Movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne; in senso più generale, insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una collocazione sociale paritaria in quella pubblica.
Una prima fase delle rivendicazioni femminili ebbe inizio nel 17° sec., come reazione a una cultura misogina profondamente influenzata dalle teorie aristoteliche sull’inferiorità biologica femminile. L. Marinelli, in La nobiltà e l’eccellenza delle donne (1601), e M. de Gournay nell’Egalité des hommes et des femmes, sostennero la fondamentale uguaglianza tra i due sessi, le cui differenze ‘naturali’ erano invece frutto di una diversa istruzione. Nello stesso secolo M. Fonte e A. Tarabotti denunciarono la completa soggezione delle donne nei confronti dell’uomo e della società da esso concepita. L’Illuminismo favorì la discussione sull’istruzione femminile e durante la Rivoluzione francese iniziò la partecipazione delle donne a movimenti politici. Nella seconda metà dell’Ottocento il f. si sviluppò come movimento di emancipazione per ottenere la parità giuridica, estendendosi all’Europa dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra. Nel 1865 sorse a Manchester il primo comitato per il suffragio femminile e, nel 1903, E. Pankhurst fondò la Women’s social and political union, le cui aderenti furono chiamate dagli avversari suffragette. La situazione della donna contrastava con i principi di una società liberale e industriale, che richiedeva anche la partecipazione attiva delle donne. Il pensatore inglese J.S. Mill (On the subjection of women, 1869) sostenne che il grado di elevazione delle donne era un sintomo della civiltà di una nazione e rivendicò la parità di diritti civili e politici con il sesso maschile e l’ammissione delle donne a tutte le funzioni e occupazioni. L’elaborazione socialista della questione femminile venne formulata da A.F. Bebel (Die Frau und der Sozialismus, 1883). Le campagne di emancipazione, alle quali parteciparono numerose intellettuali, non ebbero tuttavia i risultati sperati: le suffragette, derise dalla borghesia conservatrice, giudicate borghesi dai socialisti e pericolose dai cattolici, rimasero politicamente isolate.
In Italia già nei primi anni dopo l’Unità, il deputato della Sinistra S. Morelli si fece promotore di una serie di proposte di legge per l’emancipazione e l’istruzione femminile, per la revisione dei codici, per la concessione dei diritti civili e politici e l’introduzione del divorzio; l’unica approvata dal Parlamento (1877) fu quella che consentiva alle donne di testimoniare negli atti pubblici e privati. Più tardi la riforma elettorale di G. Giolitti (1912) escluse dal voto le donne insieme ai minorenni, ai condannati e ai dementi. Notevole fu il contributo (1864-1920) di A.M. Mozzoni, secondo cui la donna doveva essere considerata nel suo rapporto con la società e non solo nella famiglia. Particolarmente sensibile ai problemi della donna lavoratrice fu A. Kuliscioff che con la sua azione e i suoi scritti tenne viva la questione femminile nel Partito socialista italiano.
Il primo paese in cui le donne ottennero il diritto al voto fu l’Australia (1902). In Europa la strada fu aperta dalla Finlandia e dalla Norvegia (1906 e 1907), seguite tra il 1915 e il 1922 da altri 17 paesi nel mondo, tra cui gli Stati Uniti. Nel 1931 fu la volta del Portogallo e della Spagna. In Francia il suffragio femminile fu introdotto nel 1944, in Italia un anno dopo, in Grecia nel 1952, in Svizzera solo nel 1971. Nel campo dell’istruzione il processo di parificazione fu ancora più lento e faticoso. In Francia la parità dell’istruzione secondaria femminile e maschile fu sancita nel 1924. In Inghilterra le università si aprirono alle donne verso la metà dell’Ottocento, ma le facoltà di medicina e di giurisprudenza le esclusero ancora per lungo tempo; anche quando le donne riuscirono a ottenere l’ingresso nelle università, non furono ammesse agli albi professionali. In Italia la professione di giudice è stata accessibile alle donne solo dal 1963.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il dibattito sulla condizione femminile riprese vigore, nel momento in cui le donne conquistavano il voto e in cui sembravano cadere i più vistosi divieti legali. S. de Beauvoir in Le deuxième sexe (1949) rintracciò le radici profonde dell’oppressione femminile, denunciando come il rapporto con la natura e la cultura della donna sia comunque mediato dall’uomo. Per lo sviluppo delle idee femministe fondamentale fu l’apporto di un gruppo di teoriche americane: B. Friedan, in The feminine mystique (1963), analizzò i nuovi caratteri dell’oppressione della donna nella società industriale, il contrasto tra la sua capacità e le mansioni svolte. K. Millet scoprì nel matriarcato la base di ogni potere (Sexual politics, 1970) e S. Firestone (The dialectic of sex, 1970) auspicò una rivoluzione femminista capace non solo di mettere in discussione tutta la cultura occidentale, ma anche di modificare l’organizzazione della natura stessa. Sull’onda della contestazione giovanile del 1968 queste idee si diffusero dall’America all’Europa, imponendosi all’attenzione con gesti clamorosi e provocatori. Ovunque sorsero centri femminili che organizzarono programmi di assistenza sociale, per esempio per la tutela delle donne vittime di violenza. Tra le battaglie più importanti del movimento femminista vi fu quella per la legalizzazione dell’aborto.
Con il sopravvenire della crisi economica e del terrorismo, verso la fine degli anni 1970 il f. cessò di esistere come movimento ed entrò in una fase diversa. Gli elementi che ne avevano determinato lo sviluppo, la mancanza di organizzazione e di leader e la pluralità, spesso conflittuale, delle varie posizioni si rivelarono inadatti ad assicurarne la permanenza in un periodo di grave crisi. Tuttavia, le idee femministe erano in qualche modo penetrate, sia pure a volte modificate, in alcuni partiti, nei sindacati, nei mass media e in genere nella mentalità delle donne politicizzate e inserite nelle istituzioni. Vi fu un ripensamento critico di alcune posizioni (l’opposizione sistematica e radicale nei confronti delle istituzioni, l’estraneità nei confronti della politica e la critica della famiglia) e si richiese che le istituzioni, sia economiche sia sociali e politiche, fossero caratterizzate da una maggiore presenza femminile e dal riconoscimento delle esigenze e aspirazioni femminili. Il dibattito si spostò quindi prevalentemente in ambito istituzionale, ma anche al di fuori di esso, a partire dalla fine degli anni 1980, furono affrontate questioni come la violenza sulle donne, il maltrattamento e le molestie sessuali, con la costituzione di gruppi antiviolenza e case per le donne maltrattate. In anni più recenti il diffondersi delle tecnologie per la procreazione (biogenetica, inseminazione artificiale) ha posto al movimento femminista internazionale ulteriori momenti di riflessione.
Il sussistere di innegabili disuguaglianze ha di fatto messo in luce l’insufficienza del riconoscimento dell’uguaglianza puramente formale e ha indotto le istituzioni governative a intraprendere programmi d’azione e politiche per le pari opportunità tra donne e uomini. Le due principali strategie di quello che è stato chiamato ‘femminismo di Stato’, il mainstreaming e l’empowerment, sono state definite nella Conferenza di Pechino del 1995, indetta dall’ONU. Il primo mira a produrre una profonda trasformazione nella cultura di governo, inserendo la prospettiva di genere nella ‘corrente principale’, cioè all’interno di tutti i problemi rilevanti, come la qualità dello sviluppo e le grandi riforme sociali. Il secondo prevede l’attribuzione di maggiore potere alle donne rimuovendo gli ostacoli alla loro attiva partecipazione a tutte le sfere della vita pubblica e privata. Strumento di queste strategie sono le ‘azioni positive’, misure concrete adottate per accelerare l’instaurazione dell’uguaglianza di fatto tra i generi. In particolare, la persistente marginalità della presenza femminile nei parlamenti e nelle cariche pubbliche ha indotto a proporre l’adozione di azioni positive per raggiungere una pari rappresentanza di donne e di uomini in tutte le cariche governative. A tal fine si richiede una riforma dei meccanismi elettorali per integrare le donne nelle cariche pubbliche in proporzioni uguali e agli stessi livelli degli uomini. In Italia nel 2003 è stata approvata una modifica dell’art. 51 della Costituzione per legittimare tutti i provvedimenti finalizzati a garantire la partecipazione paritaria di uomini e donne alle cariche elettive, in esito alla quale sono stati avviati interventi per la promozione delle pari opportunità quali il Codice per le pari opportunità (d. legisl. 11 aprile 2006, n.198) e la normativa sulle quote di genere, tra cui la l. n. 120/2011 (che ha introdotto regole volte ad assicurare e incrementare la rappresentatività femminile nella composizione degli organi di amministrazione e controllo delle società con azioni quotate e delle società a controllo pubblico, imponendo che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei componenti di ciascun organo) e la l. n. 215/2012 (che ha promosso il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali) e la legge n. 165/2017 (che prevede prescrizioni nella presentazione delle candidature volte ad assicurare l’equilibrio di genere nella rappresentanza politica). L’importanza delle questioni relative alla parità di genere è stata ribadita in Italia nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) approvato nel luglio 2021 dalla Commissione europea, che prevede investimenti diretti a favorire l’occupazione femminile e stanziamenti, volti a ridurre gli ostacoli alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, mentre nel 2022, decidendo sulla propria ordinanza di autoremissione n.18/2021 con cui aveva ritenuto pregiudiziale valutare la costituzionalità della regola di assegnare al figlio il solo paterno cognome paterno (condannata nel 2014 dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e dichiarata incostituzionale in presenza di una diversa volontà dei genitori già nel 2016), la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima tale regola, stabilendo che il figlio assuma il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano di comune accordo di disporre diversamente.