FAMIGLIA
(XIV, p. 764; App. II, I, p. 900; IV, I, p. 757)
Dei temi trattati in IV Appendice debbono riprendersi, in ragione dei mutamenti e degli sviluppi da registrare sul piano legislativo e della giurisprudenza pratica, le questioni che nell'esperienza italiana riguardano le tutele accresciute della f. ''di fatto'', il regime delle ''forme'' matrimoniali canonica e civile, la riforma del divorzio, e l'adozione, in particolare l'adozione dei minori in stato di abbandono.
Il testo costituzionale attribuisce alla f. il carattere di "società naturale fondata sul matrimonio". L'indole di società ''naturale'' non significa il rinvio a valutazioni estranee al diritto positivo, da ricavare da una forma storica di diritto naturale. Vuole significare, più semplicemente, la priorità della f. rispetto all'organizzazione della società nello stato e secondo il diritto; e intende fissare, anche sul piano della legge positiva, i limiti invalicabili che ogni intervento esterno, operato dal legislatore o dal giudice, incontra nell'ordine interno delle famiglie. In breve, il sistema positivo della f. nega la dimensione di fenomeno puramente ''giuridico'' e ne rispetta l'autonomia contro tentazioni autoritarie d'intervento; tuttavia non ne rimette la disciplina a ordinamenti al di fuori dello stato, radicati nella religione o nel costume o nelle particolari tradizioni di gruppi o di luoghi.
La f., cui sono riconosciuti i diritti propri di una ''società naturale'', è la f. "fondata sul matrimonio", detta anche f. legittima. Ma la garanzia formulata in questi termini non si traduce in disinteresse o negligenza di un fenomeno sociale ricorrente, costituito dai casi di convivenza fuori del matrimonio. La convivenza realizzata nel ménage di fatto, o f. di fatto, presenta nella sostanza lo stesso contenuto della convivenza originata dal matrimonio: tra i soggetti, che vivono come coniugi (more uxorio, secondo il corrente modo di esprimersi), si stabiliscono vincoli di fedeltà, coabitazione, assistenza e di reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali; tra genitori e figli procreati fuori del matrimonio doveri di mantenimento, educazione e istruzione a carico dei primi, di devozione e rispetto da parte dei figli. Quando la convivenza si allarga ad altri soggetti, solitamente si riproduce, sempre sul piano dei fatti, una serie di aspettative e di apporti analoga a quella che nella f. legittima è imposta, oltre che dalla solidarietà familiare, dalla legge.
L'attenzione dei legislatori al fenomeno, statisticamente di rilevanza sempre più vasta (destinata a crescere ancora presso le generazioni a venire), è di ampiezza e contenuto diversi, nel trascorrere dall'uno all'altro ambiente: il problema politico riguarda l'opportunità di un regime specifico dei diritti e dei doveri patrimoniali, durante la convivenza e soprattutto nel momento in cui essa si scioglie, o al contrario la convenienza di fermarsi agli istituti e ai rimedi del diritto comune generale (attingendo dalla disciplina delle società, dei rapporti di lavoro, dell'arricchimento senza causa). La via del regolamento legislativo è percorsa in esperienze tra loro non assimilabili, attraverso un corpo organico di norme (come accade nel mondo scandinavo) o con episodica (e talora incidentale) considerazione del fatto (così ha reagito all'importanza e alle dimensioni del fenomeno il riformatore sammarinese del diritto di famiglia). Nel Parlamento italiano sono stati presentati disegni di legge su iniziativa dei partiti della sinistra: vi si prevede l'estensione, alla f. di fatto, di norme penalistiche che riposano sulla solidarietà di gruppo e sulla lealtà dei componenti più che sui vincoli formali; largamente sono regolati gli aspetti patrimoniali dei rapporti, lasciandosi larghi spazi all'autonomia dei soggetti in qualche disegno di legge, mentre in altri si affida la garanzia del soggetto debole a penetranti controlli giudiziali.
La giurisprudenza della nostra Corte costituzionale non ha seguito un cammino uniforme; anche se si è attenuata l'originaria tendenza restrittiva, permangono oscillazioni e ripensamenti all'interno di un medesimo problema, com'è accaduto in tema di proroga del contratto di locazione o di successione nel rapporto in favore del convivente. Viene tenuta ferma la inestensibilità di norme di diritto penale, sostanziale (per es., la punibilità solo su querela dei delitti contro il patrimonio) e processuale (come la facoltà di astenersi dal testimoniare), dettate per il coniuge e i parenti.
La coerenza dei contrastanti indirizzi starebbe in ciò, che tra i coniugi e non anche nella mera convivenza si determina una comunanza d'interessi particolarmente intensa, ma in materia di locazioni, più che la rilevanza della situazione di fatto, sarebbe decisiva l'essenzialità dei bisogni che l'abitazione soddisfa nella vita delle persone, al di là della precarietà dei rapporti che si costituiscono nella mera convivenza.
Alle unioni ''di fatto'' appartengono − se si segue un criterio rigidamente formale, usando come parametro la validità e l'efficacia per l'ordinamento statale − i matrimoni celebrati nell'ambito di una confessione religiosa e con effetti circoscritti in tale sfera. Il discorso è particolarmente rilevante per il nostro paese, dove a partire dal Concordato del 1929 il matrimonio celebrato innanzi al ministro del culto cattolico, a seguito della trascrizione nei registri dello stato civile, diviene efficace anche nei confronti dello stato.
Questa duplicità delle ''forme'' matrimoniali, in contrasto col sistema d'ispirazione laico-liberale che prevedeva il solo matrimonio civile e relegava nell'area della libertà di coscienza la celebrazione delle nozze religiose, ha conferito al nostro ordinamento tratti peculiari, suscitando seri dubbi sulla compatibilità dei due regimi col principio costituzionale di eguaglianza: la discriminazione, secondo il giudizio critico di una larga dottrina, finirebbe per legarsi al fattore religioso, e non varrebbe a superarla la considerazione che alla base dei differenziati regimi vi sarebbe un atto di libera scelta dei soggetti. La diversità appare come un dato di sicura evidenza se si riflette sulla concezione che del matrimonio ha la Chiesa cattolica, a fronte della nozione laica dell'istituto. Le ideologie si rispecchiano nelle rispettive discipline del codice di diritto canonico e del codice civile, se si tiene presente che dei matrimoni religiosi a effetti civili (quelli cosiddetti concordatari) il giudizio eventuale di validità, nel sistema del Concordato, è rimesso alla giurisdizione ecclesiastica.
Sui due punti debbono segnalarsi notevoli mutamenti, che derivano da nuovi indirizzi del diritto canonico e del nostro diritto civile e soprattutto dalla revisione degli accordi tra Stato italiano e Chiesa cattolica (anche se gli accordi stipulati nel 1984 attendono una necessaria legge interna di specifica attuazione del regime riformato, perché sia evitato il persistente e incerto uso della vecchia normativa).
La disciplina del matrimonio canonico era informata a principi riconducibili all'esigenza, per la Chiesa preminente, di assicurare la pienezza della libertà e la purezza del consenso manifestato dagli sposi, un consenso non suscettibile di essere sostituito o integrato da alcuna autorità umana o divina. Il regime del matrimonio civile appariva invece e rimane ispirato alla prevalente considerazione della stabilità del rapporto costituito col matrimonio, attribuendosi perciò alla convivenza l'idoneità a sanare i vizi che attengono alla capacità e alla volontà dei soggetti. La lontananza tra le due concezioni, e tra gli ordinamenti che le rispecchiano, si è andata col tempo attenuando, e in particolare la Chiesa, attraverso i documenti del Concilio Vaticano e più tardi col nuovo codex juris canonici, ha abbandonato la tradizionale indicazione dei fini del matrimonio − riassunti nella vicendevole assistenza, nella procreazione ed educazione dei figli, nel rimedio alla concupiscenza − per coglierne l'essenza nella comunione di vita che esso instaura. Senza trascurare gli aspetti sacramentali del vincolo matrimoniale, che sorreggono la suggestiva metafora della f. come ''chiesa domestica'', il nuovo codex sottolinea nel matrimonio la sostanza di "patto... con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita".
La tensione e i possibili conflitti tra la Chiesa e lo Stato italiano in materia matrimoniale sono destinati ad allentarsi anche con riguardo alla giurisdizione che sui matrimoni canonici a effetti civili viene riservata ai giudici ecclesiastici. Col nuovo Concordato il controllo sulle pronunzie, esercitato dal giudice dello stato attraverso il procedimento della delibazione, si traduce non più in un esame meramente formale, ma nel verificare che siano state osservate le regole fondamentali del contraddittorio e rispettati i principi del nostro ordine pubblico; la decisione del tribunale canonico, nella sostanza, finisce per essere assimilata ed essere soggetta agli stessi controlli che riceve ogni pronuncia straniera da eseguire in Italia. Un ulteriore e decisivo progresso, sulla via del superamento delle discriminazioni e per la ricostituzione dell'unità del sistema, si realizza se si condivide la tesi che con i nuovi accordi sarebbe venuta meno l'esclusività della giurisdizione ecclesiastica sui matrimoni canonici: la lettura conduce al punto estremo la crisi della duplicità delle ''forme'' matrimoniali e ne annuncia la probabile fine in tempi ravvicinati.
La disciplina del divorzio ha conosciuto, di recente, ampliamento e modifiche che è opportuno segnalare: dalle linee dell'istituto, mentre si conferma la concezione che vi scorge il rimedio di irreparabili fratture e solo in casi marginali la sanzione di comportamenti colpevoli, si ricavano motivi di riflessione sui ''modelli'' di matrimonio e di f. a cui il sistema giuridico si va adeguando.
La disciplina aveva già ricevuto (con la l. 436 del 1978) integrazioni relative all'assistenza sanitaria, alla pensione, a possibili pretese ereditarie in favore del coniuge divorziato, materie in cui è decisiva la considerazione del bisogno in cui può versare il coniuge economicamente più debole (nelle ipotesi più frequenti a verificarsi, la donna). Più significative e penetranti sono le novità dell'ultima riforma (l. 74 del 1987), che investono sia il regime sostanziale che il processo di divorzio. Quanto al regime processuale, riveste particolare valore la possibilità che il ricorso venga presentato congiuntamente: se il ricorso comune dei coniugi indica in maniera compiuta le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici, si fa luogo alla procedura in camera di consiglio del Tribunale, assai più spedita rispetto alla procedura contenziosa che s'instaura su domanda di uno dei coniugi. Sul punto si avverte, più che su ogni altro, la tendenza ad allargare l'area in cui può esplicarsi l'autonomia delle parti. È coerente con l'indicata prospettiva un'altra norma, che consente la conservazione del cognome che col matrimonio la donna aveva assunto, quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela.
Sul piano patrimoniale è stata sottoposta a profonda revisione la disciplina dell'assegno, per ciò che riguarda i criteri da rispettare nel determinarne l'entità. La regola nuova, nell'indicare gli elementi di cui si deve tener conto, non si discosta da quella serie di fatti che aveva indotto la giurisprudenza a ravvisare nell'assegno una triplice funzione, assistenziale, risarcitoria e compensativa. I tratti originali della formula ora adottata risiedono nella rilevanza data alla durata del matrimonio e nella decisiva importanza che assume la situazione economica del coniuge a favore del quale viene disposta la somministrazione periodica dell'assegno: l'accento è dunque posto sulla finalità assistenziale, nel quadro dei doveri di solidarietà che vanno oltre il vincolo disciolto.
In tema di rapporti tra genitori e figli meritano di essere segnalate due norme: quella che prevede, ove appaia utile anche in ragione dell'età, la possibilità di affidamento congiunto o alternato dei minori; l'altra, d'indole patrimoniale, che per l'assegnazione della casa di abitazione preferisce il genitore ''affidatario'' dei figli minori, o con il quale convivano i figli maggiori di età.
Si è detto, della riforma recente, che con essa si è andata accentuando la ''privatizzazione'' del divorzio: attraverso le modifiche che investono il processo − secondo la più conveniente prospettiva da adottare, per esprimere un giudizio sull'istituto − la privatizzazione tocca la natura sostanziale del divorzio. L'evoluzione rispetta più di un limite, conservandosi l'irrilevanza della separazione di fatto e mantenendosi la tipicità delle cause; ma il sistema si va svolgendo nella direzione del divorzio visto come ''affare privato'', e della piena disponibilità delle situazioni e dei diritti derivanti dal matrimonio. Non sembra peraltro fondata la lettura che crede di poter ravvisare segni ulteriori della ''privatizzazione'' della materia nella mancanza di talune clausole che il nostro legislatore non ha introdotto, a fronte di esperienze di altri paesi che potevano farle apparire come raccomandabili: non si è contemplata, per es., la clausola cosiddetta ''di durezza'' che consente al giudice di negare il divorzio che gli sembri particolarmente oneroso, sul piano psichico o economico, per il coniuge che lo subisce o per i figli minori, e giustifica il rifiuto o il rinvio della pronuncia.
L'ammissibilità della domanda congiunta, le modifiche nel regime delle prove, l'ulteriore riduzione o la negazione dei poteri d'iniziativa del giudice, l'avere, in breve, cancellato le tenui tracce di ogni possibile equivoco sulla natura del processo, rimesso alla discrezionalità delle parti e immune dalle contaminazioni di un procedimento inquisitorio, sono temi che appartengono alla riflessione sul divorzio sempre più largamente ''privatizzato'': in primo luogo è l'ammissione della domanda congiunta delle parti a operare in tale direzione, sino ad aprire la strada al divorzio consensuale.
Può apparire in proposito legittima la domanda se non sia auspicabile un sistema di automatismo del divorzio, come del resto avviene in alcuni ordinamenti, in ragione di una certa durata della separazione personale. Ne risulterebbe la natura pienamente amministrativa del procedimento, e potrebbe bastare una certificazione dell'avvenuto decorso del tempo, con effetto risolutivo del rapporto. L'intervento del giudice si svolgerebbe quando sul decorso del tempo e sulla domanda congiunta s'innestino controversie riguardanti aspetti concreti della situazione da regolare, in primo luogo l'affidamento dei figli e i rapporti economici, materie su cui in concreto sorgono i contrasti.
I ridotti interventi del giudice, già nel regime vigente del divorzio e in prospettiva suscettibili di ulteriori restrizioni, rispondono a un modo d'intenderne la funzione sempre più condiviso. Il discorso è stato avviato in ambienti evoluti nel sistema delle relazioni industriali, anche sul piano della tutela degli interessi che chiamiamo collettivi e diffusi. Sempre più largamente accettata è l'idea che la presenza del giudice si risolve in uno spreco di risorse intellettuali e in un'inutile perdita se egli presta la sua opera per risolvere controversie collettive di natura economica, che dovrebbero affidarsi ad arbitri, mentre converrebbe rimettere a organi amministrativi di conciliazione o certificazione le controversie di carattere personale. Il giudice, in definitiva, dovrebbe essere chiamato soltanto a decidere le controversie che toccano la collettività nei beni della salute, dell'ambiente, della scuola, o su valori di analoga incidenza. Ma ha provocato non poche preoccupazioni questa concezione che si va facendo strada nell'ambiente americano, poiché l'abbandono della difesa delle ragioni del singolo nelle controversie strettamente individuali − una difesa che era compito istituzionale dei giudici − sembra accompagnarsi alla caduta del valore e del senso della giustizia nella vita, nella società e nell'esperienza degli uomini.
Anche sull'adozione il legislatore, a breve distanza di tempo, ha operato significativi interventi riformatori, continuando e sviluppando la ormai definita e sicura tendenza alla piena parificazione della filiazione adottiva a quella legittima, nel segno di una considerazione della f. in termini di comunità di affetti, più che di derivazione biologica e di generazione in senso fisico.
Ancora esistono, nel diritto italiano, più di una forma di adozione, con finalità, requisiti e procedimenti diversi; ma il discorso sullo stato di figlio adottivo, che da ciascuna consegue, è in larga misura coincidente. Ridotta in angusti confini l'adozione ordinaria, istituto di vecchia e solida tradizione, l'ultima legge in materia (n. 184 del 1983) disegna in linee più precise l'adozione dei minori in stato di abbandono, già introdotta sulla spinta di vivaci sollecitazioni sociali secondo il modello di esperienze straniere (specialmente del diritto francese, in cui si usano anche espressioni quali "adozione legittimante" o "legittimazione adottiva", per rendere più prontamente l'idea della pienezza di situazione giuridica garantita al figlio adottivo). L'adozione senza aggettivi è dunque divenuta quella che la l. 431 del 1967 aveva chiamata adozione ''speciale'', limitandola ai minori di otto anni per contrapporla all'adozione cosiddetta ''ordinaria''. Quest'ultima, tuttavia, non scompare dall'ordinamento, pur se ne risulta assai ristretto il campo di futura applicazione. Potrebbe servire ora − ma non sono mancati contrasti circa l'idoneità a questa funzione sociale − a creare un vincolo tra soggetti adulti, specialmente a beneficio di persone anziane che formalmente assumono la veste di adottanti e in realtà riceverebbero assistenza e cure nell'ambito di un nucleo familiare.
All'adozione ordinaria le prime letture sono inclini a ricondurre, oltre a quella di persone maggiorenni, anche l'adozione di minori che la legge qualifica come pronunciata "in casi particolari": casi particolari ai quali è comune la mancanza, nel soggetto minore, dello stato di adottabilità e, in precedenza, della condizione di abbandono che ne costituisce il presupposto.
Nell'adozione − e si è già chiarito che il termine va ora riferito, senza specificazioni, all'istituto di cui alla l. 184 del 1983 − si è accresciuta, anche nei riguardi dei minori, la misura della loro partecipazione all'atto; essa assume, anzi, carattere negoziale pur in difetto della generale capacità di agire, con una graduazione dell'età sufficiente. In tal modo il processo in corso nel diritto familiare, avvertibile specialmente quando vi sia contrasto tra i coniugi o rottura dell'unità della f. (ci riferiamo ai casi in cui può o dev'essere ascoltato il figlio minore), conosce un punto avanzato della sua evoluzione.
All'affidamento dei minori, senza necessario legame con eventuali future adozioni, è dedicato il titolo d'apertura della legge. L'affidamento ad altra f. o a un singolo o a una comunità, e in via subordinata a un istituto di assistenza, ha luogo nella temporanea mancanza di un idoneo ambiente familiare: di qui la necessaria indicazione della presumibile durata, il rispetto delle indicazioni provenienti dai genitori o dal tutore e dall'autorità ''affidante'', la cessazione quando sia venuta meno la situazione di difficoltà. Finalità dell'affidamento familiare, per il quale si richiede del resto il consenso dei genitori o del tutore, è il reinserimento nella f. di origine, secondo l'enunciato posto ad apertura della legge, e cioè che "il minore ha diritto di essere educato nell'ambito della propria famiglia".
Dell'affidamento preadottivo sono regolate in maniera più puntuale le premesse per instaurarlo: nella scelta della coppia "maggiormente in grado di corrispondere alle esigenze del minore" le indagini dovranno mettere in luce "l'attitudine a educare il minore, la situazione personale ed economica, la salute, l'ambiente familiare degli adottanti, i motivi per i quali questi ultimi desiderano adottare il minore".
Col termine ''adozione internazionale'' si disciplina il fenomeno dell'introduzione di bambini stranieri in Italia, una realtà che al ''mercato'' dell'infanzia aggiungeva la peculiare nota di essere accessibile alle sole f. abbienti. Recenti episodi di cronaca hanno interessato, sulla materia, la pubblica opinione, suscitando dopo le ondate emozionali più caute riflessioni.
Bibl.: P. Rescigno, Trattato di diritto privato, voll. 2-4, Torino 1982; vol. di aggiornamento, ivi 1991. Inoltre: AA.VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli 1988; La riforma del divorzio, ivi 1989; R. Biagi Guerini, Famiglia e costituzione, Milano 1989; A. Mazzocca, Manuale del diritto di famiglia: matrimonio, rapporti patrimoniali tra coniugi, separazione, divorzio, Roma 1990; G. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano 1991.