Femminismo
sommario: 1. Introduzione. 2. Femminismo, femminismi. 3. Il contesto storico del femminismo. 4. Uguaglianza e differenza. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il femminismo nasce dalla presa di coscienza di una asimmetria, di una disuguaglianza tra i sessi a livello sociale e politico. Esso esprime innanzitutto una denuncia dei rapporti di potere e di gerarchia che vengono giustificati e costruiti - a sfavore delle donne - nella società a partire dal fatto che gli esseri umani sono uomini e donne, maschi e femmine.
Il femminismo è perciò contemporaneamente un movimento sociale e politico - ancorché diversificato al proprio interno e nei diversi periodi e contesti - e un discorso teorico (a sua volta costruito attraverso una pluralità di discorsi) sui rapporti tra i sessi, sullo statuto simbolico dell'appartenenza di sesso, sulle donne, ma indirettamente anche sugli uomini.
2. Femminismo, femminismi
Se il femminismo può essere definito come lavoro di riflessione e insieme azione di trasformazione delle donne sulla propria esperienza nel mondo, le diverse interpretazioni di quell'asimmetria, le diverse soluzioni teorizzate e proposte danno vita ai vari femminismi presenti sulla scena storico-sociale e nella riflessione teorica.
Esistono infatti molti femminismi storici, anche conflittuali tra loro, sia sul piano teorico che su quello politico. Basti pensare al proliferare di specificazioni e varianti terminologiche che hanno designato il femminismo lungo tutta la sua storia. Così, le femministe degli anni settanta si dividevano in marxiste, socialiste, radicali, a seconda del legame che stabilivano con altre tradizioni teoriche e politiche, o anche in femministe dell'autocoscienza piuttosto che dell'intervento sociale, del salario per il lavoro domestico o dei gruppi per la salute della donna, a seconda delle dimensioni dell'esperienza femminile, e quindi anche delle modalità di aggregazione e d'intervento, che venivano privilegiate (v. Mitchell, 1971; v. Calabrò e Grasso, 1985; v. AA.VV., Non credere..., 1987; v. AA.VV., Il movimento..., 1987).
Più recentemente le posizioni relative allo statuto attribuito alla differenza sessuale hanno prodotto distinzioni e divergenze tra ‛essenzialiste' e storiciste o post-strutturaliste (v. Alcoff, 1988), e tra modi diversi di porre la questione della costruzione politica e della rappresentanza del soggetto femminile (v., ad esempio, a livello teorico, Boccia e Peretti, 1988; v. Bonacchi e Groppi, 1993; a livello politico si veda il dibattito attorno alla legislazione sulla violenza sessuale e sull'aborto, fino a quello sulla ‛rappresentanza di sesso' in sede politica). Anche nell'Ottocento, peraltro, le femministe si distinguevano non solo tra socialiste e borghesi, ma anche tra suffragiste (suffragette) e operaiste, e così via (v. Banks, 1981; v. Offen, 1988; v. Pieroni Bortolotti, 1963).
Non si tratta, ovviamente, di pure questioni nominalistiche, soprattutto per quanto concerne i processi di autoidentificazione da parte di movimenti e di singole; si tratta del problema di costruire un'identità collettiva che fondi insieme un'appartenenza e un modello di azione. È un problema comune a tutti i movimenti sociali, ma che, nel caso del movimento delle donne, si presenta come cruciale e difficile a un tempo, in quanto è in discussione lo statuto sociale e simbolico dello stesso soggetto che così si organizza. Le donne si uniscono attorno a una particolare modalità di azione e di relazione tra loro e con il mondo innanzitutto per definire (o costruire) l'essere donna. Il modo dell'azione, il legame con altre teorie o movimenti diviene perciò un passaggio cruciale nella definizione dell'identità. È significativo, da questo punto di vista, che le lacerazioni più grosse si siano avute non già rispetto ad appartenenze politiche, bensì rispetto a definizioni e modelli di azione che toccano da vicino la dimensione ‛più ovvia' della specificità femminile: il corpo e la sessualità. In modo diverso nei diversi paesi, le tensioni maggiori si sono avute attorno alla questione del lesbismo, della maternità, dell'aborto, fino a toccare la stessa rilevanza del corpo nella definizione della donna. D'altra parte, sono stati proprio questi i temi che negli ultimi decenni non solo hanno maggiormente aggregato e mobilitato le donne, rendendo visibile il femminismo, ma hanno costituito l'ossatura dell'autoriflessione femminile: sul modo in cui il corpo della donna è definito e usato nelle società e nelle culture a dominanza maschile, ma anche sul corpo, sulle esperienze del corpo (maternità e sessualità anzitutto) in quanto interne e non estranee alla dimensione simbolica, e quali punti di partenza per una possibile azione costruttiva di una soggettività femminile autonoma e capace d'incidere sulla realtà sociale.
È metodologicamente importante distinguere tra la formulazione dell'interrogativo sullo statuto dell'appartenenza di sesso, a partire dal sesso femminile, e le risposte specifiche che a questo interrogativo vengono date. Ciò significa infatti esplicitare la storicità del femminismo non solo come contestualizzazione storica di un movimento e/o di una teoria, ma come processo. In altri termini, il femminismo è l'esito e insieme l'agente di fenomeni di costruzione sociale, in cui processi di spiegazione e d'interpretazione della realtà e processi d'intervento su di essa interagiscono tra loro modificandosi, producendo sia nuove realtà (inclusi i nuovi modi di percepirsi e organizzarsi come donne e di stabilire rapporti tra i sessi) sia nuovi modi d'interpretare la realtà stessa (v. De Lauretis, 1984; v. Alcoff, 1988; v. Scott, 1988). L'articolazione, anche conflittuale, di teorie e politiche femministe indica l'esistenza, e la possibilità, di processi differenziati di costruzione e d'interpretazione del soggetto donna come soggetto altrettanto forte, a livello simbolico oltre che sociale e politico, del soggetto uomo, di cui viene contestato non solo il dominio sociale, ma anche quello nell'ordine simbolico.
3. Il contesto storico del femminismo
La questione di quando si possa parlare di femminismo, ossia la questione della sua origine storica, è solo un poco meno difficile di quella relativa a che cosa esso sia, ed è a questa strettamente connessa. Ci si chiede infatti se il femminismo, al di là delle autodefinizioni e delle autoidentificazioni, sia un movimento politico e una vicenda teorico-culturale legata a un particolare periodo e contesto storico-politico, o se, viceversa, attraversi la storia come un fenomeno carsico, che talvolta sparisce e talaltra emerge visibile (v. Mitchell e Oakley, 1986; v. Offen, 1988).
Se è vero che posizioni di denuncia e di rifiuto dell'asimmetria di potere tra i sessi e della definizione sociale di donna che ne deriva si possono trovare in diverse epoche e contesti, il periodo storico di emergenza e di sviluppo del femminismo è identificabile con quello che va dalla seconda metà del Settecento ai giorni nostri. La parola femminismo non compare prima della fine dell'Ottocento (v. Offen, 1988; v. Pieroni Bortolotti, 1963), quando si creano altresì le condizioni sociali per la nascita di un vero e proprio movimento sociale e politico, e non solo per singole posizioni intellettuali, anche se condivise in un ambito internazionale.
A metà del Settecento, tuttavia, allorché la cultura illuminista inizia a dibattere non solo i problemi relativi alla natura e al ruolo del cittadino, ma anche quelli dell'universalità (della ragione) e dell'uguaglianza tra gli uomini a prescindere dalle differenze di nascita, si comincia a delineare il contesto teorico e politico con cui il femminismo deve fare i conti: quel contesto che, allo stesso tempo, ne provoca la nascita come processo di autoidentificazione delle donne in quanto soggetti sociali e politici. È allora, infatti, che vengono poste le basi pratiche, sociali, politiche, giuridiche, oltre che teoriche, di quella polarità tra uguaglianza e differenza entro cui e contro cui si sviluppa il femminismo moderno; è allora, inoltre, che lo statuto della donna viene contemporaneamente e paradossalmente naturalizzato in una necessaria complementarità all'uomo (al cittadino ‛uguale') e costruito come tale nella rete degli istituti sociali dello Stato moderno - dalla famiglia al mercato del lavoro, alla proprietà, al parlamento (v. Saraceno, 1993).
È vero che i fondamenti teorici di questa costruzione, che pone l'uomo-maschio (e la sua ragione) come neutro (cioè non caratterizzato da differenze rilevanti sul piano sociale, politico e simbolico), e perciò universale, possono venire rintracciati ben più addietro nella storia del pensiero occidentale, e ne segnano l'intera vicenda (come argomentano filosofe e scienziate della politica: v. Okin, 1979; v. Elshtain, 1981; v. Cavarero, 1989; v. Pateman, 1988). Tuttavia è solo nella seconda metà del Settecento che si creano le condizioni teoriche e politiche perché il femminismo possa svilupparsi contemporaneamente come critica teorica e come critica e iniziativa politica: perché universalismo e uguaglianza divengono i principî organizzativi della società, che tuttavia continuamente celano e anche determinano differenze, traducendole in inimicizie (tra Stati/nazioni, etnie, religioni) o in disuguaglianze (tra sessi, ma anche tra classi e tra razze).
Per questi motivi la Rivoluzione francese non ha rappresentato per le donne solo la prima occasione per organizzarsi (nei club femminili) in un'opera di ‛autocostruzione di cittadinanza' ben presto ritenuta illegittima dai cittadini (maschi), ma anche per riflettere sullo statuto sociale e simbolico loro assegnato: quindi tanto sul significato di uguaglianza quanto su quello di differenza. Sia che si legga la Déclaration des droits des femmes et des citoyennes di Olympe de Gouges (v., 1791), sia che si legga la Vindication of the rights of women di Mary Wollstonecraft (v., 1792), si è colpiti tanto dalla specularità con le argomentazioni dei diritti degli uomini/maschi - nel primo caso con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, nel secondo con la Vindication of the rights of men, scritto dalla stessa Wollstonecraft due anni prima - quanto dalla affermazione che le donne in quanto tali sono soggetti di diritti.
In questi due testi è già racchiuso il problema dell'uguaglianza e della differenza tra i sessi, o, se si vuole, dell'uguaglianza nella (e non nonostante la) differenza, o ancora, della ‛bisessuazione' sia dell'essere umano che del cittadino (v. Gerhard, 1993).
La formulazione dettagliata di una dichiarazione dei diritti della donna, se è certamente motivata dal fatto empirico (e rivelatore) della loro non inclusione nei diritti dell'uomo e del cittadino, parte infatti dall'affermazione delle donne come soggetti distinti, così come distinti sono gli uomini. ‟Il sesso superiore sia in bellezza che in coraggio, nelle sofferenze della maternità": così definisce le donne la de Gouges nel preambolo alla Déclaration; e nell'art. 11 afferma che ‟scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili della donna e dell'uomo: questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e soprattutto la resistenza all'oppressione". Analogamente, Mary Wollstonecraft accompagna la propria difesa dei diritti ‛uguali' delle donne con l'affermazione della loro differenza rispetto agli uomini (o di questi rispetto a loro) in quanto madri. In altri termini, è ben chiaro a queste autrici che se il diritto alla parola, alla rappresentanza e al potere deve essere uguale, donne e uomini non sono del tutto identici tra loro.
Il destino di Olympe de Gouges, che si vide negato il diritto alla parola ma non quello alla ghigliottina, la derisione con cui venne accolta la Vindication of the rights of women da parte di quegli stessi intellettuali che avevano accolto favorevolmente il testo al maschile, il silenzio sulle richieste delle giacobine italiane che si videro consegnate dal Codice napoleonico, come le francesi, alla subordinazione nella famiglia oltre che nella società, tramite l'istituto dell'autorizzazione maritale: tutti questi fenomeni mostrano quanto parziale fosse l'universalismo su cui si stavano fondando - a opera degli illuministi, dei riformatori e anche dei legislatori di fine secolo - lo Stato e la cultura moderni. Al punto da non riconoscere, a partire da un maschile assunto come neutro universale, l'assunzione e la rivendicazione di un autentico universalismo da parte delle donne, il cui sesso veniva viceversa naturalizzato insieme nella specificità-parzialità e nella differenza-inferiorità .
Per lo stesso motivo, d'altra parte, il femminismo, anzitutto come movimento politico che si interroga e interroga la società sullo statuto assegnato alle donne, dalla Rivoluzione francese in poi sale alla ribalta in tutte le nazioni moderne e contemporanee ogni volta che queste sono costrette in modo più o meno violento, più o meno esplicito, a verificare e rivedere i propri fondamenti etico-politici e in particolare a misurarsi appunto con le questioni dell'uguaglianza (di chi, rispetto a che cosa), dei diritti e della cittadinanza (chi vi ha accesso, chi ne è escluso). Ciò vale in Occidente per le lotte per l'indipendenza da cui sono nati molti Stati nazionali tra Otto e Novecento, per i movimenti abolizionisti contro la schiavitù, che tanta parte ebbero nella formazione del primo femminismo statunitense, fino all'obbligato confronto con il femminismo - per quanto parziale e anche riduttivo - nell'ambito della Rivoluzione sovietica. Si pensi anche a modifiche meno vistosamente politiche, ma certo non meno incisive sul piano degli assetti sociali e delle identità personali e collettive, quali l'industrializzazione e l'urbanizzazione. Queste, mentre modificavano i modi di vita quotidiana, sconvolgevano la tradizionale divisione sessuale del lavoro e le identità sociali maschili e femminili a essa connesse, rendendone appunto visibile la non naturalità. O ancora si pensi alla diffusione della scolarità, soprattutto nel secondo dopoguerra, che aprì alle ragazze spazi di esperienza comuni ai ragazzi e non rigidamente definiti in termini di contenuto e di destino di genere, favorendo nuove aspettative e nuovi percorsi per la vita adulta; oppure al più recente sviluppo di una società dei servizi, con i suoi effetti sulla divisione sessuale del lavoro, sui modi di definire ciò che è maschile e ciò che è femminile, dentro e fuori la famiglia, e sulla struttura di genere specifica delle società contemporanee sviluppate. Non a caso questi ultimi due fenomeni - diffusione della scolarità femminile e sviluppo dei servizi - sono indicati tra gli elementi cruciali per l'emergere del femminismo nelle società occidentali degli anni settanta (v. Ergas, 1986; v. Bimbi, 1985; v. Chafetz e Dworkin, l986).
In questa prospettiva non sorprende che la critica - teorica e politica - femminista si sviluppi anche in relazione alle forme di organizzazioni sovranazionali e anche di cittadinanza sovranazionale che si sono venute creando negli ultimi anni: come denuncia di un concetto e pratica della cittadinanza che ancora una volta censurano gli squilibri di potere e di risorse tra gli uomini e le donne, e come denuncia del monopolio maschile nei processi decisionali rilevanti (per una ‛critica di genere' all'Unione Europea v., ad esempio, Meehan, 1993).
L'autoriflessione e la denuncia delle donne sulla propria condizione e sui rapporti di potere tra i sessi non riguarda solo le società occidentali. Al contrario, la messa in questione della disuguaglianza tra i sessi e della oppressione delle donne stanno divenendo questioni cruciali, con effetti anche drammatici per la vita delle persone, nei paesi ex coloniali o in via di sviluppo. Le riflessioni e forme di organizzazione e resistenza delle donne che in questi diversi contesti si sviluppano - così come le reazioni che provocano da parte dei gruppi dominanti - costituiscono un indicatore forte di quanto le definizioni e rapporti di genere, e più specificamente i compiti e la collocazione assegnati alle donne, facciano parte dei processi di costruzione degli assetti sociali e delle stesse identità etniche o nazionali (v. ad esempio Mernissi, 1983; v. Hélie-Lucas, 1996). Allo stesso tempo segnalano quanto storicamente e culturalmente specifico sia il femminismo (o i femminismi) così come si è sviluppato, appunto, nell'Occidente democratico e industriale (v. Piccone Stella e Saraceno, 1996; v. Sylvester, 1995).
Proprio perché interroga la società nei suoi fondamenti, il femminismo è stato ed è percepito, a livello politico e culturale, dagli uomini ma anche da molte donne, come un pericolo sociale da reprimere (come nel caso del conflitto tra Stato e movimento per il suffragio in Inghilterra a cavallo del secolo), o da controllare: vuoi riducendo la portata dei problemi che pone a una questione sociale particolare e circoscritta (appunto la questione femminile, a sua volta ridotta a questione di voto o di lavoro), vuoi favorendo l'emergere di aggregazioni femminili che forniscano un modello femminile e una pratica alternativa a quella temuta del femminismo, e contemporaneamente incanalando le esigenze di cambiamento di cui questo è se non altro indice. Entrambe queste strategie sono state presenti nei paesi occidentali a partire dalla fine dell'Ottocento, coinvolgendo non solo i governi, ma anche le Chiese e gli stessi partiti di opposizione. La creazione di un associazionismo cattolico femminile, ad esempio, fu esplicitamente favorita dalla Chiesa, nonostante la sua preferenza per una dimensione esclusivamente familiare dell'identità e dell'esperienza femminili, per contrastare il diffondersi di associazioni e gruppi femministi nel periodo a cavallo del secolo (v. Di Cori, 1979). All'estremo opposto dello spettro politico e culturale, nella stessa epoca, così come nei decenni successivi, il dibattito sul femminismo e, più limitatamente, sul posto da assegnare alla questione femminile nei progetti di pur radicale cambiamento sociale e politico, emerge continuamente all'interno del movimento operaio e nelle teorie socialiste e marxiste (per una sintetica rassegna v. Merfeld, 1972). Esso ha prodotto anche aspri conflitti tra donne e uomini entro il movimento operaio e nei partiti socialista e comunista, di cui è esemplare il severo richiamo di Lenin alle donne comuniste, in pieno processo rivoluzionario, a rispettare la gerarchia delle priorità e, contemporaneamente, la sua riduzione della questione femminile a questione di accesso al lavoro.
Individuare i vari momenti di transizione e il tipo di possibilità che hanno offerto allo svilupparsi di una visione critica delle donne, e di loro forme organizzative, sarebbe troppo lungo e richiederebbe anche analisi particolareggiate dei diversi casi nazionali. Ciò che interessa qui rilevare è che il femminismo come movimento politico e insieme come discorso teorico sembra costituire il contrappunto, ora più visibile, ora meno, dello sviluppo delle società moderne e contemporanee e delle loro forme di autocoscienza e di autorappresentazione. È proprio nei momenti di transizione e di più evidente mutamento sociale che i modi di regolazione sociale, e le istituzioni che ne derivano, appaiono più visibili, meno ovvi e perciò più fragili. Per tali ragioni la questione dello statuto teorico e sociale della donna e della disuguaglianza tra i sessi può venire più facilmente tematizzata.
Dato che i modi in cui viene definita l'appartenenza di sesso non sono identici da una società all'altra e da un periodo all'altro, e non hanno neppure le stesse conseguenze per tutti i gruppi sociali, gli elementi che emergono con maggiore visibilità e che sono tematizzati come prioritari sono diversi a seconda delle circostanze. Parte della diversificazione interna al femminismo, soprattutto a livello politico, deriva dalla specifica collocazione sociale e storica delle donne dalla cui esperienza esso si sviluppa, e perciò da esperienze diverse dell'essere donna.
Esemplare da questo punto di vista è la divergenza interna al femminismo a cavallo del secolo sulla priorità da attribuire alla lotta per il diritto di voto. In questa divergenza non si scontravano soltanto valutazioni diverse relative all'efficacia dell'esercizio del voto, e concezioni diverse sia dell'uguaglianza che della differenza femminile: non si deve dimenticare infatti che una parte consistente dei movimenti delle donne in Occidente in quegli anni ha rivendicato il diritto al voto e alla partecipazione alla politica in nome non tanto dell'uguaglianza, quanto dello specifico ruolo e delle capacità materne delle donne (v. ad esempio Buttafuoco, 1988; v. Offen, 1988). Si scontravano anche interessi di classe e persino di nazionalità differenti. Così in Italia un'emancipazionista pur vicina al movimento socialista come Anna Maria Mozzoni sottolineava il principio dell'uguaglianza politica e giuridica dei sessi a parità di condizioni sociali (quindi in base al censo, nell'Italia del tempo), per evitare una definizione a priori, e di parte maschile, della differenza femminile (v. Mozzoni, 1975); viceversa una socialista come la Kuliscioff, pur consapevole dell'esistenza di rapporti di potere squilibrati tra i sessi (v. Kuliscioff, 1890), riteneva di secondaria importanza la battaglia per il voto alle donne in un paese in cui le profonde disuguaglianze sociali lo negavano anche ad ampie fasce di uomini e in cui le donne appartenenti alla classe operaia avevano altri e più urgenti bisogni (sul dibattito tra Mozzoni e Kuliscioff, v. Pieroni Bortolotti, 1963; v. Ravaioli, 1974). In Inghilterra e negli Stati Uniti questo tipo di divergenze si incrociò anche con motivazioni di ordine nazionalistico, allorché alcune femministe, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, sostennero l'opportunità del voto alle donne (rispettivamente inglesi e statunitensi) per far fronte alle ondate migratorie che rischiavano d'inserire nei diritti di cittadinanza politica, e quindi nei processi decisionali riguardanti l'organizzazione sociale, le masse (maschili) degli immigrati.
Analoghi conflitti si svilupparono in molti paesi attorno alle leggi di protezione, relative alla riduzione dell'orario di lavoro per le donne e al divieto d'impiegarle in lavori notturni e sottoterra. In questo caso, tuttavia, leggere le diverse posizioni come semplici espressioni d'interessi di classe e di ceto sarebbe ancora più limitativo. Al contrario, il dibattito attorno alle leggi di protezione è esemplare del nodo di problemi teorici, oltre che pratici, implicati nel femminismo, e sussunti nella coppia concettuale uguaglianza/differenza. Da un lato, infatti, coloro che sostenevano la necessità di una speciale regolamentazione del lavoro femminile avevano in mente non solo la condizione di sovraffaticamento di fatto delle donne operaie, strette tra i lunghi orari di lavoro in condizioni fisicamente pesanti e le responsabilità connesse al lavoro e alle cure familiari loro affidate, ma anche il valore di queste stesse cure, insieme ai costi derivanti al corpo femminile da un lavoro che lo violentava. Dall'altro lato, coloro che erano contrarie a ogni regolamentazione speciale, non solo avevano in mente la diversa situazione delle donne dei ceti medi, che desideravano accedere a un lavoro decente e non discriminato, ma rifiutavano anche di accogliere una definizione a priori della differenza femminile che si sarebbe facilmente (come del resto avvenne) tradotta in subalternità ed emarginazione, senza riuscire effettivamente a proteggere le donne dallo sfruttamento (per il primo dibattito in Italia, v. Galoppini, 1980). Diverso era certo il modello maschile cui ci si riferiva come parametro rispetto al quale misurare ciò che si desiderava per le donne: il lavoro duro, gli orari lunghi, l'impossibilità di avere tempo per la cura e l'educazione dei figli in un caso, le possibilità d'istruzione e di carriera, un certo prestigio sociale nell'altro. Tuttavia nelle due posizioni è espresso il dilemma tra un'uguaglianza intesa come omogeneità all'uomo, a costo di sacrificare il corpo e l'esperienza femminile, anzitutto come corpo ed esperienza materni, e una differenza che, mentre definiva le donne in primo luogo come madri, le poneva tutte come uguali tra loro per desideri e capacità, definendole contemporaneamente come meno capaci e subalterne all'uomo.
Le due posizioni non esprimono tanto due scelte radicalmente opposte, al di là di situazioni individuali, quanto due diverse strategie di superamento del dilemma stesso: in nome di diverse priorità, ma anche di una differente valutazione della specificità femminile. Chi, su questo come su altri temi, mirava anzitutto a salvaguardare il valore dell'esperienza materna, in quanto esperienza di corpo e di relazione, l'assumeva come principio a partire dal quale chiedere diritti in positivo per le donne. Quindi non solo o non tanto protezione, quanto garanzia di salvaguardia di questa esperienza, incluso il pagamento per l'assenza dal lavoro durante la gravidanza e il parto e l'aiuto dello Stato nell'accertamento di paternità nel caso delle madri nubili. È questa una posizione che trova consensi in molti settori di quel femminismo che talvolta è stato definito ‛sociale' - attento ai problemi della quotidianità, soprattutto per le donne meno privilegiate - che s'ispirava alle ideologie più diverse, dal socialismo umanitario al cristianesimo.
Viceversa, coloro che insistevano sull'uguaglianza di diritti tra i sessi non miravano a negare una diversità di esperienza, né tanto meno dell'esperienza materna (anche se alcune di loro rifiutavano l'identificazione della donna tout court con la madre e quindi il riferimento a questa dimensione nei suoi diritti fondamentali), ma negavano la specificità femminile come presupposto per l'esclusione dai diritti maschili di cittadinanza, libertà, lavoro, remunerazione adeguata; e vedevano, al contrario, l'accesso a questi stessi diritti come punto di partenza e risorsa per affermare eventualmente l'autonomia dell'esperienza femminile.
Questo intreccio, peraltro niente affatto scontato nei suoi esiti teorici e pratici, tra appartenenza sociale - di classe, cultura, razza, etnia - forme di tematizzazione dell'esperienza femminile e definizione delle priorità, si è ripresentato anche nel femminismo di questa seconda metà del secolo, nel dibattito tra donne bianche e nere, tra donne occidentali e donne dei paesi in via di sviluppo, tra richieste di parità e denunce dei disagi della parità e dell'uguaglianza, tra progetti di pari opportunità e rifiuti di omologazione all'esistente, tra richieste di modifiche istituzionali e legislative e rifiuto di farsi mediare da apparati giuridici e politici pensati e costruiti a prescindere da, se non contro, l'esperienza femminile.
4. Uguaglianza e differenza
A parere di alcune studiose (v. Offen, 1988; v. Beccalli, 1989; v. Bonacchi e Groppi, 1993) il dilemma tra uguaglianza e differenza ha caratterizzato l'intera storia del femminismo, in un'oscillazione irrisolta, ancorché fortemente conflittuale, tra rivendicazioni di uguaglianza e affermazioni di differenza, tra la richiesta di ‛diritti uguali' (agli uomini) e quella di ‛diritti delle donne'. Tale dilemma rappresenterebbe non solo posizioni politiche storicamente forti e irriducibili l'una all'altra, ma due posizioni teoriche insieme divergenti e ineludibili: rischiose nella loro parzialità, ma altrettanto se non più rischiose se trascurate l'una per l'altra. La storia più o meno recente lo testimonia ripetutamente, allorché l'affermazione della differenza si risolve in emarginazione politica e sociale, o viceversa allorché l'affermazione dell'uguaglianza costringe le donne a comportamenti e attese sviluppati a partire dall'esperienza maschile - dagli orari di lavoro, ai ritmi delle carriere, fino alla sessualità.
Apparterrebbero al polo dell'uguaglianza tutte le posizioni che rivendicano uguali diritti e negano la possibilità di attribuire a priori alle donne non solo responsabilità, ma capacità e desideri diversi dagli uomini, e che attribuiscono ogni differenza nelle capacità e nelle aspirazioni agli effetti della divisione sessuale del lavoro da un lato, e dei processi di socializzazione dall'altro. ‟Donne si diventa", scriveva ancora negli anni quaranta Simone de Beauvoir (v., 1949). Chi insiste sull'uguaglianza nega soprattutto che le differenze biologiche tra i sessi possano costituire un principio di differenziazione sociale a priori. Viceversa, apparterrebbero al polo della differenza coloro per le quali il dimorfismo sessuale produce mondi culturali, capacità psichiche, sistemi di simbolizzazione totalmente distinti - sia che questi vengano radicati nell'esperienza materna, secondo una tradizione che parte dall'Ottocento e viene ripresa e aggiornata da alcune femministe contemporanee che parlano di ‟pensiero materno", come Susan Ruddick (v., 1980), sia che vengano invece radicati nella sessualità, come in modo diverso, accentuandone vuoi gli aspetti biologici, vuoi quelli psichici, sostengono Adrienne Rich (v., 1976), Mary Daly (v., 1978), le femministe francesi del gruppo Psychoanalyse et Politique, Luce Irigaray (v., 1974, 1977 e 1984). Queste teoriche rivendicano per le donne la possibilità di esprimere con piena legittimità e autonomia la propria cultura come irriducibile e assolutamente distinta da quella maschile (analogamente fondata sulla differenza sessuale).
La prima posizione viene criticata dalle sostenitrici della seconda come puramente emancipativa, mirante a inserire le donne nel mondo degli uomini, quindi a forzarle in modi di essere e di pensare a loro estranei, se non ostili, mentre non attribuisce nessun significato alle differenze dei corpi e delle esperienze che da queste derivano: impedendo con ciò l'effettiva costruzione di un soggetto femminile e di un mondo che ne porti il segno. Viceversa, la seconda viene criticata come sostanzialmente essenzialista, se non biologistica e astorica. Le si imputa anche di rovesciare in positivo, definendoli come tratti originalmente femminili, gli effetti di una divisione del lavoro e del potere segnata dal predominio maschile.
Nel dibattito recente la questione uguaglianza/differenza - e quella connessa di che cosa sia la donna, se sia cioè possibile parlare della ‛donna' e non solo delle donne - sembra tuttavia essersi spostata o ridefinita. Il femminismo contemporaneo infatti, quello sviluppatosi nel mondo occidentale a partire dagli anni settanta, è nato come critica a un'emancipazione ancora largamente vincolata e carente, e insieme come critica al modello emancipativo stesso. Le parole d'ordine erano quelle della ‛liberazione', non della ‛emancipazione' della donna, e il modello maschile veniva negato come valore, a partire dalla riflessione sui costi dell'oppressione della donna, ma anche della repressione di bisogni e di desideri, che esso imponeva.
Là dove il terreno dei rischi dell'uguaglianza è stato ampiamente esplorato, sia teoricamente che praticamente, insieme con la difficoltà di ottenerla, la riflessione e il dibattito si sono spostati sul significato della differenza; cioè la questione si è spostata sempre più dal terreno dei diritti da rivendicare a quello della definizione del soggetto di questi diritti - la donna appunto. Paradossalmente, man mano che le donne vanno facendosi sempre più visibili nelle società dell'emancipazione parzialmente realizzata, il loro statuto teorico (non messo in dubbio neppure dalle più liberali delle emancipazioniste di un tempo) non appare più ovvio, scontato. Tutto questo è un esito del lavoro di analisi teorica e di costruzione politica operato dal femminismo. Nella misura in cui esistono politiche di donne, aggregazioni di donne, teorie di donne, infatti, ci si interroga su che cosa sia la donna, quale sia - se ci sia - un soggetto donna, un femminile, al di là, o al di sotto, delle donne empiricamente esistenti, che costituisca l'orizzonte della loro identificazione non solo politica, ma anche simbolica (ovviamente, analoga domanda potrebbe essere formulata in teoria anche per il sesso maschile: ma non essendo mai state messe in dubbio esistenza e legittimazione di quest'ultimo a fondare mondi di significato e strategie pratico-politiche, essa appare storicamente improponibile).
Per questa domanda, accanto alla risposta essenzialista ne esistono almeno altre tre. La prima, identificabile in quella che in Italia è nota come teoria della differenza sessuale (v. AA.VV., Diotima..., 1987), pone l'essere corpo sessuato come dato originario di ogni processo di significazione. La differenza sessuale consisterebbe nel passaggio dalla realtà biologica - del corpo sessuato femminile - alla dimensione simbolica, di cui le donne si devono appropriare al di fuori della mediazione maschile. Se all'origine il soggetto è duplice, anziché uno, ne discende che le donne, dopo aver denunciato la propria estraneità al mondo dell'uno-neutro-maschile (‟una società di estranee", scriveva già Virginia Woolf in Le tre ghinee), devono passare alla costruzione di una società di donne. Benché questa teoria abbia in comune con quella essenzialista il radicamento nella biologia, nel corpo (e sia fortemente influenzata dalle teorie di Irigaray, peraltro molto complesse e non riducibili al puro essenzialismo), tuttavia non ne deriva un particolare contenuto della femminilità; ovvero, non viene postulato che tutte le donne siano sostanzialmente simili. Al contrario, si pone l'accesso al simbolico da parte delle donne tramite la mediazione di altre donne come condizione del loro accesso alle differenze. Da questa posizione vengono anche le critiche più forti nei confronti non solo delle strategie, ma del concetto stesso di uguaglianza (v. Cavarero, 1989).
La seconda risposta si situa quasi al polo opposto. Rilevando come ogni concetto e ogni discorso siano socialmente costruiti, le femministe post-strutturaliste (v. Kristeva, 1980; v. Flax, 1987) non solo mostrano come il concetto di donna e la polarità maschile/femminile siano stati costruiti nei diversi discorsi e contesti, ma evidenziano anche l'impossibilità di una costruzione ‛in positivo' del soggetto donna. La differenza scompare nelle mille differenze individuali e nel continuo processo di costruzione-decostruzione che scompone l'apparente unitarietà dell'esperienza e dei discorsi.
Una terza risposta - presente tra alcune post-strutturaliste, soprattutto storiche (v. Scott, 1988; v. Chevigny e altri, 1989) ma anche filosofe (v. De Lauretis, 1984), e forse più affine alla riflessione sociologica (v. Piccone Stella e Saraceno, 1996) - mentre mostra come femminile e maschile siano storicamente e socialmente costruiti entro precisi rapporti di potere (che perciò non sono solo ‛discorsi', o ‛testi', ma strutture di rapporti), non nega che esistano differenze di sesso nei modi di agire e di pensare, ma le contestualizza nello spazio e nel tempo, senza assolutizzarne l'origine nella biologia, sia pur mediata simbolicamente. Da questo punto di vista, anche l'esistenza non solo in negativo di un soggetto donna è possibile come esito di una pratica politica e autoriflessiva storicamente situata, e quindi insieme parziale e locale.
Anche in seguito a queste riflessioni sul concetto di differenza, recentemente alcune studiose (v. ad esempio Scott, 1988) hanno suggerito che si debba rivedere l'intera vicenda del femminismo come oscillazione tra uguaglianza e differenza. In tal modo si darebbe conto non solo della complessità del fenomeno a livello politico, ma dello sforzo teorico che ha, più o meno esplicitamente, caratterizzato il femminismo lungo tutta la sua storia. Più che il dilemma tra uguaglianza e differenza, secondo questa interpretazione, le diverse posizioni teoriche e politiche espresse dal femminismo testimonierebbero i tentativi di esplicitare e articolare, oltre che di risolvere praticamente, il ‛dilemma della differenza'.
Infatti ‛la differenza' costituisce al contempo il luogo da cui le donne partono per definire la propria collocazione nel mondo e il primo oggetto del loro lavoro di critica, o di decostruzione (nella misura in cui esse rifiutano i modi dominanti di definirla). Insomma, sia che la si ignori, sia che viceversa la si tematizzi, la differenza rischia sempre di essere ricreata.
Per uscire da questo dilemma (che peraltro riguarda anche altre differenze, ad esempio quelle di razza o di etnia) occorre non tanto opporre differenza a uguaglianza, e strategie della differenza a strategie dell'uguaglianza, quanto pensare diversamente i due termini di questa apparente dicotomia, e la loro relazione, a partire da un'analisi critica di come i due termini sono costruiti.
L'alternativa tra uguaglianza e differenza, la loro radicale opposizione, è in effetti una costruzione sociale, prima che simbolica, che dovrebbe essere decostruita politicamente e culturalmente da quanti hanno interesse per le differenze. Essa corrisponde a rapporti di potere in cui chi predomina definisce gli standard - letteralmente l'identità a se stesso definito come intero - collocando chi non è identico nella parzialità, nell'incompletezza. L'assorbimento del concetto di uguaglianza in quello d'identità, unicità, omogeneità (che anche talune femministe sembrano accogliere come unico significato di questo termine), in effetti cancella e stravolge l'origine storica di questo concetto e la sua stretta interdipendenza con quello di differenza. La questione allora non è se l'uguaglianza neghi o censuri le differenze, bensì come sono costruiti gli obiettivi rispetto ai quali gli individui - nel nostro caso gli uomini e le donne - sono considerati uguali, come sono fornite le risorse - legali, ma anche sociali - per questa uguaglianza e, infine, quali sono i criteri e gli scopi per cui vengono fatte valere le differenze.
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