FABIO Massimo il Temporeggiatore, Quinto (Q. Fabius Q. f. Q. n. Maximus Verrucosus Cunctator)
Politico e guerriero romano dell'età della seconda guerra punica. Nacque intorno al 275 a. C. Si discute se fosse nepote o pronepote di Q. Fabio Rulliano (v.). Console per la prima volta nel 233, trionfò dei Liguri. Poco siamo informati intorno alla sua censura del 230 e al suo secondo consolato del 228, nel quale ci viene detto (ma la notizia sembra anacronistica) che combatté la legge agraria di Flaminio. Era circa il principio della seconda guerra punica uno dei membri più autorevoli del senato romano e si racconta, ma non sappiamo con quanto fondamento, che si oppose all'immediata dichiarazione di guerra dopo la presa di Sagunto per parte di Annibale. Secondo alcune fonti fu a capo dell'ambasceria che allora venne mandata a Cartagine per minacciare la guerra se i Cartaginesi non sconfessavano e consegnavano Annibale; ma è probabile che si trattasse di M. Fabio Buteone. Nel 217 dopo la sconfitta del Trasimeno, F., con procedura straordinaria, su proposta del senato, eletto dittatore dai comizî, dopo aver preso in Roma gli opportuni provvedimenti per calmare gli animi, restaurare le finanze e fronteggiare la situazione militare, recatosi in Puglia dove Annibale era pervenuto, iniziò la sua famosa strategia del temporeggiamento, non dando al nemico occasione di attaccare battaglia e seguendolo da vicino per infliggergli senza combattimento i maggiori danni. Seguì così passo passo Annibale attraverso il Sannio fino in Campania, lasciandogli devastare spietatamente i territorî degli alleati e dai sudditi. Poi, valendosi della superiorità delle forze, tentò di accerchiare Annibale nell'Agro Falerno; ma Annibale gli sfuggì col notissimo stratagemma e tornò in Puglia, dove F. prese di nuovo a fronteggiarlo temporeggiando. Recatosi F. in Roma, dove probabilmente il senato voleva discutera con lui intorno alla sua strategia, il maestro dei cavalieri Minucio profittò della sua assenza per attaccare Annibale, contro gli ordini del dittatore, riportando presso Gerunio un piccolo successo. La notizia esagerata di tale successo fece sì che i comizî diedero a Minucio poteri uguali a quelli di F. Tornato F. in Puglia, i due generali accamparono separatamente; e F. ottenne una morale rivincita quando in un combattimento tra Annibale e Minucio, in cui Minucio rischiava di avere la peggio, sopravvenendo con le sue truppe, disimpegnò il collega. Già prima che finisse l'anno consolare 217 F. e Minucio deposero il potere nelle mani dei consoli. I nuovi consoli del 216, Varrone ed Emilio Paolo, d'intesa col senato, abbandonarono la strategia del temporeggiamento e il risultato fu la sconfitta di Canne. Da allora in poi la strategia di F. fu adottata generalmente da tutti i comandanti romani che fronteggiarono Annibale. Essi tutti cioè si proposero di logorare il nemico e di non dargli battaglia se non in condizioni estremamente vantaggiose. Piccole e parziali deviazioni da questa strategia, dovute piuttosto a errori che a proposito deliberato, non mutarono l'indirizzo generale della guerra d'Italia. Né può dirsì vero mutamento l'audace offensiva di Livio Salinatore contro Asdrubale, perché le guerre di Spagna avevano insegnato quanto Asdrubale fosse come generale inferiore al rratello. In questi anni F. rivestì ripetutamente il consolato. Console per la terza volta nel 215, condusse senza notevoli successi la guerra in Campania dove fortificò Puteoli. Console per la quarta volta nel 214, non riportò altro successo notevole che la conquista di Casilino. Fu nel 213, per quel che ci dicono le fonti, legato presso il figlio, allora console. Nel 211 ci viene detto, ed è credibile, che cooperò all'imperterrita resistenza di Roma quando Annibale marciò sulla città. Console per la quinta volta nel 209, conseguì il suo maggior successo, il ricupero di Taranto, che però avvenne per tradimento. La tradizione non nasconde la spietatezza che egli dimostrò in questa occasione contro il nemico, compresi quei Bruzî che gli avevano aperto a tradimento la porta della città. Nel 205 e 204 la tradizione lumeggia, a ragione senza dubbio, per quanto possano esservi esagerazioni nei particolari, la sua opposizione al proposito di Scipione di portare in Africa la guerra. Nel 203 egli morì in età assai avanzata, sebbene sia probabilmente favola che egli rivestisse per 62 anni l'augurato. L'anno innanzi aveva recitato l'orazione funebre (laudatio) per il figlio premortogli. Questa orazione si leggeva ancora al tempo di Cicerone e dimostrava come egli non fosse alieno dalla cultura greca.
Intorno alla strategia di F. si è molto discorso nell'antichità e nella età moderna. Il giudizio degli antichi è sostanzialmente concorde nel riconoscere che egli cunctando restituit rem, e non è dubbio che giovò assai ai Romani il temporeggiamento, finché essi non ebbero appreso il modo di appropriarsi le innovazioni tattiche di Annibale e finché non ebbero trovato il generale che sapesse contrapporsi ai suoi miracolosi avvedimenti strategici. Ma lasciando devastare impunemente i territorî di alleati e di sudditi quella strategia può dirsi che desse occasione alle gravissime ribellioni che seguirono dopo il 216, per lo meno quanto la strategia delle inconsulte offensive di Flaminio e di Varrone. Essa richiedeva d'altronde una tensione di forze, un dispendio di mezzi, una tolleranza delle devastazioni nemiche tale che l'Italia sofferse durante la seconda guerra punica spaventosamente e che, in particolare, si avviò per tal modo alla rovina quella borghesia dei piccoli possidenti che aveva formato il fulcro delle armate italiche. Tali piaghe si poterono in parte, ma solo in parte, rimarginare perché, unicamente prima che l'esaurimento fosse completo, Roma trovò in Publio Scipione il generale che seppe uguagliare tatticamente e strategicamente Annibale e quindi, tenuto conto delle immani risorse di cui in confronto del Cartaginese Roma disponeva, vincerlo. E tuttavia non si può negare che la strategia di Fabio ha salvato Roma nel periodo in cui non v'era nessuno che potesse attuarne un'altra più efficace e che, col perseguire quella strategia a onta dei clamori di sudditi e d'alleati e dei pericoli e danni effettivi che essa presentava, F. ha dimostrato una consapevole energia che lo mette alla pari dei maggiori fra i Romani e lo rende degno e tipico rappresentante di un popolo che ha spinto fino al limite estremo dell'umana possibilità la sua tenacia nella lotta per l'esistenza. Pel resto F. come aveva le migliori qualità, così condivideva le limitazioni di quella aristocrazia patrizia alla quale apparteneva e in particolare la scarsa sensibilità per le sofferenze del popolo e la scarsa generosità verso il nemico; come pure la grettezza mentale che gli impediva di riconoscere la possibilità, mutate le contingenze, di una strategia diversa dalla sua e di simpatizzare con uomini diversi da lui per carattere e per indirizzo, anche se valentissimi, come Scipione Africano.
Fonti: Fonti principali sono tutti gli scrittori che trattano della seconda guerra punica, soprattutto Polibio e Livio. In particolare, oltre l'Elogium in Corp. inscr. Latin., I, 2ª ed., p. 193, estremamente frammentario, la vita nel pseudo Aurelio Vittore (Viri ill., 43) e la vita plutarchea. Quest'ultima pare derivi in buona parte da Celio Antipatro, che qua e là Plutarco ha corretto e completato con Livio e Polibio a lui ben noti.
Bibl.: F. Münzer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, col. 1814 segg.; H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, I, 3ª ed., Berlino 1920, p. 361 segg.; J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, III, i, Berlino 1912, p. 214 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, ii, Torino 1917, passim; B. L. Hallward, in Cambridge Ancient History, VIII, Cambridge 1930, p. 48 segg.