Eugenio Montale
La nudità della parola
La poesia di Eugenio Montale riassume i caratteri essenziali della letteratura del Novecento: «Non possiamo non dirci montaliani» è un’affermazione condivisa da intellettuali e scrittori del suo secolo, che hanno dovuto misurarsi con una concezione del tutto nuova della parola poetica. Compito del poeta è per Montale quello di rappresentare la condizione esistenziale dell’uomo, descrivendo con la parola l’essenza delle cose e racchiudendo in un solo vocabolo il sentimento di un ricordo, di un paesaggio, di una persona
Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896. In un’intervista del 1951, a oltre vent’anni dal suo folgorante esordio, riassumeva la propria poetica in questi termini: «L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio». Era l’affermazione di una sostanziale separazione della poesia dal mondo storico. In contrasto con la diffusa poetica dell’impegno, Montale eliminava dai suoi versi qualsiasi riferimento a situazioni precise e realistiche, prediligendo immagini fuori dal tempo con cui rappresentare l’oscura condizione esistenziale degli uomini (esistenzialismo).
La sua era anche una scelta stilistica; rifiutava i luoghi comuni della poesia solenne e nobile per recuperare una dimensione umana della parola, capace di penetrare il segreto delle cose: in opposizione ai poeti laureati che «si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti» egli sceglieva di percorrere le «viuzze che seguono i ciglioni […] e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni».
Nel primo volume di versi, Ossi di seppia – che il poeta ventinovenne pubblicava nel 1925 –, non ci sono riferimenti alla difficile situazione sociale e politica del dopoguerra ma si susseguono le immagini di un paesaggio brullo, scosceso e ostile all’uomo, nel quale è possibile trovare talvolta qualche oggetto che, se pure anch’esso privo di significato, sembra poter momentaneamente aiutare l’uomo a decifrare l’insensatezza dell’esistenza.
Per esempio, in Portami il girasole, il fiore rappresenta un’ultima esplosione di luce, un sussulto d’entusiasmo che diventa simbolo della necessità di poetare: «Portami il girasole ch’io lo trapianti / nel mio terreno bruciato dal salino […] Portami la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; / portami il girasole impazzito di luce».
La poetica degli Ossi viene approfondita nelle Occasioni (1939), dove alla riflessione sul male di vivere che aveva dominato la prima raccolta subentra una poetica dell’oggetto: il poeta concentra la sua attenzione su oggetti e immagini ben definite che spesso provengono dal ricordo, tanto da presentarsi come rivelazioni momentanee destinate a svanire. Tra le figure più ricorrenti vi è certamente quella femminile, come nella poesia La casa dei doganieri, scritta per una villeggiante morta giovane, o in Dora Marcus, un’ebrea della Carinzia condannata a vivere la catastrofe storica delle persecuzioni naziste; e ancora in Non recidere forbice, dove è un pallido ricordo della donna amata a rischiarare provvisoriamente la «nebbia di sempre» che oscura l’esistenza del poeta.
Dopo un lungo silenzio poetico, Montale torna a scrivere versi in modo nuovo nel 1971 con la raccolta Satura; con essa si allontana dallo stile alto delle altre liriche e sceglie un andamento volutamente semplice e quotidiano; riprende temi e argomenti dei componimenti precedenti per riproporli con disincanto e ironia. Proprio questo spirito ironico diventa un nuovo strumento del poeta per indagare sulla realtà e una chiave del profondo pessimismo con cui egli contempla il mondo. I bersagli preferiti sono la storia e la società contemporanea, di cui vengono colpite con infuocato sarcasmo o sentita delusione sia le classi dirigenti sia quelle lavoratrici.
Si distingue, tra le altre, la sezione intitolata Xenia («ospitalità»), che comprende i componimenti dedicati alla moglie morta; si tratta di un colloquio intimo e commovente fatto di ricordi impalpabili, dove la tristezza e il rimpianto del poeta vengono espressi con uno stile delicato e lieve. Indimenticabili i versi che aprono una delle poesie più belle: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino» (Xenia II, 5).
Il poeta, insignito nel 1975 del premio Nobel, è morto a Milano nel 1981.