme a quelli relativi alle sindromi etniche, confermano provvisoriamente la tesi di Kleinman (v., 1988) secondo cui i disturbi d'ansia sono diffusi in tutto il mondo.
L'idea relativistica secondo la quale esistono particolari disordini mentali che ricorrono soltanto in una determinata cultura risale perlomeno al secolo scorso, allorché in alcune pubblicazioni mediche apparvero le prime notizie di malattie esotiche proprie dei 'primitivi'. Risultava ad esempio che i Malesi erano soggetti al latah, disturbo psichico caratterizzato da coprolalia (uso incontrollato di parole oscene), ecolalia (ripetizione automatica di parole o frasi) ed ecocinesi (obbedienza automatica agli ordini). Un'altra sindrome tipica dei Malesi è l'amok, che porta il soggetto a correre e saltare all'impazzata colpendo tutti coloro che incontra come se fosse vittima di offese intollerabili. Da allora sono stati documentati centinaia di rari disturbi di questo tipo. Citiamo come esempi il koro, una paura morbosa diffusa tra i Cinesi e altri popoli che il pene si ritragga nell'addome, con risultati fatali; il pibloktoq, una forma parossistica di isteria artica tipica degli eschimesi; la 'sindrome della vecchia strega', una paralisi toracica che si verifica subito dopo il risveglio tra gli abitanti del Labrador; il susto, una malattia latino-americana che viene attribuita allo spavento, e infine il windibo, una sorta di panico cannibalico diffuso tra gli Indiani del Canada. La psichiatria medica, tuttavia, saldamente ancorata al suo universalismo, ha trascurato queste malattie esotiche, giudicandole pure e semplici varianti di disturbi mentali noti anche in Occidente. Di recente, comunque, si è compreso che questi casi limite possono gettare una qualche luce sull'interazione tra processi biologici e processi ambientali nella genesi e nella dinamica della malattia mentale (v. Simons e Hughes, 1985). Mancano ancora tuttavia studi approfonditi sui disturbi etnici, che non compaiono né nel DSM-III-R né nel Ninth revision of the International Classification of Diseases (ICD-9).
Non è esatto tuttavia parlare di sindromi specifiche di una singola cultura, perché molti di questi disturbi del comportamento ricorrono in parecchie culture. Il koro ad esempio - la paura della ritrazione del pene - oltre a essere assai diffuso in Cina si presenta irregolarmente distribuito in Malesia e nel Sudest asiatico, e ricorre occasionalmente anche in altre culture, inclusa la nostra.
Un'altra fonte di confusione sta nel fatto che spesso è la popolazione locale a dare un nome alla malattia sulla base di una eziologia arbitraria, ad esempio la possessione da parte degli spiriti o la perdita dell'anima. Anziché designare un'autentica 'sindrome' patologica di sintomi descrittivi coerentemente associati, tali denominazioni spesso coprono una gamma di disturbi distinti (per esempio sono stati classificati come susto condizioni disparate quali depressioni somatizzate, febbri, disturbi intestinali, vertigini, lesioni rettali, ecc.) (v. Rubel e altri, 1984). Anche se in passato molti di questi disturbi sono stati definiti psicosi etniche o psicosi isteriche, a un esame più attento essi si rivelano caratterizzati nella maggior parte dei casi da sintomi nevrotici (angoscia, depressioni reattive e stati nevrotici dissociativi) più che da sintomi psicotici. È il caso dei nervios (nervi) - del Costa Rica, del Guatemala, del New Foundland e delle montagne del Kentucky (v. Guarnaccia e altri, 1989) e delle isterie artiche (v. Foulks, 1985). D'altra parte, le categorie etniche sono spesso sufficientemente ampie da includere sintomi sia psicotici che nevrotici oltreché fisici.
Un esempio delle dinamiche che caratterizzano molte di queste malattie culturalmente strutturate è l'amok malese in cui il soggetto, dopo una fase caratterizzata da furore crescente per un presunto insulto intollerabile, dà in smanie distruggendo e colpendo tutto ciò che incontra fino a che non viene fermato o ucciso. I casi di amok sono stati variamente diagnosticati: come sifilide, epilessia, schizofrenia paranoide, schizofrenia cronica, melancolia involutiva, depressione endogena, psicosi maniaco-depressiva, paranoia, reazioni paranoidi, reazioni d'angoscia, personalità paranoide (v. Schmidt e altri, 1977). Nonostante queste differenti eziologie, si può affermare che i 'corridori' di amok seguono i modelli comportamentali di protesta sociale individuale tipici del guerriero malese tradizionale (v. Murphy, 1982). Come afferma Carr, 'l'amok è una forma di comportamento violento culturalmente prescritta, sancita dalla tradizione come risposta adeguata a un insieme di condizioni socioculturali estremamente specifiche. Non si tratta di una malattia, ma piuttosto di una sequenza comportamentale che può essere scatenata da una varietà di fattori eziologici, di tipo sia fisico che socioculturale' (v. Carr, 1978, p. 273). La tesi di Carr è pienamente condivisibile: molte sindromi etniche sono modelli comportamentali culturalmente sanciti che possono contenere oppure no elementi patologici (ibid, p. 290).
Simons (v. Simons e Hughes, 1985) ha contribuito a migliorare la nostra comprensione di alcuni di questi disturbi etnici conducendo uno studio empirico sul latah nel Sudest asiatico. Egli mostra in che modo un meccanismo psicofisiologico universale venga elaborato e trasformato in ruoli culturali abnormi. In ogni popolazione esistono individui 'iperimpressionabili' particolarmente sensibili a stimolazioni improvvise e inaspettate. In Malesia e tra gli Ainu del Giappone, questi individui vengono sistematicamente provocati dal gruppo, che si diverte alle loro spalle. Uno stimolo violento scatena in tali soggetti reazioni involontarie quali violenti tremiti, coprolalia, movimenti incontrollati. Ulteriormente provocati, essi imitano le mosse di chi li tormenta o rispondono automaticamente agli ordini. In una fase successiva, il latah esegue un regolare repertorio di comportamenti bizzarri in risposta alle provocazioni degli astanti. I latah non sono considerati dei malati mentali; tuttavia essi soffrono nei loro ruoli involontari.
Via via che le malattie etniche e le sindromi circoscritte a una specifica cultura sono divenute più familiari agli studiosi occidentali, è divenuto evidente che anche molte delle nostre malattie psichiche sono limitate alle società occidentali. Una comparazione tra le condizioni culturali associate ai vari tipi di disturbo mentale potrebbe chiarire le componenti culturali di molte di queste malattie, rivelandosi altresì indispensabile in un momento in cui i modelli etnocentrici della medicina occidentale sono stati estesi ben al di là delle loro capacità esplicative. È ormai chiaro, ad esempio, che l'aumento dei casi di anoressia nervosa, malattia assai rara al di fuori del mondo occidentale, è legato all'intensificarsi delle aspettative relative alla bellezza fisica femminile e ai valori a essa attribuiti. L'agorafobia è altrettanto sconosciuta nelle società primitive quanto lo è nel mondo occidentale la fobia del kayak degli eschimesi. Interessanti studi hanno mostrato che le depressioni post partum, comuni nella nostra cultura, non esistono in alcune società africane in cui le donne che hanno figli sono oggetto di grande stima e ricevono un notevole sostegno da parte del loro gruppo durante la gestazione e il parto (v. Harkness, 1987). Altre sindromi circoscritte alla cultura occidentale sono la sindrome premestruale e quella della menopausa, l'ipertensione, i maltrattamenti ai bambini (e i loro effetti sulla personalità, ad esempio la personalità multipla), la pedofilia, il sado-masochismo, la balbuzie, la personalità anti-sociale, il disturbo del comportamento passivo aggressivo e le sindromi 'marginali' ( borderline). Tali malattie sono cristallizzate nelle rubriche che si presumono universali del DSM-III e del ICD-9, nonostante siano del tutto assenti nella maggior parte delle società contadine o tribali. L'assenza di molti disturbi mentali in varie zone del mondo e le significative variazioni nell'incidenza di tutti i disturbi psichici indicano che importanti componenti delle cause e delle dinamiche delle malattie mentali sono di tipo ambientale e possono essere individuate attraverso studi comparativi.
Le descrizioni di rituali di guarigione sciamanici sono abbastanza frequenti nella prima letteratura etnologica, ma solo recentemente le pratiche mediche indigene sono state prese in più seria considerazione dai membri della comunità medica moderna. Il rinnovato interesse nei confronti delle pratiche terapeutiche non occidentali è stato stimolato da una serie di studi i quali dimostrano che sebbene molte delle nostre psicoterapie verbali (talk-therapies) rivelino una certa efficacia per una serie di problemi psicologici, nel lungo periodo danno risultati solo lievemente migliori rispetto a quelli che si hanno quando non viene applicato alcun trattamento. Inoltre, non c'è una particolare psicoterapia o tipo di training occidentale che si sia dimostrato superiore agli altri (v. Williams e Spitzer, 1984). Nonostante i progressi registrati nel campo della ricerca neurochimica, poi, negli ultimi anni non è stato fatto alcun significativo passo avanti per quanto riguarda le terapie farmacologiche. Per quanto i farmaci rappresentino un'utile integrazione del trattamento psichiatrico, nessuno di essi è in grado di eliminare le cause della malattia mentale; molti dati, anzi, dimostrano che alcuni preparati ad azione antipsicotica tendono a cronicizzare determinate condizioni patologiche (v. Warner, 1985). Il rinnovato interesse per le pratiche terapeutiche indigene va ricollegato infine alle sempre più numerose testimonianze sulla loro reale efficacia nel trattamento di certi problemi e all'affermarsi della 'medicina olistica'. Una imponente quantità di dati etnografici attesta un effettivo miglioramento dei pazienti sottoposti ai trattamenti indigeni (v., ad esempio, Kakar, 1982), ma una serie di studi più sistematici danno ora un adeguato supporto scientifico a questi resoconti in larga misura aneddotici (v. Kleinman, 1988).
Molti studiosi ritengono attualmente che i trattamenti psicologici dei disturbi mentali devono gran parte della loro efficacia ad alcune caratteristiche generali proprie di ogni pratica terapeutica, anziché alle caratteristiche specifiche dei singoli trattamenti. Tra questi fattori generali vi sono la capacità di suscitare fiducia e speranza in una remissione della malattia, il rafforzamento dell'autostima del paziente attraverso il sostegno e l'attenzione da parte del gruppo, l'effetto calmante e rassicurante che ha la prescrizione di un piano di azione organizzato nonché l'effetto di suggestione relativo al verificarsi della guarigione. Tutti questi elementi vengono compresi a volte sotto la misteriosa categoria dell''effetto placebo', quel meccanismo ancora poco conosciuto per cui si attivano processi endogeni di auto-guarigione senza l'intervento di farmaci (v. Frank, 1974; v. Kleinman, 1988). Nonostante ciò, molte delle psicoterapie occidentali, fortemente influenzate da modelli medici e psicoanalitici, sembrano non tener conto esplicitamente di questi fattori universali, anche se è evidente che vi devono in qualche modo fare ricorso per determinare dei cambiamenti di tipo psicologico.
Nonostante le similarità e le coincidenze, vi sono alcune caratteristiche che distinguono le psicoterapie non occidentali da quelle occidentali. Tra queste vi è l'importanza assunta dall'attivazione dell'emozione, il ricorso a contesti pubblici anziché privati, e il ricorso all'azione più che al colloquio. Un'altra caratteristica significativa di queste terapie è il fatto che esse coinvolgono la persona nella sua interezza. Il dualismo mente-corpo, caratteristico delle società occidentali, ha dato luogo a una specie di divisione tra chi si occupa del corpo e chi cura la mente, e ciò sembra limitare in molti casi l'efficacia delle nostre terapie.Si potrebbe obiettare che anche le psicoterapie occidentali attribuiscono una certa importanza all'emozione, ma il rilievo dato all'intervento biomedico e alla componente razionale e civilizzata del rapporto privato tra paziente e medico nelle terapie verbali relega in secondo piano i fattori emozionali. Le emozioni attivate nelle terapie occidentali in genere non vanno al di là della soglia emozionale tipica degli stati di coscienza quotidiani.
L'obiettivo delle psicoterapie non occidentali non è quello di produrre modificazioni significative e permanenti della personalità, della concezione del mondo o del sistema dei valori del paziente, bensì semplicemente quello di produrre una remissione dei sintomi ristabilendo il normale funzionamento delle facoltà psichiche. Tali terapie tendono quindi a concentrare la cura in una o due sedute prolungate e drammatiche, mentre il metodo occidentale si basa su una serie di incontri tra medico e paziente di durata limitata e ripetuti nel tempo.
Un'ultima importante differenza riguarda la personalità del terapeuta. Un buon terapeuta secondo i canoni occidentali non esprime valutazioni e stabilisce un rapporto empatico e ricco di calore umano con il paziente; nelle culture non occidentali invece il bravo curatore o sciamano deve suscitare rispetto e addirittura un timore reverenziale per i suoi poteri e il suo sapere, che spesso sono attribuiti alla sua capacità di trattare con i temibili spiriti dell'universo e con il regno dei defunti.
Molte terapie non occidentali mirano a produrre il cambiamento attraverso metodi di persuasione applicati dopo aver attivato le emozioni portandole a livelli di intensità particolarmente elevati (iperattivazione), oppure riducendo l'attivazione al di sotto della soglia normale (ipoattivazione). In questo modo si massimizza l'efficacia di quei fattori universali, non specifici delle terapie (effetto placebo), cui abbiamo accennato in precedenza. Tra le terapie di ipoattivazione figurano varie forme di meditazione, certe terapie del sonno quali l''incubazione' (usanza diffusa nell'antica Grecia di dormire in un santuario allo scopo di ricevere nel sogno rivelazioni divine), e varie tecniche di ipnosi o di autoipnosi. Per quanto importanti, non possiamo soffermarci ulteriormente in questa sede sulle tecniche di ipoattivazione, ma passeremo a esaminare le cerimonie di iperattivazione particolarmente diffuse nel Terzo Mondo.
In queste cerimonie la guarigione del paziente viene ottenuta attraverso un'alterazione degli stati di coscienza cui si accompagna la manipolazione in un contesto drammatico di potenti simboli religiosi. Presso alcuni gruppi di Indiani dell'America meridionale stati di dissociazione possono essere provocati sia nei pazienti che nei guaritori dall'ingestione di potenti droghe vegetali come l'ayhuasca (v. Dobkin de Rios, 1984). Più frequentemente nelle società non occidentali gli stati di dissociazione della coscienza sono prodotti dall'azione del rullo dei tamburi e di altri tipi di musica, associati all'iperventilazione, a interventi sul sistema sensoriale (ad esempio manipolazioni del corpo), alla privazione di acqua e di cibo, all'inalazione di fumi d'incenso e, talvolta, allo shock o al dolore fisico. Tutte queste azioni vengono eseguite in una cerimonia ritualizzata basata su un simbolismo in grado di ispirare un timore reverenziale e sull'azione drammatica di un capo rituale (v. Kennedy, 1973).
Durante queste cerimonie i pazienti subiscono sovente un cambiamento temporaneo della personalità in cui assumono una nuova identità (ritenuta di solito quella di uno spirito) e sono incoraggiati a dar sfogo a impulsi e fantasie di tipo sessuale o aggressivo normalmente vietati. Il processo di guarigione in questo stato di 'trance da possessione' consiste di solito nel far ripercorrere al soggetto iperattivato gli stadi di una sequenza mitica e metaforica in cui egli sperimenta una regressione psicologica, una rinascita e la certezza finale che il male e la malattia sono stati sconfitti. Dopo queste cerimonie prolungate ed estenuanti, che si protraggono anche per parecchi giorni, il paziente esausto può dormire per molte ore e quando si risveglia spesso presenta una remissione dei sintomi.
Attraverso il coinvolgimento fisico associato alla manipolazione di immagini mentali cariche di potenti significati simbolici, questi riti di guarigione producono una catarsi molto più profonda di quella ottenuta da metodi occidentali quali l'ipnoterapia; l'effetto psicologico determinato dalla convinzione di essere entrati in contatto con le temibili forze dell'universo spesso induce il paziente a credere fermamente di essere stato guarito. Le forze generiche della speranza e della fede e l'effetto placebo sono intensificati al massimo, e il potere rigenerante della catarsi tocca il suo apogeo. Questo tipo di terapia risulta particolarmente efficace nel trattamento di disturbi psicosomatici o indotti dallo stress, ma dà buoni risultati anche in molte forme di depressione e isteria, nonché in altre situazioni di blocco psichico.
Un altro aspetto importante di queste cerimonie, così come di altri riti di guarigione meno spettacolari del Terzo Mondo, è rappresentato dalla manipolazione delle relazioni sociali da parte del guaritore. Le tensioni e i contrasti interni alla famiglia e alla comunità vengono affrontati attraverso l'intervento di spiriti potenti o dell'influente guaritore. Ciò consente di ristabilire le relazioni sociali, determinando un allentamento delle tensioni e una remissione dei sintomi (v. Kakar, 1982).
Le conferme sempre più numerose dell'efficacia di queste psicoterapie non occidentali per tutta una gamma di disturbi psichici portano a formulare nuove, stimolanti ipotesi sulla dinamica del processo terapeutico. A livello psicologico, ad esempio, il concetto psicoanalitico di 'regressione al servizio dell'Io' ha contribuito a una migliore comprensione delle proprietà terapeutiche della regressione, mentre una nuova concezione della dinamica terapeutica della catarsi è stata proposta da Scheff (v., 1979). Kleinman, tra gli altri, ha analizzato il modello retorico articolato in tre fasi - definizione del problema, manipolazione del simbolo e determinazione della cura - che costituisce lo schema della persuasione nel processo di guarigione simbolica (v. Kleinman, 1988).
A livello psicofisiologico, Lex (v., 1979), rifacendosi all'opera di Gellhorn (v., 1968), ha analizzato la dinamica terapeutica dei processi di compensazione che 'sintonizzano' le reazioni del sottosistema simpatico e di quello parasimpatico in presenza di stimoli di iperattivazione. Prince e altri (v., 1982) hanno avanzato l'ipotesi che le endorfine, le sostanze chimiche prodotte dal cervello recentemente scoperte, siano significativamente stimolate in tali cerimonie, mentre Rossi (v., 1986) ha corroborato questa idea di una interazione tra mente e corpo presentando una serie di dati e di ipotesi teoriche relative all'influenza del simbolismo e dell'immaginario sul sistema immunitario ed endocrino nonché sui neuropeptidi. Purtroppo, data la difficoltà di condurre esperimenti sul campo, queste stimolanti ipotesi psicofisiologiche restano ancora da verificare. La ricerca in questa direzione promette comunque di far progredire notevolmente la nostra comprensione di tutti i processi terapeutici.
L'etnopsichiatria rappresenta una sfida per le concezioni convenzionali della malattia mentale e per le nozioni terapeutiche dell'Occidente. I risultati degli studi transculturali sulla malattia mentale mettono in discussione molti aspetti fondamentali del modello biomedico attualmente dominante nella psichiatria europea e americana. Lo studio transculturale di altre forme di malattia mentale evidenzia la necessità di condurre studi clinici ed epidemiologici più sofisticati che utilizzino i laboratori naturali offerti dalle altre culture. Ciò può contribuire alla comprensione degli effettivi rapporti e dell'interrelazione tra variabili psicofisiologiche e variabili ambientali nell'eziologia dei disordini mentali. Analogamente, i successi (e gli insuccessi) di molte psicoterapie non occidentali dovrebbero stimolare l'indagine comparativa sulle dinamiche della guarigione simbolica. Già adesso, in Europa e in America, la medicina olistica cerca di utilizzare molte tecniche degli sciamani e di altri guaritori. In ogni caso, uno studio più approfondito delle società in cui sono ancora vive tradizioni terapeutiche alternative consentirebbe una maggiore integrazione tra la conoscenza tecnica dell'Occidente e la sapienza olistica delle altre culture. In un lontano futuro una psichiatria universale e molto più valida potrà forse prendere il posto della moltitudine di psichiatrie localmente circoscritte e di limitata efficacia.
(V. anche Psichiatria).
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