Federico Caffè
Personalità complessa e tormentata (Rea 1992), Federico Caffè dispiega una ricca e multiforme operosità scientifica, anche come fondatore di una fiorente scuola di allievi. Qualcuno ha ritenuto di etichettarlo come economista eterodosso (Lunghini 2007) per la posizione di insofferenza verso il mainstream scientifico come pure verso l’establishment politico, ma in realtà Caffè come economista si mosse sempre all’interno della grande tradizione che da Adam Smith passa per John S. Mill, Alfred Marshall, Arthur C. Pigou e John M. Keynes, per arrivare a Jan Tinbergen, John R. Hicks, James E. Meade e James Tobin. Egli fece propria una concezione del progresso della scienza economica come risultato di un’«opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto armonico» (Economia senza profeti, 1977, pp. 10-11). Una concezione che può sembrare whig, cioè ottimisticamente progressiva, ma che ammette continue interruzioni nell’evoluzione della scienza e continue riscoperte di teorie del passato. Questa interna tensione dialettica fra insegnamenti di ieri e problemi di oggi fa degli scritti di Caffè, a prima vista frammentari (Faucci 2002), una fonte costante di riflessione.
Caffè nasce il 6 gennaio 1914 a Castellammare Adriatico (oggi parte del Comune di Pescara) da Vincenzo, ferroviere, e da Erminia Montebello. Laureatosi a Roma nel 1936 in economia e commercio, l’anno seguente entra come impiegato alla Banca d’Italia. Nel 1939 diventa assistente volontario di politica economica presso la facoltà di Economia e commercio di Roma. Richiamato alle armi nel 1940, dopo l’8 settembre 1943 si trova sbandato, ed entra poi in clandestinità.
Dopo la liberazione di Roma diventa capo della segreteria particolare del ministro dei Lavori pubblici, Meuccio Ruini. Nel 1947-48 è borsista alla London school of economics.
Libero docente di politica economica e finanziaria dal 1949, dal 1951 al 1955 è professore incaricato di economia politica nella facoltà di Giurisprudenza di Bologna. Nel 1954 vince, come primo della terna, il concorso di politica economica e finanziaria bandito dalla facoltà di Economia e lingue di Venezia, ma la facoltà chiama al suo posto Innocenzo Gasparini. Viene chiamato come professore straordinario di politica economica e finanziaria presso la facoltà di Economia e commercio di Messina. Nel 1956 si trasferisce alla cattedra di economia politica della facoltà di Giurisprudenza di Bologna, e nel 1959 a quella di politica economica e finanziaria della facoltà di Economia e commercio di Roma.
Dal 1965 al 1974 è direttore dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi di Roma. Socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei dal 1970, socio nazionale dal 1986, negli ultimi anni Caffè viene colpito da eventi dolorosi, che lo gettano in una profonda depressione. Nella notte fra il 14 e il 15 aprile 1987 si allontana da casa, e da quel momento le sue tracce si perdono.
Per Caffè, tutta l’indagine economica – quindi non solo quella di politica economica – serve «di guida all’azione» (Politica economica, 1° vol., Sistematica e tecniche di analisi, 1966, p. 12). Anche la tradizionale distinzione fra economia positiva e normativa non è da accogliere. Infatti, pure nella fase positiva gli elementi normativi, specie nell’adozione delle ipotesi su cui si costruiscono i modelli, sono ben presenti, seppure spesso in forma implicita.
Il pensiero di Caffè su mezzi e fini della politica economica è molto chiaro. Il fine primario riguarda il tipo di società che si intende perseguire. L’economista non può esimersi dall’indicare il modello di società cui ispirarsi.
La concezione di un’economia democratica è riassunta nelle righe di apertura della sua ultima raccolta di scritti (In difesa del Welfare State, 1986). I «punti fermi» consistono nell’auspicare un intervento pubblico mirante ad assicurare un’effettiva eguaglianza nei punti di partenza, cui concorre peraltro un volontariato «ispirato da un’etica radicata nei valori della trascendenza» (p. 7). Concetti ai quali egli fu sempre tenacemente e coerentemente fedele.
Caffè pensa che lo Stato non vada deificato: ma dalla constatazione del fallimento di molta regolamentazione pubblica non si deve dedurre che qualsiasi regolamentazione pubblica sia dannosa per la collettività. È sbagliato contrapporre, come a un certo punto fece Luigi Einaudi, un’economia «di concorrenza» del tutto priva di regolamentazioni a un capitalismo «storico» con regolamentazioni errate. L’autentica terza via consiste nella ricerca di un capitalismo storico, cioè funzionante nella pratica, con una regolamentazione nell’interesse generale: una via che Caffè ritiene possibile perché il capitalismo, nonostante tutto, non è irriformabile. Infatti vi è piena compatibilità fra economia di mercato e quelle riforme, «le quali incidano profondamente su strutture e istituzioni che storicamente sono venute a coesistere con l’economia di mercato stessa, ma non sono essenziali al suo funzionamento» (Di una economia di mercato compatibile con la socializzazione delle strutture finanziarie, «Giornale degli economisti e annali di economia», 1971, 9-10, ora in Economia senza profeti, cit., p. 18).
L’arte del policy maker non consiste soltanto nel concepire programmi adeguati, ma nello scegliere i tempi giusti per la loro attuazione. E Caffè dedicò oltre quarant’anni di appassionata attività di scrittore e di consulente all’analisi della politica economica postbellica.
In Italia l’occasione per incisive riforme si ebbe dopo il 1945, ma venne clamorosamente lasciata sfuggire. Infatti, allora non vi erano condizionamenti internazionali a favore dell’adozione del laissez-faire assoluto, come sta a dimostrare il country study sull’Italia dell’agenzia governativa statunitense ECA (Economic Cooperation Administration), il cosidetto rapporto Hoffman, che nel febbraio 1949 criticava dal punto di vista keynesiano il modo in cui erano stati impiegati nel nostro Paese i fondi dell’ERP (Economic Recovery Program), il cosiddetto piano Marshall. La sinistra, per quanto al governo nel biennio postbellico, non seppe o non volle proporre politiche basate su un rilancio degli investimenti, e preferì privilegiare «la fata morgana del consenso dei ceti moderati [rispetto] alla predisposizione di un programma alternativo di politica economica [...] sostanzialmente, e non nominalisticamente, riformatore» (Una politica economica di buoni propositi, «Rivista internazionale di scienze sociali», 1981, 4, p. 765).
Molto dipendeva dalle persone. Che funzionari dotati di spirito pubblico fossero in grado di operare in assoluta indipendenza dai condizionamenti degli interessi particolari, Caffè lo sperimentò in quasi quarant’anni di lavoro alla Banca d’Italia, a contatto di uomini come Einaudi, Donato Menichella, Paolo Baffi e Guido Carli. Dapprima come funzionario e poi come consulente, Caffè partecipò a innumerevoli attività, dai negoziati con la IBRD (International Bank for Reconstruction and Development) per i finanziamenti nell’immediato dopoguerra, all’esecuzione degli aiuti ERP, ai rapporti con l’OEEC (Organization for European Economic Cooperation, poi OECD, Organization for Economic Cooperation and Development) e con il Fondo monetario internazionale.
Nella sua attività pubblicistica, ripresa all’indomani dell’uscita dalla direzione dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi, nel 1974, Caffè si astenne dal giudicare l’operato della Banca d’Italia, per doveroso – e purtroppo infrequente nel nostro Paese – senso di rispetto per un’istituzione che aveva servito così a lungo. Partecipò, com’è noto, alla difesa di Baffi e di Mario Sarcinelli dall’attacco del potere politico, che in quell’occasione trovò uno strumento compiacente in quello giudiziario.
A più riprese Caffè afferma la necessità di arrivare a una separazione fra gestione dell’intermediazione finanziaria, che dev’essere affidata ai poteri pubblici, e attività produttiva, che dev’essere lasciata al mercato garantendo condizioni effettivamente concorrenziali, e denuncia il prepotere nelle borse degli «incappucciati», come egli definisce «gli operatori ignoti che dall’interno o dall’estero sono in grado di avere una influenza non chiara e non verificabile su decisioni di rilevante importanza finanziaria o sull’andamento della borsa» (Note e letture, «Il Manifesto», 12 marzo 1982).
Per queste ragioni, Caffè è senza esitazione a favore di una concezione della politica economica che esalti il momento discrezionale rispetto agli automatismi predicati dall’indirizzo monetarista (cfr. Politica economica, cit., 2° vol., Problemi economici interni, 19712; Appunti sull’economia contemporanea: il ritorno agli studi sulle crisi finanziarie, «Moneta e credito», 1979, 128, pp. 445 e segg.).
La sua preoccupazione per gli effetti negativi di un mercato che funziona da sé, ma senza regole eque, emerge anche nei suoi commenti sul ruolo del Fondo monetario internazionale (L.M. Milone, in Attualità del pensiero di Federico Caffè nella crisi odierna, 2010). Sostenitore di una concezione della cooperazione economica internazionale come collaborazione fra membri sostanzialmente paritari, Caffè lamenta che vengano adottati due pesi e due misure. Ai Paesi industrialmente più forti, come la Germania, viene consentito di mantenere le proprie monete sottovalutate, e anche di attirare capitali grazie agli alti tassi di interesse reali, esportando perciò la deflazione (La problematica degli elevati tassi d’interesse reali, «Politica ed economia», 1983, 2, pp. 49 e segg.), mentre ai Paesi tradizionalmente debitori, come quelli del Terzo mondo, vengono imposte politiche restrittive e deflazioniste al proprio interno. I Paesi eccedentari sono trattati con i guanti, in quanto non sono indotti a rivalutare la loro moneta; quelli deficitari invece vengono spinti a svalutare (cfr. Palmerio, in Federico Caffè. Realtà e critica del capitalismo storico, 1995, pp. 43 e segg.). In questo caso, la rinuncia alla sovranità monetaria è stata un danno, in quanto ha aggravato il divario fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Dalla trattazione che Caffè sviluppa sul fenomeno dei movimenti «anormali» di capitali risulta tutta la sua diffidenza verso formule semplicistiche che affidino ad autorità sovranazionali di estrazione tecnocratica e non democratica l’esclusiva di siffatti controlli (Vecchi e nuovi trasferimenti anormali dei capitali, in Studi in onore di Marco Fanno, a cura di T. Bagiotti, 1° vol., Ricerche di metodologia e di teoria economica, 1966, in partic. pp. 36-41).
Questo non significa che Caffè svalutasse gli importanti risultati conseguiti dagli organismi monetari internazionali. Al contrario, egli intendeva potenziare questi organismi nella giusta direzione, fornendoli di funzioni maggiori, in modo da garantire la stabilità finanziaria internazionale come «prestatori di ultima istanza». Le crisi finanziarie non dovevano più essere considerate, come al tempo degli economisti precedenti il 1929, positivi momenti di «selezione darwiniana» (Appunti sull’economia contemporanea, cit., p. 452), ma fatti patologici da superarsi attraverso un’effettiva collaborazione internazionale.
È indubbio, tuttavia, che Caffè sia un sostenitore del mantenimento di un’ampia rosa di strumenti di politica economica interna. Non bisogna aver paura delle parole. Paesi come l’Italia, con gravi problemi di occupazione, non possono scartare a priori l’adozione di misure protezionistiche, seppure limitate nel tempo (cfr. i diversi scritti raccolti in La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella, M. Franzini, 1990). Politiche di sostituzione delle importazioni possono servire non solo per i Paesi arretrati, ma anche per il nostro.
Il filo rosso che lega insieme i numerosi interventi di Caffè nell’ultimo decennio della sua vita è l’indicazione di strumenti per il controllo democratico dell’economia. Egli non arrivò a ritenere che la democrazia come partecipazione del popolo alle decisioni politiche fosse, o fosse andata, in crisi, e che le istituzioni rappresentative previste dall’ordinamento costituzionale andassero ripensate per far fronte a tale crisi. Se crisi delle istituzioni c’è stata, per Caffè questa si può superare con l’appello a una rinnovata volontà politica. Ma appunto l’affievolirsi della vocazione rinnovatrice della sinistra lo allarma e lo spinge alla critica.
Nel 1982 egli elenca una specie di decalogo di orientamenti e misure di politica economica, comprendente: 1) l’attenzione per gli aspetti reali dell’economia rispetto a quelli finanziari; 2) la sospensione delle dissipazioni delle riserve valutarie per sostenere la parità della moneta; 3) il ripristino del «deposito previo» sulle importazioni (già introdotto nel 1976), per impedire le scorte speculative di prodotti importati; 4) lo stimolo alle produzioni agricole sostitutive delle importazioni; 5) l’impulso pubblico all’attività edilizia; 6) un’indagine sulle istituzioni creditizie, come preliminare a qualsiasi progetto di riprivatizzazione delle stesse; 7) l’utilizzazione delle forze giovanili nel quadro di un programma in cui lo Stato sia «occupatore di ultima istanza». Infine, due non interventi: 8) non aumentare tariffe e prezzi politici; 9) non toccare la scala mobile (Primo, secondo, terzo, quarto..., «L’Espresso», 28 novembre 1982, ora in La solitudine del riformista, cit., pp. 241-43).
Sono questioni – alcune di carattere metodologico, altre di carattere contingente, altre infine di più ampio respiro – che Caffè riprende numerose volte, rammaricandosi che su di esse non si sia sviluppata un’autentica discussione fra gli addetti ai lavori e fra le forze politiche.
Deluso dal principale partito della sinistra, maggiore fiducia egli ripone nel principale sindacato. Caffè non si risparmia nel difendere il sindacato dall’accusa di essere la cinghia di trasmissione del meccanismo inflazionistico tramite la scala mobile. Per lui l’inflazione ha «origini strutturali e sociologiche su cui l’influenza della scala mobile è praticamente irrilevante» (Quando si invertono causa ed effetto, «Rinascita», 17 aprile 1981). Sono soprattutto gli aumenti dei prezzi amministrati (su cui cfr. Politica economica, 2° vol., cit., cap. 3) e delle tariffe pubbliche a creare inflazione. Si deve perciò bloccare la crescita di tali prezzi, e insieme introdurre limitazioni quantitative all’importazione di beni non necessari, secondo quella «politica di guerra in tempi di pace» che egli non esita a riproporre in un’epoca certo poco disposta a simili sacrifici.
Nel 1985 Caffè aderisce al referendum promosso dalla CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) sull’abrogazione della norma che comporta un taglio dei punti della scala mobile; si colloca così su un fronte opposto al suo allievo Ezio Tarantelli, che quella riforma aveva vivacemente sostenuto. L’adesione di Caffè è annunciata, più che motivata, in una breve intervista (Tarantelli, com’era, a cura di V. Parlato, «Il Manifesto», 28 marzo 1985); né la tragica scomparsa di Tarantelli poteva stimolare Caffè a una più ampia e distaccata analisi (cfr. però Ezio Tarantelli, «Il Messaggero», 27 marzo 1986).
La critica talvolta martellante delle scelte del governo e delle non scelte dell’opposizione non deve trarre in inganno circa il giudizio complessivo che Caffè dà dell’Italia del dopoguerra. È comunque una società in crescita, il cui maggior benessere si sposa con un migliorato senso civico. Attento osservatore del mondo del lavoro e in generale della «povera gente», l’antico collaboratore delle «Cronache sociali» si compiace della comprovata professionalità delle infermiere, del buon livello di vita raggiunto dai contadini del suo Abruzzo, dello spirito di solidarietà che poteva cogliere in mille occasioni, girando per strada o andando in autobus, il suo mezzo di trasporto preferito.
Costante fonte d’ispirazione di Caffè è la Cambridge del periodo fra le due guerre: quella formatasi alla scuola di Marshall, che era proseguita con Pigou, Keynes e con i diretti allievi di quest’ultimo. Cambridge significa per lui due cose: anzitutto, la riflessione sull’economia del benessere secondo un approccio riformatore e d’intervento economico dei pubblici poteri. Caffè difende vivacemente la legittimità dello studio scientifico degli effetti della redistribuzione del reddito dai gruppi più abbienti ai gruppi meno abbienti e, naturalmente, la legittimità dell’indicazione da parte dell’economista delle proprie premesse di valore (Benessere, economia del, in Dizionario di economia politica, a cura di C. Napoleoni, 1956, pp. 37-68; Introduzione a Saggi sulla moderna economia del benessere, a cura di F. Caffè, 1956).
Caffè si sofferma sulla questione delle esternalità negative create dal settore privato (i cosiddetti fallimenti del mercato). La presenza di un costo sociale, che le imprese pubbliche non meno delle private tendono a scaricare sulla collettività, è da Caffè considerato fondamentale per giustificare un’azione di intervento (Considerazioni intorno al settore pubblico dell’economia, «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1958, ora in F. Caffè, Saggi critici di economia, 1958). Né lo soddisfa la soluzione, indicata da Ronald H. Coase, di far liberamente negoziare le parti circa l’indennizzo dei danni provocati dall’esternalità, in quanto il danneggiato è di solito assai più debole del danneggiante (Umanesimo del Welfare, «MicroMega», 1986, 1, pp. 116-27, ora in La solitudine del riformista, cit.).
In secondo luogo, Cambridge significa Keynes. Attentissimo nel registrare le riletture e rievocazioni di questo autore (cfr. Introduzione a A.C. Pigou, R. Kahn, A. Cairncross, Keynes: riletture e rievocazioni, a cura di F. Caffè, 1983), Caffè è portato a sottolineare gli elementi di continuità più che di rottura fra il grande economista e il suo ambiente. All’‘indistruttibile’ Joan Robinson, Caffè dedica una commemorazione che l’accomuna a William Robertson nel far penetrare i giovani studiosi nel mondo keynesiano (Introduzione ad Antologia di scritti di Gustavo Del Vecchio nel centenario della nascita (1883-1983), a cura di F. Caffè, 1983, ora in La solitudine del riformista, cit.).
A un altro grande di Cambridge, Piero Sraffa, Caffè invece non tributa speciali riconoscimenti, sentendolo distante dal suo schema favorito di «teoria per l’azione». Per questo non lesina critiche agli sraffiani troppo corrivi ad applicazioni meccaniche del pensiero sraffiano alla politica economica (Keynes e i suoi contemporanei, in John Maynard Keynes nel pensiero e nella politica economica, a cura di R. Faucci, 1977, p. 39).
A Caffè va ascritto il merito di aver mantenuto l’interesse sugli economisti italiani fra Otto e Novecento. Si noti che egli non aderisce tanto alle loro dottrine economiche quanto piuttosto alla loro passione civile o alla loro metodologia. Così, Francesco Ferrara mostra «una conoscenza quasi medianica dell’intima fibra del paese, con le sue capacità e le sue debolezze» (Saggi, rassegne, memorie economiche e finanziarie di Francesco Ferrara, «Rassegna economica», 1972, 6, ora in F. Caffè, Frammenti per lo studio del pensiero economico italiano, 1975, p. 31). Tuttavia Caffè non si astiene dall’osservare che l’ultraliberismo ferrariano – autentica anticipazione della teoria austriaca di Friedrich A. von Hayek – ha indotto molti economisti italiani a respingere a priori l’intervento statale.
Dal canto suo, Einaudi è da lui considerato maestro di equilibrio critico e senso storico (F. Caffè, Luigi Einaudi nel centenario della nascita, in Commemorazione di Luigi Einaudi nel centenario della nascita (1874-1974), 1975), ma il suo pensiero è individuato come uno dei principali ostacoli alla diffusione di Keynes in Italia. Non è un caso che diversi autori che Caffè considera fra i migliori economisti italiani fra le due guerre non fossero particolarmente influenzati da Einaudi (Rapporti tra il pensiero economico in Italia e all’estero negli anni della grande crisi, «Studium», 1977, 4). Di contro, Caffè sentiva più di tutti vicini alla sua sensibilità i Luigi Luzzatti, i Francesco Saverio Nitti e i Ruini, uomini che, senza dogmatismi, avevano saputo mantenere ben saldi i loro principi riformatori. Significativo è il suo tributo a Gustavo Del Vecchio, del quale egli riprende la «lezione così elevata, che è stata anche di impegno civile e pubblico» (Introduzione ad Antologia, cit., ora in La solitudine del riformista, cit., p. 23).
Il mistero della scomparsa di Caffè ha ispirato il libro di Ermanno Rea (L’ultima lezione, 1992), che ha costituito il soggetto dell’omonimo film di Fabio Rosi (2000), con Roberto Herlitzka nel personaggio dell’economista. Nel 2007 è uscito Scritti quotidiani, a cura di R. Carlini, una raccolta degli articoli di Caffè apparsi sul «Manifesto», ed è stato messo in commercio Federico Caffè. Quel silenzio che ancora ci parla, a cura di G. Amari, M. Maiello, un DVD con una sua lezione e interviste a molte personalità. La Fondazione Giuseppe Di Vittorio ha pubblicato due volumi (Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, 2007, e Federico Caffè. Un economista per il nostro tempo, 2009, entrambi a cura di G. Amari, M. Maiello), con una cospicua antologia di scritti caffeiani e un’altrettanto ricca silloge di interventi di colleghi, amici, collaboratori. Da segnalare Attualità del pensiero di Federico Caffè nella crisi odierna, a cura di G. Amari (2010), un volume che raccoglie saggi di autori vari e una scelta di suoi scritti. Sono infine usciti diversi saggi in lingua inglese sui contributi di Caffè alla teoria della politica economica (Symposium on Federico Caffè. Public policy and economic thought, 2012).
Tra molte altre iniziative, la nuova Università di Roma Tre ha intitolato a Federico Caffè la facoltà di Economia.
Benessere (economia del), in Dizionario di economia politica, a cura di C. Napoleoni, Milano 1956, pp. 37-68.
Introduzione a Saggi sulla moderna economia del benessere, a cura di F. Caffè, Torino 1956.
Considerazioni intorno al settore pubblico dell’economia, «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1958; rist. in F. Caffè, Saggi critici di economia, Roma 1958.
Vecchi e nuovi trasferimenti anormali dei capitali, in Studi in onore di Marco Fanno, a cura di T. Bagiotti, 1° vol., Ricerche di metodologia e di teoria economica, Padova 1966, pp. 26 e segg.
Politica economica, 2 voll., Torino 1966-1970, 19712.
Di una economia di mercato compatibile con la socializzazione delle strutture finanziarie, «Giornale degli economisti e annali di economia», 1971, 9-10, pp. 664-84.
Saggi, rassegne, memorie economiche e finanziarie di Francesco Ferrara, «Rassegna economica», 1972, 6; rist. in F. Caffè, Frammenti per lo studio del pensiero economico italiano, Milano 1975.
Economia senza profeti. Contributi di bibliografia economica, Roma 1977.
Keynes e i suoi contemporanei, in John Maynard Keynes nel pensiero e nella politica economica, a cura di R. Faucci, Milano 1977.
Rapporti tra il pensiero economico in Italia e all’estero negli anni della grande crisi, «Studium», 1977, 4.
Appunti sull’economia contemporanea. Il ritorno agli studi sulle crisi finanziarie, «Moneta e credito», 1979, 128, pp. 445 e segg.
Una politica economica di buoni propositi, «Rivista internazionale di scienze sociali», 1981, 4, pp. 763 e segg.
Quando si invertono causa ed effetto. Se limitassimo per qualche tempo le importazioni?, «Rinascita», 17 aprile 1981.
Note e letture. Suggerimenti per futura memoria, «Il Manifesto», 12 marzo 1982.
Primo, secondo, terzo, quarto..., «L’Espresso», 28 novembre 1982; rist. in La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella, M. Franzini, Torino 1990, pp. 241-43.
Introduzione ad A.C. Pigou, R. Kahn, A. Cairncross, Keynes: riletture e rievocazioni, a cura di F. Caffè, Torino 1983.
Introduzione ad Antologia di scritti di Gustavo Del Vecchio nel centenario della nascita (1883-1983), a cura di F. Caffè, Milano 1983; rist. in La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella, M. Franzini, Torino 1990.
Indistruttibile ‘Joan Robinson’, addio, «Il Manifesto», 17 agosto 1983; rist. in La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella, M. Franzini, Torino 1990.
La problematica degli elevati tassi d’interesse reali, «Politica ed economia», 1983, 2, pp. 49 e segg.
Tarantelli, com’era. Una conversazione con F. Caffè, suo professore e amico, a cura di V. Parlato, «Il Manifesto», 28 marzo 1985.
Ezio Tarantelli. Una martellante opera di propulsione, «Il Messaggero», 27 marzo 1986.
In difesa del Welfare State. Saggi di politica economica, Torino 1986.
Umanesimo del Welfare, «MicroMega», 1986, 1, pp. 116-27; rist. in La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella, M. Franzini, Torino 1990.
La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella, M. Franzini, Torino 1990.
Scritti quotidiani, a cura di R. Carlini, Roma 2007.
E. Rea, L’ultima lezione, Torino 1992.
R. Faucci, L’economia ‘per frammenti’ di Federico Caffè, «Rivista italiana degli economisti», 2002, 3.
G. Lunghini, Né l’apologeta, né il becchino, «Il Manifesto», 13 aprile 2007.
Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, a cura di G. Amari, M. Maiello, Roma 2007.
Federico Caffè. Un economista per il nostro tempo, a cura di G. Amari, M. Maiello, Roma 2009.
Symposium on Federico Caffè. Public policy and economic thought, ed. P. Ramazzotti, «History of economic ideas», 2012, 1.
Si veda anche:
Federico Caffè. Quel silenzio che ancora ci parla, a cura di G. Amari, M. Maiello, DVD, Roma 2007.