Natalità
Con il termine 'natalità' si indica, sinteticamente, la frequenza relativa delle nascite per unità di tempo per unità di popolazione. E questo, come la maggior parte di ciò che si dirà, vale sia per le popolazioni umane, sia per qualunque altro aggregato, naturale (animale e vegetale) o sociale (famiglie, imprese, ecc.), caratterizzato da uno stock di unità omogenee (popolazione) che si rinnova e si modifica in funzione, da una parte, degli ingressi di nuove unità (nascite e immigrazioni) e, dall'altra, delle uscite di unità preesistenti (decessi ed emigrazioni).
La natalità è un concetto di flusso, che è sempre definito in funzione di un determinato intervallo di tempo; in taluni casi, tuttavia, tale intervallo è talmente ovvio, o è divenuto talmente convenzionale, da poter essere sottinteso. Per le popolazioni umane l'intervallo di tempo convenzionale è l'anno solare.
La natalità è un concetto, ma spesso con lo stesso termine si indica anche, ellitticamente, il suo strumento di misura, ovvero il tasso generico di natalità (n), o tasso di natalità tout court, definito come rapporto tra le nascite di un certo anno t (tN) e la popolazione media di quell'anno (tP). Nella formula si omette l'indicazione dell'anno quando non è strettamente necessaria, e normalmente - quando cioè non si sono verificati eventi tali da far apparire indifendibile l'ipotesi di evoluzione lineare della popolazione nell'arco di tempo considerato - si calcola la popolazione media da porre al denominatore come media semplice tra la popolazione all'inizio e alla fine del periodo, e la si fa in pratica coincidere con la popolazione (effettiva o presunta) a metà del periodo:
formula. (1)
Un tasso si dice generico quando rapporta un fenomeno nella sua interezza, in questo caso tutte le nascite, al complesso della popolazione, nell'ipotesi implicita che il fenomeno tragga origine, con poca o nessuna differenzialità, un po' da tutti i membri della popolazione, o che un po' su tutti faccia sentire i suoi effetti. Un tasso è invece specifico quando considera al denominatore solo un sottoinsieme di popolazione ritenuto omogeneo e al numeratore solo quella parte del fenomeno da esso generato, o che a esso afferisce. La specificità può essere intesa in più sensi: ad esempio, un tasso di natalità può essere specifico per sesso, per classe sociale, e via dicendo.
Un tasso di natalità può essere specifico anche per classe di età, ma con alcune precisazioni. In primo luogo è impossibile rapportare i nati da genitori di una certa età x, e cioè N(x), alla popolazione di età x, Px, perché i due genitori non hanno necessariamente la stessa età. Occorre quindi riferirsi a un solo sesso nella costruzione di questi tassi specifici, e si preferisce normalmente il sesso femminile, sia per la maggiore disponibilità di dati, sia per la possibilità di individuare più facilmente, per le donne, i limiti dell'intervallo fecondo. In secondo luogo il tasso specifico così ottenuto, fx = N(x)/Dx (Dx = donne di età x), si chiama tasso specifico di fecondità, e non di natalità, a sottolineare il suo diverso significato. Il tasso specifico di fecondità si considera infatti una misura della propensione a mettere al mondo figli da parte di un gruppo di donne ristretto e omogeneo, e la somma di tutti i tassi specifici (TFT = Σfx), detta tasso di fecondità totale, è una misura sintetica del comportamento fecondo di una popolazione.
Ora, tra il comportamento fecondo, misurato dal TFT, e il tasso di natalità di una popolazione non c'è una corrispondenza biunivoca. In effetti è proprio questo il principale limite del tasso di natalità, come, peraltro, di tutti i tassi generici: esso appare ingannevolmente semplice, perché sintetizza, e quindi confonde, elementi di natura diversa - strutturale e comportamentale. Sottolineare gli aspetti strutturali, come si può fare anche algebricamente (v. relazioni 2 e 3), equivale a mettere in luce che la popolazione non è indifferenziata, come implicitamente suggerito dall'uso del tasso generico, ma che, al contrario, ognuno dei suoi componenti si distingue per una molteplicità di caratteristiche, tra cui, in particolare, caratteristiche demografiche fondamentali (età, sesso ed eventualmente altre ancora, come lo stato civile) che comportano una diversa capacità, biologica e sociale, di mettere al mondo figli. La dimensione biologica è abbastanza ovvia: a meno di interventi medici, una donna non può restare incinta prima della pubertà o dopo la menopausa, e comunque risulta meno fertile, e quindi meno fecondabile, in prossimità di questi limiti. La dimensione sociale, invece, interviene quando esistono usi, convenzioni, leggi non scritte o, talvolta, persino leggi scritte che limitano o addirittura bandiscono la riproduzione per certe donne (ad esempio le non sposate, quelle che sono già diventate nonne, ecc.) o che, all'opposto, prevedono e incoraggiano una fecondità particolarmente elevata per certe altre (ad esempio le giovani coniugate, soprattutto nei paesi islamici).
Per rendere esplicita l'azione esercitata sulla natalità dalle caratteristiche strutturali della popolazione, conviene sviluppare la relazione (1), tenendo presente che il numero delle nascite totali N può essere pensato come la somma delle nascite da madri di tutte le età x, per cui si ha l'espressione
formula, (2)
dove, per ogni età x, si sono definiti con f il tasso specifico di fecondità (v. sopra), con d l'incidenza percentuale delle donne sulla popolazione di età x e, infine, con c l'incidenza percentuale della classe di età x sul totale della popolazione. A questo punto il tasso di natalità diventa:
formula. (3)
Con i simboli <L0>d e <L0>c si sono indicate opportune medie ponderate, rispettivamente, del peso relativo delle donne in ogni classe di età e del peso relativo di quella classe di età sul totale della popolazione, due aspetti che si possono ulteriormente sintetizzare nell'unico indice di struttura <L0>s (= <L0>d<L0>c). La relazione (3) esplicita appunto ciò che si voleva mettere in evidenza, e cioè che il tasso di natalità nasconde in sé due diverse componenti: la propensione alla procreazione, rappresentata dalla fecondità, e l'insieme delle caratteristiche strutturali della popolazione, vale a dire la composizione per sesso, per età ed eventualmente per qualsiasi altra variabile ritenuta rilevante (stato civile, ecc.). Può quindi avvenire che popolazioni con la stessa fecondità (ovvero con la stessa propensione a mettere al mondo figli) si caratterizzino per tassi di natalità diversi se hanno una diversa composizione strutturale, o che, all'opposto, tassi di natalità simili nascondano comportamenti fecondi anche molto diversi.
Si può pensare alla popolazione come all'acqua di un lago: apparentemente immobile, essa è in realtà sottoposta a un continuo processo di rinnovo per l'apporto incessante degli immissari (che, demograficamente parlando, sono le nascite N e le immigrazioni I) e per il deflusso costante degli emissari (i decessi M e le emigrazioni E). Questo sistema di afflussi e deflussi determina le caratteristiche del lago, di tipo sia quantitativo che qualitativo, e anche le sue modificazioni: un periodo di forti piogge, ad esempio, farà ingrossare l'immissario e farà crescere il volume delle acque del lago (effetto quantitativo), ma ne muterà anche, in parte, le proprietà (effetto qualitativo), perché le acque appena arrivate dal fiume hanno di norma caratteristiche (di trasparenza, organolettiche, ecc.) diverse da quelle che già da tempo si trovano nel lago.
Fuor di metafora, gli aspetti quantitativi di questa dinamica si colgono in demografia con la cosiddetta 'equazione della popolazione',
formula, (4)
in cui si sono anche considerati esplicitamente il saldo naturale SN, ovvero la differenza tra i nati e i morti, e il saldo migratorio SM, pari alla differenza tra immigrati ed emigrati.
L'equazione della popolazione si può anche considerare in senso relativo, dividendo tutte le poste per la popolazione media del periodo. Tenendo presente che la variazione relativa dell'ammontare della popolazione (ΔP/P) tende a coincidere con il tasso di incremento r per piccoli intervalli di tempo (la coincidenza è perfetta per intervalli infinitesimali, ma perfettamente accettabile anche per intervalli annuali), la relazione (4) diventa:
formula. (5)
Benché empiricamente i movimenti migratori abbiano rivestito e rivestano tuttora un'importanza primaria nel determinare la velocità di popolamento e di spopolamento di molte aree (come ad esempio le Americhe, le città, ecc.), vi sono numerosi casi in cui il tasso del saldo migratorio sm può essere trascurato: per esempio quando si parla della terra nel suo complesso - la cui popolazione è per definizione chiusa (non soggetta a immigrazioni o emigrazioni) -, ma, con buona approssimazione, anche quando si parla di una zona difficilmente accessibile (per esempio un'isola), o di un paese i cui confini sono stati chiusi ai flussi migratori per qualche ragione (di natura politica, militare, etnica, ecc.), o di un'area in cui le entrate e le uscite si bilanciano, almeno approssimativamente, determinando un saldo migratorio vicino allo zero. Infine vi è anche il caso in cui si voglia costruire un particolare modello di popolazione: si impongono particolari leggi di fecondità e di sopravvivenza (i 'comportamenti' demografici cui si è accennato), si è interessati a valutare le conseguenze di lungo periodo di tali leggi (per esempio in termini di numerosità e struttura della popolazione, di tasso di crescita, ecc.) e si vogliono escludere dall'analisi elementi di disturbo quali, appunto, le migrazioni.In questo caso, con sm=0, il tasso del saldo naturale sn (=n-m) coincide con il tasso di crescita della popolazione in esame, che è quindi univocamente determinato dalla natalità e dalla mortalità. Se la popolazione non ha vincoli alla sua crescita (naturali, politici, o d'altro genere), la natalità può superare anche sensibilmente la mortalità e produrre nella popolazione considerata un forte tasso di crescita (il che, empiricamente, significa un tasso annuo compreso tra l'1 e il 3%). Viceversa, se il tasso di crescita è totalmente o parzialmente vincolato (generalmente in un intorno dello zero, soprattutto nel lungo periodo), la natalità e la mortalità devono muoversi in stretta sintonia l'una con l'altra. E storicamente, a parte gli ultimi due secoli, caratterizzati invece da forte crescita, nella storia dell'umanità si è appunto verificata una sostanziale coincidenza dei due tassi (di natalità e di mortalità) che ha mantenuto il tasso di crescita della popolazione mondiale mediamente non lontano dallo zero.
Tra tutti i fenomeni demografici (mortalità, migratorietà, ecc.) la natalità è quello che esercita la maggiore influenza diretta sulla composizione per età, e quindi sull'invecchiamento, di una popolazione. La ragione va ricercata nell'età alla quale normalmente si manifestano gli eventi. Decessi ed emigrazioni, ad esempio, che possono avvenire a tutte le età, possono contribuire ad abbassare, innalzare o lasciare invariata l'età media dei sopravviventi a seconda che l'età del membro della collettività che viene a mancare sia maggiore, minore o uguale all'età media della popolazione. Ma le nascite avvengono solo all'età zero: ogni nuovo nato concorre quindi ad abbassare l'età media della popolazione, mentre ogni riduzione della fecondità tende a farla aumentare. È quindi soprattutto nel calo delle nascite e della natalità che va ricercata la causa immediata dell'invecchiamento della popolazione che, tipicamente, si osserva nei paesi sviluppati e che si è avuto in particolare in Italia in questi ultimi decenni.
Matematicamente la dimostrazione di queste relazioni può risultare complicata: conviene quindi ricorrere a opportune ipotesi semplificatrici. Tra queste la più semplice è che la popolazione sia stazionaria, cioè chiusa alle migrazioni, con natalità e mortalità costanti e uguali tra loro e, quindi, con tasso di incremento nullo. Ebbene, data questa popolazione, in primo luogo si dimostra che in essa sussiste una relazione di proporzionalità inversa tra la durata media della vita (o età media alla morte e₀) e il tasso di natalità n:
formula; (6)
in secondo luogo si dimostra che anche l'età media della popolazione (‥x) è legata da proporzionalità inversa al tasso di natalità n, sia pure con l'aggiunta di un fattore correttivo che attenua questa relazione:
formula. (7)
Il fattore 'attenuante', v², è tecnicamente il quadrato del coefficiente di variazione delle età alla morte (ovvero il quadrato del rapporto tra lo scarto quadratico medio delle età effettive alla morte, σ, e l'età media alla morte, e₀): praticamente, è una misura della variabilità delle età alle quali si muore. La relazione (7), quindi, è più complessa della precedente. Una minor natalità tende a far crescere l'età media della popolazione; contemporaneamente, però, anche la mortalità si abbassa (perché natalità e mortalità sono uguali nella popolazione stazionaria), e la riduzione della mortalità si associa, empiricamente, a una riduzione della dispersione delle età alla morte, perché, a mano a mano che si riesce a ridurre l'aleatorietà della sopravvivenza e a portarla sotto il controllo dell'uomo, si riducono principalmente i rischi di un decesso infantile e i componenti della popolazione tendono a morire tutti più o meno alla stessa età. Come si è accennato, però, questo processo (che, matematicamente, comporta una riduzione di v²) attenua ma non annulla l'effetto principale, in conseguenza del quale l'età media della popolazione cresce al diminuire della natalità.
Concretamente nessuna popolazione è mai stata esattamente stazionaria; tuttavia le relazioni (6) e (7) hanno una portata più generale: suggeriscono che una riduzione della natalità comporta un tendenziale invecchiamento della popolazione poco meno che proporzionale, confermando l'influenza diretta della natalità sulla struttura per età della popolazione, di cui si è detto sopra. Tuttavia, in senso indiretto, si può sostenere che è invece la mortalità a esercitare il ruolo più importante sull'invecchiamento. I grandi successi conseguiti nella lotta per l'allungamento della vita hanno infatti prodotto, tra le altre cose, un abbassamento del tasso di mortalità m dal 30-40 per mille dell'epoca preindustriale al 10 per mille circa che caratterizza oggi i paesi sviluppati. Se non si vuole che il tasso di crescita si discosti troppo o per troppo tempo dallo zero, cosa che porterebbe in breve a un forte aumento della popolazione, occorre che anche il tasso di natalità si riduca, per assestarsi su ordini di grandezza simili, cosa che finisce poi col provocare gli effetti di invecchiamento prima ricordati; ma in questa interpretazione la riduzione della mortalità, cioè l'allungamento della vita, sarebbe la causa vera, anche se remota, all'origine del processo.
Per tornare alla metafora del lago, la lotta alla mortalità può essere pensata come il tentativo di rallentare il deflusso delle acque restringendo l'imbocco dell'emissario: se il tentativo ha successo, occorre però anche rallentare l'afflusso delle acque dall'immissario, se non si vuole che il livello del lago salga fino a superare gli argini. E se anche questa seconda operazione è coronata da successo, il risultato è che ogni singola goccia d'acqua corre meno rischi di essere portata via dalla corrente, ma le acque del lago, nel loro insieme, ristagnano e si rinnovano un po' meno velocemente.
Nelle relazioni (2) e (3) si è evidenziato il fatto che la natalità ha un carattere derivato dalle caratteristiche strutturali e dai comportamenti demografici della popolazione. Proprio per questa sua peculiarità la natalità non occupa un posto di particolare rilievo nei modelli di popolazione, in cui si preferisce in genere esplicitare le sue determinanti (fecondità e struttura per età). Vi sono tuttavia alcune eccezioni, tra cui la più importante è la teoria della transizione demografica, la cui rappresentazione schematica fa esplicito riferimento, tra le altre cose, al tasso di natalità (v. figura). Secondo tale teoria esistono (almeno) due fasi di sostanziale equilibrio demografico tra natalità e mortalità. La prima fase, di tipo antico e in vigore fino al tempo a, è caratterizzata da livelli di natalità e di mortalità elevati. La variabilità della natalità è bassa rispetto a quella della mortalità, perché non esiste un comportamento delle coppie deliberatamente volto alla riduzione delle nascite e perché i principali fattori di regolazione della natalità sono di natura biologica e socioculturale, come ad esempio, nell'Europa occidentale, lo sfavore con cui erano accolte le nascite illegittime, il forte controllo sul matrimonio, consentito solo in età relativamente avanzata e non a tutti, ecc. Questi fattori sono nel complesso lenti a mutare, anche se permettono una certa adattabilità a particolari situazioni contingenti: ad esempio, tipicamente si osserva un aumento della nuzialità e della fecondità matrimoniale (e quindi anche della natalità) nei periodi successivi a crisi di mortalità particolarmente acute, cosa che tende a ristabilire il precedente equilibrio demografico.
La mortalità, per contro, presenta una marcata variabilità, dovuta essenzialmente al ridotto grado di controllo dell'uomo sull'ambiente esterno, e quindi alla sua contenuta capacità di far fronte all'imponderabile: una carestia, l'insorgenza di una nuova patologia, un'aggressione da parte di popolazioni vicine, ecc. Nel medio periodo, comunque, natalità e mortalità risultano nel complesso simili tra loro: la popolazione che ne deriva è una popolazione tendenzialmente stazionaria, caratterizzata da forti flussi di rinnovo e strutturalmente giovane.
Successivamente questo equilibrio demografico si rompe (in quasi tutti i paesi europei questa rottura si è verificata nel corso del XIX secolo, mentre nei paesi in via di sviluppo ciò è avvenuto solo dopo la seconda guerra mondiale): la mortalità comincia a calare per i progressi conseguiti nei campi della medicina, dell'igiene personale e collettiva, della produzione e del trasporto degli alimenti, dell'istruzione, ecc. (l'importanza relativa di questi fattori, comunque difficile da valutare, è stata probabilmente diversa nelle varie circostanze) e corrispondentemente la popolazione comincia a crescere, fino a raggiungere un massimo (punto b della figura). Dopo un certo periodo di tempo, però, anche la natalità si adegua al nuovo regime demografico e diminuisce, riducendo la 'forbice' con la mortalità. Il punto c della figura segna la fine del processo di transizione demografica, che nei paesi dell'occidente europeo è durato tra i novanta e i duecento anni, durante il quale, appunto, la popolazione è 'transitata' in una nuova fase di equilibrio, caratterizzata da bassi flussi di rinnovo, bassi (o nulli) tassi di crescita e struttura per età invecchiata. Rispetto alla fase pretransizionale, il tasso di mortalità è ora molto meno variabile nel tempo, indice della maggior capacità di controllo dell'uomo sull'ambiente circostante, mentre, all'opposto, può variare il tasso di natalità, perché le coppie (e soprattutto le donne) hanno ormai acquisito un pieno controllo sulle proprie capacità riproduttive, che possono essere regolate non solo nell'intensità (quanti figli si fanno) ma anche nella cadenza (quando si fanno), in funzione, ad esempio, delle fasi del ciclo economico, della propria carriera di studio e di lavoro, ecc.
Benché la variabilità tra paesi sia notevole, in termini di tempi di inizio e di durata della transizione, di precedenza del calo della mortalità rispetto a quello della natalità e di intensità delle riduzioni dei flussi di ingressi e di uscite, lo schema della transizione demografica, pur nella sua astratta semplicità, riesce a descrivere sufficientemente bene l'esperienza della maggior parte delle popolazioni dei paesi sviluppati (che hanno già concluso la fase della transizione) e si presume che possa costituire una ragionevole approssimazione anche del presente e del prossimo futuro dei paesi in via di sviluppo, per i quali, peraltro, si prevede una transizione più rapida (la durata media potrebbe essere vicina ai 70 anni), ma più turbolenta (cioè con maggiori tassi di crescita).
Una cosa però è descrivere, un'altra è interpretare e capire i nessi causali. In particolare non sono chiari i meccanismi in base ai quali la riduzione della mortalità e il conseguente incremento del tasso di crescita della popolazione dovrebbero portare a una riduzione della natalità. Alcuni sottolineano soprattutto gli aspetti macrodemografici: le teorie interpretative si richiamano qui, più o meno direttamente, alla teoria di Malthus (v., 1798), che prevedeva un abbassamento del tenore di vita e, alla lunga, un aumento della mortalità per tutte le popolazioni incapaci di frenare altrimenti il proprio tasso di crescita, tendenzialmente eccessivo rispetto all'aumento invece relativamente moderato dei mezzi di sussistenza. Nell'interpretazione di Malthus, ma anche nella pratica della maggior parte dei paesi dell'occidente europeo a lui contemporanei, in assenza dei moderni metodi anticoncezionali, il controllo della natalità doveva necessariamente avvenire per via indiretta, attraverso una strategia di limitazione e ritardo dei matrimoni e, parallelamente, di forte avversione alle nascite illegittime.
Ma in tempi recenti si sono indagati soprattutto gli aspetti microdemografici, incentrati sulle motivazioni che inducono le coppie o i singoli individui ad adottare un certo comportamento fecondo, che, se perseguito poi da una quota sufficientemente ampia di popolazione, si traduce anche in una variazione del tasso di natalità complessivo. Le interpretazioni microdemografiche sono molto numerose, ma possono essere classificate in due grandi gruppi: quelle che pongono l'accento sulla diminuzione della domanda di figli (a parità di 'costo di produzione') e quelle che sottolineano invece l'aumento del costo. Numerosi sono i fattori di riduzione della domanda: storicamente uno dei primi è la riduzione della mortalità infantile, grazie alla quale le famiglie si accorgono che, per portare in età lavorativa un certo numero ideale di figli, è sufficiente metterne al mondo solo pochi di più, perché relativamente pochi cominciano a essere quelli che muoiono in giovane età. Più strettamente utilitaristiche sono invece le interpretazioni offerte dalla 'nuova teoria economica della famiglia' (new household economics: v. Becker, 1981; v. Cigno, 1991), secondo la quale i principali motivi economici per cui un tempo si generavano figli sono oggi quasi tutti superati in quanto i figli non servono più per garantirsi una miglior vecchiaia - dato che si sono sviluppati i sistemi previdenziali -, non servono più come collaboratori nell'azienda di famiglia - una forma di impresa ormai in gran parte superata dall'economia di mercato - e, infine, non servono più come strumento di forza e di prestigio all'interno della società - dato che questi obiettivi si conseguono oggi per altra via, in particolare aderendo a opportuni gruppi sociali. Almeno nei paesi industrializzati, restano quindi quasi esclusivamente ragioni di tipo diverso, come il desiderio di affetto, di compagnia, di continuità della famiglia, ecc. È incerto se queste ragioni si siano rafforzate (come sembrerebbe far pensare il nuovo ruolo, meno economico e più affettivo, rivestito dalle relazioni familiari) o si siano invece affievolite (come porterebbe a credere la progressiva secolarizzazione e materializzazione della vita sociale). Quello che è certo, comunque, è che questo secondo gruppo di motivi per desiderare un figlio è sinora apparso, nel complesso, insufficiente a compensare la perdita di valore economico della riproduttività cui si è appena fatto cenno.
Parallelamente sono poi aumentati i costi: le società moderne richiedono per l'infanzia e l'adolescenza una cura che era sconosciuta in passato e i cui costi (per l'alimentazione, le cure mediche, il vestiario, l'istruzione, ecc.) ricadono in buona parte sulle famiglie. La concentrazione della popolazione nelle aree urbane, con il conseguente aumento della rendita fondiaria, ha reso poi più cari anche gli spazi abitativi e ricreativi, mentre lo sviluppo dell'economia terziaria ha reso potenzialmente produttivo, e quindi prezioso, il lavoro extradomestico della donna. Infine lo sviluppo delle tecniche contraccettive ha fortemente ridotto, fin quasi ad annullarli, i costi economici, fisici e psicologici della contraccezione.
Non necessariamente i governi sono soddisfatti della situazione demografica dei loro paesi, in termini sia statici (numerosità e struttura della popolazione) che dinamici (fecondità e natalità, mortalità, ecc.). Tuttavia non sempre dall'insoddisfazione deriva la decisione di adottare un'attiva politica demografica che vada al di là dell'obiettivo, universalmente perseguito, almeno in teoria, di migliorare le condizioni igienico-sanitarie e di allungare la durata media della vita della popolazione. Questo si deve a una molteplicità di fattori. In primo luogo esistono valutazioni anche molto diverse circa l'efficacia e l'opportunità di interventi volti a correggere le tendenze migratorie e riproduttive e, in caso, circa le misure più opportune da adottare. In secondo luogo sono molto diverse le situazioni, che spaziano dai casi in cui la natalità è troppo elevata e la popolazione in forte crescita (quasi tutti i paesi in via di sviluppo) ai casi opposti, con natalità troppo bassa e popolazione che invecchia rapidamente e si avvia a una contrazione numerica (buona parte dei paesi industrializzati). Infine non c'è concordanza di vedute sulle conseguenze in termini di 'benessere' di una particolare situazione demografica, anche perché le modificazioni demografiche hanno tempi molto lunghi e i dati empirici sinora disponibili, nel loro insieme, non smentiscono ma neppure confermano le previsioni di Malthus (del 1798), secondo cui i paesi con popolazione in più forte crescita demografica dovrebbero scontare un peggioramento del benessere, almeno in termini relativi.Altre posizioni contrarie a una crescita della popolazione troppo prolungata o troppo rapida, che si potrebbero definire di carattere latamente 'neomalthusiano', considerano non tanto l'eventualità che venga a mancare il cibo, quanto piuttosto i rischi di un possibile esaurimento delle risorse non rinnovabili (v. Meadows e altri, 1972) o di un'eccessiva 'diluizione' del capitale, con abbassamento del rapporto capitale/lavoro e diminuzione della produttività (v. Coale e Hoover, 1958), o di un superamento della capacità del pianeta di assorbire gli inquinamenti legati alla presenza e all'attività dell'uomo (v. Keyfitz, 1991). Ma a queste interpretazioni se ne possono contrapporre altre che sottolineano piuttosto i vantaggi di una popolazione crescente e numerosa: i mercati si allargano, il lavoro si può suddividere e specializzare, i costi fissi per le infrastrutture si ripartiscono tra molti contribuenti e la popolazione si mantiene giovane, cosa che stimola le innovazioni tecnologiche e attenua i problemi del mantenimento degli anziani tramite un sistema pensionistico a ripartizione (v. Livi Bacci, 1989). In breve, manca ancora una solida base empirica e teorica per stabilire se esista o meno, ed eventualmente dove si collochi, un ottimo di popolazione o almeno un ottimo di crescita demografica. Si può anzi osservare che questo genere di ricerca si è dimostrato infruttuoso in passato ed è stato oggi quasi del tutto abbandonato.
In tutti i casi, nella scelta degli eventuali interventi andrebbero tenute presenti, distintamente, le conseguenze a breve e a lungo termine dei comportamenti demografici e le compatibilità tra gli obiettivi. Nel lungo periodo è ragionevole pensare che la popolazione mondiale dovrà arrestare la sua crescita, per evitare di scontrarsi con i limiti di popolamento del pianeta, per quanto indefiniti essi possano essere. Benché appaia oggi impossibile indicare esattamente quando e a quale livello questo avverrà, si può registrare che le previsioni a lungo termine delle Nazioni Unite abbracciano questa prospettiva: le ultime disponibili ad esempio (v. United Nations, 1992) prevedono, verso l'anno 2100, il raggiungimento di un 'tetto' per la popolazione mondiale vicino agli 11 miliardi, dai circa 6 attuali. Se questo (ipotetico) stato stazionario, o quasi stazionario, sarà caratterizzato - cosa che si prevede e in effetti si cerca di realizzare - da una durata media della vita maggiore di quella attuale, saranno anche definite le condizioni di equilibrio in termini di invecchiamento (v. relazione 7) e di natalità (v. relazione 6).
Di interventi attivi per ridurre la natalità (o, meglio, per ridurre la fecondità) si è cominciato a parlare solo nel dopoguerra e, inizialmente, solo in pochi paesi. È quindi da pochi anni, e soprattutto per opera di organismi internazionali come le Nazioni Unite, che l'allarme per il rischio di sovrappopolamento del pianeta, o almeno di parte di esso, ha trovato eco prima nelle Conferenze internazionali sulla popolazione (la prima è del 1974, le successive sono cadenzate ogni dieci anni) e poi nelle politiche della maggior parte dei paesi in via di sviluppo, che sono state peraltro diverse sia per natura (più coercitive o più 'liberali'), sia per la costanza con cui sono state perseguite, sia, infine, per il grado di successo ottenuto. In generale quello che si può osservare è che è relativamente facile ed economico promuovere la conoscenza e la disponibilità a bassi costi di buoni metodi contraccettivi (v. United Nations, i contributi del 1993), ma questa non è necessariamente la soluzione più efficace. Conoscenza e disponibilità di contraccettivi, come è venuto lentamente emergendo dall'analisi empirica, non sono le variabili principali su cui far leva per ridurre la fecondità: occorre agire anche e soprattutto sulle motivazioni della popolazione ad avere o non avere figli, cosa che risulta però molto più lenta e complessa (v. Pritchett, 1994).
Mentre nei paesi in via di sviluppo, che racchiudono circa i tre quarti della popolazione mondiale, il principale problema appare quello di abbassare rapidamente la natalità, nel resto del mondo, e in particolare in un gruppo di paesi sviluppati che comprende anche l'Italia, il problema sembra essere ormai divenuto quello di una natalità eccessivamente bassa, che si vorrebbe in qualche modo stimolare. Anche in questo caso numerosi elementi si oppongono all'assunzione di iniziative decise. Vi è innanzi tutto una questione etica generale (se sia giusto o meno che lo Stato intervenga in un campo, la riproduzione, che alcuni ritengono ricada principalmente nella sfera decisionale dell'individuo), nei cui confronti l'opinione pubblica è resa particolarmente sensibile dal ricordo delle politiche pronataliste dei regimi dittatoriali di questo secolo, che, peraltro, hanno ottenuto risultati solo di breve durata. Si ritiene oggi che lo strumento di intervento debba essere, sia pure indirettamente, di tipo economico: l'obiettivo andrebbe cioè raggiunto addossando alla collettività i costi dell'allevamento dell'infanzia (tramite incentivi fiscali, fornitura gratuita di un certo numero di servizi, ecc.) e, soprattutto, rendendo la maternità più compatibile con un ruolo attivo della donna sul mercato del lavoro (tramite orari di lavoro flessibili, creazione di asili nido pubblici, ecc.). Si tratta di operazioni complesse che, oltretutto, contrastano con l'esigenza di mantenere sotto controllo una spesa pubblica quasi ovunque ritenuta eccessiva. Quanto all'efficacia, che andrebbe comunque valutata nel lungo periodo, l'esperienza è contraddittoria. Ad esempio, una politica attiva è stata recentemente molto efficace in Svezia, ma solo moderatamente efficace in Francia, in cui natalità e fecondità si sono attestate su livelli simili a quelli del Regno Unito, dove pure non esiste una politica di incoraggiamento della riproduzione.
I livelli di natalità concretamente osservati nelle popolazioni umane, normalmente compresi tra il 50 e il 10 per mille, sono venuti calando dal dopoguerra a oggi e si prevede che continueranno a diminuire anche nel prossimo futuro (v. tabb. I e II): il tasso medio di natalità, attualmente del 27 per mille, era del 37 per mille nel 1950-1955 e si prevede che calerà fino a circa il 18 per mille nel 2020-2025. Oltre all'evoluzione temporale, occorre tener presente anche la forte variabilità geografica che attualmente contraddistingue le popolazioni umane. Nell'ultimo quinquennio per cui si dispone di dati (relativamente) certi, il 1985-1990, la natalità, pari in media al 27 per mille come si è detto, si è infatti significativamente differenziata tra i paesi sviluppati (15 per mille) e i paesi in via di sviluppo (31 per mille), al cui interno spicca in particolare l'Africa, che ha avuto sia la media continentale più elevata (45 per mille) sia il record per singolo paese (il Malawi, con il 56 per mille). Tra i paesi sviluppati, invece, le differenze sono più contenute: il record negativo spetta comunque all'Europa (13 per mille) e in particolare all'Europa meridionale (12 per mille), dove proprio l'Italia, col 10 per mille, ha raggiunto la punta più bassa.Come accennato, in un passato non troppo remoto i tassi di natalità e di mortalità dei paesi oggi sviluppati erano considerevolmente più elevati di adesso (v. figura): in Italia, per esempio, il tasso di natalità era solo di poco inferiore al 40 per mille ancora alla fine del 1800 (v. Demografia, tab. V), un livello medio per l'Europa dell'era pretransizionale. Si noti però che, relativamente al contesto beninteso, tale valore non era particolarmente elevato: ad esempio risultava più basso di quello, superiore al 40 per mille, che si registra correntemente in Africa e che fino a non troppo tempo fa si poteva osservare anche in Asia e in America Latina. Come accennato, la minor natalità dei paesi dell'Europa occidentale, in assenza di moderni metodi anticoncezionali, era dovuta soprattutto al controllo sociale sull'illegittimità (fortemente sanzionata) e sul mercato matrimoniale. Non tutti potevano sposarsi (spesso, ad esempio, erano esclusi i figli cadetti, per non disperdere la proprietà) e chi si sposava lo faceva relativamente tardi, perché doveva prima accumulare un capitale tale da garantire autonomia e decoro alla futura famiglia. In altri contesti, con una diversa concezione della famiglia e della proprietà, le regole matrimoniali sono state e sono molto diverse, comportando generalmente, in particolare nei paesi islamici, uno scarso effetto frenante sulla natalità.Attualmente, tenuto conto del valore della durata media della vita (circa 80 anni per le donne) e della relazione (6), il tasso di natalità in Italia e in tutti i principali paesi industrializzati dovrebbe assestarsi in un intorno del 12-13 per mille: valori inferiori, come quelli che si registrano in questi anni, preannunciano dunque una fase ormai prossima di declino numerico della popolazione e di rapido invecchiamento.
(V. anche Fecondità; Mortalità; Nascite, controllo delle; Nuzialità; Popolazione).
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