Fascismo
di Renzo De Felice
Fascismo
sommario: 1. Origini del fascismo italiano. 2. Il regime fascista italiano. 3. La Repubblica Sociale Italiana. 4. Il fenomeno fascista. □ Bibliografia.
1. Origini del fascismo italiano
La prima guerra mondiale determinò trasformazioni e crisi decisive in tutta l'Europa, che assunsero dimensioni e significati diversi a seconda dei paesi, ma che ebbero somiglianze e caratteri comuni e che investirono tutti i campi, quello economico come quello etico, quello sociale come quello politico. Le origini del fascismo sono connesse in modo inscindibile con le trasformazioni e le crisi che si verificarono in Italia. In sede storica, se si perde il punto di riferimento della prima guerra mondiale si perde anche la possibilità di comprendere veramente il fascismo e di cogliere le ragioni, il significato della sua affermazione. Con ciò non si vuol dire che nell'Italia prebellica, nel suo sviluppo economico-sociale, nella pratica politica, in certi atteggiamenti psicologici e culturali e persino in certe manifestazioni pratiche (già nel 1908, in occasione delle agitazioni nel parmense, e nel 1914, in occasione della ‛settimana rossa', si ebbero casi di proteste per l'eassenteismo, dello Stato e persino di ‛autodifesa' contro le violenze proletarie) non si possano scorgere ‛anticipazioni' del fascismo; si vuole però sottolineare che a queste ‛anticipazioni' non è assolutamente possibile dare quel valore di ‟semi fascisti destinati a germogliare nel dopoguerra" che qualcuno ha loro dato. Senza la guerra, infatti, nulla autorizza ad affermare che essi sarebbero germogliati e, anzi, molti elementi inducono a ritenere il contrario. Quanto poi alla guerra, più che mettere l'accento sul modo con cui fu realizzato l'intervento italiano o sulla psicosi bellica da essa determinata (che rispetto alle origini del fascismo furono componenti, in definitiva, secondarie), bisogna insistere soprattutto sulle sue conseguenze - interne e internazionali - a tutti i livelli, quali esse si manifestarono nell'immediato dopoguerra, determinando, accelerando o esasperando una serie di trasformazioni e di motivi di crisi, in un paese come l'Italia che, se, per un verso, aveva dato prova - proprio con la guerra - della vitalità del suo organismo politico-nazionale, per un altro verso aveva mostrato quanto tale organismo fosse rispondente ai valori etici, alle aspirazioni e agli interessi di una sola parte della società nazionale (quella che si può definire di estrazione risorgimentale), ma non corrispondesse a quelli di tutta un'altra parte di essa (quella non solo quantitativamente più importante, ma, ciò che più conta, che era stata mobilitata socialmente e politicamente dalla guerra) che lo considerava, sia pure con diverse motivazioni e prospettive non di rado tra loro antitetiche, arcaico, ingiusto e - almeno sotto il profilo della partecipazione al potere - antidemocratico.
Per comprendere la natura del fascismo e il motivo della sua affermazione è necessario cercare di stabilire i vari aspetti della crisi italiana del dopoguerra e soprattutto in che misura essi influirono nel determinare quella situazione grazie alla quale in meno di quattro anni il fascismo pervenne al potere.
Sul piano economico il dopoguerra fu caratterizzato da una grave crisi determinata soprattutto dalla dura prova che l'economia italiana aveva dovuto affrontare durante la guerra, dalle trasformazioni (non di rado patologiche) che essa aveva subito in quegli stessi anni e dalle difficoltà - in parte comuni anche agli altri paesi - alle quali doveva ora far fronte: ridotta produzione agricola, che aveva ripercussioni immediate e assai pesanti sulla bilancia commerciale e che, quando la tendenza si capovolse, si trasformò in una crisi di sovraproduzione che portò ad una crisi dei prezzi agricoli e, per riflesso, anche di quelli industriali; forti immobilizzi in industrie (e sempre maggior fusione tra interessi industriali e bancari) i cui impianti erano spesso invecchiati e la cui riconversione esigeva grandi capitali; capacità produttiva superiore alla domanda interna e difficilmente orientabile verso l'estero; perdurare di un sistema di vincoli e regolamentazioni statali che rendeva la gestione economica macchinosa e poco produttiva; basso rendimento della mano d'opera; vastissima disoccupazione. Da qui un periodo di gravi difficoltà economiche che ebbe rovinose conseguenze specialmente per alcuni grandi complessi industriali e per alcune grandi banche e a cui, soprattutto, corrispose un periodo di eccezionale mobilitazione primaria che si tradusse in un enorme rafforzamento dell'organizzazione di classe contadina e proletaria e in un altrettanto enorme sviluppo della lotta di classe, che si manifestò - specie nel 1919-1920 - con un gran numero di agitazioni (anche violente), scioperi, occupazioni di terre e di fabbriche, ecc. e si concretizzò in un forte aumento dei salari reali (specie operai) che dall'indice 100 del 1913 salirono nel 1921 a 127 (limite non più raggiunto sino al 1949). E ciò mentre gli stipendi crescevano molto più lentamente e i redditi fissi subivano una flessione assai grave.
Sul piano sociale questa eccezionale mobilitazione pri- maria fu caratterizzata da una fortissima politicizzazione e domanda di partecipazione e di direzione politica a tutti i livelli della vita del paese da parte dei settori della popolazione fino allora quasi marginali o del tutto esclusi, delle quali beneficiarono (grazie anche alla introduzione al posto del sistema elettorale uninominale di quello proporzionale, che riduceva il peso dei notabili tradizionali e favoriva i partiti di massa) soprattutto i partiti fuori del sistema politico tradizionale, che si presentavano rispetto ad esso o completamente eversivi (socialisti e comunisti) o duramente critici e rinnovatori (popolari) ed erano espressione di valori e tradizioni che nulla avevano in comune con quelli di estrazione risorgimentale ai quali si rifaceva la classe dirigente. Un fatto altrettanto importante e che spesso viene invece dimenticato o frainteso (quando lo si riduce a mera manifestazione di settori ‛discendenti' in crisi di proletarizzazione e di ‛spostati') fu poi costituito dal contemporaneo verificarsi di un analogo fenomeno di mobilitazione secondaria. Anche alla sua radice era una forte domanda di partecipazione e di direzione politica, solo che a manifestarla non erano le masse popolari sino allora marginali o del tutto escluse, ma settori non trascurabili già integrati della media e soprattutto della piccola borghesia (specialmente di recente formazione e in fase emergente) che si sentivano minacciati (e al tempo stesso respinti) dalla crescita dei ceti ad essi inferiori e, ancor più, che erano insoddisfatti sia per lo scarsissimo peso politico che veniva loro lasciato dalla classe politica tradizionale e dai suoi meccanismi di allargamento quasi esclusivamente per cooptazione, sia per l'incapacità che questa aveva dimostrato durante la guerra e ancor più dimostrava ora a tutelare il loro status materiale e morale di fronte all'ascesa delle masse popolari, sia per la sempre più evidente tendenza della classe politica e delle forze tradizionali che essa rappresentava a scaricare su di loro buona parte del prezzo che erano costrette a pagare alle masse popolari. In questa situazione, la caratteristica più immediata della crisi sociale del dopoguerra fu un moltiplicarsi e un accentuarsi delle sfasature tra lo Stato e le sue istituzioni da un lato e la sensibilità popolare e l'opinione pubblica da un altro lato e un estendersi di esse anche ai rapporti tra lo Stato e le sue istituzioni, specialmente quelle più periferiche e di recente creazione.
Sul piano morale e culturale, la crisi del dopoguerra è bene indicata, per un verso, dalla sempre più diffusa reazione al positivismo e, per un altro verso, dalla fortuna che incontrarono le tendenze scettico-relativistiche, irrazionalistiche, attivistiche, elitistiche, ecc. Due fenomeni sono però anche più importanti e significativi: la forte ideologizzazione delle masse e, quindi, della lotta sociale e politica, sino ad arrivare a forme di vera e propria mitizzazione delle soluzioni prospettate (tipiche quella della Rivoluzione bolscevica e, su tutt'altra sponda, quella della Nazione) e l'entrata in crisi dei modelli culturali tradizionali e, quindi, della loro autorità. Da qui una diffusa contestazione non solo dei valori tradizionali, ma anche e soprattutto dell'assetto sociale che essi rappresentavano, che - sia pure in forme diverse e contrastanti - accomunava la protesta ‛bolscevica' a quella di vasti settori della media e soprattutto piccola borghesia. E per questi ultimi è da notare il loro progressivo radicalizzarsi via via che fallivano o si mostravano intrinsecamente inadeguati i tentativi di dar vita a nuove soluzioni alternative ma non eversive rispetto al sistema (quale quella combattentistica e, in definitiva, quella popolare). Contemporaneamente aumentavano la sfiducia e lo scetticismo nell'efficacia e nella funzionalità della democrazia parlamentare, sotto il profilo sia della sua capacità di far fronte alle necessità politiche di un esecutivo efficiente sia di realizzare un effettivo rinnovamento sociale, e con essi la propensione verso soluzioni di tipo autoritario (i cui modelli ideologici e psicologici non erano rintracciati solo a ‛destra', ma, spesso, nel pensiero e nell'azione più squisitamente democratici del rivoluzionarismo giacobino).
Sul piano politico, infine, la sintesi di tutte queste crisi, aggiungendosi e operando da moltiplicatore di quella già da tempo latente che si usava riassumere nella scissione tra ‛paese reale' e ‛paese legale', acquistò dimensioni via via più drammatiche e che si possono ricondurre attorno a tre poli: 1) a livello parlamentare, un ‛anarchico regime d'assemblea' incapace di esercitare il potere e di esprimere sia effettive maggioranze sia opposizioni coeretiti al sistema e capaci di costituire un'alternativa; 2) a livello governativo, una serie di ministeri senza prestigio e senza capacità di effettiva iniziativa legislativa e, al tempo stesso, di far rispettare ed eseguire dai loro stessi organi periferici le proprie disposizioni e di dar loro la certezza di non essere lasciati scoperti o addirittura puniti per averle eseguite; 3) a livello del sistema, una instabilità cronica, forse più soggettiva che oggettiva, dato che in effetti le forze dichiaratamente antisistema erano messe fuori giuoco dalla diversità degli interessi che rappresentavano e dalla loro stessa ‛incapacità di trovare una conciliazione di essi che non fosse quella di un massimalismo tanto minaccioso ed esaltante nella forma quanto vuoto e autoritario nella sostanza (il che spiega perché, quando entrò in crisi, lo scoraggiamento e le tendenze centrifughe furono cosi forti) e dato che il sistema in realtà - nonostante la sua indubbia crisi - era ancora sufficientemente robusto, poteva fare affidamento su alcune istituzioni più tradizionali e omogenee (come le forze armate e la magistratura) e potenzialmente aveva la possibilità di autorinnovarsi attraverso la propria democratizzazione e un allargamento della partecipazione ai settori più moderati delle masse sino allora marginali o escluse è insufficientemente integrate.
In questo contesto soltanto è possibile comprendere veramente le origini del fascismo e la sua affermazione. Sorti a Milano il 23 marzo 1919 su una base (e un gruppo dirigente) che si riconnetteva sostanzialmente ad alcune prospettive minoritarie del sovversivismo irregolare prebellico, quali erano maturate tra la crisi determinata dal fallimento della ‛settimana rossa' e la sua proiezione nell'‛interventismo rivoluzionario', i Fasci di Combattimento rimasero sino alla fine del 1920 e ai primi del 1921 un fenomeno quantitativamente e politicamente irrilevante, partecipe di tutta una serie di caratteri ambigui e contraddittori, di ‛destra' e di ‛sinistra', non diverso in ultima analisi da altri espressi in quel medesimo tempo dal malessere e dal confuso rivoluzionarismo della ex sinistra interventista e di certo ex combattentismo (con la differenza, rispetto a questi, di avere a capo un politico abile e spregiudicato come Mussolini). A cavallo del 1920-1921 il fascismo prese però improvvisamente quota quantitativamente e politicamente e, pur dovendo fare i conti con la gravissima crisi interna determinata dal ‛patto di pacificazione', in due anni pervenne al potere. Sino allora il fascismo era stato un fenomeno non solo irrilevante, ma squisitamente urbano. In contrasto con questa sua fisionomia, il decollo lo ebbe nelle grandi zone agricole, nella pianura padana, in Toscana e in Puglia. Il successo nei centri urbani non immediatamente determinati economicamente e socialmente dal contado agricolo venne successivamente, così come l'espansione (del resto limitata) fuori dalle regioni suddette.
Per comprendere questa dinamica bisogna considerare vari fattori, in parte concomitanti, in parte determinatisi in successione di tempo. Innanzitutto il clima politico-sociale del momento. Storici e sociologi sono oggi pressoché concordi nell'affermare che alla fine del 1920 la tensione e la mobilitazione delle masse popolari e con esse la combattività e la capacità egemonica dei ‛bolscevichi' cominciavano a scemare, sicché - aggiungono i secondi - lo scatenarsi del fascismo avrebbe in pratica interrotto un processo di integrazione analogo a quello che si ebbe in altri paesi. In questa prospettiva la reazione fascista, oltre che ‛inutile' e ‛dannosa', sarebbe stata in pratica nulla più che una sorta di ‛vendetta' contro coloro che per due anni avevano fatto vivere la borghesia italiana nell'incubo della rivoluzione, l'avevano vilipesa e ferita moralmente e materialmente. Che nello squadrismo ci sia stato anche questo stato d'animo è fuori dubbio; è però difficile affermare che esso ne sia stata la molla. Alla fine del 1920 il declino del ‛bolscevismo' era assai meno percepibile di quanto non lo sia oggi per noi. Il fallimento dell'occupazione delle fabbriche, a parte la paura suscitata, non faceva pensare che la prova di forza non potesse essere ritentata. Quanto alla demobilitazione delle masse, essa era appena agli inizi e fenomeni come quello degli Arditi del popolo facevano sì che quasi non fosse avvertita. Il nodo decisivo della questione è per noi un altro. La molla del fascismo, a livello della lotta di classe, non fu tanto la paura di una rivoluzione ‛bolscevica', quanto il fatto che la classe lavoratrice, le sue organizzazioni sindacali ed economiche, i suoi partiti erano pur sempre in grado di sconvolgere quelle che, a torto o a ragione, erano considerate le regole economiche del mercato e di imporre limitazioni del diritto di proprietà e della libertà di contratto ritenute non solo illegittime ma insostenibili. Né il discorso può essere limitato a livello della lotta di classe pura e semplice. Se lo squadrismo poté operare ed estendersi ciò non fu dovuto infatti solo all'essersi fatto difensore degli interessi economici lesi dal movimento dei lavoratori e, specie nelle zone agricole, di essersi messo addirittura al soldo di tali interessi. Oltre agli interessi materiali, per due anni erano stati lesi anche molti interessi e valori morali, che invano si era sperato fossero tutelati dallo Stato. Il primo entroterra (il secondo e più vasto sarebbe derivato dalla sempre più diffusa stanchezza e dal desiderio di ‛ordine' e di ‛pace' interni) al fascismo venne da coloro che - mettendo in primo piano questi interessi e valori - videro in esso una forza sostitutiva di quella dello Stato ‛assente' e in grado di porre fine a questo tipo di violenze. Senza questo consenso, in parte pieno in parte critico (le botte fasciste ‛mal date' ma ‛ben ricevute'), il fascismo sarebbe rimasto squadrismo, non avrebbe raccolto tante simpatie, connivenze, aiuti, avrebbe fatto meno proseliti, in una parola, non sarebbe diventato un fatto politico, sostanzialmente capace di non perdere la propria autonomia, di non ridursi a mera guardia bianca di determinati interessi materiali, che, in quanto tali, erano sentiti meno vivamente dai non diretti interessati e non di rado non erano indenni da critiche anche a livello borghese.
Un altro fattore da considerare è la particolare violenza che la lotta di classe aveva avuto nelle zone agricole nelle quali il fascismo si affermò rispetto a quella che si era svolta nei centri operai. Per un verso, resa più dura dai danni maggiori che produceva e dalle minori riserve dei proprietari, da certe sue forme iugulatorie e dalle difficoltà dell'agricoltura, essa toccava, coinvolgeva una parte molto maggiore della popolazione che non nei centri industriali, specie laddove il ferreo sistema delle leghe era riuscito a monopolizzare o a condizionare gran parte delle attività direttamente o indirettamente collegate con l'agricoltura, e una sua attenuazione avrebbe significato poco se non si fosse accompagnata ad una eliminazione di alcune delle conquiste non immediatamente economiche ottenute dai lavoratori e ad un allentamento del sistema leghistico. Per un altro verso, essa, dati i suoi caratteri particolari, aveva coinvolto le varie componenti della società agraria in misure e forme diverse, che possono essere così riassunte: mentre i proprietari, i datori di lavoro avevano subito pressoché tutti un danno comune, tra i lavoratori i benefici (specie dove le leghe erano più forti) erano stati invece diversi a seconda delle categorie e ciò, almeno potenzialmente, costituiva un elemento di forza per gli uni e di debolezza per gli altri, in quanto, all'occasione, poteva sprigionare (come sprigionò sotto i colpi dello squadrismo) una serie di tendenze centrifughe.
Questa diversità spiega perché il fascismo decollò in campagna e non in città, perché ebbe l'unanime appoggio e il sostegno economico degli agrari e della borghesia legata all'agricoltura, mentre il mondo industriale (non solo più moderno e politicamente più lungimirante di quello agrario, ma meno profondamente ferito dallo scontro di classe del ‛biennio rosso', economicamente e giuridicamente più in grado di riprendere l'espansione e con molte minori possibilità di puntare alla divisione del fronte di classe) fu verso di esso assai più cauto, sicché i casi di collegamento organico furono relativamente scarsi, limitati assai spesso alle industrie (soprattutto minori) in gravi difficoltà economiche, e, ciò che più conta, la dirigenza industriale sino alla ‛marcia su Roma' non puntò mai sulla carta di un governo fascista e anche dopo non ne sposò completamente la politica.
L'ultimo importante fattore da considerare è quello della composizione dei Fasci, quale venne a delinearsi con il 1920-1921. Ingrossando le fila, il fascismo si aperse indubbiamente un po' a tutti i ceti sociali, non escluso un certo numero di operai e, ancor più, di lavoratori dei campi (anche se proporzionalmente questi erano in minoranza e se, in parte, erano reclutati nelle zone dove lo squadrismo aveva vinto e dove i passaggi al fascismo un po' erano sinceri, un po' strumentali); il suo nerbo, sia quantitativamente sia in particolare per quel che concerneva i quadri e gli elementi più attivi politicamente e militarmente, si caratterizzò però subito chiaramente in senso piccolo borghese, dando a tutto il movimento e al successivo partito il carattere di un fenomeno che aveva degli aspetti di classe (il che spiega la sua scarsa penetrazione nelle regioni più tradizionali, nelle quali la piccola borghesia non era di tipo moderno e, quindi, era più integrata). Un carattere, questo, che il PNF avrebbe conservato a lungo (almeno sino all'epurazione turatiana della seconda metà degli anni venti) e che gli diede la possibilità, per un verso, di costituire il più importante punto di riferimento e di attrazione per quei settori della piccola borghesia che - come si è detto - aspiravano ad una propria maggior partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie né la capacità né la legittimità di governare e, sia pur confusamente, contestavano anche l'assetto sociale che essa rappresentava e, per un altro verso, di salvare la propria autonomia politica rispetto alle altre forze politiche con le quali venne a contatto, anche quando, sgombrato il campo dal ‛bolscevismo', queste avrebbero voluto cooptarlo nel sistema e stemperarlo progressivamente in esso sino a ridurlo ad una sua componente, non diversa sostanzialmente da tante altre.
Oltre che per la sua caratterizzazione sociale, il fascismo non si esaurì nello squadrismo anche per l'abilità e il tempismo politici di Mussolini. Nell'estate del 1922, dopo il fallimento dello ‛sciopero legalitario', a livello sociale il fascismo aveva vinto. A livello parlamentare la sua forza era però irrilevante e molti sintomi lasciavano prevedere che il suo consenso politico più che ad allargarsi avrebbe teso a restringersi, dato che - nel clima sempre più accentuato di generale demobilitazione e di stanchezza che caratterizzava il momento - l'irrequietezza e le violenze della sua base rischiavano di farne agli occhi della borghesia il vero perturbatore della pace sociale e, quindi, di favorire una collaborazione di tipo tradizionale tra i partiti liberaldemocratici, il partito popolare e le forze riformiste, ormai in procinto di staccarsi dai massimalisti. E ciò proprio nel momento in cui il fascismo aveva il problema di dare concreta soddisfazione alle masse che erano affluite nelle sue file, per evitare che, deluse, si allontanassero da esso, ma era ancora guardato dalla maggioranza della classe dirigente tradizionale come un elemento importante del quadro politico e sociale, contro il quale non era possibile governare. Un elemento che, volenti o nolenti, era opportuno integrare nel sistema, per rinsanguare questo e, al tempo stesso, costituzionalizzare quello, privandolo così della sua carica antisistema. Integrare nel sistema, si badi bene, non cedergli il potere e neppure dargli un peso troppo rilevante nel governo. Questa nel 1922 fu la logica e la prospettiva di tutte le operazioni politiche che in quei mesi vennero imbastite: un governo Giolitti o Salandra o Orlando o Facta o persino Nitti con la partecipazione dei fascisti, non un governo Mussolini. E questa fu anche la prospettiva lungo la quale si mossero le grandi forze economiche. L'abilità di Mussolini fu duplice: capire che ‛in quel momento' egli poteva ancora: 1) giocare sulla componente eversiva e sull'entusiasmo per i successi sin lì conseguiti dal fascismo per una ‛dimostrazione di forza' che, se fosse veramente arrivata agli estremi, si sarebbe certamente conclusa in un clamoroso insuccesso, ma che, se mantenuta nei limiti di una minaccia, avrebbe fatto precipitare la situazione a suo vantaggio; 2) mettere le varie componenti della classe politica le une contro le altre e far leva sulle non ancora completamente sopite paure di una ripresa della guerra civile dalla quale sarebbero potute uscire rivitalizzate le sinistre e indebolito il sistema. Da qui la ‛marcia su Roma', un bluff sul piano militare, un successo sul piano politico, poiché persino di fronte ad essa larga parte della classe dirigente e in primo luogo il sovrano (che, dopo l'esperienza fiumana, doveva temere più di ogni altra cosa di mettere a repentaglio l'unità dell'esercito) continuarono a non capire la vera natura del fascismo e ad illudersi che, una volta arrivato al potere - sia pure in prima persona - esso si sarebbe alla fine costituzionalizzato.
Oggi questa incomprensione e questa illusione possono apparire assurde. Obiettivamente, bisogna però constatare che allora pochissimi si sottrassero a questo duplice atteggiamento (e non solo a livello della classe dirigente tradizionale) e domandarsi, quindi, quale fu il vero fondamento di esso. Se - come riconobbe Togliatti nel 1935 nelle sue Lezioni sul fascismo (p. 20) - ‟è un grave errore il credere che il fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla marcia su Roma, con un piano prestabilito, fissato in precedenza, di regime di dittatura, quale questo regime si è poi organizzato", è logico domandarsi se i destini del fascismo e dell'Italia più che il 28 ottobre 1922 non furono decisi successivamente, nello scontro tra la componente potenzialmente costituzionalizzabile del fascismo e quella più legata ad una prospettiva eversivo-piccolo borghese. È evidente, infatti, che in questo caso l'atteggiamento della classe dirigente del 1922, se non diventa scusabile, appare però più comprensibile.
2. Il regime fascista italiano
Il ventennio fascista fu un fatto unitario e rispose ad una logica precisa. In esso si debbono però distinguere almeno quattro fasi successive che è necessario individuare nei loro aspetti caratteristici se si vuole, appunto, coglierne la logica complessiva e non ridursi ad una interpretazione che - identificando praticamente la conclusione con la premessa - finisce per rendere impossibile la comprensione dei suoi nessi con la realtà italiana e delle sue particolarità rispetto agli altri fascismi. Queste quattro fasi corrispondono ai periodi 1922-1925, 1925-1929, 1929-1936 e 1936-1943.
La prima fase, dalla ‛marcia su Roma' al discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, vide la stabilizzazione del potere fascista e fu caratterizzata dal costituirsi di un determinato tipo di rapporti tra il fascismo e la classe dirigente e le istituzioni tradizionali: lo stesso che, sostanzialmente, diede al successivo regime i suoi caratteri peculiari, anche se, allora come poi, nessuna delle componenti del regime li considerò definitivi.
L'andata al potere di Mussolini nell'ottobre 1922 fu il frutto di un compromesso tra fascismo e classe dirigente tradizionale: da qui, tra l'altro, il carattere di coalizione che sino al 1925 ebbe il governo Mussolini e, soprattutto, la cura gelosa che la seconda (attraverso la corona) mise nell'impedire al fascismo di mettere le mani sulle istituzioni più solide e che essa considerava necessarie a controbilanciare il potere politico che il fascismo si era assicurato (soprattutto le forze armate). Questo compromesso fu ribadito e rafforzato ai primi del 1925, quando gran parte della classe dirigente tradizionale preferì (dopo la crisi determinata dal delitto Matteotti) continuare a sostenere Mussolini pur di evitare il pericolo di un ‛salto nel buio' e di una prova di forza da essa ritenuta troppo rischiosa e tale da provocare una serie di imprevedibili reazioni a catena. Per la classe dirigente tradizionale, via via sempre più identificabile con i cosiddetti ‛fiancheggiatori', sia esterni sia interni, del fascismo, questo praticamente avrebbe dovuto innovare ben poco nel sistema: doveva soprattutto rafforzarlo e ridinamizzarlo, non sovvertirlo. Per i più la soluzione ideale sarebbe stata quella che il fascismo - in cambio di un allargamento della base del sistema e dell'inserimento della sua élite a livello dirigente - attuasse un rafforzamento dell'esecutivo e un depotenziamento delle forme di democrazia realizzate negli ultimi anni (in altri termini una specie di attuazione ammodernata del sonniniano ‟ritorno allo Statuto"). Questa prospettiva era però inaccettabile per il fascismo, almeno per la gran parte del vecchio fascismo (quello che era affluito nei Fasci prima dell'andata al potere), che non solo aspirava ad una partecipazione più ampia, ma si poneva, rispetto alla classe dirigente tradizionale e soprattutto a quella politica, in posizione alternativa e anche socialmente contestava molti aspetti del sistema di cui, a modo suo, avrebbe voluto una democratizzazione a proprio vantaggio. Da qui, per tutta questa prima fase, una sorda contrapposizione tra ‛intransigenti' (che volevano la ‛seconda ondata') e ‛fiancheggiatori' (che volevano la ‛normalizzazione'), che creò molte difficoltà a Mussolini, rese difficile la realizzazione dei suoi propositi di un progressivo svuotamento dei vecchi centri di potere e dei partiti tradizionali borghesi e del partito popolare (e, possibilmente, del socialismo riformista) e di un parallelo travaso di essi nel partito fascista, gli alienò la fiducia e le simpatie di buona parte della classe dirigente tradizionale, ma finì per salvarlo politicamente, dato che in occasione della crisi Matteotti il vecchio intransigentismo fu la sola forza reale che gli rimase fedele e - rendendo così difficile e pericoloso per le forze liberal-democratiche assumerne la successione - indusse gran parte della classe dirigente tradizionale a preferire di continuare sulla strada del compromesso realizzato due anni prima. Tra il ‛salto nel buio', che in una misura o in un'altra avrebbe inevitabilmente compromesso le loro posizioni morali, politiche ed economiche, e Mussolini, i ‛fiancheggiatori' - preoccupati soprattutto di salvaguardare queste loro posizioni e, quindi, le strutture portanti del sistema tradizionale del quale erano espressione e che ormai non erano più in grado di difendere da soli contro l'attacco che veniva loro mosso dagli altri settori della società italiana - scelsero Mussolini, cercando di ripetere su un altro piano l'operazione che era loro fallita tra la ‛marcia su Roma' e il delitto Matteotti: allora avevano cercato di rivitalizzarsi con un fascismo che invano avevano sperato di costituzionalizzare e di assorbire nel sistema; ora cercarono almeno di salvare le strutture essenziali di questo sistema, sperando di fagocitare in esso Mussolini e una parte del fascismo, in cambio della rinuncia alla gestione immediatamente politica del potere.
Da qui prese le mosse la seconda fase, che andò dal discorso di Mussolini del 3 gennaio alla Conciliazione e al ‛plebiscito' del 1929, durante la quale il regime fascista venne progressivamente prendendo corpo a tutti i livelli. Momenti essenziali della costruzione del regime furono lo scioglimento di tutti i partiti e organizzazioni non fascisti, le ‛leggi eccezionali', la ‛costituzionalizzazione' del Gran Consiglio del Fascismo, l'introduzione del sistema elettorale a collegio unico nazionale e a lista unica, i provvedimenti in materia sindacale e, infine, la conclusione dei Trattati del Laterano con la S. Sede. Altrettanto essenziali furono però anche la liquidazione politica del partito fascista, lo ‛sbloccamento' della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti e la politica di ‛quota novanta'. Solo se si tiene conto di tutti questi elementi è infatti possibile capire veramente il carattere che in questi anni assunse il regime, la parte che in esso ebbero le sue varie componenti e la funzione di Mussolini.
Se si guarda ai caratteri più evidenti di questo nuovo assetto e alla conclusione dell'esperienza fascista nel 1943, si potrebbe concludere che se nella forma il fascismo fascistizzò i ‛fiancheggiatori', nella sostanza questi riuscirono a derivoluzionarizzare il fascismo, a renderlo in buona parte un loro strumento e a farlo rientrare in larga misura nell'alveo della tradizione conservatrice. Nel ‛regime fascista' che andò progressivamente prendendo forma la sostanza fu così il ‛regime', che in effetti rimase - anche nelle ipocrisie e nei formalismi pseudocostituzionali - il vecchio regime tradizionale, sia pure in camicia nera e con tutta una serie di trasformazioni in senso autoritario (ma di un autoritarismo ancora sostanzialmente ‛classico', nel quale gli innesti demagogico-sociali più tipicamente moderni non sarebbero stati per il momento sufficienti a caratterizzarlo come un vero totalitarismo); mentre il fascismo non fu in buona parte che la forma, una forma oppressiva, avvilente, spesso pesante anche per i ‛fiancheggiatori', ma che solo tardi e sempre in misura relativamente modesta sarebbe riuscito ad incidere sulla sostanza. Sicché in pratica chi dal rinnovato e rafforzato compromesso (che avrebbe raggiunto la sua massima estensione con la Conciliazione e nella fase successiva) finì per trarre i maggiori vantaggi furono i ‛fiancheggiatori', la vecchia classe dirigente e i ceti sociali che la esprimevano (entrati in massa nel partito fascista), mentre per il fascismo l'operazione si ridusse in gran parte alla gestione per la sua élite dell'equilibrio di una serie di interessi conservatori (quelli contro i quali all'inizio si era appuntata la rivolta piccolo-borghese del fascismo rivoluzionario). Una gestione, certo, dorata sotto tutti i punti di vista, ma estremamente precaria, sia per la spinta che veniva dal basso, dai ceti sociali esclusi dalla gestione del potere e condannati a pagare le spese della conservazione del vecchio sistema, sia per la difficoltà - subito chiara a tutti - di dare al fascismo una ragione e una sostanza di sopravvivenza al di là della vita fisica di Mussolini (l'unico uomo politico espresso dal fascismo in grado di giustificare e di gestire il compromesso e di assicurare, col suo prestigio personale, l'accettazione di esso da parte delle masse), sia - infine - per la instabilità dell'equilibrio stesso affidato alla gestione del fascismo. In una società in transizione, quale - nonostante i ritardi e gli ostacoli frapposti dalle vecchie strutture e dai vecchi interessi - era pur sempre l'Italia, questo equilibrio non poteva non diventare via via sempre più difficile e non rivelare in sé contraddizioni e scontri di interessi sempre più difficili a sanarsi col sistema del compromesso o, addirittura, del mero rinvio; specie se fosse venuto meno il superficiale cemento che teneva insieme tutto il laborioso ma vieppiù debole edificio del ‛regime fascista': il mito-abitudine del capo e la fiducia (alla quale contribuiva largamente l'ancora viva tradizione patriottica risorgimentale) nella capacità del ‛duce' a conseguire la ‛grandezza' dell'Italia. Sicché tutto l'equilibrio era destinato a rompersi alla prima crisi di questa ‛grandezza' e a liberare tutte le forze centrifughe più o meno latenti, sopite o compresse. E ciò sarebbe avvenuto, appunto, il 25 luglio 1943, quando, di fronte alla sconfitta militare, il ‛regime fascista' crollò d'un colpo e con esso il fascismo e se qualcosa sopravvisse furono, da un lato, con la Repubblica Sociale Italiana, il vecchio fascismo rivoluzionario e intransigente che si illuse di poter tornare alla ribalta riallacciandosi al programma sociale del 1919 e che cercò di vendicarsi dei suoi nemici ‛fiancheggiatori' e, da un altro lato, buona parte del vecchio regime che, toltasi la camicia nera, cercò, e in parte riuscì, a scaricare le proprie pesanti responsabilità sul fascismo, presentandosi nelle vesti di una delle sue numerose vittime.
Una visione così superficiale e fattuale sarebbe però parziale. Alcuni elementi della realtà del regime già nella seconda fase e soprattutto il loro accentuarsi durante la terza (dal ‛plebiscito' del 1929 alla conclusione della vicenda etiopica nell'estate 1936) dimostrano infatti che, nonostante tutto, il compromesso e gli equilibri su di esso stabilitisi andarono (specie con gli anni trenta) via via incrinandosi e squilibrandosi a favore del fascismo. Sino ad autorizzare una duplice ipotesi: 1) che, senza il fatto esterno e determinante della seconda guerra mondiale, il regime fascista non sarebbe crollato; 2) che la sua evoluzione sarebbe stata in senso populistico e che ciò avrebbe portato ad un lento esautoramento della vecchia classe dirigente a vantaggio della nuova élite fascista e ad un assetto sociale caratterizzato dalla prevalenza - pur nel quadro di un'economia privatistica - dell'iniziativa dello Stato su quella dei privati e, quindi, al formarsi di una nuova classe dirigente sempre meno simile alla precedente, anche se assai diversa da quella che il fascismo avrebbe voluto creare.
La liquidazione politica del PNF e la sua trasformazione (con la seconda metà degli anni venti) da un partito nel senso proprio del termine in una grande organizzazione di inquadramento, controllo e guida (direttamente o attraverso le altre organizzazioni ‛di categoria' da esso dipendenti) delle masse fu dettata a Mussolini dalla necessità di farla finita con il vecchio fascismo e con la sua cronica irrequietezza e di dare soddisfazione ai ‛fiancheggiatori' e a tutti coloro che volevano da lui soprattutto ordine e disciplina. Egli era mosso però anche da un'altra logica, quella di avere a propria disposizione uno strumento che gli permettesse di permeare dello Stato (a cui il PNF fu rigidamente sottoposto e trasformato in un canale di trasmissione a senso unico della sua politica e della sua concezione) tutta la società, di organizzare il consenso e di formare le nuove generazioni, sottraendole ad ogni altra influenza (in primo luogo quella della Chiesa). Contrariamente ai regimi conservatori-autoritari (che hanno sempre teso a demobilitare le masse e ad escluderle dalla partecipazione attiva alla vita politica, offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentati nel passato e ai quali viene attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche recente parentesi rivoluzionaria), per il fascismo (come per tutti i sistemi politici di massa moderni) il consenso e la partecipazione al regime non dovevano infatti essere passivi. Le masse dovevano sentirsi integrate nel regime e mobilitate, sia perché in ‛rapporto diretto' col capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni e, quindi, dotato di una carica di tipo chiaramente carismatico) sia perché psicologicamente partecipi di un processo ‛rivoluzionario', da cui traevano il soddisfacimento di alcuni bisogni concreti e di alcune aspirazioni morali e soprattutto la ‛fede' in un futuro migliore della comunità nazionale. Solo così esse potevano infatti sentirsi parte di una ‛comunità morale', con propri ideali, propri modelli di comportamento, proprie gerarchie e il regime poteva diventare un ‛potere legittimo', che non aveva più bisogno per affermare la propria autorità di far ricorso alla coercizione e che, ad ogni modo, in caso di necessità era legittimato a ricorrervi, poiché chi incorreva nei suoi rigori si era posto fuori della comunità morale. In questa prospettiva l'aspetto di massa della politica fascista (specie in riferimento alle nuove generazioni per le quali il fascismo era, per così dire, sempre più la ‛normalità', dato che esse non conoscevano altri sistemi politici) e i suoi strumenti (scuola, organizzazioni ‛di categoria', assistenziali e per il ‛tempo libero', propaganda, partito) diventavano il fulcro del sistema fascista, la premessa perché esso potesse in prospettiva svincolarsi dalle pastoie del compromesso con la classe dirigente tradizionale e, intanto, potesse rendere il suo potere politico sempre più autonomo e via via prevalente rispetto a quello economico, sempre saldamente in mano ai ‛fiancheggiatori'. E soprattutto - dato che a livello del consenso di massa nella prima metà degli anni trenta il fascismo conseguì indubbiamente dei grossi successi, grazie sia a come fronteggiò la ‛grande crisi' sia alla conclusione vittoriosa della guerra d'Etiopia - perché potesse affrontare quella che, sui tempi medi, sarebbe stata la sua prova più difficile e decisiva: la successione di Mussolini, superata la quale sul piano interno non vi sarebbero stati per esso più ostacoli per molto tempo.
Alla luce di quanto ora detto bisogna, a nostro avviso, vedere tutte le più importanti iniziative politiche fasciste del periodo 1929-1936 ed ancor più quelle degli anni successivi. A ben vedere, tutte, infatti, si ricollegano ai problemi dei quali abbiamo parlato, anche quando, apparentemente, sembrano tra loro in contraddizione.
Per il periodo 1929-1936 (ma anche per il successivo, dato che la crisi del 1938 non fu connessa solo all'adozione da parte del fascismo della politica razziale, ma anche e ancor prima al riprendere quota della Gioventù d'Azione Cattolica), è chiaro che la crisi del 1931 con la S. Sede per l'Azione Cattolica fu determinata dalla necessità per il fascismo di non farsi sfuggire il monopolio della formazione della gioventù e, in via subordinata, di ridimensionare in qualche misura le conseguenze politiche della Conciliazione, ora che questa, per un verso, aveva per esso perso di importanza (dato che gran parte dei cattolici erano stati ormai stabilmente integrati nel regime) e, per un altro verso, sembrava a Mussolini meno importante, dopo che gli avvenimenti spagnoli sfociati nella caduta della monarchia lo avevano convinto che in realtà l'appoggio della Chiesa non costituiva di per sé un fattore decisivo del consenso e che non si poteva fare in ogni modo affidamento sicuro su di essa. Allo stesso modo, la politica di ‛ruralizzazione' avviata nel 1929 (inizialmente con ambizioni e propositi che, al limite, si potrebbero definire non molto lontani dall'avvio di un nuovo modello di sviluppo economico) appare chiaramente ispirata da due preoccupazioni: quella di stimolare il consenso del mondo contadino e della piccola borghesia e quella di frenare il potere economico della grande industria. Né, pur tenendo in tutto il debito conto le necessità oggettive del difficilissimo momento economico e le numerose contropartite contemporaneamente date agli interessi del padronato, ci pare sia possibile non vedere nella sempre più esplicita politica di intervento statale nell'economia, avviata con la prima metà degli anni trenta, un'altra manifestazione di questa seconda preoccupazione. Per non dire, infine, della guerra d'Etiopia, il cui nesso con la politica del consenso è così evidente che non sarebbe il caso di insistervi se ciò non fosse indispensabile per chiarire la problematica di fondo della realtà fascista del terzo e del quarto periodo.
La chiave di questa problematica è costituita dal carattere e dai limiti del consenso di cui godette il fascismo. Anche se non mancarono ‛zone d'ombra' e incrinature (che si andarono estendendo con la seconda metà degli anni trenta, in connessione con la politica sempre più pronazista attuata dal fascismo e con la progressiva totalitarizzazione del regime), il consenso fu sin quasi alla vigilia della catastrofe militare del 1942 assai vasto a tutti i livelli, anche a quello operaio e, ancor più, contadino, specie tra i giovani. Né la cosa può meravigliare se si considera l'atmosfera nella quale viveva il paese e il lento (ma non per questo inoperante sul piano del consenso) sviluppo sociale della società italiana in quegli anni; sviluppo sociale che si traduceva a sua volta nella formazione di una nuova classe politica e burocratica composta in buona parte da elementi di origine proletaria e piccolo borghese, la cui promozione sociale era avvenuta grazie al loro inserimento nelle organizzazioni del regime, in una maggiore integrazione nazionale e socializzazione delle masse e in una diffusa convinzione che i progressi conseguiti fossero da attribuirsi direttamente al fascismo. Detto questo, vanno però messi in luce anche altri tre aspetti caratteristici di questo consenso. Primo, che esso toccò il suo apice alla metà degli anni trenta, mentre nel periodo successivo in alcuni ambienti subì una flessione, in altri sfumò spesso in una sorta di rassegnata indifferenza e un po' in tutti non riuscì più a crescere ulteriormente. Secondo, che sempre più nettamente la sua molla, il suo elemento caratterizzante e catalizzatore divennero la figura e l'opera del ‛duce' (al cui prestigio molto giovavano tra le masse la sua origine popolare e il suo modo di fare sicuro, energico e soprattutto così diverso da quello dei ‛signori'), mentre persero di prestigio e di credibilità sia il regime sia il fascismo, sempre più spesso visti come qualche cosa di diverso, in negativo, da Mussolini. Terzo, che, dati la natura del regime, i rapporti di forza e gli equilibri tra le sue componenti e la situazione internazionale (resa sempre più dinamica e instabile dall'affermazione del nazionalsocialismo in Germania), era praticamente impossibile per il fascismo operare un rilancio e un ulteriore allargamento di esso sul terreno della politica interna. Da qui per Mussolini e per il fascismo la duplice necessità (che caratterizzò il terzo periodo e ancor più il quarto) di rendere progressivamente più totalitario il regime, in maniera da forzare al massimo il meccanismo del consenso (anche a costo di dover ricorrere alla coercizione verso quei settori della società che avrebbero risposto negativamente al giro di vite totalitario) e da bruciare i tempi del processo di fascistizzazione delle masse, e di ricorrere a questo scopo alla molla della politica estera, facendo di essa il fulcro di tutto e giocando su di essa il consenso morale e culturale dei ceti piccolo e medio borghesi e quello economico e sociale delle masse popolari. Solo così, infatti, il fascismo avrebbe potuto sopravvivere e vincere la sua partita con la classe dirigente tradizionale: se fosse potuto giungere al traguardo per lui decisivo del ‛dopo Mussolini' con un consenso così vasto e con un ‛proprio' carisma tali da compensare la scomparsa del capo carismatico, le possibilità della classe dirigente tradizionale di riuscire a riassumere nelle proprie mani il potere politico sarebbero state minime.
Ridurre la guerra d'Etiopia alla sola logica della politica del consenso è certamente eccessivo e unilaterale. Essa rispose infatti altrettanto certamente anche ad altre motivazioni e in specie alla particolare concezione che Mussolini si era fatta dei rapporti internazionali, del ruolo che in essi doveva avere l'Italia e dei mezzi con i quali esercitarlo. Ciò non toglie per altro che il nesso tra la politica del consenso e la guerra d'Etiopia sia chiarissimo. E lo stesso si può dire per la successiva politica estera fascista, anche se tra i due momenti - quello etiopico e quello successivo - vi fu una netta differenza, sia sotto il proffio della resa sia sotto quello della sostanza. La resa, sul piano del consenso, della guerra d'Etiopia fu per il fascismo eccezionalmente positiva: essa riuscì infatti ad attivizzare tutto il paese, facendo leva su una serie di motivazioni assai vasta e tale da coinvolgere tutte le sue componenti sociali. Minore e via via decrescente fu invece quella delle successive iniziative internazionali fasciste. Sia per i rischi sempre maggiori che vi venivano scorti, sia per la maggior difficoltà di dare loro una prospettiva economico-sociale, sia perché - nonostante la crisi dei rapporti con l'Inghilterra e. la Francia provocata dalla guerra d'Etiopia - le diffidenze e le ostilità verso la Germania e il nazismo erano troppo vive perché la politica estera fascista divenisse veramente popolare. Quanto poi alla sostanza, anch'essa fu molto diversa. Nel 1935-1936 il dinamismo della politica italiana era stato - grazie alla congiuntura internazionale particolarmente favorevole alla strategia mussoliniana del ‛peso determinante' - un fatto reale. Negli anni successivi, venuta meno questa congiuntura, esso fu tale quasi solo in apparenza. E, ciò che più conta, i margini di manovra della politica estera fascista si ridussero sempre più. Sicché Mussolini si venne a trovare sempre più legato alla Germania, anche se ciò non corrispondeva né ai suoi veri desideri né ai suoi interessi, sia di politica estera sia di politica interna, dato che - come si è detto - a questo secondo livello i sempre più stretti legami con Hitler e il pericolo di un conflitto intereuropeo indebolivano piuttosto che accrescere il consenso popolare verso il regime; mentre al primo la presenza sempre più decisiva della Germania nazionalsocialista sulla scena europea dava inevitabilmente alla politica internazionale una carica ideologica che sino allora non aveva avuto (o che non aveva avuto un peso decisivo) e a cui la politica estera fascista non poteva sottrarsi, dato che (tralasciamo altri motivi secondari) il fascismo doveva - come si è pure detto - ricorrere per sopravvivere alla totalitarizzazione del proprio potere e ciò comportava necessariamente una sempre maggiore ideologizzazione del fascismo stesso che, a sua volta, lo portava ad identificarsi vieppiù con il nazismo e a perdere quindi la propria posizione speciale tra i due blocchi contrapposti. Quanto abbiamo detto spiega le incertezze di Mussolini nel 1939-1940, quando Hitler diede inizio alla seconda guerra mondiale, la ‛non belligeranza' e, alla fine, la decisione dell'intervento (e, se si vuole, anche la formula della ‛guerra parallela' che egli cercò di realizzare in un primo tempo), solo quando sembrò che la Germania avesse ormai praticamente vinto e sorse in lui il timore di venire escluso dalla risistemazione politico-territoriale postbellica, di perdere quindi qualsiasi ruolo e credibilità internazionali e di rimanere esposto al risentimento di Hitler per il mancato rispetto dell'alleanza senza nessuna possibilità di poterne fronteggiare la potenza politica e militare.
E ancora più in generale, quanto abbiamo detto a proposito del terzo e soprattutto del quarto periodo del fascismo, ci pare dimostri che (come per tutti i moderni sistemi totalitari di destra e di sinistra) l'elemento determinante delle scelte di fondo del fascismo non scaturiva tanto dal rapporto fra economia e politica e tanto meno dalla preminenza della prima sulla seconda (come nei sistemi democratici) ma - come giustamente ha messo in rilievo F. Neumann - dalla pura politica o, almeno, dalla preminenza delle ragioni di questa su quelle dell'economia. E, egualmente, che la molla della politica estera del fascismo (apparentemente l'elemento caratterizzante della politica fascista via via che gli anni passavano) non era determinata tanto dalla logica dell'espansionismo quanto da quella della sua sopravvivenza come realtà politica.
3. La Repubblica Sociale Italiana
Sotto il profilo storico-politico è difficile porre la R.S.I. in un netto rapporto tanto di continuità quanto di frattura rispetto al precedente fascismo. E ciò specie se si tengono presenti, oltre alle sue vicende particolari, due circostanze che indubbiamente ne condizionarono in modo decisivo l'esistenza e il suo stesso significato: quella di essere nata e vissuta sino alla fine in una sostanziale mancanza di autonomia rispetto ai Tedeschi (che la considerarono un loro strumento volto ad alleggerire le loro forze armate da alcuni oneri in Italia e, come tale, in effetti qualche cosa di contingente), da cui la pressoché totale irrilevanza pratica e la mancanza di effettivo valore rispetto al suo futuro - anche nel caso di una vittoria tedesca della guerra - di tutte le sue iniziative non immediatamente militari (e cioè antipartigiane); e quella che le derivava dalla particolarissima posizione che in essa aveva Mussolini. Se si pensa al ruolo decisivo che il ‛duce' aveva avuto nel fascismo sino al 25 luglio 1943 e a quello assai ridotto che ebbe (e in buona parte volontariamente) nella R.S.I., è impossibile non convenire infatti che se al fascismo repubblicano, per un verso, mancò quasi completamente il capo, politico e carismatico, che era stato così determinante per il fascismo del ventennio, per un altro verso, la presenza, in buona parte nominale, alla sua testa di Mussolini finì per costituire per esso un elemento di ambiguità e in definitiva di ulteriore mancanza di chiarezza e di prospettiva politiche. Infatti tale presenza rendeva ancora più difficile un vero bilancio del passato e un chiaro confronto tra le varie posizioni in presenza e, al tempo stesso, condizionava tuttora l'evoluzione del fascismo con una serie di iniziative che assai spesso trovavano la loro origine profonda più nel dramma psicologico personale di Mussolini che in una coerente e fredda scelta politica.
Premesso ciò, è forse più utile cercare di individuare cosa del fascismo repubblicano si possa riportare al denominatore della continuità e cosa invece costituisca un elemento sostanzialmente nuovo rispetto al fascismo del ventennio. Un elemento di continuità fu certamente costituito da un certo tipo di nazionalismo, cbe in molti fascisti repubblicani - soprattutto più giovani - ebbe però un carattere particolare, poiché, in genere, assunse caratteri elementari e coloriture romantico-cavalleresche (il richiamo all'onore nazionale, alla fedeltà ai patti, al cameratismo con i compagni d'arme tedeschi, alla coerenza per la coerenza, ecc.) e si nutriva di una serie di motivazioni tipiche del nazionalismo italiano e soprattutto di quello fascista, quale era venuto prendendo corpo con la guerra d'Etiopia e successivamente ad essa: da qui la sua carica essenzialmente antinglese, alla quale quasi sempre si univa un'altrettanto forte carica antiamericana e assai di rado, invece, antirussa.
Per capire queste ultime due varianti bisogna rifarsi ad altri elementi di continuità e in particolare a tre, due molto vivi e uno secondario ma non sottovalutabile. Il primo è quello dell'antidemocrazia, tipico del fascismo in tutte le sue manifestazioni e in tutti i suoi periodi, sicché è inutile dilungarci su di esso. Il secondo (quello secondario) è quello che potremmo chiamare il mito dei ‛popoli giovani', per il quale ‛vecchi' erano l'Inghilterra e per estensione anche gli Stati Uniti, mentre ‛giovane' era la Russia. Il terzo - e più importante - infine è quello costituito dal vecchio rivoluzionarismo tipicamente piccolo borghese del primo fascismo. All'origine tanto antiproletario quanto anticapitalistico, questo rivoluzionarismo si era visto negli anni del regime, da un lato esaltato sul piano ideologico attraverso la presentazione del corporativismo come terza via tra capitalismo e comunismo e interpretato sul piano pratico dal fascismo-governo attraverso la sua politica di intervento nell'economia, ma, da un altro lato, sacrificato politicamente da Mussolini ai ‛fiancheggiatori' e assai spesso addirittura estromesso o emarginato. Il 25 luglio era stato pertanto per esso un dramma ma anche una vittoria morale, nel senso che lo aveva confermato nella sua convinzione che i veri nemici del fascismo, quelli che avevano prima ingannato e strumentalizzato e poi tradito Mussolini, erano i fiancheggiatori: la monarchia, i capi militari, la vecchia classe dirigente, i capitalisti; mentre le masse popolari avevano mostrato nel complesso una maggiore tendenza ad integrarsi nella nazione e nel fascismo. Da qui il loro ritorno alla ribalta politica con la R.S.I., il loro riallacciarsi al programma fascista del 1919, la loro volontà di vendetta sui ‛fiancheggiatori' di tutte le specie. Da qui, ancora, per tornare al discorso sul nazionalismo, il loro guardare, in genere, all'URSS in maniera diversa che alle due grandi potenze anglosassoni; sia perché socialmente più vicina al ‛fascismo rivoluzionario' delle ‛demoplutocrazie', sia perché, al fondo, considerata una sorta di loro futura vendicatrice postuma su di esse, nata per di più dallo stesso travaglio ‛rinnovatore' da cui era nato il fascismo e in contrapposizione alla soluzione parlamentaristica liberal-democratica. Un travaglio al quale, oltre tutto, lo stesso Mussolini mostrava di volersi ricollegare e nel nome del quale la R.S.I. raccoglieva anche adesioni di ex sovversivi e di ex antifascisti che, in quel momento, assumevano un carattere tutto particolare.
Questi, a nostro avviso, i quattro elementi più significativi di continuità, ma, al tempo stesso, di una continuità che, specie nei più giovani, si presentava con alcuni innesti di novità non insignificanti, almeno sotto il profilo ideologico-politico.
Lo stesso discorso ci pare si debba fare per quegli elementi che, rispetto alla tradizione italiana del ventennio, rappresentano invece una novità, frutto della frattura determinata dalla sconfitta militare del regime e dalla consapevolezza che, anche nella eventualità sempre meno credibile di una vittoria tedesca, il fascismo così come era stato concepito e idealizzato nel ventennio era comunque sconfitto. A parte ogni altra considerazione, perché aveva irrimediabilmente perduto il rapporto col paese e - se mai l'aveva avuto - ogni forma di carisma. Anche in questi elementi vi è una radice preesistente; gli innesti nuovi sono però tali da dare loro un significato di frattura che, a nostro avviso, è quello che, in prosieguo di tempo, distinguerà il neofascismo post seconda guerra mondiale dal fascismo storico. Tra essi è, per esempio, l'acquisto di una dimensione europea del fascismo, non più intesa nei termini del ‛fascismo universale' degli anni trenta e neppure nei termini egemonici che essa aveva assunto nel nazismo, ma in quelli di una effettiva unità dei ‛credenti' e dei ‛combattenti' per la sopravvivenza dell'Europa e della sua civiltà contro le forze ‛non europee' e ‛antieuropee'. Soffermarsi su questi elementi è però, in questa sede, inutile. Ciò che importa è chiarire da cosa essi presero le mosse, quale cioè fu il fatto nuovo che li determinò.
G. L. Mosse e T. Kunnas, i due più acuti studiosi dell'intima sostanza dell'ideologia fascista e - soprattutto il primo - delle sue radici sociali e culturali, hanno bene messo in luce i rapporti esistenti tra questa ideologia e la crisi, morale, culturale e esistenziale dell'Europa tra le due guerre mondiali. In particolare essi hanno posto l'accento sull'anelito a ricostruire '‛uomo totale' e sulle componenti di fondo della mentalità fascista nella sua aspirazione a superare l'‛anonimato del presente', a contrastare la crisi della civiltà europea e a recuperare nell'autocoscienza nazionale il senso della comunità. Nei vari fascismi storici e in alcuni intellettuali fascisti isolati questo anelito e queste componenti si sono presentate in forme e misure diverse, prefigurando futuri diversi. In essi il futuro era però un dato di fatto che - pure in una visione di ottimismo vitalistico o tragico, a seconda dei casi - era prospettato come una realtà contrapposta a quella rappresentata dalla crisi della civiltà europea. Gli sbocchi potevano essere diversi: il millennio ciclico del nazionalsocialismo, l'intima capacità dei popoli giovani di trovare in se stessi e nella propria peculiare tradizione la forza morale di un rinascimento nel fascismo. Un futuro però c'era e con esso, quindi, qualche cosa per cui valesse la pena di lottare. Con la sconfitta militare e politica del fascismo questo stato d'animo, questa mentalità mutarono profondamente, sino a trasformarsi nel loro contrario, nella convinzione che la civiltà europea fosse ormai inevitabilmente condannata alla degenerazione. Da qui un pessimismo tragico senza il quale non si capisce veramente l'intima realtà della R.S.I. e le sue suggestioni (ed elaborazioni culturali più significative) successive sul neofascismo. Un pessimismo tragico i cui sbocchi furono o una sorta di imperante ‛senso della morte', individuale e collettivo, o, come si è detto, una sorta di odio-amore verso lo Stato sovietico, visto, per un verso, come vendicatore del fascismo e, per un altro verso, come ultimo, anche se inidoneo, freno momentaneo alla degenerazione della civiltà europea.
4. Il fenomeno fascista
Sino agli inizi degli anni trenta pochi furono coloro che videro nel fascismo un fenomeno potenzialmente non solo italiano. Se si prescinde dai marxisti e specialmente dalla III Internazionale, che videro nel fascismo l'ultima forma reazionaria di potere del capitalismo senescente, i più lo spiegarono sulla base della specifica realtà italiana: la debolezza della tradizione e delle istituzioni liberal-democratiche, le deficienze della classe politica, i caratteri particolarmente aspri del dopoguerra in Italia sotto il profilo politico-sociale; né mancarono coloro che si appellarono al ‛temperamento' degli Italiani, intrisi di forti ma incostanti passioni e bisognosi, data la loro scarsa coscienza politico-sociale, di un governo forte. Al massimo qualcuno accennò alla possibilità che l'esempio italiano potesse esercitare una certa suggestione in alcuni paesi dell'Europa orientale, privi di una salda tradizione liberale e di un efficiente sistema parlamentare e poco sviluppati economicamente e socialmente. Di un ‛fenomeno' fascista si cominciò a parlare sempre più diffusamente nella prima metà degli anni trenta. Dopo che il nazionalsocialismo si fu affermato in Germania, movimenti e partiti fascisti o parafascisti sorsero in moltissimi paesi e anche a livello culturale vi fu chi cominciò a considerare il fascismo come un modello politico-sociale che tendeva a superare le contraddizioni e le disfunzioni dei regimi capitalistici (rese più evidenti dalla ‛grande crisi') senza cadere nel comunismo.
La guerra civile spagnola, il ‛patto d'acciaio' e la seconda guerra mondiale completarono l'opera. Dissoltesi le illusioni di coloro che, come si è detto, avevano guardato al fascismo come a una sorta di ‛terza via', la tendenza sempre più accentuata fu quella a generalizzare, a mettere l'accento sugli elementi comuni ai vari fascismi - spesso con toni di tipo demonologico -, a insistere soprattutto su quelli nazionalistico, coercitivo-terroristico (risolvendo in esso il problema del consenso) e di reazione di classe, e a sottovalutare e a ignorare le differenze. Per un quindicennio il fascismo fu così essenzialmente un problema etico-politico, attorno al quale, per di più, fu combattuta la guerra più distruttiva dell'età moderna. Ciò spiega bene perché, conclusosi il secondo conflitto mondiale e scomparsi con esso tutti i regimi fascisti o parafascisti (salvo quello spagnolo, che, per altro, nel nuovo clima internazionale attenuò rapidamente molti dei suoi caratteri più tipicamente fascisti per trasformarsi in un regime sempre più di tipo conservatore-autoritario), il discorso sul fascismo in un primo tempo sia rimasto largamente condizionato da tutta una serie di valutazioni-interpretazioni politico-ideologiche contrastanti, che, praticamente, erano le stesse nel nome delle quali era stato combattuto, e in un secondo tempo abbia registrato un processo di differenziazione estremamente netto. Da un lato il fascismo è diventato una categoria onnicomprensiva, sempre più priva di effettivo riferimento ai fascismi storici, che a livello politico di massa è servita a definire e a squalificare a priori qualsiasi avversario politico; da un altro lato, a livello scientifico, il fenomeno fascista è stato studiato in una serie di prospettive nuove, sempre meno condizionate sia dalle interpretazioni ‛classiche' sia dalle altre fiorite nell'immediato dopoguerra, che hanno in genere portato ad una valorizzazione delle peculiarità nazionali dei singoli fascismi e ad una revisione in senso riduttivo di molti degli elementi che in un primo tempo erano sembrati comuni a tutti i fascismi.
Nelle interpretazioni ‛classiche' è facile riscontrare l'influenza determinante di come negli anni tra le due guerre mondiali il fascismo fu visto a livello tanto culturale quanto politico da liberali, radicali e comunisti e di come queste forze si posero di fronte al problema del postfascismo.
Per la cultura liberale (soprattutto europea, si pensi a Croce, Meinecke, Ritter, G. Mann, Kohn) il fascismo sarebbe stato una sorta di ‛malattia morale', uno smarrì- mento delle coscienze che colpì tutta l'Europa e tutte le classi sociali (anche se il suo impatto fu maggiore in alcuni paesi e a livello dei ceti medi) e che aveva radici lontane: nella mobilitazione delle masse provocata dalla Rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale, nelle illusioni e nelle aspirazioni alla felicità, al guadagno, alla potenza da esse suscitate, nella dissoluzione dei tradizionali vincoli sociali, nel disprezzo della ragione e nell'esaltazione della vita e della forza praticata da tutto un settore della filosofia e della cultura contemporanee. Ricollegandosi a queste radici più o meno remote, la crisi e il travaglio causati dalla guerra 1914-1918 e dal dopoguerra avrebbero provocato il fascismo. Per la cultura radicale (Vermeil, Viereck, Mack Smith, ecc.) il fascismo, invece, sarebbe stato la logica e inevitabile conseguenza di una serie di tare caratteristiche dello sviluppo storico di alcuni paesi. Tare connesse soprattutto al ritardo, alla fragilità e alla esasperazione con i quali in questi paesi si sarebbero realizzati lo sviluppo economico, l'unificazione e l'indipendenza nazionali: la borghesia di questi paesi non sarebbe riuscita a svilupparsi altro che in forme patologiche e avrebbe perciò dovuto ricorrere sempre ad alleanze conservatrici e a forme di potere politico illiberali e antidemocratiche per affermare il proprio predominio, con la conseguenza di escludere qualsiasi effettiva partecipazione morale e materiale delle masse popolari al processo di unificazione nazionale e al governo del paese; sicché il fascismo non sarebbe stato che il logico e necessario portato di questa politica reazionaria e antipopolare e, quindi, tra esso e la tradizione autoritaria e imperialista dei paesi nei quali si è affermato esisterebbe una ben precisa continuità. Per larga parte dei marxisti e per i comunisti, infine, il fascismo sarebbe stato un prodotto della società capitalistica, la concreta manifestazione a livello di massa della reazione antiproletaria alla quale il capitalismo era costretto a ricorrere nel vano tentativo di salvarsi. Va per altro anche detto che, nell'ambito di questa interpretazione, il discorso è stato articolato (a seconda dei momenti e dei gruppi) in forme diverse, spesso assai meno schematiche (si pensi a Trotzki, a Löwenthal, a Togliatti), tanto è vero che esso è stato più o meno largamente recepito anche dalla storiografia non marxista.
A queste interpretazioni principali si deve aggiungere, per l'importanza che ha avuto negli Stati Uniti e soprattutto nella Germania occidentale, quella che ha voluto vedere nel fascismo (così come nel comunismo, specialmente nella fase stalinista) una manifestazione di un fenomeno assai più vasto e strettamente connesso all'atomizzazione e alla individualizzazione della società contemporanea determinate dalla disgregazione sociale causata dalla prima guerra mondiale e dall'affermarsi di una nuova società caratterizzata dal ruolo decisivo che in essa hanno per un verso le masse e per un altro verso la moderna tecnologia: il ‛totalitarismo', inteso come una nuova forma di potere, volta a ricostruire, appunto, il tessuto sociale, creando, con l'aiuto di una ideologia elementare e del terrore, un nuovo senso della comunità e nuove forme di organizzazione della vita economica e sociale più adatte ad una società di massa e ai suoi bisogni morali e materiali.
A queste interpretazioni (e a quelle minori, ad esse per un verso o per un altro tutte ricollegabili) nell'ultimo trentennio se ne sono venute affiancando e contrapponendo altre, elaborate soprattutto nell'ambito delle scienze sociali, che - assolutamente minoritarie all'inizio - hanno acquistato via via sempre più credito (specie nella cultura anglosassone) e tendono oggi a porre il discorso sul fascismo su un terreno sempre più diverso da quello tradizionale o, almeno, ad integrarlo con tutto una serie di suggestioni e di ipotesi di ricerca nuove. All'origine di esse sono spesso opere e ipotesi interpretative elaborate negli anni trenta-quaranta (si pensi agli studi di Reich, Fromm, Mannheim, ovvero a quelli sulla ‛personalità autoritaria'), sia in sede scientifica sia ad opera dei servizi psicologici e di propaganda delle forze armate statunitensi negli anni della guerra. In genere, queste interpretazioni si rifanno però soprattutto alle più recenti teorie psicosociali, sociologiche e socioeconomiche. Da qui la duplicità del loro apporto al discorso sul fascismo: positivo, laddove esse contribuiscono a mettere in luce l'inscindibile rapporto che lega il fascismo al formarsi di società di massa e, quindi, il tipo particolare di motivazioni che determinarono l'atteggiamento e l'evoluzione del comportamento delle varie componenti del corpo sociale rispetto ai movimenti e ai regimi di tipo fascista; negativo, laddove, invece, esse pretendono di offrire delle interpretazioni onnicomprensive del fascismo e di costruire dei ‛emodelli' di esso più o meno disancorati dalla concreta realtà del momento storico e dei singoli paesi. Tipico in questo senso è il caso di quei sociologi e politologi che (riprendendo tutti più o meno esplicitamente la teoria di Rostow sugli stadi dello sviluppo economico) hanno calato il discorso particolare sul fascismo in quello più ampio sulla ‛modernizzazione', col risultato di sganciare quasi completamente i fascismi storici dal loro specifico contesto geografico; culturale e storico e di costruire un modello fascista in cui rientrerebbero esperienze e regimi diversissimi, tra cui molti di quelli dei paesi in via di sviluppo dell'America Latina e del Terzo Mondo.
Per importante che sia il contributo che le scienze sociali hanno dato al discorso sul fenomeno fascista con tutta una serie di suggestioni e di spunti sia a livello d'interpretazione generale sia di definizione di singoli aspetti di esso, l'apporto maggi9re al discorso sul fascismo è però venuto in questi anni essenzialmente dal sistematico lavoro di ricerca e di approfondimento storico della realtà dei singoli fascismi fatto soprattutto in Germania Occidentale; negli Stati Uniti e in Italia. Grazie a questi studi (in genere tanto più importanti quanto più ampia è diventata la possibilità di accedere alle fonti e minori si sono fatte le preoccupazioni di origine immediatamente politica degli storici e, dunque, si è accresciuta la loro capacità di estendere l'orizzonte delle ricerche a campi sino a pochi anni or sono ritenuti estranei alla tematica del fascismo) il discorso sul fenomeno fascista tende oggi a definirsi in termini piuttosto univoci e parzialmente diversi da quelli nei quali era stato impostato nel ventennio precedente il nostro. Da un lato, essi hanno confermato la validità di un discorso storico che continui a considerare il fascismo come un fenomeno complessivamente unitario, sia perché definibile entro confini cronologicamente (il periodo tra le due guerre mondiali) e geograficamente (l'Europa) precisi, sia perché strettamente connesso a determinate condizioni e trasformazioni socioeconomiche, ad una particolare temperie culturale delle élites e soprattutto delle masse e ad una certa concezione (e all'oggettiva possibilità di attuarla) dei rapporti di forza all'interno delle nazioni e tra gli Stati. Da un altro lato, essi hanno però sempre più chiaramente messo in luce due fatti nuovi e che contrastano in genere con quanto affermato in passato. Primo: che - al di là di quanto or ora detto - nei singoli fascismi le peculiarità nazionali e in primo luogo il grado di nazionalizzazione delle masse (fondamentali sono a questo proposito gli studi di G. L. Mosse, non solo per quello che dicono sulla Germania e sul nazionalsocialismo, ma per le possibilità che offrono di comprendere le differenze di fondo che sotto questo profilo vi erano tra Germania e Italia e, quindi, tra nazionalsocialismo e fascismo) furono a tutti i livelli decisivi, tali da rendere improponibile, sia per i partiti e i movimenti sia per i regimi, un discorso di tipo assolutamente unitario. Secondo: che le radici storiche del fascismo non possono essere ricercate solo nella tradizione politica e culturale della destra, ma, al contrario, vanno ritrovate assai spesso in quella di un certo radicalismo di sinistra nato con la Rivoluzione francese; il che marca ulteriormente (e a monte) le profonde differenze che fanno dei regimi fascisti di massa una realtà assai diversa dai regimi autoritari e conservatori tradizionali e del fascismo un ‛nuovo stile politico' che - come ha dimostrato compiutamente G. L. Mosse per il nazionalsocialismo, ma il discorso vale anche per il fascismo italiano, sempre che si tengano presenti le differenze tra i due regimi - se si serviva di una tradizione precedente, si poneva però obiettivi completamente nuovi: trasformare le folle in masse organizzandole in un movimento politico con caratteri di religione laica.
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