Farinata
Appellativo di Manente degli Uberti, capopartito ghibellino, personaggio del C. X dell'Inferno.
Appartenente a nobile, ricca e antica famiglia ghibellina, figlio di Iacopo, nacque nei primissimi anni del sec. XIII, a Firenze. Parteggiò sempre coi ghibellini, di cui fu massimo esponente nella città dal 1239, quando divenne capo della sua famiglia. Nella lotta contro i guelfi, riuscì a sconfiggerli ed esiliarli una prima volta il 2 febbraio 1248, mercé l'aiuto di Federico II, ma, rientrati in città i suoi nemici dopo la rivincita di Figline, nel gennaio del 1251, egli stesso con la sua Parte fu sopraffatto e costretto all'esilio, a Siena, nel 1258. Dopo la battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) rientrò vittorioso in Firenze, donde furono cacciati una seconda volta i guelfi il 13 ottobre successivo. Riunitisi i capi ghibellini a Empoli proposero, particolarmente i Pisani, che Firenze fosse rasa al suolo, per distruggere alla radice il guelfismo toscano, ma F., apertamente e solo, si oppose e riuscì a salvare la sua città. Morì in Firenze nel 1264: nello stesso anno i ghibellini furono di nuovo cacciati dalla città; dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento, tutta la Parte ghibellina fu costretta, nel 1267, all'esilio, e perdette per sempre il potere politico; ma molti ghibellini tornarono.
D. ricorda la prima volta F. nel c. VI dell'Inferno (v. 79), in occasione del suo incontro con Ciacco, nel primo canto ‛ politico ' - di politica fiorentina - di tutto il poema. Dopo che Ciacco gli ha predetto i tragici eventi del 1300-1302, D. gli chiede se egli sappia in quali condizioni si trovino nell'oltremondo i grandi Fiorentini del passato, Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni, / lacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca / e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni. E Ciacco gli fa sapere che sono tra l'anime più nere e che ‛ diversa colpa ' giù li grava al fondo dell'Inferno.
È lecito certamente ritenere che il richiamo qui a F. e agli altri debba inquadrarsi nella prospettiva morale e civile che della storia contemporanea veniva disegnando D.: un richiamo non tanto alle persone, quanto a una generazione, termine di costante ammirazione e rimpianto, e a un'epoca, nella quale le lotte delle parti non impedivano l'esercizio delle virtù magnanime del patriottismo, e non significavano un tragico e irreparabile scadimento dell'umanità, di cui poi il poeta stesso avrebbe sentito l'impegno di farsi annunziatore e profeta di condanna e insieme di salvezza. Tuttavia non può non colpire la contrapposizione tra l'ancora ingenua ammirazione del pellegrino per i grandi cittadini del passato e la cruda notizia della condanna divina, e sebbene l'accento poetico sembri risultare dalla prima condizione d'animo del poeta, la contrapposizione non può non avvertirsi come la prima presa di coscienza del viandante della sproporzione tra la gloria terrena e le reali virtù predicate dalla fede, tra l'umano suono della fama e l'infallibile giustizia di Dio. Importa fermare questo punto per intendere il più moderno dibattito intorno al vero e proprio ‛ episodio '.
Il dialogo tra D. e F. occupa quasi totalmente il c. X dell'Inferno (vv. 13-136; tranne i vv. 52-72 riservati a Cavalcante de' Cavalcanti).
D. e Virgilio sono già nel sesto cerchio, dove sono puniti gli eretici, e procedono tra le tombe infocate. Alla domanda di D. se si può vedere qualcuno dei dannati, giacché i coperchi sono sollevati sopra le arche, Virgilio risponde prima annunziando che le arche saranno per sempre serrate dopo il giorno del Giudizio e che in quella parte del cerchio sono puniti i seguaci di Epicuro che l'anima col corpo morta fanno, e poi assicurando che gli sarà possibile vedere proprio quell'anima che D., per discrezione, non ha voluto nominare.
L'episodio è in tal modo sapientemente preparato attraverso toni di colloquiale e trepida sospensione. F. parla, improvvisamente levatosi da una delle arche, e invita con accenti di cortesia D. a fermarsi, dopo aver rilevato il suo parlare onesto verso Virgilio. Egli ha riconosciuto in lui un cittadino della sua nobile patria, Firenze, alla quale ammette di esser forse stato troppo molesto. All'improvviso suono di quelle parole, lì nell'alto silenzio del cimitero, D., intimorito, s'accosta a Virgilio, che invece lo incoraggia a volgersi e guardare F., il peccatore che egli segretamente desiderava vedere, e che si leva ora dalla cintola in su fuori dell'arca. Ma D. aveva già piantato i suoi occhi in quelli del dannato a coglierne l'aspetto e l'anima, e lo vede eretto, fuori dell'arca, col petto e con la fronte, come immemore e disdegnoso dell'Inferno. Le mani animose di Virgilio lo spingono verso F. invitandolo a parlare: ma F., quando il poeta è giunto presso la sua tomba, lo precede e con accento di consueta e distaccata alterigia lo invita a rivelare chi siano stati i suoi maggiori, e alla pronta e aperta risposta di D., dopo un cenno di corruccio, gli oppone che furono fieramente avversi alla sua Parte, sicché egli li disperse, li cacciò in bando, due volte, coi guelfi. Immediatamente D. ribatte che i suoi seppero però tornare l'una e l'altra volta, mentre i familiari di F. non erano riusciti ad apprender bene quell'arte del ritorno in patria.
A questo punto, quando la tensione tra i due sembra salita al suo estremo, s'inserisce la scena di Cavalcante de' Cavalcanti anch'egli collocato nella medesima tomba (vv. 52-72). E tuttavia F. pare rimanere assente, chiuso in sé medesimo, e non dà un sol segno, parola o gesto, di partecipazione al dramma del suo compagno di pena, talché quando l'altro piomba, folgorato dal sospetto della morte del figlio, nel fondo della tomba, riprende il discorso con D., al punto in cui si era interrotto: e mentre confessa che quella sorte d'inesorabile vendetta toccata ai suoi discendenti lo tormenta più della stessa pena infernale, preannunzia a D. la prossima dolorosa esperienza di quell'arte dell'esilio senza speranza di ritorno. E poi gli chiede, come incapace di darsene una ragione, il motivo di una così spietata crudeltà dei Fiorentini verso i suoi discendenti. D. gli ricorda che sopra di lui pesa la responsabilità dell'orribile strage di Montaperti e che è quella memoria a indurre i suoi concittadini alla conferma della condanna: e F., sospirando e scuotendo il capo, come in segno di desolazione e di doloroso rifiuto di una così singolare responsabilità, ricorda che non fu egli solo alla strage di Montaperti e vi fu tratto dalla feroce logica delle parti, mentre fu egli solo colui che difese a viso aperto Firenze, quando si proponeva di distruggerla. Di qui il colloquio diventa meno drammatico, percorso solo da un residuo senso di comune tristezza: D., che era stato così pronto alla ritorsione, augurando tregua e pace ai suoi discendenti, chiede a F. un chiarimento intorno alla prescienza delle anime infernali (o, più probabilmente, di quelle dannate in questo sesto cerchio), e F. non solo gli dà la richiesta spiegazione, ma aggiunge il richiamo alla finale terribile condizione sua e dei suoi consorti, quando non vi sarà più futuro e le tombe saran serrate in eterno. Il dialogo si spegne in note prevalentemente strutturali, pur se penetrate da una solenne mestizia: D., quasi avvertendosi in colpa, prega F. di chiarire a Cavalcanti la ragione dell'indugio nel rispondergli, e gli chiede notizia degli altri suoi compagni di pena. F. gli nomina tra i mille altri con cui giace tra le fiamme, Federico II e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, e poi si nasconde nell'avello, mentre D. torna verso l'antico maestro, ripensando, smarrito, alla profezia di F., profezia, così gli assicura Virgilio confortandolo, di cui gli saranno indicate la ragione e il corso quando giungerà in cospetto di Beatrice.
Si tratta senza dubbio di uno dei canti più alti e poeticamente solenni di tutta la Commedia: non soltanto per la perfezione dell'intonazione e del taglio drammatico, ma per la singolare e rilevata evidenza dei personaggi e per la misura dei rapporti psicologici ed evocativi. Il canto si apre con note di trepidante sospensione, addolcita dalla gentilezza del colloquio tra il maestro e D., e si chiude spegnendo lentissimamente la tensione drammatica che lo pervade: al centro la figurazione improvvisa di F., lo scontro drammatico con D., sul fondo di un chiuso amore e tormento di memorie terrene, l'intermezzo - arditissimo sul piano della retorica tradizionale - del dramma di Cavalcanti, che fa riscontro per contrasto a quello del suo consorte per l'estrema tensione e mobilità del sentire, la ripresa del dialogo tra Farinata - chiuso nella statuaria intensità della sua passione - e D., ricondotti entrambi dal diverbio al colloquio sotto il peso di un comune destino di sventura e di esilio. Trapasso reso possibile proprio dall'intermezzo cavalcantiano, momento dialettico del contesto, che consente il trascorrere del dialogo dall'improperium al senso del destino e, più ancora, della tragica ferocia delle parti e della crudele ingiustizia delle vendette e delle condanne fino alla mestizia del chiarimento sulla prescienza delle anime. I modi terminali e di struttura sembrano riassorbiti e come superati proprio per l'ufficio di estrema attenuazione drammatica del contesto: per le note di pacata desolazione relative all'eterna cecità, dopo il giorno del Giudizio, e per la tragica proiezione d'eterno in cui si scolorano, fino ad annullarsi, naturalmente, le memorie, le trepidazioni e le ingiustizie terrene.
Poiché quel che colpisce immediatamente il lettore è il complesso dei motivi drammatici, attraverso i quali si sviluppa il canto, il dramma di patrie memorie e di strazio familiare che tormenta F., e la chiusa e tragica ansia e angoscia paterna di Cavalcante, è naturale che l'analisi critica si sia volta a sottolineare questi motivi e a rinvenire in essi la splendente poesia del canto: tuttavia, oltre le difficoltà meramente esegetiche, l'episodio ha dato luogo a riflessioni sempre più complesse e sottili, sino alle più recenti indagini che tendono a mutarne profondamente l'interpretazione tradizionale.
Il canto ha naturalmente una sua amplissima letteratura. In quanto alla lettera, benché tra i meno tormentati, non vi mancano passi o parole che hanno dato luogo a discussioni; tuttavia quasi tutti i dibattiti esegetici piuttosto che presentare difficoltà obiettive di ambiguità, lessicali o grammaticali, si legano quasi sempre all'interpretazione critica generale: tale quello sull'interpretazione dell'epicureismo che vedremo più sotto (vv. 13-15), del molesto (v. 27), l'altro sul v. 33 (da la cintola in sù, ecc.), sul gran dispitto (v. 36), sul quasi sdegnoso (v. 41), sul levar le ciglia un poco in suso del v. 45, sul ‛ disdegno ' di Guido (v. 63), sul magnanimo del v. 73, sull'ebbe sospirando il capo mosso del v. 88. Più strettamente sul piano esegetico si colloca l'interpretazione di conte (v. 39), su cui è concordemente accettata quella che, con lieve variazione, va dal Parodi (" Bull. " III [1895-96] 150) come " adatte ", " convenienti ", al Barbi (Con Dante e coi suoi interpreti) " dignitose ", " nobili ", al Torraca, " adorne ", " cortesi "; di la vista scoperchiata, ormai unanimemente intesa come " apertura senza coperchio ", intendendo vista come " apertura ", " bocca " della tomba. Meno agevole l'interpretazione del verso tal orazion fa far nel nostro tempio, pel quale si riscontra già molta varietà presso i commentatori antichi o meno recenti: dall'interpretazione di orazion nel senso di " preghiere " (Ottimo, Landino, Vellutello, Cesari, Venturi, ecc.) a " provvedimenti " (Boccaccio, Benvenuto, ecc.); a tempio nel senso di " chiesa ", o addirittura della chiesa di San Giovanni o altra più specifica (Benevento, Castelvetro, Lombardi, Tommaseo) o " assemblea ", " curia " e simili (Boccaccio, Anonimo, Vellutello, Venturi). Il Barbi, come già Benvenuto e il Daniello, e poi più chiaramente il Landino e il Vellutello, spiega che, avendo D. per metafora indicato il provvedimento come orazion, continua l'espressione metaforica usando tempio per dire Firenze. Più recentemente il Pagliaro sostiene anch'egli il carattere figurato dell'espressione, ma nel senso che i provvedimenti contro gli Uberti sono nella comunità fiorentina quello che sono le orazioni nelle chiese " per le pubbliche calamità... i cui anniversari sono celebrati con preghiere nelle chiese " (Ulisse 215 ss.).
Ma la parte più ampia dell'indagine è rivolta all'interpretazione critica di tutto l'episodio, e si sviluppa dall'analisi d'impostazione romantica, culminata nel De Sanctis, che ne esalta il carattere di puro dramma umano, immemore e al di sopra dell'Inferno, a quella dei nostri giorni che procura da un lato di ricondurre l'episodio dentro il contesto unitario della cantica, cogliendo per tal via anche l'unità del canto in tutta la sua dimensione e ricusando l'ufficio episodico dei due dannati, e dall'altro d'intendere, oltre il primo piano, così rilevato, del dramma familiare e patrio, di disperazione, di strazio e di esilio, l'altro che si sviluppa da esso come in controluce, dell'immanente senso della colpa, e converte nel reale dramma della pena in atto l'ostinato ed esclusivo legame alle memorie, alla grandezza e agli affetti terreni, in che facevano consistere esclusivamente la sostanza poetica del canto i critici di tradizione romantica.
Primo il Foscolo rilevò l'importanza artistica del canto, ma in realtà la sua scoperta, come momento della più alta poesia di D., è dovuta al De Sanctis. Muovendo dall'idea, in lui fondamentale, dell'opposizione in D. di " due mondi irreconciliabili, un mondo teocratico-feudale, che ha per dogma l'annullamento della personalità, e il mondo del comune libero, dove la personalità è tutto ", e dall'altra e correlativa che la poesia moderna, di cui D. è il grande iniziatore, nasce dalla rappresentazione dell'uomo nella libertà delle sue passioni e della sua coscienza, egli vide in F. l'uomo sorgere " per la prima volta nel moderno orizzonte poetico ". La contrapposizione dei due mondi, quello teocratico e intenzionale, religioso e penitenziale, e l'altro umano e moderno si realizza pienamente nell'episodio dove " l'Inferno ci sta non per sé stesso, nel suo significato diretto e morale " e " il peccato è menzionato unicamente a dare spiegazione, perché in questo cerchio si trovino Farinata e Cavalcante ", e dove " ciò che ti colpisce non è certo Farinata peccatore, Farinata in quanto eretico ", ma F. che si leva come una statua solitaria sopra il suo martirio e sull'Inferno che sembra fargli da piedistallo, per rendere poeticamente più grande la sua figura. L'analisi, tuttora fondamentale nelle sue particolari determinazioni, si sviluppa su questa prospettiva, ferma il carattere, attraverso la monumentale plasticità, della magnanimità di F., invitto nel vigore delle sue passioni, contrapposto, per l'umana e ferma consapevolezza del suo agire, alla ribelle e furente animalità di Capaneo. Tale consapevolezza eroica si rivela e redime insieme, umanamente, nell'autorappresentazione della difesa a viso aperto della patria, e nell'amore per i familiari. Dramma dunque politico e familiare, nel quale D. appare degno antagonista di F., non però il D. simbolico, che qui è scomparso, giacché egli " non è qui l'anima umana peregrina per i tre stadi della vita, ma è un Dante di carne e ossa, il cittadino di Firenze, che ammira il gran cittadino della passata generazione, e rimane come annichilito innanzi a tanta straordinaria grandezza ".
La critica posteriore, sino al Parodi, rimase tutta, sostanzialmente, sotto l'influenza del De Sanctis. Qualche accenno a motivi che saranno ripresi posteriormente (Proto, Gatta, Filomusi-Guelfi) ha carattere troppo occasionale per poter segnare un qualsiasi inizio innovativo. Piuttosto, nell'ambito dell'analisi psicologica del personaggio, sono da ricordare alcune letture, soprattutto quella di Fedele Romani (1906), che tende ad accentuare la drammaticità dell'episodio, ma che avverte già la funzione liberatrice, per F., dell'episodio di Cavalcanti; e particolarmente quella di G.A. Levi (1907), nella quale per la prima volta compare un'interpretazione rivolta a cogliere la sostanza e altezza morale della personalità di F., sicché, ad esempio, la predizione dell'esilio a D. non appare più come ritorsione vendicativa ma come una nota di compianto che unisce alla sua sventura quella dell'ignaro antagonista. Il Parodi, invece, avvertì chiaramente l'eccessiva rigidità della costruzione desanctisiana e la corresse organicamente con molta finezza, soprattutto ponendo in rilievo la varietà delle passioni nell'apparente statuarietà di F.; iniziò cioè la riduzione umana della superumana costruzione del De Sanctis. Egli riafferma, con De Sanctis, che l'eresia ha con F. una relazione " affatto esterna ", ma aggiunge l'osservazione notevole che qui D. se non proprio la piccola Firenze dell'età pura di Cacciaguida, vagheggia la Firenze delle generazioni di Montaperti e di Benevento, " non scevra di colpe per l'ardore delle sue sfrenate passioni di parte, ma però grande, magnanima, eroica, quella Firenze di cui il simbolo più alto è l'eretico Farinata ". Egli non vede l'episodio di Cavalcante come un fatto patetico che valga ad addolcire la figura di F., ma come una pausa di riflessione in cui egli, pur senza averne sicura coscienza, " vedeva come il fulminatore giaccia fulminato a sua volta, come si alterni la sventura altrui con la nostra sventura ", sicché le parole che rivolge subito dopo a D. " scendono tristi e pacate ", come un ricordo e un ammonimento a chi è per patire la sua stessa sventura: e perciò non sono parole di vendetta. Tuttavia il Parodi si muove ancora entro l'orbita desanctisiana, e, in realtà, per difendere l'Uberti da una troppo barbarica elementarità e ferocia, ne complica le linee interiori in maniera probabilmente eccessiva. Per dare una misura umana dell'eroe, composta in linee armoniche, che tramutasse in austerità e alta dignità quel che era apparsa statuarietà, e in ricchezza di umane sofferenze quel che era sembrato straordinario impeto o mobilità di passioni, occorreva liberarsi dalle istanze romantiche, e muovere non solo da una metodologia critica più moderna, ma da una più esatta intelligenza del mondo dantesco e del Medioevo. A tale compito provvide primamente il Barbi: in una sua lettura del 1924 sottopose ad attentissima critica tutte le interpretazioni precedenti, e, oltre al merito di aver rettificato parecchi errori, ebbe quello di cogliere la sostanza morale dell'episodio (" Il dramma rimane... politico; e conclude... a un alto sentimento di giustizia umana e all'esaltazione dell'amor di patria sui sentimenti partigiani "). Tuttavia non solo la riduzione dei residui romantici si operò in lui sulla linea di un'analisi in realtà ancora psicologica, ma la diseroicizzazione di F. fu condotta non sul fondamento di una nuova e organica interpretazione, ma sopra dati storici e mediante l'esame della parola, talvolta staccata dal contesto e non avvertita nel suo ritmo e significato poetico, il che dette luogo a reazioni, importanti particolarmente sul piano del metodo (M. Rossi, Sapegno). Anche, in sostanza, sulla linea tradizionale rimane lo studio del Morelli, che fa consistere tutta la poesia del canto nel dramma politico, che si sviluppa non nella contrapposizione di D. e F., ma nel comune senso dell'esilio e delle sofferenze " che derivano dalla stessa bieca vendetta e dalla stessa iniqua ragione delle parti ".
La via della nuova interpretazione si apre, in realtà, attraverso la vexata quaestio dell'unità del canto, nata nell'ambito delle polemiche promosse dall'interpretazione che della poesia di D. propose B. Croce, e che, applicata a questo canto, riduceva sulla linea del De Sanctis la parte poetica allo scontro tra D. e F. (compreso ovviamente l'episodio cavalcantiano), e considerava come pertinente alla " struttura " l'ultima parte del canto (vv. 94 ss.). La polemica si articola in due direzioni: l'una che, sul fondamento dell'accettazione della dottrina crociana, procura d'integrarla sia mediante una più dinamica applicazione del rapporto struttura-poesia, sia per mezzo di un'analisi di gusto meno tesa e psicologicamente rilevata; l'altra che, muovendo dalla contestazione di fondo della posizione crociana, e sostenendo l'unità immanente nella poesia dantesca del personaggio e dello scrittore, del D. che si vede essere come creatura umana e viandante nel travaglio della sua redenzione, ma che insieme costruisce severamente nell'Inferno un sistema di pena teso ad attestare e a rappresentare la miseria del peccato, mira non solo a proclamare storicamente errata la distinzione crociana, ma a proporre un'interpretazione totalmente diversa della poesia di D., riportandola alla sua storica condizione, e proclamando l'inscindibile unità del cosiddetto romanzo teologico con la poesia e del nesso di moralità e rappresentazione in tutto il poema.
Un segno cospicuo del primo indirizzo può trovarsi nel commento del Momigliano che, senza negare la presenza di parti sorde, procura un recupero alla poesia dell'inizio del canto - sottolineando finemente il " senso di solitudine, e l'impressione di necropoli, che forma l'atmosfera della fine del canto IX e del principio del X ", sicché le parole di Virgilio " conferiscono allo spettacolo del 6° cerchio una solennità unica, e... ne fanno uno scenario di novissimi " -, e di alcuni tratti dell'ultima parte in cui il critico vede smorzarsi, con poetica coerenza, il patetico dell'episodio del Cavalcanti. Dopo il Momigliano (1945) la schiera s'ingrossa, rifacendosi in parte all'inquieta metodologia del Russo, che al nesso struttura-poesia aveva tentato di sostituite l'altro poesia-struttura, nel senso - alquanto teoricamente indeterminato - che è la poesia stessa che genera la sua stessa struttura, la quale perciò ne è tutta penetrata e si lega a essa in un nesso dialettico più intrinseco di quello additato dal Croce; e in parte ad alcune osservazioni del Gramsci, contenute in uno scritto che, composto il 1937, fu pubblicato nel 1950. Egli osserva che il dramma di Cavalcanti si distingue da quello di F. perché la sua pena è rappresentata in atto, cioè è intrinseca alla sua particolare forma di dannazione: egli soffre perché non sa se suo figlio sia vivo, sicché le spiegazioni contenute nell'ultima parte del canto fanno un tutt'uno con la rappresentazione del dramma e perciò " il brano strutturale non è solo struttura, dunque è anche poesia, è un elemento necessario del dramma ", e poi, generalizzando: " senza la struttura non ci sarebbe la poesia e quindi la struttura ha il valore di poesia "; deduzione che fu facile confutare, avvertendo che in tal modo si confondeva un rapporto dialettico di distinti con un'identità indiscriminata. La suggestione del Gramsci - inesplicabile data la sua fragilità - opera largamente nei successivi interpreti: meno nel Rastelli (1948) che è quasi del tutto indipendente da lui, e che, sulla linea del Momigliano, propone un restauro unitario del canto sul fondamento di un esame diretto e delicato di tutte le sue parti; più evidente nello Strigelli (1952), che, estendendo la posizione gramsciana, vede pure in F. come fondamentale la pena di non conoscere il presente; e nell'Aglianò (1953) che, attenuando la eroicità tradizionale di F., ne avverte il carattere proprio soprattutto nella sua pena d'ignorare la sorte dei suoi discendenti, pena legata al suo attaccamento alla potenza e ai beni terreni.
Ma già nell'Aglianò e nel Rastelli, che pure non muovono apertamente contro la tradizione, appare il nuovo orientamento esegetico. Sia l'uno che l'altro, tratti dal di dentro stesso del loro tentativo unitario, sono già indotti non solo a infirmare il nesso struttura-poesia, sino a negarlo (Aglianò), ma a postulare una ragione della poesia di D. diversa dalla tradizionale, e fondata sulla concezione religiosa del poeta, sulla sua poetica e sul suo modo storico di avvertire la realtà. In verità su questa via la prima formulazione si può scorgere nel Vossler, che nel 1927, nella IIª edizione della sua opera sulla Commedia (Die Gottliche Komödie), intesa come una ‛ danteide ', pose l'accento sull'ufficio di espiazione del viaggio e affermò, a proposito del canto X, che " se Farinata non parla del proprio peccato, egli lo serra nel proprio petto come il sepolcro serra lui ". E già il Nardi (1941) spianava la via alla nuova interpretazione, avvertendo nel canto di F. se non proprio la prevalenza delle ragioni morali e penali, un contrasto di sentimenti in D. tra il teologo che condanna l'eretico e il poeta che esalta " il fiero ed indomito carattere e la rettitudine morale " di Farinata. Ma il Fubini (1947) aveva opposto che non si poteva parlare di tale contrasto, ribadendo che la condanna dell'eretico non è più che l'antefatto della poesia di F. e che il suo dramma resta " puramente politico ed umano, anche se lo sfondo infernale gli conferisce maggiore grandiosità ". Tuttavia sulla nuova via si pongono decisamente il Bozzetti (1952), il Padoan (1959) e, più perentoriamente di tutti, il Montano (1956). Quest'ultimo, fondandosi sulla distinzione tra D. pellegrino, che opera nelle condizioni in cui il poeta in realtà si avvertiva nell'anno immaginario del suo viaggio, e D. scrittore, che si rappresenta tale per una ragione salvifica sempre compresente nell'azione, giunge al capovolgimento dell'interpretazione tradizionale: F. non è un eroe, ma la sua reale vita poetica sta nella rappresentazione del suo cieco ed esclusivo legame alle sue memorie di potenza, di vendetta, e di dolore. Quando D. scrive, " guarda oramai all'incontro come a cosa lontana, col distacco di chi ha piena coscienza, ora, della terribile bassezza morale dell'atteggiamento in cui Farinata è impietrato ". Più temperatamente, il Bozzetti vede nel nostro personaggio " l'infrangersi dei miti di un'autosufficiente grandezza terrena e dell'approdo a una realtà ultraterrena, in cui suprema potenza e luce intellettuale è Dio ", ma fonda l'unità e l'essenza del canto sopra motivazioni stilistiche e sul raccordo con gli altri canti precedenti, a cominciare dal VI, nei quali campeggia il motivo politico, che nel X s'illumina più chiaramente come condanna di tutta una civiltà, splendente soprattutto a Firenze, e fondata sulla cieca ricerca ed esaltazione della grandezza e dei beni terreni. Il Padoan (1959) invece si muove sulla stessa linea del Montano, e, accogliendone in sostanza le premesse e le conclusioni, procura di offrire concrete documentazioni culturali, che valgano a giustificare, su di un fondo di accertata concretezza storica, il significato del canto. Tutte queste interpretazioni, dal Gramsci all'Aglianò, furono sottoposte ad attento esame critico dal Matarrese, mentre chi scrive, nel 1961, riprendendo una lettura di dieci anni prima, procurò di ricondurre l'esame del canto all'indirizzo di tradizione, dopo un accurato dialogo con tutti i critici del nuovo indirizzo e fondandosi su ragioni di metodo, e cioè sul carattere d'identità della poesia, la quale non può essere storicizzata senza negare sé stessa.
E che il problema dovesse alla fine proporsi in termini teorici è apparso sempre più chiaro dalle discussioni, che hanno investito il carattere storico e i modi particolari dell'espressione dantesca, sicché il canto di F. appare come episodio vistoso del nuovo modo di avvertire la stessa disposizione poetica dell'Alighieri. Il problema sta nel superare ogni interpretazione psicologica e nel rinvenire nella natura dell'espressività dantesca la fondamentale unità del dramma morale e della rappresentazione poetica. Scartata, come troppo evidentemente assurda, l'identificazione di poesia e allegoria, si è tentato di ravvisare l'identità di moralità e poesia, storicità e rappresentazione, o sul particolare modo di vedere il mondo che fu di D. e in genere del Medioevo, per cui il simbolo s'identifica con la realtà, o nella cosiddetta allegoria dei teologi e biblica (Montano e Singleton) o nella visione figurale della realtà sostenuta dall'Auerbach. Sul fondamento di quest'ultima proposta l'Auerbach ha studiato i due protagonisti del nostro canto pervenendo alla conclusione che nel realismo dantesco " la figura supera il compimento " sicché " quello che più ci commuove non è che Dio li abbia dannati, ma che l'uno sia incrollabile, e che l'altro provi un così acuto rimpianto del figlio e della luce ". Attraverso la concezione figurale, in cui prende forma il genio realistico di D., in realtà l'Auerbach riconduce l'esegesi dantesca alla grande linea tradizionale.
Ovviamente la nuova interpretazione pone i critici di fronte a gravi difficoltà esegetiche; tale l'interpretazione dell' ‛ epicureismo '. Se F. è segno della sua colpa e se la sua condanna deriva dall'essere egli epicureo, cioè nel non credere nell'immortalità dell'anima, dove mai è dato scorgere nel dramma e nell'atteggiamento di F. il dramma e la pena dell'epicureo? A tale difficoltà si è cercato di ovviare intendendo l'‛ epicureismo ' di D. come ‛ averroismo ' (Bozzetti, Padoan), e asserendo che il proprio dell'epicureismo secondo D. non sta nella negazione dell'immortalità dell'anima, ma nel cieco e totale amore per i beni terreni; o che D. condanna l'epicureismo non tanto come scuola filosofica, quanto come setta politica che procura la rovina degli uomini e mena a vita corrotta (Pézard), ovvero che esso consista nel vivere ignorando, oltre che negando, la vera patria ultraterrena, tutto calato in quella terrena (Montano). E per risolvere il contrasto tra la concezione dantesca dell'epicureismo espressa nel Convivio e quella che si deve trarre da questo canto il Mazzeo pensò a due diverse tradizioni confluenti in D.: quella ciceroniana, derivata dal De Finibus, positiva, e l'altra, medievale e cristiana, che pone in rilievo soprattutto l'affermazione della mortalità dell'anima col corpo. Allo stesso tema dedicava un suo scritto il Padoan, proponendo l'ipotesi che D., quando compose il Convivio, conoscesse solo il primo libro del De Finibus, ipotesi che non pare molto fondata e che incontrò rilevanti critiche da parte del Montano.
Altrettali difficoltà presenta l'interpretazione dell'attributo magnanimo con cui D. designa F. e che - nella sua accezione che pare indubbiamente laudativa - non si saprebbe come spiegare coerentemente alla nuova prospettiva: si è allora tentato d'intendere la parola come " impassibile " o, addirittura, " superbo " come di chi abbia un troppo alto e chiuso sentimento di sé, ovvero come " ostinato ": e si è visto nel Gorgone del c. IX come una prefigurazione di tale atteggiamento. Un'indagine storico-semantica intorno all'aggettivo condusse il Forti (1961), rinvenendovi un'accezione puramente ammirativa, mentre lo Scott nel 1962 puntò attraverso un'ampia indagine storica alla dimostrazione della duplicità semantica dell'attributo che vale ora " d'animo forte " ora " superbo " o " ambizioso "; due anni dopo (1964) lo Scott stesso si schierò decisamente per la nuova interpretazione, mentre il Singleton applicava all'interpretazione del v. 53 la sua prediletta dottrina dell'allegoria teologica, fondandovi una generale e coerente interpretazione del canto.
Pure da tale prospettiva deriva lo stimolo a sottoporre a nuovo esame il tormentatissimo v. 64: non si tratta più d'interpretazione letterale o di curiosità allegorica o anagogica, ma di fondare proprio sopra di esso il significato, anche poetico, di tutto il canto. L'accenno all'amico Guido, ostinato nell'incredulità (averroismo o epicureismo che sia), chiarirebbe la ragione salvifica e il significato morale del canto, o addirittura richiamerebbe alla crisi religiosa attraversata da D. e colorirebbe di sé tutto il canto e i suoi personaggi.
Per una via affatto nuova si è messo il Bosco: egli accetta l'interpretazione che potremmo dire realistica, psicologica o tradizionale del dramma di F., ma la riconduce all'esperienza biografica di D. e al dramma che dové accendersi in lui tra l'uomo di parte e il padre in occasione dei drammatici avvenimenti che lo condussero all'esilio. Il dramma di F. (e di D.) non è dramma di partigiani, ma dramma familiare: con la sua azione F. (come D.) ha compromesso il destino della sua famiglia e dei suoi figli: " L'affetto per i figli, nel saldo mondo morale di Dante, si colora intensamente di ribellione all'ingiustizia. Il suo Farinata nasce per me da questa esperienza ". D., come F., accetta le conseguenze della sua azione politica, sino al fiero diniego di rientrare in Firenze umiliandosi, ma sa che ha compromesso con l'esilio anche i suoi figli: il dramma donde nasce la rappresentazione di F. consiste nel " conflitto tra il dovere verso sé stesso e il dovere verso i suoi cari ", sicché il vostri del v. 51, come l'ei del v. 49 vanno riferiti ai figli di F. e non genericamente ai ghibellini; e quando, dopo l'episodio di Cavalcante, F. riprende il dialogo in lui parla il padre, e il suo dispitto sta in ciò, che può accettare lui le conseguenze della sua azione politica, ma considera un'ingiustizia la sorte in conseguenza toccata ai suoi figli e discendenti. Il Petrocchi si pone, ma con piena autonomia, sulla linea del Bosco: anch'egli tende a riportare i movimenti psicologici dell'episodio - o del canto - a esperienze biografiche di Dante. Accetta la distinzione tra D. poeta e D. personaggio, ma non come canone metodico uniforme e costante, sibbene come concreto rapporto storico e biografico. Muovendo dalle specifiche situazioni di fatto in cui il poeta si trovava quando componeva o divulgava il poema o parti di esso, procura di cogliere la reale prospettiva attraverso cui D. riviveva gli eventi e configurava i personaggi da lui collocati nell'anno fittizio 1300. Così egli di fronte a F., quando compose e rivide il canto (tra il 1305 e il 1314) - egli che aveva avuto dimestichezza con Lapo, figlio di F., incontrandolo certo prima a S. Godenzo, nel 1302, e poi, forse a Verona nel 1305, e aveva vissuta tutta una complessa trama di vicende etiche e politiche - aveva mutato il suo animo, sicché la nuova condizione lo induce a non contrapporre sé stesso e il personaggio, ma ad avvicinarglisi e quasi identificarsi con lui: " Dante si riconosce in parte nel destino di Farinata, come in tutto poté specchiarsi in quello di Lapo, a Verona, nel 1305, mentre si adempiva l'effigie programmatica della condanna infernale degli eresiarchi ". E tuttavia quella stessa distanza in cui si trova D. di fronte agli eventi e ai personaggi accresce la diversità tra il poeta e il personaggio, sicché egli si prospetta nell'episodio come un guelfo più risentito e passionale, una passione che a lui, come poeta, dové essere in tutto o in gran parte estranea: in tutto l'episodio si sviluppa questa diversa tramatura di un D. avversario frontale di F. e insieme suo vicino nella sofferenza d'esilio per sé e i suoi.
Più recentemente (1967) il Frugoni, in occasione di una ‛ lectura ' del canto, ha fornito importanti chiarimenti per determinare la natura dell'accusa di eresia catara pronunziata contro F. e la moglie il 1283, per precisare i rapporti tra catarismo e ghibellinismo, e concludendo che D. nella tomba dove giace F. con più di mille non pone patarini o ghibellini, e neppure averroisti, ma proprio e solo ‛ epicurei ', intendendo questi ultimi proprio come quelli che l'anima col corpo morta fanno.
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