Fecondità
Nella vita di una persona non esiste evento più ricco di significato e di implicazioni future del divenire genitore, e non esiste aspetto del comportamento individuale più essenziale per la sopravvivenza della società che una adeguata fecondità. Le determinanti della nascita costituiscono così una componente nodale del mutamento sociale che non interessa soltanto la demografia. La nascita, infatti, da un lato è il risultato di un complesso intreccio di fattori causali afferenti sia alla sfera biologica e alle storie di vita individuali, sia alla sfera socioculturale, economica e ambientale; dall'altro, di fatto, produce effetti di capitale importanza nelle vicende della popolazione e delle unità che la compongono. Nella famiglia la rete di relazioni, le caratteristiche delle sue attività, la struttura dei diritti e delle responsabilità sono fortemente influenzate dall'arrivo di un bambino. A livello aggregato i mutamenti nel comportamento procreativo virtualmente influenzano in modo diretto le trasformazioni della società. Una perturbazione nel ritmo di produzione di nuovi membri della popolazione provoca modificazioni successive nell'ammontare dei consumatori secondo la scala delle età, nella domanda che interessa la struttura occupazionale, nel flusso dei giovani adulti nelle forze di lavoro, nei fabbisogni abitativi dei nuovi sposi, e così via, attraverso l'intero ciclo di vita, fino alle età che seguono il pensionamento, quando l'anziano si attende sicurezza finanziaria, se non psicologica, dai suoi risparmi, dalla sua progenie e dal sistema pensionistico.
In sintesi, la fecondità gioca un ruolo preponderante nel disegnare la struttura della popolazione: un calo della fecondità conduce nel tempo a un invecchiamento della struttura demografica, mentre un suo aumento la fa ringiovanire. Altrimenti detto, una popolazione in cui la fecondità è bassa avrà necessariamente una struttura per età 'vecchia'; una popolazione ad alta fecondità sarà strutturalmente giovane. Molto più limitata è a questo riguardo l'azione della mortalità che, per le sue modalità evolutive lungo la scala delle età, non ha effetti di invecchiamento se non quando i suoi progressi si accentrano nelle età anziane. Le tendenze attuali della fecondità determinano così, in gran parte, la struttura futura della popolazione, che a sua volta reagirà sulla natalità e la mortalità. La precisa determinazione delle tendenze del comportamento procreativo e dei relativi fattori sottostanti si rivela, dunque, indispensabile ai fini dell'organizzazione della società futura a tutti i livelli e sotto ogni aspetto; ciò spiega perché i policy-makers, nel mondo degli affari come in quello del governo, siano avidi consumatori di dati e conoscenze riguardanti il passato, il presente e il futuro delle nascite, che compete all'analista della fecondità interpretare.
Come in molti altri fenomeni che sono oggetto di studio della demografia, nel processo procreativo intervengono simultaneamente determinanti biologiche e determinanti socioculturali legate al comportamento. È con riferimento a tali determinanti che si introducono i concetti fondamentali di fertilità, fecondabilità e fecondità.In demografia col termine fertilità si intende la capacità biofisiologica posseduta da un individuo o da una coppia di produrre figli, indipendentemente dal fatto che tale capacità venga effettivamente esercitata: è l'attitudine a concepire e la sterilità rappresenta il suo contrario; si indica con il termine fecondabilità la probabilità di concepimento per ciclo mestruale; si riserva invece quello di fecondità al 'risultato' del comportamento prolifico, quello che si accerta e si misura attraverso l'enumerazione dei nati vivi all'interno di un collettivo di unità di popolazione (ad esempio una coorte di donne o di uomini, una coorte di coppie, l'insieme delle donne o degli uomini presenti in un determinato momento del tempo in un aggregato, ecc.) e mediante la creazione di appropriati indicatori statistici che tengano conto dell'ammontare di tali collettivi. Mentre la natalità attiene al fenomeno demografico generale della nascita, la fecondità si riferisce, dunque, alla frequenza dei nati all'interno di una sottopopolazione in grado di procreare. Il suo contrario, l'infecondità, non implica necessariamente la sterilità. Sul piano strettamente terminologico è opportuno segnalare che per gli anglosassoni l'uso delle espressioni fecundity e fertility - e dei relativi contrari - è invertito: la prima corrisponde di fatto a fertilità e la seconda a fecondità; inoltre nella letteratura medica e biologica le due locuzioni appaiono normalmente come sinonimi.
La più comune e più elementare misura della fecondità può essere considerata il tasso generico di natalità. Data una popolazione identificata nello spazio e nel tempo, il tasso generico di natalità è il rapporto tra il numero delle nascite prodottesi tra i suoi membri durante un particolare periodo di tempo e il numero complessivo degli anni-persona vissuti dalla popolazione durante quello stesso periodo, vale a dire l'esposizione al rischio del prodursi di una nascita. Il tasso generico di natalità viene generalmente espresso per 1.000 anni-persona. La consuetudine di configurare questa misura come 'nati per 1.000 individui della popolazione' deriva dal fatto che, di norma, si approssima il denominatore moltiplicando l'ammontare della popolazione nel punto centrale dell'intervallo temporale considerato per il numero di anni rappresentati nel numeratore. Nonostante questa consuetudine, l'inserimento del tempo nel denominatore di questa misura è sempre implicito e appropriato, poiché la manifestazione degli eventi demografici richiede non solo degli 'attori' ma, appunto, anche il passaggio del tempo. I principî che sottostanno al calcolo del tasso generico di natalità - l'identificazione di una popolazione esposta e delle nascite da questa provenienti in funzione di certi parametri, ivi compreso il tempo - possono essere estesi senza sostanziali modifiche alla determinazione di tassi per classi e sottoclassi di popolazione. Ad esempio un tasso specifico di fecondità per età della madre non è altro che un tasso generico di natalità calcolato per ciascun gruppo di età della popolazione distinta per sesso, il numeratore essendo costituito dalle nascite provenienti da donne di una determinata età e il denominatore dal numero di anni-persona trascorsi in quell'età nel periodo considerato.
Se indichiamo con b il tasso generico di natalità, con f(a) il tasso di fecondità per il gruppo di età a e con c(a) la proporzione della popolazione in quello stesso gruppo di età, allora b è uguale alla somma lungo l'intera scala delle età dei prodotti f(a)·c(a). In questo risultato si ritrova un fondamentale approccio analitico largamente adottato nell'analisi del processo riproduttivo: il calcolo di tassi a vari livelli di specificità relativamente ad attributi xi, con la finalità di distinguere nelle differenze di fecondità rilevate a livelli di specificità più bassi ciò che è da attribuire alle differenze esistenti in f(xi) e a quelle nella distribuzione della popolazione c(xi) rispetto a quei particolari attributi.
Tre sono i problemi impliciti in tale approccio: a) quello della specificità; b) quello della sintesi; c) quello dell'aggregazione temporale. Il primo problema riguarda la scelta delle variabili da prendere in considerazione in funzione della loro influenza sulle manifestazioni della fecondità. In prima istanza la soluzione più semplice è optare per il massimo dettaglio compatibile con le disponibilità informative. Di fatto la definizione degli obiettivi conoscitivi deve orientare verso decisioni che riguardano preliminarmente l'individuazione delle popolazioni o sottopopolazioni di interesse. Così, se l'indagine riguarda la fecondità generale della donna, la popolazione di riferimento sarà costituita dai soggetti di sesso femminile compresi nella fascia di età che va dai 15 ai 50 anni (i limiti convenzionali di fertilità), e le variabili saranno le classi di età (gruppi annuali, quinquennali, ecc.) ed eventualmente l'ordine di generazione dei nati (parità); se invece l'attenzione è rivolta alla fecondità coniugale, ai precedenti caratteri si dovrà aggiungere lo stato civile oppure ci si potrà riferire alla sottopopolazione delle coppie, equivalente a quella dei matrimoni non disciolti, e le variabili saranno la durata del matrimonio, l'ordine di generazione ed eventualmente l'età al matrimonio della madre.
Il secondo problema riguarda i criteri attraverso i quali la tavola a n dimensioni dei tassi calcolati in funzione di n variabili può essere ridotta in maniera appropriata a un singolo indicatore di fecondità idoneo per adeguati confronti tra gruppi. La sua soluzione può essere esemplificata con riferimento alla serie dei tassi specifici di fecondità per età della donna. Se si calcolano, poniamo, n tassi di fecondità, specifici per ciascuno dei gruppi di età in cui si articola la popolazione femminile, l'indicatore che li sintetizza deriva dalla somma di tutti gli n tassi, effettuata dopo aver assegnato a ciascuno di essi un peso appropriato; pertanto il problema della sintesi si risolve in quello della scelta dei pesi. Una soluzione elementare e relativamente soddisfacente è quella di assegnare a ciascun tasso un peso uguale (pari a 10n): l'indice sintetico che deriva da questa procedura viene normalmente definito tasso di fecondità totale e può essere concettualizzato come il numero medio di figli (discendenza media) raggiunto alla fine del periodo fecondo da una generazione (coorte) di donne, che attraversa le età riproduttive in assenza di mortalità e che sperimenta alle successive età la fecondità specifica che viene sintetizzata. Alternativamente - sempre a titolo esemplificativo - si può scegliere di ponderare i tassi specifici di fecondità per età con la distribuzione per età stabile implicita nella combinazione di quegli stessi tassi con una funzione di mortalità per età: si ottiene il cosiddetto tasso di natalità stabile, il cui impiego è, peraltro, ormai in disuso.
Il terzo problema rimanda alla doppia dimensione, micro- e macrodemografica, caratterizzante l'esperienza riproduttiva che veniva evocata nella premessa ed è quello che ormai, per riconoscimento generale, qualifica e differenzia maggiormente gli approcci di analisi nel tempo introdotti dai demografi in questo settore. Sul piano fattuale la serie dei tassi di fecondità per età può assumere due diversi significati a seconda che la specificazione sia effettuata facendo riferimento alla collocazione temporale della madre (o del matrimonio) - quindi nel denominatore delle varie misure - piuttosto che alla collocazione temporale delle nascite - nel numeratore. Ad esempio un gruppo di donne può essere identificato attraverso la caratteristica del comune anno di nascita, vale a dire come una coorte di nascita o generazione. Man mano che le componenti di questa coorte attraversano l'intervallo riproduttivo, invecchiando pari passu, possono venir registrati in ciascuna delle successive età sia l'esposizione al rischio di dar luogo a una nascita (anni-persona) sia il numero di nascite avute; diviene possibile di conseguenza ottenere una serie di tassi specifici di fecondità per età con criteri identici a quelli prima descritti con riferimento al periodo di osservazione delle nascite. Gli indicatori che sintetizzano le funzioni di fecondità per età di una coorte saranno a loro volta calcolati con gli stessi procedimenti illustrati per le misure di periodo - dette anche per contemporanei o del momento -, ma avranno un significato diverso e andamenti temporali diversi.
Sul piano analitico, di conseguenza, è necessario operare una scelta preliminare. Di fatto una base generale di risposta a questo problema fondamentale è stata talvolta cercata in termini di riconoscimento della maggiore importanza, in una situazione reale, di particolari circostanze o condizioni di periodo rispetto alle interrelazioni di natura permanente tra le esperienze vissute dalla coorte lungo il ciclo vitale. Tuttavia l'opzione dipende da considerazioni di natura più generale che interessano e coinvolgono tutta la ricerca demografica. All'origine del problema, in effetti, sta il riconoscimento che le nascite, come ogni altro evento che dà origine a un processo di popolazione, altro non sono se non esperienze demografiche vissute dalle unità elementari che compongono l'aggregato - gli individui, in prima istanza - nel corso del loro ciclo vitale.
Di conseguenza, per comprendere le manifestazioni del processo riproduttivo e come il risultante mutamento quantitativo e strutturale si collochi nel tempo della popolazione, occorre ricondursi alle singole esperienze individuali e osservarne le modalità di sviluppo temporale. Poiché, tuttavia, la demografia non si interessa delle vicende individuali ma di quelle collettive, si è rivelato indispensabile individuare una macrounità di osservazione e di studio in cui sono riprodotte a livello aggregato le caratteristiche reali delle esperienze demografiche vissute a livello individuale, e in cui si possono pertanto collocare correttamente nel tempo i fenomeni della popolazione per poi risalire agli opportuni metodi di misura. A questa macrounità i demografi hanno assegnato il nome di coorte, definendo, in generale, come tale l'insieme di persone che hanno vissuto un certo evento durante uno stesso periodo di tempo.
Con riferimento a tale unità l'analisi per coorte è in grado di condurre alla descrizione di comportamenti reali e non più fittizi. La coorte, inoltre, è l'unità di esperienza demografica strumentale che garantisce un legame macroscopico - secondo l'etimologia del termine - tra movimento della popolazione e movimento degli individui. La separazione concettuale tra comportamento della popolazione e comportamento individuale viene colmata da un ponte convenzionale nella forma dell'aggregato coorte, all'interno della quale si collocano gli individui e al cui esterno la popolazione, come funzione del tempo, viene costruita dalla sequenza dei processi di coorte. Così la coorte è un'unità macroanalitica come la popolazione, ma ha la stessa collocazione temporale e le stesse modalità di sviluppo degli individui che la costituiscono. Nell'analisi per coorte, dunque, si traduce il carattere sequenziale della vita individuale (e familiare), e pertanto essa funge proficuamente da intermediaria tra l'analisi del comportamento degli individui e quella del comportamento della popolazione, nella prospettiva di potenziarne gli apporti reciproci. Ciò posto, se l'obiettivo della ricerca è quello di risalire alla descrizione del processo riproduttivo e all'analisi delle sue determinanti, l'unità di riferimento naturale non può essere che la biografia individuale e quella convenzionale di studio la coorte.
Quando invece il problema centrale si riferisce alle conseguenze del comportamento delle coorti è più utile considerare i dati per periodi successivi, le naturali unità temporali utili per assumere decisioni politiche e amministrative. Riferendoci alla dimensione micro-macro troviamo che il livello macrodemografico dell'analisi ha al suo centro una popolazione di individui, caratterizzata da una particolare struttura per età, sesso, stato civile, ecc., i cui mutamenti, per quanto attiene al processo riproduttivo, vengono misurati con i tassi generici (o stabili) di natalità o con i tassi sintetici (tassi totali, indici standardizzati) per anno: l'anno è l'unità temporale. Al centro del livello microdemografico sono invece gli individui (biografie) o le famiglie, caratterizzati dalle stesse variabili della popolazione (ma per le famiglie è possibile contemplare anche categorie di parentela, di relazioni coniugali o di consanguineità). La misura del processo fecondo in questo contesto assume forme differenti, talché una donna o una famiglia ha una discendenza finale (fecondità completa) piuttosto che un tasso di natalità - così come, nell'ambito della sopravvivenza, un individuo ha una speranza di vita piuttosto che un tasso di mortalità - e la ovvia e naturale unità temporale è la coorte e non l'anno.
Il convincimento della prevalenza delle determinanti biologiche nelle manifestazioni del comportamento procreativo ha indotto per lungo tempo gli studiosi della popolazione a considerare la fecondità come una costante negli schemi interpretativi dell'evoluzione demografica. Sulle orme di Malthus, ancora nel 1900 Cauderlier, invocando una fertilità femminile invariante nel tempo, affermava con sicurezza il carattere esclusivo del ruolo del matrimonio nelle tendenze di fondo - declinanti - e nelle oscillazioni della natalità. L'emergere e il graduale affermarsi del controllo delle nascite, mentre ha spostato l'attenzione sull'insieme dei fattori socioculturali, economici e ambientali che condizionano gli atteggiamenti e le azioni verso la prolificazione, ha favorito, in ultima istanza, una più corretta analisi dell'intreccio tra fattori biologici e fattori legati al comportamento in rapporto alle manifestazioni reali della fecondità.
In tal senso il definitivo chiarimento nasce con la separazione tra fecondità naturale e fecondità controllata. Secondo L. Henry (v., 1961), che ha introdotto in contrapposizione tali concetti, deve dirsi naturale la fecondità della popolazione al cui interno non viene esercitato alcuno sforzo cosciente per limitare le nascite - una nuova nascita non dipende, in sostanza, dal numero di figli già avuti dalla donna o dalla coppia - e che, di conseguenza, caratterizza i regimi demografici normalmente detti non malthusiani. In un regime malthusiano, al contrario, le coppie tenderanno volontariamente a limitare le nascite in funzione della discendenza raggiunta. Di grande portata euristica, il concetto di fecondità naturale non è privo peraltro di ambiguità, quanto meno sul piano dell'evidenza empirica. In via di principio esso dovrebbe corrispondere al 'livello costante' postulato dagli antichi teorici della popolazione, ma, di fatto, vari fattori possono intervenire nel mantenere la fecondità naturale al di sotto del potenziale biologico e nel farla variare nel tempo e nello spazio: oltre al numero dei matrimoni, influiscono in misura notevole le norme relative all'età al matrimonio e alle seconde nozze dei vedovi, i tabù sessuali, la pratica e la durata dell'allattamento al seno, ecc.
Nel passaggio a un regime 'malthusiano', a tali fattori, a un tempo biologici e comportamentali, altri se ne aggiungono nel determinare la fecondità di fatto: la contraccezione e l'interruzione volontaria della gravidanza. Nel loro insieme essi appartengono alla categoria delle cosiddette variabili intermedie - o determinanti prossime - della fecondità. In generale, la caratteristica fondamentale delle variabili intermedie è la loro diretta influenza sulla fecondità: in tal senso esse assumono un ruolo fondamentale nell'analisi dei meccanismi attraverso i quali le determinanti socioculturali, economiche e ambientali - le cosiddette variabili esplicative - esercitano la loro influenza sul processo riproduttivo, direttamente o attraverso la mediazione delle scelte individuali. Se una variabile intermedia - come l'uso di anticoncezionali - subisce dei cambiamenti, allora anche la fecondità muta necessariamente (a parità di mutamenti relativi alle altre variabili intermedie), mentre un analogo risultato non è necessariamente da attendersi per le determinanti socioeconomiche. Di conseguenza, le differenze di fecondità tra popolazioni e le relative tendenze nel tempo possono essere comprese solo dopo che esse siano state ricondotte alle variazioni di una o più variabili intermedie e non collegandole direttamente con le variabili esplicative.Di fatto i vari tentativi di misurare direttamente l'impatto di fattori quali il reddito, il grado di istruzione o il luogo di residenza - informazioni spesso facilmente disponibili e spesso privilegiate per l'interesse dei policy-makers a identificare i fattori 'manipolabili' per influenzare la fecondità - hanno fornito risultati del tutto insoddisfacenti.
Non di rado si sono trovate relazioni che differiscono non solo per l'ampiezza ma anche per la direzione in contesti e tempi differenti. In un contesto esplicativo la catena delle relazioni tra le determinanti del processo riproduttivo non può che configurarsi secondo il seguente schema:
[fattori sociali, economici, ambientali] → [variabili intermedie] → [fecondità].
Partendo dalla premessa che la riproduzione coinvolge i tre atti necessari del rapporto sessuale, del concepimento e del completamento della gestazione, le determinanti prossime si identificano sulla base di una semplice, ma realistica, segmentazione del periodo riproduttivo e per mezzo dell'individuazione degli eventi che ne determinano la durata e che influiscono sulla probabilità di avere un figlio. Coerentemente con il quadro teorico proposto da Davis e Blake (v., 1956) in uno studio divenuto ormai classico e con le modellizzazioni di Henry (v., 1972), ne dà una visione schematica il diagramma. Seguendo questo schema può essere facilmente individuata la gamma completa delle variabili intermedie. Gli anni potenzialmente riproduttivi di una donna iniziano con la comparsa del menarca - tra i 12 e i 16 anni, a seconda dei gruppi umani, e convenzionalmente fissata a 15 anni -, ma il riconoscimento sociale della maternità, praticamente in ogni tipo di cultura, è riservato alle donne che hanno una relazione sessuale relativamente stabile. In una popolazione la fecondità è dunque influenzata, in primo luogo, dalla proporzione di coniugati e dalla precocità dei matrimoni, intendendo per tali tutte le unioni riconosciute dalla legge o dagli usi e le unioni di fatto; poiché occorre, evidentemente, essere in due per avere un bambino, intensità e cadenza della nuzialità assumono un ruolo essenziale nello studio della fecondità. E, del resto, è proprio in ragione del fatto che la nascita presuppone la formazione di una coppia che la nuzialità - intesa nella più ampia accezione or ora indicata - rientra tra i fenomeni di interesse della demografia.
In questa ottica la vita sessuale della donna comincia con la formazione della coppia e prosegue, di norma, fino al momento in cui questa non si scioglie, per riprendere, eventualmente, in un secondo matrimonio e, comunque, fino alla menopausa. Tuttavia non tutte le donne coniugate sono feconde: indipendentemente dalla infecondità volontaria, si deve tener conto della sterilità all'interno della popolazione. Questa cresce con l'età: colpisce circa il 3% delle coppie in cui la donna ha 20 anni, il 10% delle coppie con la donna a 30 anni, il 31% delle coppie in cui la donna ha 40 anni e diventa totale quando la donna raggiunge un'età compresa tra i 45 e i 50 anni (ai fini dell'analisi sono i 50 anni a essere accettati per convenzione). È peraltro difficile determinare statisticamente se la sterilità sia dovuta alla donna, al marito o alla coppia in quanto tale.
Per una donna coniugata e fertile la procreazione è inversamente correlata agli intervalli tra matrimonio e prima nascita e tra nascite successive: più brevi sono tali intervalli, più elevata è, di norma, la fecondità. All'interno di un intervallo genesico, in assenza di mortalità intrauterina, si individuano tre fasi differenti: prima di tutto il tempo di attesa del concepimento, poi la durata della gravidanza e, infine, il tempo morto che segue il risultato della gravidanza (nato morto o nascita vitale). Di queste tre fasi, che sono legate più o meno strettamente all'età della donna, la prima dipende sia dalla frequenza dei rapporti sessuali sia dalla proporzione di cicli favorevoli: in effetti insieme ai cicli anovulari se ne registrano altri di 'mediocre qualità' durante i quali l'ovulo non sembra essere fecondabile. La frequenza media dei rapporti sessuali è una variabile molto poco conosciuta: le poche informazioni disponibili sembrano mostrare, in generale, una progressiva diminuzione dei rapporti sessuali coll'aumentare dell'età degli sposi.
Quanto alla proporzione dei cicli favorevoli, il legame con l'età della donna è anch'esso lungi dall'essere perfettamente conosciuto. Alle età molto giovani si osserva quella che talvolta è stata chiamata - con espressione non del tutto appropriata - la sterilità dell'adolescenza. P. Vincent ha mostrato di fatto che la fertilità tra i 15 e i 16 anni è due volte più bassa che verso i 25 anni; a partire dai 19 anni circa la fertilità - comprendendo in essa sia la fecondabilità, sia la durata media del ciclo mestruale - si stabilizza; infine, la probabilità di concepire durante un ciclo mestruale decresce per un certo numero di anni (una decina) precedenti la sterilità definitiva. In regime di fecondità controllata diviene ovviamente fondamentale il ruolo giocato dalla contraccezione. Al riguardo le informazioni sono più numerose e sicure - grazie anche alle numerose indagini condotte negli ultimi decenni, in particolare quelle comprese nel progetto mondiale World fertility survey -, ma rivelano, peraltro, situazioni assai diversificate tra popolazioni.
La seconda fase, la durata della gravidanza, è notevolmente stabile se il concepimento si conclude con una nascita vitale; ma una certa percentuale di concepimenti si risolve in morti fetali o in nati morti, e la proporzione cresce con l'età.
Il tempo morto durante il quale ovulazione e mestruazioni sono assenti e il concepimento è impossibile inizia immediatamente dopo il parto o dopo l'aborto e la sua durata dipende strettamente dal risultato della gravidanza: probabilmente molto breve se questa si conclude con un aborto, assai più lunga quando l'esito è un bambino vitale. In quest'ultimo caso la durata del tempo morto appare legata molto strettamente a quella dell'allattamento al seno, sebbene la relazione fisiologica non sia perfettamente conosciuta; comunque più di una inchiesta ha mostrato la sua netta tendenza ad aumentare col crescere dell'età della donna. Gli studi condotti su popolazioni in cui la procreazione all'interno del matrimonio sfugge a qualsiasi forma - o quasi - di controllo individuale hanno chiaramente mostrato che in regime di fecondità naturale la discendenza finale delle coppie dipende strettamente dalla durata del tempo morto più che dalla fecondabilità. La più alta fecondità si ritroverebbe nelle popolazioni con i tempi morti più brevi, la meno elevata in quelle con i tempi morti più lunghi e la differenza dipenderebbe sia da differenziazioni marcate - forse di origine genetica - dell'azione dell'allattamento al seno sull'ovulazione, sia da fattori sociali e culturali all'origine di tabù sessuali (prolungata astinenza post partum riscontrabile in varie società, attuali e del passato) e della durata dell'allattamento stesso.Da questa schematica rassegna emergono in conclusione sette principali variabili intermedie: il matrimonio (e il suo scioglimento); l'inizio della sterilità permanente; l'amenorrea post partum; la fecondabilità in assenza di contraccezione (frequenza dei rapporti sessuali); l'uso e l'efficacia della contraccezione; la mortalità intrauterina spontanea; l'aborto indotto. I primi due fattori determinano la durata del periodo di vita fecondo; dagli altri dipendono il livello della fecondità e la durata degli intervalli tra le nascite.
La riproduttività umana ha sempre trovato dei freni, più o meno efficaci, legati a costumi diversi di origine sociale o religiosa, che l'hanno mantenuta al di sotto del potenziale biologico: non è mai esistita, dunque, fecondità in assenza assoluta di controllo.
Se si considera che la riproduzione può avere inizio verso i 15 anni e continuare fino a un'età vicina ai 50 anni, e se inoltre si tiene conto che intervalli genesici di durata pari a un anno (o meno) sono biologicamente possibili, poiché una gestazione completa richiede solo 9 mesi, teoricamente una donna potrebbe avere nel corso della sua vita feconda, in assenza di qualsiasi freno biologico o comportamentale, 35 figli (senza contare i parti plurimi). In virtù della variabilità della fertilità delle coppie, degli aborti spontanei e della sterilità acquisita (positivamente correlata col numero di gravidanze), il massimo teorico scende a 17 figli in media per donna. Ebbene, per quanto la ricerca è stata in grado di osservare fino a oggi, nessuna popolazione reale si è mai avvicinata a questo massimo. Al di là del caso di particolari gruppi umani di limitata ampiezza (ad esempio gli Utteriti, setta anabattista di origine europea stabilitasi intorno al 1870 nel nord degli Stati Uniti e nel Canada), la sola popolazione di dimensioni importanti che ha conosciuto e mantenuto per lungo tempo una fecondità molto elevata è quella del Quebec. Ma nel momento del suo massimo livello, nel XVII secolo, il numero medio di figli per coppia era dell'ordine delle 10 unità, assai lontano, dunque, dal massimo possibile. Lo scarto è legato anzitutto all'influenza della religione, che generalmente spinge a ritardare il matrimonio - riducendo così gli anni utili alla procreazione - e a rispettare periodi di astinenza sessuale, nonché alle condizioni sanitarie (frequenza della vedovanza e della sterilità acquisita). Nelle popolazioni dell'Europa del XVII e XVIII secolo, pur in assenza di un diffuso ed efficace uso della contraccezione - così come dell'aborto indotto - la fecondità, pur elevata, non superava valori medi variabili tra i 4 e i 7 figli. Insieme a tempi morti relativamente ampi, dovuti o connessi all'allattamento al seno praticato a lungo, si combinavano - secondo un modello che è prevalso anche per tutto il XIX secolo e parte del XX - un matrimonio tardivo (successivo ai 25 anni per le donne) e una forte frequenza del celibato definitivo. Certamente questo modello nuziale, da cui deriva un ridotto e ritardato accesso alla sessualità, è stato uno dei più efficaci freni alla prolificazione nelle società europee.
Una nuzialità tardiva si ritrova come pratica tradizionale anche in molti paesi dell'Asia orientale marittima non musulmana, dove la pressione demografica è forte (Giappone, Filippine, Corea), ma il celibato è un fenomeno estremamente raro. In Europa occidentale, quando la limitazione dei matrimoni raggiunse il suo massimo storico, nel corso dell'Ottocento, la metà delle donne in età feconda era socialmente esclusa dalle nozze; all'opposto in paesi come l'India e la Cina, dove il matrimonio era precoce e universale, la proporzione delle donne sposate sul totale delle donne in età feconda si avvicinava all'85%.Il declino secolare della fecondità ha preso le mosse in Francia all'epoca della Rivoluzione con un secolo di anticipo rispetto alla maggior parte delle altre grandi nazioni occidentali. Seguendo la scansione temporale proposta da Chesnais (v., 1986) si possono distinguere quattro periodi per l'inizio della fase di diminuzione delle nascite nei paesi attualmente industrializzati. Si tratta, ovviamente, di date indicative, dal momento che le vicende di un più lontano passato rimangono pressoché sconosciute sul piano delle dinamiche nazionali.
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo quattro paesi vedono ridursi in maniera durevole i propri livelli di fecondità: dal 1770 prima la Francia, poi la Finlandia e la Cecoslovacchia e, infine, alle soglie del nuovo secolo, gli Stati Uniti. Se la specificità del calo eccezionalmente precoce della natalità francese è stata oggetto di ampia attenzione, resta in generale da delineare per questi paesi precursori il ruolo svolto rispettivamente dalla contraccezione e dalla precocità e dall'intensità della nuzialità. Quasi un secolo più tardi, tra il 1875 e il 1880, numerosi altri paesi entrano, a loro volta, nella fase di declino della fecondità, quasi tutti allo stesso momento (gli scarti di norma non superano i 2 o 3 anni): la Svezia - che vi entra, forse, una quindicina d'anni prima -, la Norvegia, l'Inghilterra e il Galles, la Svizzera, l'Austria, l'Olanda, il Belgio, la Germania e anche le nazioni meridionali come l'Italia, la Spagna e la futura Iugoslavia; l'altra nazione scandinava, la Danimarca, si aggiunge con alcuni anni di ritardo. Intorno al 1900 il distacco dal regime premalthusiano si produce in Polonia e nella Russia europea e lo stesso avviene nei paesi transoceanici di popolamento europeo quali l'Australia e la Nuova Zelanda. Infine molto più tardi, nel corso della prima metà degli anni venti, sarà la volta dei paesi che avevano fino ad allora conservato dei caratteri economici quasi esclusivamente agricoli, come la Bulgaria, la Romania e il Portogallo; insieme a questi il Giappone.
Per quanto riguarda l'Europa occidentale e l'America settentrionale, una volta iniziato, il declino della fecondità è continuato senza interruzione fino agli inizi degli anni trenta, quando praticamente ovunque - fatti salvi i paesi mediterranei, in ritardo nell'ambito continentale - il raggiungimento del livello di sostituzione delle generazioni segna apparentemente la conclusione della lunga fase evolutiva del processo riproduttivo: al termine della lunga transizione dall'alta alla bassa fecondità sembra prospettarsi un nuovo periodo di stabilità. I turbamenti provocati dal secondo conflitto mondiale, che pur alterano completamente tale prospettiva, costituiscono essenzialmente un'interruzione transitoria delle generali tendenze di lungo periodo. In effetti l'evoluzione demografica fino alla metà degli anni sessanta è fondamentalmente dominata dagli stessi fenomeni che hanno accompagnato l'inizio del declino della fecondità ben oltre un secolo prima: i processi di industrializzazione, di urbanizzazione e secolarizzazione riducono l'utilità economica dei figli, rendono la loro qualità più importante del loro numero, e inducono un crescente numero di coppie a praticare il controllo delle nascite.
Tuttavia i venti anni che seguono la guerra vedono quasi ovunque (tab. I) una ripresa dei tassi di fecondità totale calcolati su base annua, sebbene la riduzione del numero di coppie che mettono al mondo più di due figli non accenni ad attenuarsi. Il clima socioculturale, dominato da una nuova affermazione della famiglia come nucleo della società, e la ripresa economica favoriscono, in effetti, una più intensa propensione a sposarsi, il progressivo abbassamento dell'età alle nozze e, contemporaneamente, sia l'abbassamento dell'età alla nascita dei figli, sia l'aumento delle nascite primogenite e secondogenite. L'effetto congiunto di tali cambiamenti non solo compensa il perdurante calo dei figli di ordine superiore al terzo e la conseguente ridotta fecondità nelle età mature, ma provoca una netta ripresa negli indicatori globali del momento: è il baby boom che interessa molti paesi - innanzitutto quelli dell'Europa settentrionale e centrale e gli Stati Uniti, successivamente e con minore intensità quelli dell'Europa meridionale - e che è destinato a interrompersi solo tra il 1963 e il 1964. Mal compresa dai demografi nella sua reale natura, la fine di questa fase sembrò ancora una volta preludere a un periodo di stabilità, un periodo in cui la fecondità si sarebbe mantenuta relativamente costante su livelli di poco superiori a quelli di sostituzione, tali da garantire un accrescimento demografico contenuto. Al contrario dal 1965 la fecondità ha ripreso a diminuire, dapprima con grande intensità poi con ritmi sempre meno accelerati, e - salvo alcune recenti inversioni limitate ai Paesi Scandinavi - il suo declino non si è ancora arrestato; attualmente la fecondità ha raggiunto livelli mai toccati in passato, neppure negli anni di guerra. In generale nelle popolazioni occidentali contemporanee, nell'arco del periodo riproduttivo, una donna mette al mondo in media un numero di figli nettamente inferiore a 2: nel 1990 i valori massimo e minimo registrati sono stati rispettivamente 1,9 figli per donna in Svezia e 1,3 in Italia.
Ad eccezione dell'Irlanda, le condizioni attuali di fecondità non assicurano ad alcun paese dell'Europa occidentale e del Nordamerica la sostituzione delle generazioni. Caratteristiche di fondamentale importanza in questa ultima fase della storia della fecondità del mondo occidentale sono, in primo luogo, la simultaneità della sua comparsa in tutte le nazioni del centro e del nord d'Europa e il suo rapido diffondersi anche nelle altre popolazioni del continente indipendentemente dalle differenze di religione, stato sociale e grado di istruzione, dal livello di sviluppo economico, dalla proporzione di donne nella forza lavoro, dal tasso di disoccupazione; in secondo luogo la contemporaneità dei mutamenti prodottisi in altri fenomeni strettamente legati alla riproduzione: matrimoni ovunque sempre più rari e tardivi, un più lungo intervallo tra matrimonio e nascita del primo figlio, divorzi in forte aumento là dove la legislazione consente questa forma di scioglimento del matrimonio, coppie in unione libera anch'esse sempre più frequenti, il crescere del numero di figli nati fuori dal matrimonio. Insieme alla fecondità, tutto il modello di formazione e sviluppo della famiglia viene coinvolto.
Si tratta di trasformazioni profonde e complesse alla cui origine stanno i cambiamenti interrelati nella struttura economico-sociale, nella cultura e nella tecnologia che caratterizzano le economie di mercato. I più elevati standard di vita, l'indipendenza e la sicurezza economica individuali fortemente cresciute, lo spostamento dei valori verso un accresciuto individualismo e postmaterialismo, la 'seconda rivoluzione contraccettiva' sono fattori che hanno avuto un profondo impatto sulle aspirazioni, i percorsi e gli stili di vita delle popolazioni occidentali. Essi hanno ridotto il ruolo e l'influenza dei gruppi secondari, hanno mutato il contesto istituzionale e il modello culturale della famiglia e della coppia e hanno indotto gli individui a puntare sull'autorealizzazione e a soddisfare bisogni di ordine più elevato.
Per i paesi in via di sviluppo il quadro evolutivo è profondamente diverso: una parte del Terzo Mondo non ha ancora sperimentato il declino della fecondità e, ad eccezione dell'Argentina, dell'Uruguay e forse del Cile, là dove esso si è manifestato è fenomeno molto recente e nel contempo molto rapido. Fino al 1960 il calo delle nascite non compare se non in piccole società densamente popolate, insulari e aperte - le isole africane di influenza occidentale (Mauritius, Réunion), le isole asiatiche di popolamento cinese (Taiwan, Singapore) o il caso particolare dello Sri Lanka - e, con minore intensità, in paesi marittimi di ridotte dimensioni e molto aperti alle influenze esterne (Hong Kong, Malaysia, Corea del Sud, Porto Rico, Cuba, ecc.). Durante gli anni sessanta il calo si estende a paesi di più ampia consistenza demografica, anch'essi caratterizzati da intensi contatti col mondo esterno: Turchia, Colombia, Thailandia, Filippine, Tunisia, Sudafrica. Ma è verso il 1970, un secolo più tardi del punto di svolta dei paesi occidentali, che si apre una prima fase decisiva nella storia demografica del Terzo Mondo: tre dei quattro paesi più popolati del mondo in via di sviluppo- la Cina, l'India e il Brasile -, le cui popolazioni assommano a più della metà della popolazione di questo insieme, imboccano, più o meno allo stesso momento, la via della rivoluzione contraccettiva. Durante il decennio successivo l'evoluzione si estende anche a paesi in cui pur esistono nei confronti del controllo delle nascite freni importanti legati alla religione, alla povertà o all'isolamento; paesi molto diversi tra loro come il Messico, l'Indonesia, il Perù, il Vietnam, il Marocco, l'Egitto, la Birmania o il Bangladesh vengono a loro volta coinvolti in questo movimento storico.
Nei paesi islamici i livelli di fecondità restano certamente ancora molto elevati, ma questo primo calo è un fatto di grande importanza: la caduta rilevante della natalità registrata in molte repubbliche sovietiche con popolazione di religione musulmana è in questo senso molto significativa. Nel corso degli anni ottanta non si registrano flessioni di reale rilevanza se non in rari casi che riguardano paesi musulmani dell'Asia (Pakistan) o dell'Africa (Algeria) e una sola nazione dell'Africa Nera, lo Zimbabwe. Il movimento secolare di declino della fecondità sta, dunque, diffondendosi su quasi tutta la superficie della terra: a parte certi paesi montani interclusi - Afghanistan, Bolivia, Nepal - e casi molto particolari dove la miseria è dovuta a condizioni politiche oltremodo sfavorevoli, restano ancora ai margini soltanto una parte del Medio Oriente arabo e, soprattutto, la quasi totalità dell'Africa Nera.
Al di là di certi casi relativamente recenti ed eccezionali, tra i quali il più notevole è quello della Cina, che ha introdotto una politica coercitiva di controllo delle nascite fino a preconizzare la famiglia con figlio unico, la caduta della fecondità non è tanto la risultante di politiche demografiche condotte dai poteri pubblici, quanto delle trasformazioni dei comportamenti indotte dalla modernizzazione. Così, sull'esempio del Giappone, la cui fecondità nel periodo di ricostruzione e di boom del dopoguerra (1949-1957) si è dimezzata, passando dal livello più alto a quello più basso nell'insieme del mondo industrializzato, i quattro 'dragoni' (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong) si caratterizzano tutti, alla fine degli anni ottanta, per una fecondità decisamente inferiore al livello di rimpiazzo delle generazioni. La città-Stato di Hong Kong, i cui successi nel campo dell'economia non trovano equivalenti negli annali di storia, è oggi, con l'Italia e la Spagna, uno dei paesi a più bassa fecondità del pianeta (tab. II).
La rivoluzione contraccettiva ha certamente accelerato e amplificato questo processo evolutivo, ma sarebbe errato attribuirle il ruolo di causa originaria. Del resto, dall'invenzione della pillola nel 1956, non si riconoscono apprezzabili progressi nei metodi di controllo delle nascite: per molte donne gli inconvenienti della pillola e della spirale continuano a essere notevoli. La ricerca di metodi più semplici, poco costosi, reversibili e con azione di lunga durata è un obiettivo di perdurante attualità; anche se oggi nuovi procedimenti, come la vaccinazione anti-gravidanza o la contraccezione maschile, vengono sperimentati, la scoperta del metodo anticoncezionale perfetto appare tutt'altro che vicina. Come per il passato, dunque, il ruolo rilevante nell'evoluzione dei comportamenti riproduttivi sarà ancora svolto dai fattori culturali. In sintesi, mentre nei paesi ricchi - dal Nordamerica all'Europa, all'Est asiatico - il modello di una fecondità estremamente bassa si estende e si generalizza, nei paesi in via di sviluppo il processo evolutivo si trova, al contrario, a stadi molto diversificati e variabili. I paesi più coinvolti nello sforzo di ridurre la fecondità sono, pur con gradi diversi, aperti alle influenze provenienti dall'esterno; non a caso la gran parte di essi ha visto declinare il numero medio di figli quasi contemporaneamente all'intensificarsi della denatalità nel mondo occidentale.
Nello schema spazio-temporale del declino non si può far a meno di riconoscere un meccanismo di diffusione. Come altri fenomeni, i mutamenti evolutivi demografici assumono connotazioni planetarie. Soltanto i paesi che ostacolano la penetrazione dei valori e dei comportamenti di tipo occidentale non hanno partecipato al cambiamento che caratterizza la nostra epoca; ciononostante, anche per questi paesi il problema non è quello di sapere se il declino della fecondità è destinato a prodursi: il fenomeno appare ineluttabile, e l'interrogativo riguarda soltanto il 'quando' e 'con quali ritmi'. Per i paesi del Terzo Mondo presi nel loro insieme l'evoluzione del comportamento procreativo si sintetizza nel passaggio dai 6 figli in media per donna del periodo 1965-1970 ai 4 figli tra il 1985 e il 1990: la fecondità in questi paesi ha, dunque, percorso la metà del cammino che separa la tradizione - 6 figli e oltre per donna nelle società premalthusiane - dalla modernità - meno di due figli per donna nell'Europa attuale.
(V. anche Demografia; Nascite, controllo delle; Natalità; Popolazione).
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