eutanasia
eutanasìa s. f. – Morte non dolorosa, procurata o facilitata mediante l'uso dei farmaci atti ad alleviare le sofferenze di un malato in agonia (e. attiva), oppure mediante la sospensione del trattamento terapeutico a un malato agonizzante e senza speranza di guarigione (evitando così l'accanimento terapeutico), attuata dal medico dietro richiesta del paziente o di una persona legalmente investita (e. passiva); si definisce volontaria se autorizzata dal paziente. La disputa filosofica tra chi è favorevole e chi è contrario su basi etico-religiose deve confrontarsi con una serie di dati empirici. Le statistiche sulle scelte di fine vita mostrano che la morte assistita è una pratica abbastanza diffusa in tutto l'Occidente, con proporzioni che vanno dall'1 al 3,5% di tutte le morti. Ovviamente bisogna tenere conto del fatto che nei paesi dove l'e. e il suicidio assistito non sono legali, i medici sono meno propensi ad ammettere di praticare interventi, su richiesta o meno del paziente, che accelerano o provocano direttamente la morte. In Italia, la scelta di alleviare i sintomi e il dolore con la conseguenza di accelerare la morte riguarda il 19% di tutti i decessi. È abbastanza comune anche in Italia la sedazione terminale, vale a dire un trattamento palliativo con l'interruzione dell'alimentazione che sopprime lo stato di coscienza e affretta la morte. È significativo il fatto che nei paesi in cui l'e. e il suicidio assistito sono legali le decisioni mediche da prendere nelle fasi terminali vengono quasi sempre discusse con il paziente o con i parenti, mentre in un Paese come l'Italia, dove tali pratiche sono vietate, in più del 50% dei casi ciò non avviene. Emblematico è il caso di Eluana Englaro (v.), giovane donna costretta in stato vegetativo permanente per 17 anni prima di poter morire.
Regolamentazione. ‒ Allo scopo di garantire che i pazienti possano esercitare un controllo circa i trattamenti medici nelle fasi terminali della loro vita, anche nei casi in cui venga a mancare lo stato di coscienza, si è largamente diffusa negli ultimi due decenni del 20° sec. la pratica delle direttive anticipate di trattamento, il cosiddetto testamento biologico (v.). Le direttive anticipate sono legalmente in vigore in diversi paesi occidentali e, per quanto riguarda l'Europa, sono previste all'art. 9 della Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina, firmata a Oviedo nell'aprile del 1997 dai paesi membri del Consiglio d'Europa. In Europa l'e. volontaria, vale a dire a fronte della richiesta esplicita del paziente, è legale soltanto in Olanda e Belgio (dal 2002), mentre in Svizzera si è mantenuta, senza regolamentarla, la possibilità per il medico (ma anche per chi non è medico) di assistere al suicidio senza incorrere in sanzioni. In Italia le direttive della Convenzione sono state recepite dal Comitato nazionale di bioetica (CNB) in un documento sottoscritto il 18 dicembre 2003 e, a partire dal 2005, sono stati previsti corsi sull’e. nelle facoltà di medicina. Il disegno di legge n. 2943, approdato alla Commissione Affari sociali della Camera nel luglio 2005, accoglie le indicazioni del CNB, per cui se da un lato si dà valore giuridico alle dichiarazioni anticipate per tutelare le persone dall'accanimento terapeutico, dall'altro vengono escluse le dichiarazioni di volontà che implichino finalità eutanasiche, ma soprattutto le dichiarazioni anticipate non sono vincolanti per il medico. Di fatto, in Italia non è ancora (al 2012) possibile sottoscrivere direttive anticipate di trattamento e, nonostante siano state presentate diverse proposte di legge, non è stata raggiunta l’approvazione di una normativa in proposito.
Implicazioni giuridiche. ‒ L’e. può assumere una rilevanza diversa a seconda che ci si trovi nel casi di e. attiva o passiva. Infatti, mentre in caso di e. attiva occorre tenere conto di quanto dispone l’art. 17 del Codice di deontologia medica, secondo cui «il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte», laddove i termini «effettuare» e «favorire» implicano chiaramente una partecipazione attiva da parte del medico nell’azione che assume connotazioni delittuose perché vietate anche dalle norme penali (artt. 579 e 580 c. p.), nel caso di eutanasia passiva, invece, è necessario conciliare l’esigenza di salvaguardare il diritto del paziente di rifiutare le cure, diritto che ha il suo fondamento nell’art. 32 della Costituzione, con le prescrizioni di legge. La questione assume un suo particolare rilievo in ordine al problema che potrebbe porsi per quei pazienti che, pienamente capaci e consapevoli, si trovino in condizioni tali da non poter esercitare il loro diritto al rifiuto perché costretti a trattamenti sanitari con macchinari e strumenti impeditivi e che, per potersi sottrarre alle cure ormai non più accettate, devono rivolgersi a terzi per porre fine a una terapia (è ancora molto presente nella memoria collettiva il caso, che ha sollevato grande clamore sociale, di Piergiorgio Welby (v.), aiutato a porre fine alla respirazione artificiale da un medico, prima inquisito per omicidio del consenziente e poi completamente prosciolto) e per quei pazienti, completamente incapaci di agire, come accaduto nel caso di Eluana Englaro, cui, dopo anni di stato vegetativo permanente, su autorizzazione del tribunale adito, il curatore speciale nominato ha interrotto la terapia di alimentazione e idratazione artificiali. Negare il diritto al rifiuto delle cure alle persone impedite di esercitarlo personalmente pone un problema di menomazione del principio di uguaglianza circa il trattamento della fase finale della vita; infatti, mentre il paziente cui sia stato diagnosticato un grave male incurabile ma che, tuttavia, non gli impedisce di essere autonomo, è libero, volendo, di lasciare la struttura sanitaria in cui si trova, previa sottoscrizione delle necessarie liberatorie, e di 'vivere la sua morte' nella sfera della propria riservatezza pienamente tutelata, lo stesso, invece, non può dirsi per quanti, pur essendo pazienti critici, non possono materialmente attuare tale scelta per il fatto di non essere più in grado di agire in autonomia. Con riguardo al problema posto, la giurisprudenza più autorevole, proprio in occasione della decisione sul caso Englaro, ha precisato che «il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di e., ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui».