Evoluzione. Fossili ed evoluzione
Nel 1959, centenario della pubblicazione di On the origin of species di Charles Darwin, fu celebrata la definitiva fusione della genetica con la teoria darwiniana dell'evoluzione per selezione naturale, dopo decenni di apparenti contraddizioni e incompatibilità. I problemi furono di fatto superati a partire dagli anni Venti del Novecento, quando genetisti quali Ronald A. Fisher e John B.S. Haldane in Inghilterra, e Sewall Wright negli Stati Uniti, svilupparono un modello matematico per lo studio della genetica di popolazione risolvendo il conflitto tra la nuova genetica e la vecchia visione darwiniana dell'evoluzione per selezione naturale. A partire dalla metà degli anni Trenta iniziò quindi una nuova fase: la cosiddetta 'sintesi moderna' (o 'teoria evolutiva della nuova sintesi'), in cui la fusione della genetica con la selezione naturale darwiniana fu applicata alla biologia di popolazione, alla sistematica e ai dati paleontologici, come è stato attestato in particolare, ma non esclusivamente, dai lavori di Theodosius Dobzhansky, Ernst Mayr e George G. Simpson.
Eppure, per la biologia evoluzionistica il 1959 è stato uno spartiacque. La rivoluzione molecolare era più che avviata; si erano approfondite, divenendo così più complesse, le descrizioni riguardanti le strutture e le funzioni delle molecole dell'ereditarietà, DNA e RNA. Tali scoperte erano destinate ad avere importanti implicazioni per le teorie evolutive. Nel contempo i paleontologi, ormai consapevoli dell'importanza della variabilità come materia prima dell'evoluzione, sia all'interno di una sola popolazione sia tra più popolazioni, iniziarono a considerare le vaste raccolte di fossili di invertebrati marini con un rinnovato interesse per lo studio dell'evoluzione. I loro risultati hanno ridisegnato la cornice della storia della vita sulla Terra, conferendo nuova importanza alle determinanti ecologiche.
Nel corso degli anni Sessanta i paleontologi hanno scoperto che le specie, contrariamente alle previsioni iniziali di Darwin, non sono soggette a quel tipo di lenta e costante trasformazione graduale che tradizionalmente viene immaginata pensando alla selezione naturale. La maggior parte delle specie resta notevolmente stabile, fenomeno che Niles Eldredge e Stephen J. Gould chiamarono, appunto, 'stasi'. Questa riscoperta di un pattern di non cambiamento nell'evoluzione, in realtà già noto ai paleontologi contemporanei di Darwin, doveva portare a una teorizzazione del processo evolutivo molto diversa da quella proposta dalla sintesi moderna.
Sebbene nella stragrande maggioranza dei casi il DNA e l'RNA non possano essere estratti dai fossili in forma utilizzabile e (con alcune eccezioni degne di nota) l'anatomia dei tessuti molli si conservi raramente, nondimeno i dettagli anatomici dei tessuti rigidi (quali i rivestimenti esoscheletrici degli invertebrati, le ossa e i denti dei Vertebrati, i tessuti legnosi delle piante) si conservano facilmente. Inoltre, nonostante molti importanti taxa di Vertebrati (dinosauri, Ominidi) siano generalmente rappresentati solo da resti sparsi di singoli individui, Molluschi, Echinodermi e Artropodi sono spesso documentati da centinaia di esemplari appartenenti a differenti periodi o luoghi. La morfologia, ovviamente, evolve allo stesso modo dei comportamenti, della fisiologia e dell'anatomia delle parti molli che non si preservano perfettamente nella documentazione fossile. Negli anni Sessanta, quando presero avvio gli studi diretti al campionamento di intere popolazioni (provenienti sia da una varietà di zone scelte in habitat differenti, sia da punti selezionati sull'intero arco geologico noto per ogni singola specie), i paleontologi scoprirono presto che le popolazioni localizzate (nello spazio e nel tempo) dimostravano livelli di variabilità al loro interno comparabili con quelli normalmente osservati dai biologi che studiano i biota recenti.
Inoltre, anche le popolazioni della stessa specie che fossero approssimativamente contemporanee mostravano un certo grado di variabilità tra di loro ‒ e questo, ancora una volta, soddisfa le attese basate sui pattern di variabilità geografica comunemente riscontrati nelle specie moderne. Ciò che non ci si attendeva era che tali pattern di variabilità all'interno della stessa popolazione e tra popolazioni diverse fossero ristretti entro limiti temporali relativamente rigidi. La previsione tradizionale è sempre stata che con il mutare degli ambienti la selezione naturale modifichi la morfologia delle specie in modo adattativo, trasformando gradualmente e continuamente la variabilità sempre presente nelle popolazioni ‒ e nell'ambito delle molte popolazioni di una specie ‒ per 'inseguire' i cambiamenti ambientali. Un assunto ulteriore, naturalmente, è l'insorgenza di nuove mutazioni, per alcune delle quali ci si potrebbe aspettare che ripristinino effettivamente quella variabilità genetica che potrebbe 'esaurirsi' a causa di una selezione naturale continua in una particolare direzione.
I paleontologi, invece, iniziarono a documentare frequentemente casi in cui la variabilità tra le popolazioni di una specie rimaneva tendenzialmente stabile lungo grandi archi di tempo. Quando si notava l'insorgere di una variazione, di rado si assisteva a una trasformazione continua e direzionale. Per la maggior parte, gli individui all'interno di una specie, alla fine dell'intervallo di esistenza della specie stessa, hanno il medesimo aspetto che avevano al suo insorgere. Le stime di sopravvivenza delle specie proposte negli anni Settanta si sono dimostrate piuttosto coerenti con questo ragionamento: le specie di invertebrati marini hanno una durata tipica di almeno 5 milioni di anni, arrivando spesso oltre i 10. In questo periodo, non mostrano apprezzabili cambiamenti morfologici. I Vertebrati terrestri mostrano tassi di speciazione ed estinzione più elevati, cosicché la durata della vita tipica delle specie tra i Vertebrati terrestri si avvicina ai 2-3 milioni di anni. La stasi è tuttavia comune tanto nelle specie terrestri quanto in quelle marine. In generale, la comunità dei paleontologi considera la stasi come il normale pattern morfologico nella storia delle specie. Per spiegare cosa provochi la stasi sono state avanzate diverse ipotesi, quali la mancanza di una necessaria variabilità genetica, i vincoli dovuti allo sviluppo, la selezione fortemente stabilizzante. Più promettenti sembrano le proposte riguardanti la distribuzione della variabilità genetica all'interno della specie. I genetisti hanno compreso da tempo che le spiegazioni a livello di mutazione e di selezione locale non possono funzionare per la stasi sul lungo periodo e che prima o poi la variabilità genetica raggiunge un livello stabile.
Si considerino le difficoltà nella diffusione delle novità evolutive sull'intera estensione territoriale di una specie. Sebbene alcune specie abbiano una distribuzione altamente localizzata, per molte è vero il contrario, come si verifica per le specie maggiormente rappresentate nella documentazione fossile. Molte specie di Uccelli hanno un'area di diffusione enorme, con habitat differenti. Ogni popolazione locale è adattata al proprio ambiente; perciò è altamente improbabile che la selezione naturale modifichi la specie nella sua interezza in una particolare direzione. La forza selettiva più probabile, potenzialmente ubiquitaria, che potrebbe agire su un'intera specie è forse il cambiamento ambientale. Tuttavia, lungo le grandi oscillazioni della temperatura, delle precipitazioni e dell'estensione dei ghiacciai montani e continentali, avvenute ciclicamente a partire da 1,65 milioni di anni fa, la maggior parte delle specie è sopravvissuta intatta e con scarso o nessun cambiamento morfologico. Invece di dimostrare un cambiamento morfologico per mezzo della selezione naturale, i paleontologi hanno dimostrato che sono le stesse specie che inseguono le modificazioni ambientali. Mano a mano che il fronte ghiacciato si estendeva verso sud, i come la tundra, la taiga, le foreste temperate e la prateria si spostarono tutti più a meridione, verso l'equatore, e le specie che li componevano, un po' alla volta e con differenti velocità, sono migrate anch'esse lungo la stessa direttrice.
Risulta perciò chiaro che alcuni membri di una specie sopravvivranno fintantoché potranno trovare e occupare habitat adeguati e che lo faranno restando praticamente invariati. L'alternativa ‒ qualora la specie, durante gli episodi in cui avvengono i cambiamenti climatici, non fosse in grado di trovare habitat adeguati ‒ sembra essere l'estinzione piuttosto che il cambiamento evolutivo in situ.
Il pattern di stasi è il componente empirico centrale della teoria degli equilibri intermittenti o punteggiati. Poiché la maggior parte delle specie attestate dai reperti fossili resta morfologicamente stabile nel corso della sua storia, il cambiamento morfologico appare piuttosto all'improvviso, come un intervallo geologicamente breve di mutamento relativamente rapido, in genere stimato in poche migliaia di anni, prima che la nuova specie discendente sviluppi un pattern di stasi morfologica. Spesso le specie ancestrali e quelle discendenti mostrano una certa sovrapposizione temporale.
Tradizionalmente accantonata perché troppo frammentaria per rivelare il corso effettivo dell'evoluzione, ai paleontologi la documentazione fossile sembra rivelare pattern, quali la stasi e il cambiamento evolutivo relativamente rapido, che richiedono spiegazioni in termini di meccanismi evolutivi noti. Dato che la selezione naturale sembrava non essere l'agente reale né della stasi né dei cambiamenti improvvisi, Niles Eldredge e Stephen J. Gould (1972) considerarono responsabile delle esplosioni improvvise dei cambiamenti morfologici il meccanismo della 'speciazione allopatrica', formulata in particolare da Theodosius Dobzhansky ed Ernst Mayr, che resta l'ipotesi dominante sull'origine di nuove specie. In breve, essa sostiene che le nuove specie nascono per divisione di una specie ancestrale, in seguito a un isolamento geografico determinato soprattutto da mutamenti climatici o da altri fattori fisici ambientali. Se si verificano cambiamenti tali che i membri delle popolazioni isolate non possono più accoppiarsi con successo con quelli delle popolazioni situate oltre la barriera geografica (qualora ritornassero in contatto), allora la speciazione è avvenuta.
In ambito paleontologico la teoria degli equilibri intermittenti è stata tendenzialmente accettata, ma tuttora sorgono controversie tra i genetisti e i paleontologi. Mentre i primi tengono d'occhio soprattutto le popolazioni e i cambiamenti genetici al loro interno, i paleontologi guardano a sistemi più vasti (come appunto le specie intere), e in particolare ai destini evolutivi delle specie e perfino ai pattern di più lungo termine tra specie imparentate all'interno di cladi o ceppi genealogici con origine da un'unica specie. Una di tali questioni riguarda la 'selezione di specie' (il fatto che le specie sopravvivano vincendo una sorta di competizione con le altre), introdotta per spiegare i molti esempi di cambiamento apparentemente direzionale all'interno delle linee filetiche. Un esempio è l'aumento della dimensione del cervello avvenuto negli Ominidi nel corso degli ultimi 4 milioni di anni, in cui l'incremento documentato all'interno delle specie è stato di lieve entità, ma il guadagno netto è stato di quasi 1000 cm3 (da 450 cm3 delle prime specie fino alla media di 1350 cm3 di Homo sapiens moderno).
Secondo la paleontologa Elisabeth S. Vrba (1980), all'interno di linee filetiche diverse (anche se strettamente imparentate) la speciazione e l'estinzione ‒ quindi l'accumulo di un cambiamento adattativo all'interno della linea filetica ‒ possono mostrare differenti velocità che dipendono dai caratteri dell'organismo, sono cioè un 'effetto' collaterale dei suoi adattamenti. Per esempio, gli organismi che appartengono a specie con nicchie ristrette sono specializzati in uno o più aspetti del loro ambiente; queste specie sono più soggette a estinzione e a esplosioni di rapida evoluzione rispetto a quelle a nicchia ecologica ampia, che hanno la tendenza a vivere nelle condizioni ambientali più varie e mostrano tassi inferiori di speciazione (perciò di cambiamenti morfologici) e di estinzione. A prescindere da quale sia la causa esatta (ancora oggetto di dibattito), non ci sono dubbi che i pattern di evoluzione interspecifica e quelli di sopravvivenza differenziale, che spesso mostrano una pronunciata direzionalità, siano piuttosto comuni nella storia della vita.
La selezione di specie, ponendo l'enfasi sui processi che avvengono tra le specie oltre che su quelli al loro interno, ha aperto la strada a un ulteriore lavoro sui sistemi biologici su larga scala ‒ demi, specie e taxa monofiletici (generi, famiglie, ecc.) nel campo tradizionalmente di competenza della biologia evoluzionistica ‒ ma anche dei sistemi ecologici, quali ecosistemi locali e regionali, e, infine, dell'intera biosfera. Realizzata negli anni Ottanta, questa esplorazione puramente teorica della struttura gerarchica e dell'ontologia fondamentale dei sistemi biologici su larga scala ha fornito l'impianto concettuale su cui si fonda una concezione della storia della vita che integra i sistemi ecologici all'interno della biologia evoluzionistica.
Alla radice della teoria gerarchica c'è l'osservazione che gli organismi sono impegnati unicamente in due tipi di attività. Da un lato essi trasferiscono materia ed energia; ottengono energia (da processi , fotosintetici o eterotrofi) e nutrienti e processano la materia e l'energia per crescere, svilupparsi e sopravvivere. Questi sono stati definiti 'aspetti economici' degli organismi. Dall'altro lato, gli organismi si riproducono e anche quelli che, per varie ragioni, non lo fanno sono i prodotti della riproduzione che rappresenta l'aspetto 'genealogico' della vita degli organismi. Si osserva che la riproduzione sessuale implica l'accoppiamento tra maschi e femmine e avviene nell'ambito di una popolazione locale effettivamente capace di riprodursi (convenzionalmente chiamata nella teoria evoluzionistica). Tale relazione è tuttavia reciproca, in quanto da una parte l'esistenza di un deme è essenziale perché avvenga l'accoppiamento, dall'altra il deme dipende dalla perpetuazione del processo riproduttivo.
A un livello superiore, i demi sono parte di una specie e da essi dipende il successo della riproduzione. I demi sono popolazioni localizzate, spesso quasi indipendenti all'interno di una specie; essi possono esistere per qualche tempo, fondersi con altri, estinguersi o dividersi aumentando di numero. La specie può persistere anche se ridotta a un solo deme, ma in questo caso è alta la probabilità che essa possa presto estinguersi; perciò il perdurare dell'esistenza di una specie dipende fortemente dal destino dei singoli demi che la compongono. A un livello ancora superiore, le specie 'speciano', ossia sono soggette a una forma di riproduzione in cui due o più specie possono originarsi dal processo di suddivisione di una specie parentale, oppure occasionalmente (in particolare nelle piante, ma anche in alcuni animali) dalla fusione con un'altra specie (ibridazione). Il processo di speciazione crea quindi linee filetiche (o 'cladi'), costituite da una specie e dalla sua discendenza, che sono i 'taxa superiori' della gerarchia linneana: generi, famiglie, e così via, fino ai phyla e ai regni. Inoltre, va sottolineato che dal momento che il destino di tutte le specie è l'estinzione, per mantenere in vita i taxa monofiletici è essenziale che la speciazione avvenga in modo continuo.
Le specie sono le entità di livello più elevato in grado di attuare processi simili alla riproduzione: i generi non producono altri generi e così via. Perciò, mentre è assolutamente sensato affermare che la speciazione continua è necessaria per mantenere in vita i taxa monofiletici, l'esistenza di taxa monofiletici, di cui le specie sono parte, non ha alcun valore ai fini dell'esistenza delle singole specie. È quindi importante notare che le specie hanno un'origine (speciazione), una storia (spesso per vari milioni di anni o più) e muoiono (si estinguono). In base a ciò, si può dire che le specie sono entità storiche delimitate in senso spazio-temporale, un'affermazione fondamentale per la teoria gerarchica.
I biologi evoluzionistici hanno dedicato quasi tutta la loro attenzione alla gerarchia genealogica e, storicamente, è stata scarsa l'attenzione rivolta ai sistemi ecologici in un contesto evolutivo. Tuttavia, l'esame delle attività economiche degli organismi e delle loro conseguenze rivela come esista anche una gerarchia parallela di entità ecologiche. Mantenendosi in vita, gli organismi fanno infatti parte di un secondo sistema strutturato gerarchicamente, la gerarchia 'ecologica' (o 'economica'): qui sono le dinamiche che riguardano il trasferimento di materia ed energia tra entità a determinare e supportare l'esistenza di sistemi su scala più ampia. Le popolazioni locali di organismi conspecifici (appartenenti alla stessa specie) competono e cooperano in vario modo per le risorse disponibili nell'ambiente che occupano. Tali popolazioni di conspecifici ecologicamente localizzate, dette 'avatar', sono diverse dai demi che si riproducono localmente, in quanto questi ultimi comprendono soltanto organismi in grado di riprodursi attivamente.
I processi che controllano la struttura degli avatar non sono stati ancora completamente compresi. Tuttavia, si assume generalmente che gli avatar siano vicini alla 'capacità portante' dell'ambiente in cui abitano, cioè al massimo carico consentito dalle fonti energetiche disponibili. Il flusso di materia tra gli avatar locali di specie diverse è ciò che definisce e rende coerenti gli ecosistemi locali. Ogni avatar è parte di un ecosistema locale e le sue caratteristiche funzioni economiche all'interno di esso sono definite con l'espressione 'nicchia ecologica'. Sono le interazioni tra gli avatar a mantenere in vita gli ecosistemi locali, ma esiste una reciprocità causale, poiché il mantenimento continuativo di ogni avatar dipende dall'esistenza prolungata dell'integrità dell'ecosistema locale: se per qualche ragione un avatar dovesse scomparire, anche l'esistenza degli altri organismi a esso connessi sarebbe in pericolo.
Gli ecosistemi locali formano una rete con gli ecosistemi di scala più ampia e, da ultimo, con quelli regionali. Con l'eccezione forse dei sistemi vulcanici, delle profondità oceaniche e delle pozze termali a bassa diversità, tutti basati su processi chemioautotrofi, sia gli ecosistemi acquatici sia quelli terrestri basati sulla fotosintesi dimostrano una connessione fondata sullo scambio di materia ed energia con i sistemi adiacenti. I sistemi economici regionali, poi, sono correlati tra loro in un mosaico che forma l'intera biosfera. Gli organismi, grazie alle loro attività riproduttive ed economiche, mettono così in moto la costruzione di un insieme multidimensionale e interrelato di sistemi economici e genealogici. Gli organismi sono le sole entità che, simultaneamente, appartengono sia alla gerarchia ecologica sia a quella genealogica.
Lo schema della gerarchia dualistica dei sistemi biologici su larga scala e il fatto che soltanto gli organismi si trovino in ciascuno schema illustrano la vera natura della selezione naturale, pietra angolare della teoria darwiniana e della teoria evoluzionistica attuale. Nella concezione darwiniana della selezione naturale gli organismi producono continuamente discendenti e, in realtà, in quantità maggiore di quelli che possono sopravvivere e riprodursi nel contesto deme/avatar della vita di ognuno di essi. In larga misura il numero dei discendenti che produrranno ‒ e quindi il grado in cui l'informazione genetica dei genitori sopravviverà nella generazione successiva ‒ dipende dall'esito della partita economica per la sopravvivenza giocata sul campo degli ecosistemi locali. Oltre al caso, l'unico fattore determinante per il successo riproduttivo deriva dalle abilità relative mostrate dagli organismi durante la riproduzione; ciò significa che altri fattori oltre a quello economico potrebbero pregiudicare il successo riproduttivo, un fenomeno che Darwin ha identificato e denominato 'selezione sessuale'. Oltre a chiarire queste e altre problematiche ontologiche, a prima vista la teoria gerarchica potrebbe sembrare distante dalla comprensione del processo sottostante la storia evolutiva della vita sulla Terra. Tuttavia, niente potrebbe essere più lontano dalla verità.
Da alcuni decenni è chiaro ai paleontologi che la stasi è la norma per le specie e che, dal punto di vista del cambiamento morfologico evolutivo, non avviene nulla di sostanziale a meno di eventi ambientali capaci di disturbare i sistemi viventi già presenti sulla Terra. La fine di ciascun intervallo biotico è marcata dall'estinzione della maggioranza delle specie tipiche di quel periodo, mentre le specie nuove che si trovano all'inizio del nuovo biota si sono evolute ex novo oppure sono specie che hanno invaso la regione attraverso il già citato 'inseguimento dell'habitat'. Si consideri ora cosa succede quando gli ecosistemi locali vengono gravemente degradati da eventi straordinari. In tali casi, una volta che la causa della degradazione ambientale abbia cessato di produrre i suoi effetti negativi, l'area coinvolta inizierà a essere immediatamente ripopolata di vita, per il fenomeno che va sotto la designazione di 'successione ecologica'. Chiaramente la vita dei demi/avatar adiacenti non è compromessa dai disastri localizzati e il reclutamento proviene dalle nuove generazioni prodotte nelle vicinanze. In tali colonizzazioni vengono utilizzati gli adattamenti di ogni specie già presenti (proprio come nel fenomeno generale su larga scala dell'inseguimento dell'habitat) e perciò negli eventi localizzati di degradazione e ripresa ecologica ci si dovrebbero attendere pochi o nessun cambiamento adattativo e morfologico di tipo evolutivo (e in effetti non ne sono mai stati riscontrati).
Si prenda ora in considerazione l'esempio estremo di tali situazioni: i cinque eventi di estinzione di massa che per estensione sono stati realmente globali. Sia che la loro causa risieda nell'impatto causato da eventi extraterrestri (cioè tra la Terra e uno o più asteroidi o comete, come nel caso della famosa estinzione avvenuta nel Cretaceo superiore, alla fine del Mesozoico, circa 65 milioni di anni fa), o che essi riflettano profondi cambiamenti climatici, tali eventi rappresentano le svolte decisive nella storia della vita sulla Terra. È stato stimato come nel più imponente finora verificatosi (alla fine del Permiano, circa 245 milioni di anni fa), almeno il 70% ‒ forse fino al 95÷96% ‒ di tutte le specie presenti sulla Terra si sia estinto in un intervallo di tempo relativamente breve. Eppure la diversità della vita oggi è paragonabile a quella esistente prima di questa estinzione; ciò implica che in seguito l'evoluzione sia stata massiccia e che la vita sia stata ricostruita di fatto a partire dal 30%, o anche meno, della variabilità genetica presente prima dell'evento di estinzione. I paleontologi hanno da tempo identificato questi eventi di estinzione di massa e hanno inoltre documentato come, con l'aumentare delle sue proporzioni, si allunghi l'intervallo che precede il ristabilirsi di una parvenza di normalità ecologica. Dopo i principali eventi di tipo globale, tale periodo può essere di 5-7 milioni di anni, forse anche più lungo.
Nelle estinzioni di massa non è soltanto la specie come taxon a estinguersi; su tutta la Terra, negli ambienti terrestri e marini, si estinguono molte specie, cosicché il fenomeno coinvolge interi gruppi, cioè interi taxa, quali famiglie e persino ordini. Durante la ripresa evolutiva, al loro posto si sviluppano taxa superiori nuovi. Per esempio, sebbene i Mammiferi si siano evoluti all'incirca nello stesso periodo dei dinosauri, sono stati questi ultimi a svilupparsi in tutte le dimensioni corporee e in tutti i livelli trofici, mentre i Mammiferi sono rimasti relativamente indifferenziati dal punto di vista ecologico e morfologico per tutto il restante periodo Mesozoico. Solo dopo la scomparsa dei dinosauri i Mammiferi iniziarono a differenziarsi in un ricco insieme di dimensioni corporee e ruoli ecologici.
Sul piano delle estinzioni di massa di tipo globale, la relazione tra dissesto ecologico, estinzione e successiva evoluzione è relativamente semplice. Sembra logico supporre quindi che ci debba essere un livello corrispondente a una 'soglia' critica, a metà strada tra la perturbazione locale (senza estinzioni, successioni ecologiche, né alcuna evoluzione riscontrabile) e le gravi perturbazioni globali (con estinzione di taxa di livello superiore e la massiccia evoluzione di nuovi taxa superiori). I livelli soglia esistono e si riscontrano lungo l'intera storia della vita pluricellulare, com'è attestato dalla documentazione fossile. Tutte le suddivisioni del tempo geologico documentate negli ultimi 200 milioni di anni, da quelle meno dettagliate (per es., Paleozoico, Mesozoico, Cenozoico) fino a quelle regionali a maggiore definizione, sono di fatto delimitate da eventi biotici di estinzione/ripresa. Come ci si potrebbe attendere, mediamente l'evento soglia tende ad avere una dimensione regionale. Così è stato, per esempio, per l'avvicendamento verificatosi nell'Africa orientale e meridionale circa 2,5 milioni di anni fa, che ha profondamente influenzato l'evoluzione dei primi Ominidi.
È importante sottolineare come gli eventi evolutivi, sia locali che globali, abbiano una natura profondamente intergenealogica. Negli interi biota sono i molti elementi non affini che tuttavia presentano pattern simili di inseguimento dell'habitat, di estinzione e di speciazione, a mostrare un insieme di storie evolutive armonizzate in un comune contesto ecologico. Si è scelta la metafora del 'secchio oscillante' per caratterizzare questi pattern multiscalari di stasi ed evoluzione in un contesto ecologico. In un secchio che viene trasportato l'acqua 'sciaborda' da un lato all'altro; più il livello dell'acqua di un lato si innalza, più lo sciabordio porterà in alto l'acqua quando essa tornerà sull'altro lato. Lo stesso accade con l'evoluzione. Si immaginino le gerarchie ecologiche e genealogiche le une accanto alle altre; in un diagramma, esse rappresentano i lati del secchio; gli organismi che si trovano in ciascuna gerarchia e le loro interazioni formano il fondo del secchio. Senza perturbazioni i sistemi sono stabili, privi di sciabordio; lievi perturbazioni di carattere locale scatenano le successioni, alimentate dai reclutamenti provenienti dai demi periferici; in questo caso non avviene alcuna evoluzione morfologica.
Perturbazioni più intense come i cambiamenti climatici associati alle glaciazioni pleistoceniche sconvolgono i sistemi ecologici e dislocano le specie, molte delle quali sopravvivono in quanto continuano a trovare e occupare habitat familiari. Gli adattamenti già presenti risultano adeguati e ancora una volta non è possibile identificare i risultati di un'evoluzione morfologica. Quando la perturbazione ecologica è sufficientemente rapida e grave si estinguono intere specie: infatti, le perturbazioni sul lato dell'ecosistema regionale 'sciabordano' abbastanza in alto nei sistemi genealogici da causare l'estinzione di intere specie. La speciazione successiva implica che nell'assetto ecologico appena modificato la vita vada incontro a cambiamenti morfologici. Nello sciabordio di ritorno gli ecosistemi di nuova ricostruzione sono notevolmente diversi da quelli che avevano occupato la regione in precedenza. Ciò è accaduto per le perturbazioni più intense che si siano verificate: globalmente esteso, lo sciabordio tracima nel settore genealogico portando i taxa superiori all'estinzione. Dopo un intervallo, l'entità dei fenomeni di speciazione e dei cambiamenti morfologici è così elevata che si arriva alla costituzione di interi taxa superiori nuovi e il risultante sciabordio di ritorno si manifesta in ecosistemi radicalmente differenti.
Gli equilibri intermittenti, dunque, non si verificano in un vuoto ecologico. Sebbene tradizionalmente questa ipotesi sia stata sviluppata per spiegare la stasi intraspecifica e i cambiamenti evolutivi interspecifici, la documentazione fossile mostra che tutti questi eventi si verificano in un contesto ecologico e che esistono interazioni locali di estinzione e successiva speciazione causate da eventi fisici. Così i pattern paleontologici sembrano aver stabilito quella connessione fondamentale tra ecologia ed evoluzione che mancava nelle prime versioni della teoria evoluzionista.
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