CAFFÈ, Federico
Nacque il 6 gennaio 1914 a Castellammare Adriatico (in seguito frazione del comune di Pescara) da Vincenzo, ferroviere, e da Erminia Montebello, secondo dei tre figli sopravvissuti della coppia (due sorelline, più piccole di lui, morirono precocemente).
Date le difficoltà economiche in cui si trovava la famiglia, Caffè dovette sin da giovanissimo svolgere dei piccoli lavori; per es., dal 1924 fu prima bigliettaio e poi contabile al cinema Excelsior di Pescara (una delle prime sale cinematografiche create in Italia).
Dopo aver frequentato le medie e le superiori presso l’Istituto tecnico per ragionieri Tito Acerbo, nel 1932 si iscrisse alla facoltà di Scienze economiche e commerciali dell’Università di Roma, dove nel 1936 si laureò con lode, avendo come relatore Guglielmo Masci (ordinario di Scienza delle finanze), con la tesi L’azione dello Stato considerata nei suoi strumenti finanziari nell’ordinamento autarchico dell’economia italiana.
Prima ancora di laurearsi lavorò presso il Banco di Roma; dopo la laurea, dal 1937 fu dipendente della Banca d’Italia. In quest’ultima, nel 1943 entrò nel Servizio studi, all’interno del quale si occupò prevalentemente di finanza internazionale; avrebbe svolto questo incarico fino al 1954, esercitando poi (fino al 1969) quello di consulente.
Dal 1939 fu assistente volontario di Politica economica e finanziaria nella stessa facoltà che aveva frequentato.
Nel dicembre 1940 fu richiamato alle armi; tuttavia, data la bassa statura, dopo aver terminato il corso allievi ufficiali fu assegnato ai servizi sedentari, che svolse a Roma, presso il ministero della Guerra. Dopo l’armistizio del’8 settembre 1943 passò in clandestinità, non volendo rispondere al richiamo alle armi bandito dalle autorità della Repubblica sociale italiana; nei primi sei mesi del 1944 militò nella Resistenza, all’interno di formazioni non combattenti affiliate al Partito della democrazia del lavoro, un’organizzazione creata subito dopo l’8 settembre da Ivanoe Bonomi e Meuccio Ruini.
Durante il governo Parri (giugno-dicembre 1945) fu capo della segreteria particolare di Ruini, allora ministro per la Ricostruzione. Tra l’ottobre 1945 e il giugno 1946 (durante il governo Parri e il primo governo De Gasperi) fu membro della Commissione economica per la Costituente del ministero per la Costituente, presieduta da Giovanni Demaria (se ne v. il bilancio retrospettivo da lui effettuato nel 1969, Un riesame dell'opera svolta dalla Commissione economica per la Costituente, poi in Federico Caffè, un economista per gli uomini comuni, 2007, pp. 297-305).
Tra il 1947 e il 1951 fu molto vicino all’ala sinistra della Democrazia cristiana, che si radunava intorno alla rivista Cronache sociali e di cui facevano parte tra gli altri Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Aldo Moro e Giorgio La Pira; secondo alcuni ne era addirittura «l’economista più ferrato» (L. Valiani, La sinistra democratica in Italia, 1977, p. 33).
Con una borsa di studio annuale, nel 1947-1948 frequentò la London school of economics; durante il soggiorno approfondì la conoscenza del pensiero keynesiano e delle politiche sociali del governo laburista capeggiato da Clement Attlee (in carica dal 1945 al 1951).
Dal 1949 al 1951 fu libero docente di Politica economica e finanziaria presso la facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Roma, e dal 1951 al 1955 professore incaricato di Economia politica presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bologna. Nel 1954 vinse, come primo ternato, il concorso per l’insegnamento di Politica economica e finanziaria bandito dalla facoltà di Economia dell’Università di Venezia, che gli preferì, però, un altro dei vincitori, Innocenzo Gasparini. Nel 1955 venne chiamato come professore straordinario di Politica economica e finanziaria a Messina, presso la facoltà di Economia e commercio; nel 1956 si trasferì a Bologna, come professore di Economia politica nella facoltà di Giurisprudenza; nel 1959 passò a Roma, per insegnare Politica economica e finanziaria alla facoltà di Economia e commercio. Rimase in quest’ultima città fino al 1984, quando fu posto in congedo dall'insegnamento (v. Faucci 2012, p. 1).
Dal 1965 al 1974 fu direttore dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi di Roma. Fu socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei dal 1970 e socio nazionale dal 1986.
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile 1987 lasciò volontariamente la sua casa. Non fu mai ritrovato, nonostante le ricerche (immediate e successive) di parenti, allievi e amici. Il Tribunale di Roma ne dichiarò la morte presunta l’8 agosto 1998. Il mistero della sua scomparsa rimane tuttora irrisolto, benché siano state avanzate diverse ipotesi, in numerosi articoli e in libri (tra questi ultimi si vedano Rea 1992 e B. Amoroso, Memorie di un intruso, 2016). Anche il cinema e il teatro si sono occupati di Caffè, e in particolare della sua scomparsa; si vedano: il film L'ultima lezione (2001, di Fabio Rosi), dove la parte dell'economista è interpretata dall'attore Roberto Herlitzka; i documentari Roma, in quel niente: la solitudine di Federico Caffè (1998, di Berardo Carboni, Carlo Durante e Massimo Galimberti), Federico Caffè: quel silenzio che ancora ci parla (2007, di Marco Aiello) e Federico Caffè: dalla parte dei più deboli (2015, di Stefano Falco); il testo per il teatro Gli occhiali del professor Caffè, di Mario Moretti, scritto e messo in scena nel 2004 e pubblicato in volume nel 2017.
Caffè era generoso ma riservato e schivo, umile e fiero al tempo stesso.
Aveva il fiuto di un talent-scout per le personalità di eccezione – suoi allievi, per es., sono stati Mario Draghi, attuale presidente della Banca centrale europea, e Ignazio Visco, attuale governatore della Banca d’Italia – ma credeva nell’università di massa, e curava quindi la preparazione di studenti di ogni livello. La consapevolezza di poter contribuire al progresso individuale e sociale lo induceva a essere disponibile e premuroso – e non soltanto in termini didattici – soprattutto con gli studenti di più umile origine.
La sua, poi, era una sorta di scuola permanente, che si avvaleva di svariati strumenti, alcuni dei quali – come la traduzione di opere scientifiche o la produzione di saggi divulgativi – si proponevano illuministicamente di allargare il campo dei cultori e dei lettori di economia al largo pubblico; egli era infatti convinto che l’introduzione presso una platea più larga della problematica e degli strumenti di lavoro dell’economia fosse un vero e proprio ‘servizio sociale’.
L’acuta sensibilità e la forte umanità che gli erano proprie – ben note a tutti coloro che lo hanno conosciuto – lo portavano non a isolarsi, ma al contrario, a guardarsi intorno, a rendersi partecipe dei problemi altrui, sia di quelli che gli si presentavano come casi singoli (di studenti, allievi, colleghi, persone note o sconosciute), sia di quelli che, attraverso le sue lenti di scienziato, egli percepiva come comuni a gruppi di cittadini.
Erano questi aspetti del suo carattere – rafforzati dal lucido convincimento dello studioso – che lo portavano a interpretare la professione di pubblico impiegato nel modo più pieno e attivo, con orari che egli – in modo eufemistico (dato che lavorava 12 ore e più al giorno all’università) ma allusivo dei suoi interessi sociali – amava definire «da metalmeccanico». Era ancora la sua forte umanità che lo spingeva a studiare le opere di chi – pur non sottacendo le distorsioni e le insufficienze nell’intervento pubblico, particolarmente acute nel nostro Paese – si occupava dei numerosi aspetti di fallimento del mercato, in termini di efficienza ed equità sociale, e poi a dare i propri preziosi suggerimenti in merito, mediati dalle sue vaste e profonde conoscenze istituzionali, e ad agire nel concreto in termini di impegno lavorativo, beneficenza e interventi ‘compassionevoli’ (nel significato più proprio del termine) nelle sedi scientifiche e pubblicistiche.
Il carattere di Caffè si riflette nei suoi scritti, spesso allusivi e di tono apparentemente sommesso, seppure stesi in una prosa forbita, dotta e densa. La ricchezza di citazioni, frutto dell’ampia cultura e del continuo aggiornamento, più che un vezzo era un atto di umiltà e di rispetto per il lettore, che egli riteneva dovesse essere protetto da affermazioni superficiali e prive di riferimenti al pensiero di altri studiosi, da ignoranti riscoperte, da effimere e inutili importazioni di idee, dalle mode culturali, oltre che dai toni allarmistici e dalle pressioni di interessi sezionali.
Nella premessa di un suo libro del 1966 (Politica economica, 1° vol., Sistematica e tecniche di analisi, p. 28) sottolineava l’utilità dei giudizi di valore per la conoscenza e la necessità che lo studioso dichiari esplicitamente i propri ideali anziché introdurli surrettiziamente o tentare di reprimerli. Questa premessa veniva ribadita, pur con qualche ripensamento e arricchimento, anno dopo anno, anche se il risultato immediato poteva essere quello di sconcertare gli studenti, non di rado abituati ad accogliere acriticamente come verità obiettive quelle che erano solo ipotesi e teorie.
La consapevolezza della componente soggettiva della scienza economica, peraltro, non si traduceva mai in un insegnamento partigiano. Il timore di indottrinare era sempre così forte in lui che, quando veniva invitato a discutere di problemi di attualità, di rado palesava agli studenti il suo pensiero. E, d’altronde, i suoi allievi hanno in seguito manifestato gli orientamenti ideologici e scientifici più vari. Nonostante ciò (o anche a causa di ciò?), non di rado venivano ad ascoltare le sue lezioni anche studenti iscritti ad altre facoltà, e la sua figura ha affascinato nel corso del tempo diverse generazioni di giovani.
Il primo saggio di Caffè, Risparmio spontaneo e risparmio 'forzato' nel finanziamento della guerra (1942), trattava un problema allora di dolorosa attualità. Negli anni successivi, fu sempre la sensibilità per i temi correnti – e in particolare per quelli della ricostruzione – che ne impegnò le energie nelle sue varie attività: dipendente della Banca d’Italia, esperto di vari organismi pubblici (la citata Commissione economica del ministero per la Costituente, il Comitato interministeriale per la ricostruzione, il ministero delle Finanze, il ministero del Commercio con l’estero), assistente volontario, autore di saggi.
Fu forse ancora questa sensibilità che lo portò, in alcuni scritti pubblicati fra il 1943 e il 1948, a indicare esplicitamente le imperfezioni del mercato – sia macroeconomiche sia microeconomiche – come giustificazione dell’intervento pubblico; in tali saggi suggerì una programmazione democratica che facesse uso dell’intera gamma degli strumenti di politica economica come strumento utile per affrontare i molti problemi della ricostruzione e anche quelli che probabilmente sarebbero sorti in tempi più ‘normali’ (Compiti e limiti della politica economica in recenti pubblicazioni, 1943, poi in Federico Caffè, un economista per il nostro tempo, 2009, pp. 349-359; È evitabile la pianificazione?, 1945, poi in Federico Caffè […], 2009, cit., pp. 141-142; Nuove esperienze in fatto di pianificazione, 1946, ora, con il tit. First memorandum on the Central economic plan 1946 and national budget 1947, in Federico Caffè […], 2009, cit., pp. 157-160; Consiglio economico nazionale e problemi di pianificazione, 1947, poi in Federico Caffè […], 2009, cit., pp. 166-169). Egli portò inoltre a esempio alcune esperienze estere di programmazione, in particolare quella dei Paesi Bassi – sviluppatasi tra il 1945 e il 1955 sotto l’impulso di Jan Tinbergen, uno dei padri fondatori della ‘teoria’ della politica economica – e quella britannica all’epoca del governo Attlee, nella seconda metà degli anni Quaranta (È evitabile la pianificazione?, cit.; Nuove esperienze […], cit.; Consiglio economico nazionale […], cit.; Pianificazione democratica, 1943, poi in Federico Caffè […], 2009, cit., p. 142; La politica delle priorità ed il pensiero degli economisti inglesi, 1948, poi in Federico Caffè […], 2009, cit., pp. 177-178; ‘Bilancio economico’ e ‘contabilità sociale’ nell’economia britannica, 1948, poi in Federico Caffè […], 2009, cit., pp. 178-179). In questi saggi legò la programmazione ai fallimenti del mercato.
In due riflessioni pubblicate nel 1947 e nel 1949 egli, partendo ancora dai fallimenti del mercato, criticò le politiche economiche correnti (Consiglio economico nazionale […], cit.; Bilancio di una politica, in tre parti, 1949, poi in Federico Caffè […], 2007, cit., pp. 277-284). Propose – implicitamente ma in termini chiari – un programma di politica macroeconomica capace di affrontare i maggiori problemi del tempo (occupazione, inflazione, bilancia dei pagamenti) attraverso l’uso dell’investimento pubblico e della politica monetaria e creditizia, il tasso di cambio e gli aiuti esteri. Va sottolineata la sua consapevolezza della mutevole natura dei problemi di politica economica, e quindi della necessaria flessibilità delle azioni pubbliche (Bilancio di una politica, cit.).
In altri saggi, scritti negli anni Cinquanta, discusse il ruolo delle politiche dell’interesse, dell’investimento pubblico e di altri strumenti di politica (Considerazioni sulla formazione del capitale nelle aree economicamente arretrate, in Teoria e politica dello sviluppo economico, a cura di G.U. Papi, 1954, pp. 273-302; Considerazioni intorno al settore pubblico dell'economia, in Saggi critici di economia, 1958, pp. 77-93).
A partire dal 1953 approfondì il suo apparato teorico, occupandosi di uno dei problemi che aveva brevemente trattato nei suoi lavori sulla programmazione, ossia i fallimenti del mercato e l’agenda di politica economica. Scrisse così numerosi saggi su ciò che successivamente avrebbe definito la «logica» della politica economica, trattando dei fallimenti microeconomici del mercato. Seguì l’evoluzione nel tempo del dibattito in materia, dai vecchi ai nuovi indirizzi. Divulgò e tradusse in italiano i principali contributi degli studiosi della nuova ‘economia del benessere’ (Vecchi e nuovi indirizzi nelle indagini sull'economia del benessere, 1953; Benessere, economia del, in Dizionario di economia politica, a cura di C. Napoleoni, 1956, pp. 37-68; Saggi sulla moderna economia del benessere, a cura di F. Caffè, 1956).
Va rilevato che nel periodo fra le due guerre, ma anche successivamente, pochi erano stati gli italiani interessati al dibattito sul benessere economico; fra questi va ricordato, prima della Seconda guerra mondiale, Giorgio Tagliacozzo (Economia e massimo edonistico collettivo, 1933, un testo che Caffè sicuramente conosceva quando scrisse il suo già citato libro del 1966 sulla politica economica). Sul contributo di Caffè alla fondazione in Italia della politica economica come disciplina si veda anche Pomini in Federico Caffè nel pensiero economico italiano, 2015.
L’interesse di Caffè per i problemi di rilevanza pratica aveva così trovato due solidi fondamenti teorici, la logica e la teoria della politica economica, i due pilastri di quello che è stato definito il «nucleo» della politica economica come disciplina (Acocella 2018, p. 3), al quale si aggiunge una terza parte di applicazione degli strumenti del nucleo a specifiche realtà storiche e istituzionali.
Ciononostante, la formazione intellettuale di Caffè si completò soltanto quando egli individuò due importanti legami.
Il primo aveva a che fare con la concezione del percorso dall’analisi alla politica come costituito da differenti stadi di una scienza unitaria, ognuno dei quali avesse un fondamento teorico; era, questa, una concezione propria di quello che egli considerò sempre il suo mentore, Gustavo Del Vecchio (di cui avrebbe in seguito non solo curato una vasta raccolta di testi – Antologia di scritti di Gustavo Del Vecchio nel centenario della nascita (1883-1983), 1983 – ma anche delineato il percorso intellettuale in due ritratti, Gustavo Del Vecchio, 1883-1972, in F. Caffè, Frammenti per lo studio del pensiero economico italiano, 1975, pp. 72-88, e Gustavo Del Vecchio, in Il pensiero economico italiano, a cura di M. Finoia, 1980, pp. 519-530). Così, verso la metà degli anni Cinquanta Caffè possedeva tutti gli ingredienti per concepire la politica economica come una disciplina autonoma nell’ambito della scienza economica, ancorata a una vasta conoscenza storica e istituzionale. Tuttavia, egli non riusciva a legare l’uno all’altro i due pilastri del nucleo.
Finalmente, la conoscenza di Videnskab og Velfaerd I okonomisk Politik (1958), opera dell’economista danese Frederick Zeuthen, lo portò a saldarli, e così promosse la pubblicazione della traduzione italiana di questo libro (Scienza e benessere nella politica economica, 1961). Come egli poté ‘scoprire’ il libro, che era stato pubblicato soltanto in danese, non è chiaro. Molto probabilmente Caffè già conosceva Zeuthen, sia per le precedenti pubblicazioni di questi in inglese (compreso un saggio – richiesto dall’editor della rivista del Department of Economics dell’Università di Harvard – pubblicato postumo e incompleto: Science and welfare in economic policy, in The quarterly journal of economics, 1959, 73, 4, pp. 513-521), sia per la traduzione italiana (Il monopolio del lavoro, 1936) di una di esse (Problems of monopoly and economic warfare, 1930). Certamente, egli non poté prendere conoscenza del libro di Zeuthen del 1958 né direttamente – non conosceva il danese – né indirettamente, attraverso il necrologio su Zeuthen scritto nel 1959 da Erich Schneider (Zeuthen: in memoriam, 1888-1959) e pubblicato in tedesco su Weltwirtschaftliches Archiv (82, 1, pp. 147-149) – Caffè, infatti, non conosceva nemmeno il tedesco – e in inglese su Econometrica (27, 4, pp. 685-687), poiché in quel testo non si faceva riferimento al libro del 1958.
Negli anni 1961-1964 Caffè inserì la traduzione italiana del libro di Zeuthen tra i testi obbligatori per la preparazione all’esame dei suoi corsi di politica economica. Il libro, pur ricco di spunti interessanti, si rivelò però di difficile comprensione per la maggior parte degli studenti. Questo potrebbe essere uno dei motivi per i quali egli decise di preparare un suo proprio testo; approntò nel tempo i vari elementi necessari a questo fine, derivandoli dalle sue precedenti ricerche e svolgendone di nuove per riempire il processo di formazione dell’agenda di politica economica attraverso i contributi degli economisti classici e neoclassici (La politica economica nel sistema degli economisti classici, in Giornale degli economisti e annali di economia, 1962, 21, 5-6, pp. 303-329; La politica economica nei sistemi di analisi ‘al livello soggettivo’, in Contributi in omaggio di G.U. Papi, 1964, pp. 69-87). La logica della politica economica – comprensiva dei fallimenti, sia micro sia macroeconomici – fu da lui completamente sviluppata in una prospettiva storica (Appunti introduttivi alla politica economica, 1964; Sistematica e tecniche della politica economica, 1° vol., Parte introduttiva, 1965). Infine, nel 1966 pubblicò il già citato volume Sistematica e tecniche di analisi – prima parte dell'opera Politica economica – nel quale esponeva la sua versione dell’intero nucleo della disciplina, con un peso attribuito alla due parti più equilibrato rispetto a quello del libro di Zeuthen, in cui la logica della politica economica era predominante. L’applicazione di questi principi ai problemi economici correnti, con particolare riferimento all’Italia, fu oggetto del secondo volume di Politica economica (Problemi economici interni, 1970).
L’indicazione sistematica da parte di Caffè dei fondamenti dell’intervento pubblico, in termini teorici e pratici – ciò che va sotto il nome di politica economica ‘normativa’ – omette in apparenza la discussione dei fallimenti governativi, ossia di ciò che andava profilandosi come la politica economica ‘positiva’. Ciò non corrisponde alla realtà, in quanto egli non pensava che i fallimenti pubblici fossero irrilevanti. Infatti, molti suoi saggi hanno per oggetto questi fallimenti (si vedano, per es., La strategia dell'allarmismo economico, 1972, poi in Federico Caffè […], 2007, cit., pp. 97-103, e Considerazioni sul problema della disoccupazione in Italia, 1973, poi in F. Caffè, Un'economia in ritardo: contributi alla critica della recente politica economica italiana, 1976, pp. 61-78). Caffè non fu mai, anche negli anni del trionfo completo e acritico di certe forme di intervento pubblico, un assertore della bontà dell’intervento pubblico a tutti i costi. Probabilmente, in quella fase egli voleva sottolineare l’approccio normativo come innovazione utile da prendere come riferimento dell’analisi dell’azione pubblica. A ogni modo, egli pensava che molti fallimenti pubblici derivino semplicemente dalla scarsità di informazione, nonché di partecipazione e controllo del pubblico.
Ci si può chiedere a questo punto perché Caffè non preparò egli stesso prima di Zeuthen un libro sulla politica economica come disciplina, pur possedendo egli tutti gli ingredienti del suo nucleo e avendo approfondita conoscenza del funzionamento dei sistemi economici, in particolare dei caratteri storici e istituzionali di quello italiano. Possono esserci molteplici risposte, come la sua personale riluttanza a preparare ciò che egli chiamò – facendo uso di espressioni mutuate dal filosofo Guido Calogero – un «costume di Arlecchino» piuttosto che una «tuta da lavoro» (si v. Premessa: la crisi della scienza economica, in Economia senza profeti: contributi di bibliografia economica, a cura di R. Bellofiore, 1977, p. 11). Questa riluttanza sembra contraddetta dalla ricchezza delle citazioni, che spesso nascondono i suoi convincimenti personali. Ma si tratta di pura apparenza. Ancora una volta, lo scienziato può seguire due percorsi nell’esprimere le proprie idee: quello di nasconderle – lasciando che le citazioni delle fonti parlino in sua vece – o quello di nasconderne le fonti. Il primo fu il percorso seguito da Adam Smith. Caffè preferiva il secondo, per effetto della sua inclinazione personale, del rispetto per gli altri e del pluralismo, nonché per modestia (Ciocca 2014, p. 20, usa l’espressione «fiera modestia», che indica perfettamente una delle qualità di Caffè, e Acocella in Federico Caffè […], 2015, cit., p. 107, sottolinea la sua tendenza a preferire messaggi subliminali) e per riluttanza a esprimersi in prima persona, associate alla consapevolezza della vastità della propria ignoranza, del «poco lume e [del] […] gran cerchio d’ombra» prevalenti a tutti i livelli dell’apprendimento (per ripetere un’espressione – da lui usata in una lettera del 26 febbraio 1969 a Bruno Amoroso, un suo ex allievo e amico – che riproduceva il titolo di una raccolta del 1925 del romanziere Virgilio Brocchi; v. G. Amari, N. Rocchi, Postfazione. Federico Caffè: la vita come progetto, in Federico Caffè […], 2007, cit., p. 1011). Contrariamente all’apparente derivazione di parti della sua analisi da altri autori, egli seguiva una linea di ragionamento personale molto chiara, non soltanto in ogni saggio, ma anche in tutto il suo contributo alla politica economica (v. Faucci 2002, p. 368). Inoltre, la sua preferenza, anche a fini didattici, per analisi chiare e critiche della storia del pensiero economico piuttosto che per analisi formali e anguste, derivava dall’inclinazione verso un apparente eclettismo, nonché dal suo bagaglio teorico. Il suo eclettismo – comunque «rigoroso, selettivo, critico» (Ciocca 2014, p. 21) – potrebbe anche derivare dall’accettazione della concezione tipicamente anglosassone (ma fatta propria anche da Del Vecchio e, prima di lui, da Maffeo Pantaleoni e Luigi Einaudi) della scienza economica come caratterizzata da progresso continuo, senza rotture (v. Faucci 2002, pp. 366-367).
I problemi pratici – talvolta drammaticamente urgenti – formarono sempre oggetto della sua attenzione e vennero da lui affrontati con le lenti dello studioso che, per ricercarne le cause, li colloca su di un piano storico e, per risolverli, suggerisce di attingere all’ampia gamma di strumenti di politica economica proposti dalla riflessione attuale e passata degli economisti, ma con l’avvertenza di distinguere attentamente le soluzioni largamente sperimentate e non di rado fallimentari e di non lasciarsi deviare dalle lusinghe di mode e apparenze ingannevoli.
Con il passare degli anni diventavano via via più numerosi gli studi di storia del pensiero economico, alla ricerca, da un canto, delle radici – anche lontane – dei dominanti atteggiamenti liberistici e, dall’altro, di ipotesi, strumenti di analisi e di politica, quadri teorici, capaci di fornire un apporto alla formulazione di un progetto alternativo di politica economica, con il convincimento che «una esplorazione esauriente dell’armadio delle idee può servire non soltanto a far comprendere che esso è tutt’altro che vuoto, ma anche ad evitare che lo si riempia di novità illusorie o di paccottiglia imitativa» (Problemi controversi del nostro tempo, 1979, poi in Federico Caffé [2009], cit., pp. 575-576).
L’ultimo periodo della sua vita vide infatti la reviviscenza dell’idea di fondamentale stabilità, efficienza ed equità del libero mercato, espressa (come egli diceva) con un rigore formale che occulta l’impoverimento analitico e che assume sostanzialmente lo status di uno slogan, «che tende a convincere per il fatto stesso di essere ripetuto» (Acocella, Rey, Tiberi in Saggi di politica economica in onore di Federico Caffè, 1990-1999, p. 14).
Il suo rifiuto delle posizioni neoliberistiche – che in Italia lo portò a essere per anni fra i pochi critici di queste posizioni, come notava Giacomo Becattini (1985) – era fondato sull’osservazione che non l’eccesso di intervento o assistenza pubblica, ma il loro difetto e l’incompleta attuazione di programmi unitari – non velleitari né intellettualistici – di azione governativa vanno ritenuti responsabili di risultati non brillanti sul piano economico e sociale.
Nel rifiuto di un impensabile ritorno al mercato – frutto, secondo lui, di una confusione fra «tramonto» e «non raggiunta pienezza di un nuovo giorno» (La fine del welfare state come riedizione del "crollismo", in Trasformazioni e crisi del welfare state, a cura di E. Fano, S. Rodotà, G. Marramao, 1982, poi in Federico Caffè [...], 2007, cit., p. 368) – due erano i riferimenti costanti di Caffè: il primo al pensiero di Henry Sidgwick e Arthur C. Pigou e al corpus ormai consolidato dell’economia del benessere; il secondo all’opera di John M. Keynes e dei keynesiani della prima generazione.
Di Keynes egli condivideva non soltanto il quadro teorico e le linee di azione pubblica in materia di occupazione, ma anche, più in generale, la posizione di eterodosso cresciuto nella ‘cittadella’, della quale accettava la gran parte del corpo di dottrine economiche. Condivideva, ancora, la ‘filosofia’ sociale, il pensiero sul ruolo dell’economista, nonché l’intimo convincimento che «presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male» (La solitudine del riformista, in Il Manifesto, 29 gennaio 1982, poi in Scritti quotidiani, 2007, p. 82). È questa l'idea che, al di là di altri aspetti sostanziali del suo insegnamento, egli cercò di trasmettere ai suoi allievi, talvolta con doloroso successo (come può dirsi dopo l'assassinio, avvenuto nel 1985, del suo allievo Ezio Tarantelli, che strenuamente sostenne, anche a costo della vita, la necessità di 'raffreddare' la scala mobile, idea in qualche misura infine recepita il 31 luglio 1992, quando la scala mobile venne definitivamente soppressa in seguito alla firma del protocollo triangolare d'intesa tra il primo governo Amato e le diverse parti sociali).
Con ciò siamo ancora alle responsabilità e ai diritti dell’uomo che, per Caffè, erano il centro di ogni interesse culturale e pratico. In uno scritto dedicato alla programmazione in Italia (Una programmazione per gli uomini comuni, 1977, poi in Federico Caffè […], 2007, cit., pp. 40-50) egli citava – senza affatto sorprendere chiunque conoscesse anche minimamente la sua visione del mondo – un brano da un testo di Luigi Einaudi (Mali secolari ed energie nuove: le conclusioni dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo, 1911, poi in Cronache economiche e politiche di un trentennio, 1893-1925, 3° vol., 1910-1914, 1960, p. 368): «L’uomo, da assumere come punto di riferimento centrale della programmazione economica è quello che ci prospetta Luigi Einaudi in pagine che converrebbe rileggere: “L’uomo – egli ha scritto – come somma di energie spirituali, morali, come forza che si oppone alla natura da secoli impoverita, al governo corruttore, all’ambiente torpido, alla miseria circostante’’» (Federico Caffè […], 2007, cit., p. 43).
Non di rado, nei suoi scritti egli denunciava la deriva, talvolta silenziosa e graduale, delle istituzioni interne e internazionali (si vedano, per es., Vecchi e nuovi trasferimenti anormali di capitali, 1966, poi in Attualità del pensiero di Federico Caffè nella crisi odierna, 2010, pp. 165-180, e Su alcune trasformazioni recenti del Fondo monetario internazionale, 1978, poi in Federico Caffè […], 2009, cit., pp. 531-537); la solidità delle obiezioni di Caffè all’azione del Fondo è stata confermata dall’insorgere dei problemi in materia di funzionamento delle istituzioni internazionali che sono stati successivamente evidenziati da Joseph Stiglitz (v. Milone 2012, p. 124). Infine, vanno ricordate le sue riserve rispetto alla Comunità economica europea (v., per es., Sguardi su un mondo economico in trasformazione, 1957, poi in Saggi critici di economia, cit., pp. 61-73, e Politica economica della CEE, in Novissimo digesto italiano: appendice, 5° vol., Min-Proc, 1984, pp. 986-989).
Nei suoi ultimi anni Caffè si confrontò con la reviviscenza delle idee che affermavano la fondamentale stabilità, efficienza ed equità dell’economia di libero mercato. Egli obiettava il fatto che queste idee fossero espresse con un rigore formale che nascondeva l’impoverimento analitico ed assumeva essenzialmente lo status di slogan, di una ‘ripetizione volta a rassicurare’. In questo egli scorgeva il tentativo di oscurare la differenza fra capitalismo reale ed ideale.
Il suo rifiuto delle istanze neoliberali era fondato sull’osservazione che, non l’eccesso, ma la scarsità di intervento e di opportune provvidenze pubbliche, è responsabile degli scadenti risultati in termini economici e sociali.
In uno dei suoi ultimi scritti (l’introduzione alla raccolta di saggi In difesa del welfare state, 1986, poi in Federico Caffè […], 2007, cit., pp. 395-398), egli ribadiva i suoi ‘punti fermi’ di una concezione economico-sociale progressista: «una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza» (p. 395).
Oltre che autore di scritti accademici, Caffè fu un attento commentatore dell'attualità economica su giornali e riviste. In particolare, dalla metà degli anni Settanta collaborò assiduamente ai quotidiani Il Manifesto – spesso su sollecitazione di Valentino Parlato (suo amico e più volte direttore o condirettore del giornale negli anni in cui egli vi scrisse, tra il 1976 e il 1985) e di Roberto Tesi (suo ex allievo e commentatore economico del giornale) –, Il Messaggero – su richiesta di Aldo Maffey (capo redattore della sezione economica) – e L’Ora; gli articoli da lui scritti per questi giornali sono stati raccolti in due volumi, rispettivamente nel già citato Scritti quotidiani e in Contro gli incappucciati della finanza. Tutti gli scritti: Il Messaggero 1974-1986, L'Ora, 1983-1987 (a cura di G. Amari, 2013). Altri interventi ospitati in riviste o quotidiani sono riprodotti in La dignità del lavoro (a cura di G. Amari, 2014).
Quanto è attuale il pensiero di Caffè? Certamente, oggi il mondo e la pratica della politica economica sono diversi da quelli degli anni Settanta e Ottanta. In ogni Paese il ruolo dello Stato è molto diverso da allora. E in Italia, i mutamenti sono stati ancora più radicali.
Alcune osservazioni sono però necessarie. Innanzitutto, Caffè ha sempre giustamente rivendicato l’autonomia del pensiero rispetto alla realtà, dubitando fortemente che questa sia sempre razionale o accettabile. Inoltre, il pensiero economico odierno è forse più vicino a quello di Caffè di quanto non lo fosse negli anni Ottanta.
In termini astratti – e non con riferimento all’attività concreta – il maggiore vulnus alle idee di Caffè è riconducibile alla critica distruttiva della teoria della politica economica (Lucas 1976), in presenza di aspettative razionali. Tuttavia, Caffè aveva suggerito un’idea di politica economica in termini strategici, come interazione di differenti soggetti sociali, non solo il governo ma anche le grandi imprese e i grandi sindacati. Questa idea è diventata nel tempo il modo normale di impostare i problemi di politica economica ed è stata sviluppata da allievi diretti o indiretti di Caffè, portando all’elaborazione di una teoria della politica economica esente dalla critica di Robert Lucas, per il fatto che essa incorpora l’ipotesi di aspettative razionali (Acocella, Di Bartolomeo 2005, Appendix C - Rational expectations and game theory, pp. 45-50).
Dopo la sua scomparsa Caffè è stato ricordato con varie iniziative, fra le quali, a partire dal 1990, le Lezioni Federico Caffè, cicli annuali di lezioni tenute dai maggiori economisti stranieri e italiani – fra i quali molti premi Nobel – e promosse dal dipartimento di Economia e diritto dell’Università di Roma e dalla Banca d’Italia; molte di esse sono state pubblicate, a partire dal 1994, in un’apposita collana della Cambridge University Press, le Federico Caffè lectures. A Caffè sono state inoltre intitolate biblioteche, facoltà universitarie, scuole, aule, una piazza (a Roma, nel quartiere di Monteverde) e diverse vie (a Pescara e in altre località).
Per un elenco completo, si rimanda a Pubblicazioni di F. C., in Saggi di politica economica in onore di F. C., 3° vol. (v. oltre; l’elenco fu steso da Caffè stesso per gli scritti precedenti al 1986, e completato dai curatori del volume per gli scritti del biennio 1986-1987).
Principali raccolte di saggi: Saggi critici di economia, Roma 1958; In difesa del welfare state. Saggi di politica economica, Torino 1986; F. C., un economista per gli uomini comuni, a cura di G. Amari, N. Rocchi, Roma 2007 (sono allegati al volume due DVD, uno con il citato documentario F. C., quel silenzio che ancora ci parla e uno con una raccolta di testimonianze, a cura di G. Amari); F. C., un economista per il nostro tempo, a cura di G. Amari, N. Rocchi, Roma 2009 (oltre a una raccolta di scritti di Caffè, contiene gli atti del convegno di studi tenutosi presso la facoltà di Economia dell’Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’ il 16-17 maggio 2007; sono allegati al volume due DVD, dal tit. F. C., un economista per la Costituzione, con una raccolta di testimonianze, a cura di G. e M. Amari e con la regia di M. Maiello); Pagine di economia politica, a cura di P. Ciocca, M. De Cecco, Lanciano 2014.
Principali libri e saggi non citati in precedenza in questa voce: Politiche dell’interesse e degli investimenti, Roma 1954; Considerazioni intorno al settore pubblico dell’economia, 1958, poi in Saggi critici di economia, cit., pp. 77-93.
R. Lucas, Econometric policy evaluation: a critique, in The Phillips curve and labor markets, ed. K. Brunner, A.H. Meltzer, Amsterdam 1976, pp. 19-46; G. Becattini, Quale economia politica per il socialismo? Invito ad un dibattito, in Il Ponte, 1985, 1, pp. 63-70; Saggi di politica economica in onore di F. C., a cura di N. Acocella, G.M. Rey, M. Tiberi, 3 voll., Milano 1990-1999 (in partic., nel 3° vol., 1999, N. Acocella, G.M. Rey, M. Tiberi, Introduzione. F. C.: l'uomo, l'insegnamento il percorso intellettuale, pp. 11-16; Pubblicazioni di F. C., pp. 495-503); E. Rea, L’ultima lezione. La solitudine di F. C. scomparso e mai più ritrovato, Torino 1992; F. C.: realtà e critica del capitalismo storico, a cura di A. Esposto, M. Tiberi, Catanzaro 1995; R. Faucci, L’economia per frammenti di F. C., in Rivista italiana degli economisti, 2002, 7, 3, pp. 363-410; N. Acocella, G. Di Bartolomeo, Non-neutrality of economic policy: an application of the Tinbergen-Theil approach to a strategic context, Dipartimento di Economia pubblica, Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’, working paper 82, agosto 2005 (https://www.researchgate.net/publication/23747790_Non-neutrality_of_economic_policy_An_application_of_the_Tinbergen-Theil's_approach_to_a_strategic_context); Attualità del pensiero di F. C. nella crisi odierna, Atti del convegno di studi tenutosi presso la facoltà di Economia dell’Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’ il 9 giugno 2007, a cura di G. Amari, Roma 2010; R. Faucci, F. C., in Il contributo italiano alla storia del pensiero, vol. Economia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012 (http://www.treccani.it/enciclopedia/federico-caffe_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Economia%29/); L.M. Milone, The roots of the International monetary fund’s difficulties: the pioneering contribution of F. C., in History of economic ideas, 2012, 20, 1, pp. 109-130; P. Ciocca, Per il tramite dei grandi economisti: il lessico ‘non famigliare’ di F. C., in F. Caffè, Pagine di economia politica, 2014, cit., pp. 17-23; F. C. nel pensiero economico italiano, a cura di M. Pottinger, P. Roggi, n. monografico de Il pensiero economico italiano, 2015, 23, 2 (in partic. N. Acocella, I messaggi subliminali di F. C., pp. 103-111; M. Pomini, L’economia del benessere e il problema della fondazione scientifica della politica economica, pp. 113-126); N. Acocella, Rediscovering economic policy as a discipline, Federico Caffè lectures, Cambridge 2018.