Europa
(XIV, p. 581; App. I, p. 566; II, i, p. 883; III, i, p. 583; IV, i, p. 747; V, i, p. 166)
La fine del secolo è stata segnata in E. da una serie di repentini sconvolgimenti della carta politica, che hanno tratto occasione immediata dal collasso dei regimi socialisti dei paesi centro-orientali, ma che hanno anche riportato alla luce conflittualità etniche e fratture territoriali sedimentate da lungo tempo. In generale, mentre le condizioni maturate nelle relazioni internazionali hanno favorito ampie possibilità di sviluppo dei sistemi democratici e d'integrazione dei sistemi economici, si è anche liberato un potenziale di più minuta articolazione delle individualità regionali, che talvolta ha trovato riconoscimento in formule costituzionali più attente alla dimensione locale, ma in altri casi è sfociato in confronti armati di estrema violenza.
Di tipo del tutto pacifico è stata la soluzione adottata per fronteggiare i persistenti contrasti tra la componente fiamminga e quella vallona nel Belgio: il paese ha assunto nel luglio 1993 una struttura federale, articolata sulle tre regioni fiamminga, vallona e di Bruxelles e sulle tre comunità linguistiche francese, nederlandese e tedesca; a ciascuna di queste entità sono state riconosciute ampie competenze e proprie capacità di rappresentanza e di gestione. In direzione prettamente 'regionalista' si è mosso anche il governo laburista britannico, che nel 1997 ha visto confermato da referendum popolari il riconoscimento di ampie formule di autonomia alla Scozia e al Galles e ha avviato colloqui pacificatori con le rappresentanze politiche dell'Irlanda del Nord per affrontare le istanze indipendentiste di questa parte del Regno Unito, culminati nella firma degli accordi di pace dell'aprile 1998.
La spinta verso il riconoscimento politico delle individualità regionali, che si è manifestata negli anni Novanta anche in Stati etnicamente coesi come Francia e Italia, si è radicalizzata nei paesi del blocco ex sovietico, dove ha portato anche alla dissoluzione di alcune compagini statali. Ciò è consensualmente avvenuto nella Cecoslovacchia, la quale all'inizio del 1993 ha abbandonato la struttura federale e si è scissa nella Repubblica Ceca e nella Slovacchia. La frammentazione della ex Iugoslavia, invece, si è lasciata dietro una tragica scia di sangue, e gli assetti conseguenti a questo collasso si sono mostrati assai precari e forieri di ulteriori possibili scontri. Gravi contrasti, talora sfociati in episodi bellici, sono derivati dalle secessioni della Croazia, in apertura del decennio, e da quella successiva della Macedonia (riconosciuta solo nel 1993 dalla comunità internazionale come Repubblica ex Iugoslava di Macedonia). Ma la secessione della Bosnia e dell'Erzegovina, proclamata nel 1992, ha provocato una vera guerra interetnica, che ha opposto le componenti serbe, musulmane e croate della popolazione e che ha conosciuto episodi di 'pulizia etnica' tanto gravi da indurre l'ONU a insediare a L'Aia un apposito tribunale internazionale, incaricato di giudicare i crimini perpetrati. Solo dopo tre anni di distruzioni e di spostamenti di massa più o meno coatti, le pressioni della diplomazia internazionale e la frapposizione di una forza di pace multinazionale hanno portato, nel novembre 1995, alla sigla di un accordo a Dayton (Ohio), con la sanzione di una complicata spartizione territoriale e con il riconoscimento della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina costituita da una Federazione croato-musulmana (sul 51% della superficie) e da una Repubblica serba (sul restante 49%); la capitale del nuovo Stato è stabilita a Sarajevo, uscita devastata dal conflitto. Il nome Iugoslavia è rimasto ora a designare una repubblica federale che aggrega solo il Montenegro e la Serbia, con le regioni autonome della Vojvodina e del Kosovo, popolato in prevalenza da Albanesi. In quest'ultima regione, nel 1998, sono esplosi violenti contrasti fra Albanesi e Serbi, sfociati in una dura repressione a opera dell'esercito e della polizia iugoslava. Al fallito tentativo di imporre per via diplomatica la pacificazione e alla successiva espulsione dei Kosovari albanesi a opera delle truppe iugoslave è seguito l'intervento aereo della NATO, conclusosi (giugno 1999) con l'occupazione del Kosovo da parte di una forza multinazionale (v. kosovo, in questa Appendice). Sui conflitti nel Kosovo hanno influito le vicende della vicina Albania, in cui la caduta del regime comunista si è accompagnata a un vero e proprio collasso delle istituzioni, che ha determinato una fase di confronto armato di fazioni politiche e di clan, di destrutturazione dell'economia e di esodo massiccio degli abitanti, molti dei quali hanno cercato rifugio in Italia. La gravità delle vicende albanesi e la consistenza delle ondate migratorie hanno indotto l'Italia a compiervi cospicui interventi per stabilizzare i poteri democratici e per ripristinare l'ordine pubblico, le infrastrutture di base e le istituzioni.
Tra le conseguenze della fine dei governi comunisti vi è una ripresa della centralità tedesca nello scacchiere politico europeo, con una marcata tendenza a estendere le forme dell'unità politica ed economica dell'E. il più possibile verso oriente. Completato il processo d'integrazione dei suoi Länder orientali, stabilito il ritorno a Berlino della capitale, la Germania si è resa promotrice, dapprima, di cospicui investimenti e di programmi di aiuto nei paesi dell'Est europeo, e in seguito di una loro adesione di pieno diritto ai principali organismi europei e occidentali; e questa linea politica è stata ampiamente condivisa dagli altri paesi dell'E. occidentale. Così, dopo lunghe trattative volte soprattutto a contenere le preoccupazioni russe, già nell'aprile del 1999 la Repubblica Ceca, l'Ungheria e la Polonia hanno aderito alla NATO, mentre altri allargamenti sono prospettati per gli anni successivi. Per quanto attiene all'Unione Europea, che già dal 1995 si è ampliata a 15 membri grazie all'adesione di Svezia, Finlandia e Austria, è previsto che nei primi anni del Duemila siano ammesse, oltre a Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, anche Estonia, Slovenia e Cipro, mentre premono le istanze di vari altri possibili aderenti, tanto che si pensa che entro il primo decennio del Duemila l'organismo potrebbe superare i 25 membri. L'Unione Europea, che dovrà assorbire appieno, in questo stesso periodo, le conseguenze provocate nel suo seno dall'adozione della moneta unica, appare comunque sin d'ora (con Stati Uniti e Giappone) uno dei tre grandi poli di riferimento sui quali tendono a riarticolarsi gli equilibri geoeconomici mondiali: la conferenza tenuta nel 1995 a Barcellona ha ribadito questo ruolo grazie al disegno, messo a punto in tale sede, di avviare entro il 2010 un'area di libero scambio di dimensioni euro-mediterranee, destinata a interessare centinaia di milioni di consumatori. A dispetto del potenziale di coesione legato a una forza economica che la valorizzazione delle risorse dell'Est europeo tende ad accentuare consistentemente, il ruolo e il peso politico dell'E. a scala planetaria restano però ancora contenuti. Li ostacolano l'emersione di particolarismi regionali che danno vita a pericolosi focolai di tensione locale e la difficoltà di tanti paesi avvezzi a misurarsi da diretti protagonisti con la storia, a trovare convergenza d'interessi e di linguaggi. Ma, grazie alle formule del governo democratico che hanno preso il sopravvento, l'E. sembra avviata a sperimentare forme di coesione più significative e più condivise che nel passato.
Assetti demografici e sociali
Nel 1998 la popolazione europea era stimata intorno ai 703 milioni di abitanti, con una leggera flessione rispetto all'inizio del decennio; mentre la sua densità restava pari a 69 ab./km², la sua incidenza sul totale mondiale era scesa al 12,2%, dati i forti ritmi di espansione degli abitanti delle altre parti del globo.
La più consistente vitalità demografica era esibita, ancora nei primi anni Novanta, dall'Albania, dove la crescita degli abitanti restava prossima al 20‰ annuo grazie a una natalità che sfiorava il 25‰ e i cui effetti erano appena temperati dalla persistenza di un'alta mortalità infantile (32‰). Successivamente, però, la gravissima crisi economica e politica in cui è precipitato quel paese si è ripercossa negativamente sui fattori di accrescimento della popolazione: fuga dei giovani, condizioni sanitarie precarie e insicurezza complessiva hanno risospinto in alto un quoziente di mortalità che era sceso ad appena il 6‰ (4÷5 punti sotto la media europea). Analoghe parabole demografiche hanno interessato i vicini paesi dell'ex Iugoslavia, funestati da episodi di guerra civile, e alcuni degli Stati (come la Romania e la Bulgaria) usciti dai regimi socialisti con gravi sintomi di collasso delle condizioni civili. Una vera e propria fase di crollo demografico si è avuta poi in Russia, in Bielorussia e in Ucraina: la fuoruscita dal socialismo si è accompagnata a una spaventosa moltiplicazione dei casi di miseria, dei tassi di alcolismo, delle esplosioni di mafie e malavita e a un tale peggioramento delle garanzie sanitarie e di presidio sociale che i livelli di natalità si sono bruscamente abbassati, mentre la mortalità risaliva improvvisamente oltre la quota del 14÷15‰. Il deteriorarsi delle condizioni di vita della parte più povera dell'Est europeo è stato contenuto, da un lato, grazie ad aiuti dell'E. centro-occidentale volti a ripristinare o migliorare le infrastrutture e a sostenere la ripresa delle capacità locali di governo e, dall'altro, grazie a flussi di emigrazione diretti verso la stessa E. centro-occidentale, che hanno alleggerito le pressioni sul mercato del lavoro, insostenibili nel breve periodo.
Mentre le dinamiche demografiche dell'E. orientale registravano le interferenze legate alla dissoluzione del sistema socialista, quelle del resto dell'E., pur in presenza di una fase di stagnazione economica, si misuravano con atteggiamenti tipici di un modello di vita opulento. Ormai nella maggior parte dell'E. centro-occidentale e anche nei paesi economicamente più solidi della sezione orientale la natalità staziona a livelli assai bassi, prossimi alla soglia del 12÷13‰ annuo, al di sotto della quale si registra una crescita zero; quasi ovunque, del resto, il numero medio delle gravidanze per donna non supera la quota di 2 e sono anzi assai diffusi i casi in cui quest'ultimo valore è inferiore a 1,5. Tendono talora a risalire, invece, i quozienti di mortalità per l'effetto statistico della maggiore incidenza delle classi anziane e, soprattutto, per la notevole diffusione degli inquinamenti che peggiorano le condizioni generali di vita. Una consistente vitalità viene esibita ancora dall'Irlanda, dove la natalità permane prossima al 14‰, mentre, al polo opposto, l'Italia continua a far segnare ormai da oltre un decennio saldi naturali negativi. In molta parte dell'E. la speranza di vita alla nascita ha ormai superato gli 80 anni per le donne e si approssima ai 75 per gli uomini (v. fig.); ne discendono società dominate dalle figure degli anziani, con gravi problemi per i carichi pensionistici e, in genere, per le esigenze di assistenza. La crescita della popolazione inattiva legata ai processi d'invecchiamento si è sommata a quella derivante dalle trasformazioni tecnologiche, generando forti tensioni sul sistema del welfare, che la parte economicamente avanzata dell'E. ha sempre considerato tra le grandi conquiste sociali della sua storia contemporanea. La fine del secolo ha così significato per molta parte dell'E. una stagione durante la quale sono state pesantemente scalfite alcune garanzie consolidate (sistema previdenziale, forme dell'assistenza pubblica) ed è aumentata in misura preoccupante la popolazione che vive in condizioni di povertà.
Il tema delle garanzie sociali e dell'esclusione è stato chiamato in causa anche da una rinnovata incidenza delle pressioni migratorie. In effetti, tra la fine degli anni Ottanta e il decennio successivo, dalla Polonia, dai paesi dell'E. centro-orientale e, in buona misura, dalle regioni più tormentate della ex Iugoslavia schiere di popolazione, spesso dotate di buone qualifiche professionali, si sono indirizzate verso i paesi più opulenti, soprattutto verso la Germania, alla ricerca di sbocchi lavorativi. La relativa saturazione di tali sbocchi, peraltro, ha indotto i paesi di accoglienza ad assumere un atteggiamento più restrittivo: nell'ambito dell'Unione Europea, sono stati stipulati accordi che, mentre favorivano la più libera circolazione interna, comportavano un ben più rigido controllo lungo le frontiere esterne, anche per arginare la cospicua mole di ingressi clandestini. Questi riguardano soprattutto la fronte meridionale dell'Unione, e in particolare Spagna e Italia: la prima è divenuta porta d'ingresso per consistenti flussi dall'area maghrebina, mentre la seconda assomma ai contingenti nord-africani notevoli ondate migratorie dall'E. balcanica (ex Iugoslavia e Albania in particolare) e gli arrivi di rifugiati curdi e di altri gruppi meno numerosi provenienti dall'Asia e dall'America Latina. Le nuove correnti di mobilità rendono più ampio e differenziato il quadro etnico e culturale dell'E. e contribuiscono ad attenuare il declino demografico di alcune sue parti, ma non mancano di riaccendere molte tensioni xenofobe che rappresentano una cifra preoccupante di questa fine di secolo.
Il fenomeno urbano tende a guadagnare ulteriore spazio per effetto di due processi: da un canto, il numero e le dimensioni delle città si espandono ancora in quei paesi dell'E. orientale (come la Romania, l'Ucraina o la Polonia) o dell'E. meridionale (Portogallo) che conservavano importanti quote di popolazione rurale; dall'altro, in molti dei paesi della sezione centro-occidentale, che vantano già quote di popolazione urbana superiori al 75%, la diffusa stasi nella crescita dei centri maggiori è accompagnata da un'intensa urbanizzazione delle campagne e dei nuclei minori, il cui tessuto di relazioni e i cui stili di vita sono ormai sostanzialmente equiparati a quelli delle aree urbane. Benché le grandi agglomerazioni come Londra, Parigi, Mosca, Berlino, Roma siano ormai decisamente superate per popolazione dalle metropoli di altri continenti, regioni sempre più ampie dello spazio europeo sono inglobate in un solo vasto aggregato megalopolitano, che contiene i centri nevralgici dell'economia e della politica europee e che presenta una sempre più fitta intelaiatura di connessioni materiali e immateriali.
Attività economiche
Le linee di fondo dell'economia europea sono rimaste inalterate nel corso dell'ultimo decennio del Novecento. È proseguito il calo degli addetti al settore agricolo, che ha conosciuto peraltro un ulteriore potenziamento delle rese grazie all'introduzione di pratiche sempre più moderne, tra cui quelle che si avvalgono ampiamente delle biotecnologie. Allo stesso tempo, peraltro, si è affermata in ambito comunitario una tendenza a diminuire le superfici coltivate e a favorire la ripresa di alcune pratiche di coltivazioni biologiche, al fine di salvaguardare meglio l'ambiente e la salute dei consumatori. Sono state in parte abbandonate le costose politiche di garanzia dei prezzi di alcuni prodotti agricoli, mentre la permanenza dei contadini sui campi, specie in alcune aree di minore produttività, è stata piuttosto incentivata con l'integrazione delle pratiche agricole all'interno delle aree verdi protette (agriturismo).
Analoga attenzione per gli aspetti ambientali, pericolosamente trascurati in passato, si è fatta strada anche nel quadro delle politiche energetiche: ferma restando la notevole dipendenza dai rifornimenti di idrocarburi provenienti da aree extraeuropee, si è riposta minore fiducia nelle centrali elettronucleari (specie dopo le diffuse conseguenze nello spazio europeo dell'incidente verificatosi nell'impianto di Černobyl´, nel 1986) e si è accordato massimo spazio alle energie alternative e alle tecniche di risparmio energetico e di riciclaggio dei rifiuti. Se le preoccupazioni di natura ecologica hanno guadagnato centralità anche nell'E. orientale, la crisi in cui alla caduta dei regimi socialisti sono qui precipitati impianti e infrastrutture, rimasti obsoleti e privi di manutenzione, ha spesso accresciuto i rischi ambientali.
Le trasformazioni dell'apparato industriale europeo sono proseguite secondo due direttrici di fondo. In primo luogo, si è accentuata la tendenza dei distretti di più antica industrializzazione a passare dalle produzioni di base altamente inquinanti o ad alto impiego di manodopera a settori a tecnologia sempre più avanzata e ad altissimo valore aggiunto: sulle aree liberate da acciaierie e impianti petrolchimici si sono moltiplicati i parchi tecnologici, con produzioni collegate alla ricerca scientifica di punta e rispettose dell'ambiente (elettronica civile, telecomunicazioni, biotecnologie ecc.). In seconda istanza, si è accentuato il decentramento dei segmenti maturi del ciclo produttivo (industrie pesanti, tessili, dell'abbigliamento ecc.) verso le aree periferiche dell'E. (all'Est e, in parte minore, al Sud) o addirittura in altre parti del mondo. Lo spazio dell'E. industriale si è sostanzialmente esteso anche per l'autonomo emergere di alcuni distretti di piccole e medie industrie concentrate su produzioni alquanto specializzate e fortemente collegate a particolari condizioni locali: avanguardia di questa tendenza sono i numerosi aggregati produttivi disegnatisi nell'Italia centrale e nord-orientale. Ma anche varie regioni, in precedenza relegate in una dimensione prevalentemente agricola, hanno quasi improvvisamente rivelato nuove potenzialità e richiamato poderosi investimenti in comparti avanzati (come l'Irlanda nel campo della produzione di computer).
Anche se il settore industriale si è ulteriormente differenziato, la caratteristica saliente degli anni Novanta è la prosecuzione di una tendenza al netto predominio delle attività terziarie. Nelle economie europee il ruolo assunto in particolare dal ramo dei servizi avanzati nel settore della produzione (ricerca, progettazione, marketing ecc.) è sempre più centrale ed è sempre più imponente l'occupazione connessa alla vorticosa mole di attività finanziarie. Questi comparti di eccellenza riselezionano i distretti cruciali della vita economica europea: in particolare, lo spazio densamente urbanizzato che si estende dai Midlands inglesi e dai porti anseatici fino a Francoforte e alla Pianura Padana ed è incentrato lungo il vasto corridoio renano si ripropone ancora una volta come il motore più dinamico dell'intera Europa.
La fase più recente dell'economia europea è caratterizzata da un crescente peso degli scambi commerciali e della circolazione degli uomini e delle idee al proprio interno, particolarmente accentuato grazie all'estensione dell'Unione Europea. Al servizio di questa rete, che integra sempre di più le espressioni del potere locale e della società civile, si colloca un sistema di comunicazioni che tende a comprimere le distanze e ad accrescere la propria efficienza soprattutto nelle regioni nodali più sviluppate: ne sono espressioni tipiche grandi opere ingegneristiche, come l'Eurotunnel sotto la Manica o il lungo ponte sull'Øresund, e i tracciati dell'alta velocità ferroviaria estesi ormai da Edimburgo a Siviglia e al centro della Germania.
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