FENICI (gr. Φοίνικες, Φοινίκιοι, lat. Phoenīces)
La costa di Siria a settentrione del promontorio del Carmelo è costituita da una stretta striscia di terra sulla quale incombono le propaggini dei monti della Galilea, della catena del Libano e dei Monti dei Nosairi, restringendo in angusti confini, e talora annullando, la superficie del suolo coltivabile. Si comprende quindi come la popolazione di questa costa abbia dovuto trarre il proprio sostentamento quasi esclusivamente dal commercio e dall'industria.
Storia. - Che fin dai tempi più antichi quel territorio della costa suddetta al quale i Greci hanno dato il nome di Fenicia sia stato abitato dall'uomo è attestato dagli avanzi preistorici che vi si sono trovati, risalenti fino all'età paleolitica (v. J. De Morgan, Préhistoire orientale, III, p. 6-11). Intorno alla pertinenza etnica di questa più antica popolazione nulla si può dire di sicuro; ma è certo che essa non era di stirpe semitica, poiché la toponomastica dell'età storica (in parte conservatasi fino ai giorni nostri) presenta alcuni nomi non semitici. Tuttavia la cosiddetta prima migrazione semitica, che nel quarto millennio a. C. occupò il retroterra della Fenicia, dovette senza dubbio spingersi fino al mare. Le più antiche testimonianze storiche che si hanno intorno a popolazioni fenicie, provengono dall'Egitto, poiché fin dalla IV dinastia sono attestate relazioni egiziane con la costa della Siria: esse erano certamente dovute alla necessità in cui si trovava l'Egitto, paese quasi interamente sprovvisto di legname da costruzione, di provvedersene sfruttando le grandiose foreste di cedri del Libano. Il commercio del legname è espressamente menzionato nella "pietra di Palermo" sotto il faraone Snefru (circa 2900 a. C.). Presso a poco nella stessa epoca la costa del Mediterraneo veniva raggiunta anche dai re di Accad (Sargon, Naramsin) e s'iniziava così, per quella regione, la funzione di transito tra la civiltà del Nilo e quelle del Tigri e dell'Eufrate funzione che doveva dare un'impronta caratteristica così alla storia politica dei Fenici come a quasi tutte le altre manifestazioni della loro civiltà.
Nel Medio e nel Nuovo impero i documenti egiziani intorno alla Fenicia vanno crescendo di numero: non solo si ha notizia di spedizioni regolari per i rifornimenti di legname, ma l'intera costa (come pure parte del retroterra) si trova alle dipendenze politiche dell'Egitto. Una caratteristica e vivace descrizione delle condizioni della Fenicia in quei tempi è data dal cosiddetto "romanzo di Sinuhe", il cui protagonista, che percorre quella regioue, è collocato nel sec. XX a. C., quand'anche, come si vuole, la redazione dell'opera sia alquanto posteriore. In quest'epoca il centro delle relazioni tra l'Egitto e la Fenicia è dato dalla città di Biblo (v.), nella quale gli scavi hanno messo in luce antiche e profonde tracce dell'influenza egiziana. Ma, nonostante quest'influenza, i Fenici conservano una propria fisionomia etnica e culturale; i nomi dei loro principi, che cominciano ad essere attestati, sono in gran parte semitici o, se tali non sono, presentano aspetto hittitico e mitannico, in relazione con la discesa di queste popolazioni verso mezzogiomo e all'occupazione da parte di esse di numerose città, senza che il carattere nazionale della popolazione ne fosse gran che alterato.
Anche un'altra civiltà, tuttavia, cominciava a far sentire il proprio influsso sulla costa fenicia: quella egea o minoica. Il centro di diffusione di questa civiltà, attestata, fra l'altro, da numerosissimi avanzi ceramici, sembra che si possa considerare rivelato dai ritrovamenti di Rās Shamra (località situata all'estremo settentrione della costa fenicia, il cui nome semitico sembra essere stato Safūn "settentrione"), dove scavi tuttora in corso (v. la rivista Syria, 1929-1931) hanno messo in luce una civiltà di carattere composito, in cui agl'influssi mesopotamici s'intrecciano quelli egei, giunti probabilmente attraverso Cipro, situata di fronte a Rās Shamra. Una serie di documenti scritti su tavolette d'argilla, appartenenti al sec. XIV-XIII a. C., presentano una scrittura alfabetica, foggiata sul modello del sillabario cuneiforme sumero-accadico, e contengono testi di carattere amministrativo e religioso (di cui i più importanti sono ancora inediti) in lingua fenicia, della quale costituiscono la più antica testimonianza.
Presso a poco contemporanee ai testi di Rās Shamra sono le lettere di Tell el-‛Amārnah (sotto i faraoni Amenofi III e IV), dalle quali si desumono le prime notizie continuative sulla storia delle città fenicie. Dalla corrispondenza dei principi di queste col faraone loro sovrano risulta l'esistenza di numerosi staterelli autonomi - i principali sono quelli di Acca, Tiro, Sidone, Beirut, Biblo - i cui sovrani, che si trovano sotto l'autorità di un governatore egiziano, portano nomi quasi tutti semitici e la loro lingua d'uso è già quella che, poco dopo, apparirà in iscrizioni scritte in alfabeto indigeno. Questa popolazione che occupa la costa della Siria è identica a quella che si trova nel retroterra e che, con vocabolo usato sia nella Bibbia sia nelle iscrizioni fenicie, porta il nome di Kĕna‛ănim (v. canaam): sono essi i rappresentanti della cosiddetta seconda migrazione semitica, la quale in epoca imprecisata, ma certo anteriore al terzo millennio, si sovrappose allo strato della prima migrazione semitica. La terza di queste migrazioni - quella che portò in Palestina gli Ebrei e in Siria gli Aramei (v. aramei; ebrei: Storia; ebrei: Lingua) - non giunse fino alla costa, il che contribuì a differenziare i Fenici dagli Ebrei e dalle popolazioni affini ad essi.
Dalle notizie che si posseggono intormo alla costa fenicia fino agli ultimi due secoli del secondo millennio a. C. non risulta in modo esplicito che gli abitanti di essa fossero navigatori. A partire invece dalla fine del secondo millennio, le notizie intorno alla loro attività marinara sono abbondanti. Se ciò sia dovuto a semplice caso e in realtà la navigazione fenicia risalga a età più antica, oppure se essa cominci soltanto in quest'epoca, in rapporto con l'indebolimento della potenza marittima egiziana dopo l'invasione dei "popoli del mare" (secoli XIII-XII a. C.) e col crollo della talassocrazia cretese, è tuttora discusso. Un' ipotesi suggestiva, ma non ancora pienamente confermata (P. Bosch-Gimper, in Klio, XII, 1928), mette in relazione il sorgere della navigazione fenicia con la necessità di provvedersi di metalli (specialmente rame e zinco, poi anche ferro) nella penisola iberica, dopo che i rifornimenti di essi da Cipro e dall'Asia Minore furono resi difficili od anche impossibili in seguito ai perturbamenti prodotti nelle suddette regioni dall'invasione greca (del che la tradizione greca, che mette in relazione le prime colonie fenicie con la guerra di Troia, serberebbe un ricordo abbastanza esatto). Comunque sia di ciò (in particolare i sincronismi con la guerra di Troia sembrano risultato artificioso d'induzioni dei cronografi greci), tanto la testimonianza della Bibbia (in particolare gli accenni nella "benedizione di Giacobbe", Gen., XLIX, 13, vedi ebrei: Storia, XIII, pag. 334 e le notizie sulle relazioni di David e Salomone col re di Tiro) quanto quella dei poemi omerici (i passi principali sono Iliade, XVIII, 298-9, XXIII, 739; Odissea, IV, 83-5,615-19, XIII, 272-85, XIV, 288,291, XV, 415 e segg.) presentano i Fenici quali arditi navigatori e monopolizzatori del commercio in gran parte del Mediterraneo. Le condizioni createsi in Siria alla fine del sec. XIII a. C. dopo la decadenza del Nuovo Impero egiziano promossero senza dubbio la piena indipendenza e lo sviluppo autonomo delle città fenicie.
Il nome che i Fenici portano nella Bibbia e nei passi più antichi dei poemi omerici è quello di "Sidonî", che presuppone un predominio di Sidone (v.) sulle altre città della costa; accanto a questo si trova, soltanto in greco, quello di Φοίνικες, il quale, variamente spiegato, è tuttora di etimologia oscura e non sembra essere indigeno. Tuttavia a questo predominio di Sidone era già successo, fin dal sec. XI a. C., quello di Tiro (v.), il cui re Ḥiram (forse nella pronuncia indigena Hirom, cfr. Εἴρωμος in Flavio Giuseppe) figlio del re Abiba‛al è menzionato, oltre che dalla Bibbia, da Flavio Giuseppe, che attinge alla cronaca di Menandro di Efeso, dipendente da notizie annalistiche di Tiro (a torto si sono sollevati dubbî sull'autenticità di questa derivazione), le quali costituiscono uno degli scarsi avanzi della letteratura nazionale fenicia. Dei successori di Ḥiram, che col re Ittoba‛al (Ethbaal in I, [III] Re, XVI, 31), contemporaneo di Achab (c. 887-855 a. C.), iniziano una nuova dinastia, l'ultimo re di questa, Pigmalione (circa 820-774), è il più noto: a lui si ricollega la tradizione della fondazione di Cartagine.
Certamente i Fenici (a cui le notizie dei poemi omerici attribuiscono l'importazione di prodotti lavorati, e anche il commercio degli schiavi) ebbero una parte importante nel traffico marittimo del Mediterraneo orientale, e i loro rapporti col mondo greco dovettero essere frequenti, come è dimostrato, a tacer d'altro, dall'origine sicuramente fenicia dell'alfabeto greco (v. alfabeto, II, pp. 374, 378). Ma la tradizione storiografica greca (la quale s'interessò vivamente a questo popolo straniero con cui la nazione ellenica era stata in stretta relazione fino da età remota) ha senza dubbio esagerato fantasticando di presunte fondazioni fenicie di città sul continente greco e di migrazioni di dinasti fenici in Grecia (Cadmo a Tebe, ecc.); e l'indagine storica moderna, fino a tempi abbastanza recenti, ha seguito troppo fedelmente i dati di tale tradizione, fondandosi spesso su elementi molto malsicuri, quali presunti riscontri toponomastici, paralleli del mito e del culto, ecc. (v. la bibliografia e il materiale in C. Autran, Phéniciens, Parigi 1920, le cui conclusioni sono tuttavia da accogliersi con riserva). In realtà, un vero e proprio influsso fenicio sulla civiltà greca non sembra potersi ammettere; anche se alcuni prodotti artistici dell'età di transizione tra il tardo miceneo e il geometrico si possano ritenere d'importazione fenicia, il che è contestato da molti, essi attesterebbero soltanto l'esistenza di scambî commerciali tra Grecia e Fenicia. Quanto alle influenze fenicie sul mondo greco qual è descritto nell'Odissea, nella quale una tesi paradossale vorrebbe addirittura ravvisare la parafrasi di un "portolano fenicio" (v. V. Bérard, Les Phéniciens et l'Odyssée, 2ª ed., Parigi 1927), esse sono forse da interpretarsi come influenze orientali generiche, le quali non sembra ormai possano escludersi né dalla civiltà né dalla letteratura della Grecia antichissima.
I primi traffici marittimi della Fenicia dovettero svolgersi da un lato con l'Egitto, e in essi i navigatori fenici furono successori e continuatori di quelli egiziani di cui si è detto sopra, dall'altro con Cipro, le cui relazioni con la costa siriaca risalgono ad età remotissima e in essi la civiltà micenea, e più tardi quella greca propriamente detta, vennero in intimo contatto coi Fenici e l'elemento greco e quello fenicio si sovrapposero, senza confondersi, a quello dell'antica civiltà indigena cipriota; ma a quale età precisamente si possano assegnare i primi prodotti fenici rinvenuti a Cipro non è ancora possibile accertare, anche per il carattere difficilmente individuabile dell'arte fenicia (v. appresso).
A una fase più progredita dello sviluppo marittimo dei Fenici appartengono i viaggi nell'Egeo e soprattutto quelli verso il Mediterraneo orientale, i quali ultimi contribuirono in maniera decisiva a creare la prosperità delle città fenicie. Sembra verosimile (per quanto ne manchi ogni ricordo) che la navigazione fenicia verso occidente abbia seguito le tracce di quella egiziana lungo le coste dell'Africa settentrionale; ma certamente i Fenici si spinsero più oltre di quanto avessero fatto gli Egiziani, e, costeggiando la Cirenaica e la Sirtica, raggiunsero il territorio dove fu fondata Cartagine. È incerto se Malta, la Sicilia, la Sardegna fossero raggiunte direttamente o non piuttosto, come sembra più verosimile, partendo dagli stabilimenti africani: certo è che gli stanziamenti fenici a Malta e in Sardegna appartengono ad un'età remota; come remota è la fondazione di città fenicie in Spagna, di cui forse la più antica è quella di Cadice; probabilmente prefenicia, ma entrata presto in strette relazioni coi Fenici, è la città di Tartesso (v.), la Tarshish della Bibbia, che divenne l'emporio del commercio fenicio con l'interno della Spagna e con le coste atlantiche della penisola iberica. Che invece i Fenici abbiano raggiunto le coste italiane in età anteriore a quella della colonizzazione greca è assai poco probabile.
La cronologia di queste prime colonie fenicie è quanto mai incerta: caratteristico è il fatto che esse sono tutte fondazioni di Tiro, e debbono quindi risalire all'età dell'egemonia di questa città, mentre la menzione di Tarshish fin dall'età di Hiram I presuppone una precedente navigazione lungo la costa africana. I dati cronologici della storiografia greca (risalenti quasi esclusivamente a Timeo) sono senza dubbio da accogliersi con cautela, ma, poiché sembrano sicuramente attinti alle fonti annalistiche tirie, hanno un valore non trascurabile. Si può dunque ritenere con grande probabilità che le prime colonie risalgano almeno al sec. XI a. C.
Tali colonie (v. anche colonizzazione, X, p. 831) ebbero sempre carattere di emporî e non mirarono mai di proposito alla conquista del retroterra. Situate in posizione analoga a quella delle città della madrepatria, ossia su una lingua di terra protendentesi nel mare, o all'estremità di un'insenatura, o su un'isoletta a poca distanza dalla çosta, erano facilmente accessibili dalla parte del mare e facilmente difendibili dalla parte della terra. Dovettero essere, almeno in origine, di scarsa estensione, e la loro popolazione essere adibita unicamente al traffico col retroterra, allo scarico e alla custodia delle merci. Poco o nulla è noto della loro costituzione la quale dovette modellarsi su quella della madrepatria: le sole notizie, purtroppo inquinate da particolari leggendarî, si hanno su quella di Cartagine, la cui fondazione, peraltro, ebbe origine diversa da quella delle altre colonie, essendo dovuta a un rivolgimento interno avvenuto in Tiro al tempo del re Pigmalione (per quanto i particolari della storia di Didone siano senza dubbio leggendarî e forse perfino mitologici, non vi è motivo di dubitare della veridicità sostanziale del racconto né dell'età in cui esso è collocato verso la fine del sec. IX a. C.: Cartagine era stata preceduta da altre colonie africane molto più antiche, tra cui di singolare importanza Utica; anche i cosiddetti empori sulla costa sirtica, Leptis, Ea, Sabratha, dovettero sorgere almeno fin dal sec. XI). È incerto se, oltre a Cartagine, anche altre colonie abbiano dovuto la loro origine (in modo analogo a molte colonie greche) a lotte civili che costrinsero parte della popolazione a emigrare: è più verosimile che la maggior parte di esse siano state vere e proprie fondazioni commerciali.
Una fonte importante per la storia dei Fenici a partire dal 1000 a. C. circa è costituita dagli annali dei re assiri: la politica d'espansione che questi perseguivano li portava ad assicurarsi, attraverso la Fenicia, il controllo della costa mediterranea. Già sotto Tiglath Pileser I (circa 1100 a. C.) si hanno notizie di spedizioni assire verso la costa, ma soltanto sotto Assurnazirpal (876) e Salmanassar II (860-824) si hanno liste particolareggiate di tributi che le città fenicie pagavano al re d'Assiria. Dall'insieme delle indicazioni degli annali assiri sembra risultare che l'egemonia di Tiro sulle altre città andò perdendosi attraverso il sec. IX: Sidone, Biblo, Arvad e altre città minori sembrano avere riacquistato la loro piena indipendenza (del resto è probabile che non la alienassero mai interamente neppure sotto il predominio di Tiro); più tardi alcune di esse dovettero cadere in potere del regno aramaico di Ḥamah, come risulta da notizie degli annali di Tiglath Pileser IV e di Sargon (fine del sec. VIII). Questi due re (la cui politica di assoggettamento completo dell'intero territorio compreso tra la valle dell'Eufrate e il Mediterraneo è ben nota soprattutto per le sue ripercussioni sulla storia ebraica) e il loro successore e continuatore Sennacherib (705-681) ebbero a sostenere varie ribellioni da parte delle città fenicie, di cui la meglio nota (perché ai documenti assiri si aggiunge il racconto di Flavio Giuseppe, Ant., IX, 14,2) è quella del re Lule (nella trascrizione assira, Elulaios in Flavio Giuseppe) di Sidone, che fu costretto a rifugiarsi a Cipro, da lui riconquistata di recente: anche in quest'isola, tuttavia, la potenza assira si fece sentire: sotto Asarhaddon (681-668) e Assurbanipal (668-626) sono menzionati i tributi di piccoli sovrani che regnavano a Cipro in città che conservarono il loro carattere fenicio e le loro dinastie locali fino nell'età ellenistica (Qartḥadashat = Kition, Idalion, Tamassos). Un alternarsi di ribellioni e di sottomissioni presenta la storia delle città fenicie anche nel sec. VII (notevole la distruzione di Sidone e la deportazione dei suoi abitanti nel 675), finché al dominio assiro si sostituì quello neobabilonese e nella grande lotta tra il faraone Hofra (Apries) e Nabucodonosor II (di cui, com'è noto, la caduta del regno di Giuda non è che un episodio) Tiro resistette al lungo assedio (585-573) postole dal re di Babilonia, ma finì col cadere (cfr. Ezechiele, XXIX, 18). Una lista di re, ai quali per qualche tempo sembrano essere stati sostituiti dei "giudici" (istituzione, o per lo meno denominazione, che ha il suo parallelo nell'antico Israele) è tutto quanto ci è conservato (presso Flavio Giuseppe, C. Apionem, I, 21) intorno alla storia dei Fenici fino all'età persiana.
La formazione dell'impero persiano, unificando l'Oriente e lasciando alle città fenicie una certa autonomia federativa sotto l'alto dominio persiano, favorì il commercio fenicio; ma le condizioni politiche del mondo mediterraneo non consentivano un ritorno all'antica potenza. Le colonie occidentali si erano staccate gradatamente dalla madrepatria, conservando con essa soltanto vincoli sacrali: la storia dell'espansione fenicia in quelle regioni è ormai soltanto storia cartaginese. D'altra parte l'espansione della colonizzazione greca e il vigoroso impulso che diedero così al commercio come all'influsso artistico e culturale greco in oriente le vittorie sui Persiani, valsero, da un lato, a riavvicinare in scambievoli rapporti Greci e Fenici, ma dall'altro ad abbassare questi rispetto a quelli tanto nell'importanza economica quanto in quella di produttori e propagatori di civiltà. La potente flotta fenicia (a Tiro, in quest'epoca, succede Sidone nel posto di città preminente) fu, com'è noto, valido ausiliare dei Persiani nella lotta contro la Grecia, e la stessa Cartagine non sfuggì all'influenza che la monarchia persiana tendeva a esercitare sull'intero mondo conosciuto. Ma le vittorie dei Greci imposero alla stessa Fenicia, insieme col rispetto e l'ammirazione per i trionfatori del Gran Re, l'imitazione della civiltà ellenica: ciò si può constatare specialmente nella storia d'una dinastia di Sidone nella prima metà del sec. IV a. C., della quale si hanno notizie presso scrittori greci e in iscrizioni fenicie e greche, e in cui il filellenismo si dimostrò con l'introduzione dei costumi greci e con amichevoli relazioni con Atene, la quale concesse in cambio la prossenia e l'esenzione delle tasse ai mercanti sidonî (per maggiori particolari v. sidone). L'influenza greca si manifesta in Fenicia anche con l'introduzione della moneta (a partire dalla fine del sec. V), i cui conî ci hanno conservato i nomi di alcuni re di Biblo: del resto, sulla storia politica di quest'epoca si hanno soltanto scarse notizie presso scrittori greci, o latini dipendenti da essi, dai quali apprendiamo che la Fenicia era costituita da quattro Gittà sotto re autonomi (Tiro, Sidone, Biblo, Arvad [Arados]), cui erano alla loro volta sottomesse le città minori. I re fenici di Cipro conquistarono la loro piena autonomia dalla madrepatria: uno di essi anzi, Euagora di Salamina, riuscì per qualche tempo a insignorirsi di Tiro (prima metà del sec. IV). Nel 351, in corrispondenza con l'insurrezione dell'Egitto contro la Persia sotto il faraone Nectanebo, l'intera Fenicia si ribellò, ma senza successo; tuttavia questo movimento favorì, in un certo senso, la conquista di Alessandro, a cui le città fenicie nella loro maggioranza aprirono spontaneamente le porte: sola a resistere fu Tiro, il cui memorando assedio durato sette mesi fu conchiuso con la presa della città (332).
Nell'età ellenistica la Fenicia, salvo le città di Arado e Maratho, cadde in potere dei Tolomei, che la tennero fino al 197 a. C., in cui i Seleucidi se ne impadronirono. Dovunque le dinastie reali scomparvero gradatamente (più a lungo si mantenne quella di Sidone), per far luogo a governi repubblicani, quasi sempre sotto "giudici" (Sufeti): l'inizio di tali nuove forme di governo è segnato dall'apparire, in monete e iscrizioni, di particolari ere delle singole città. Queste, pur conservando in sostanza il loro aspetto fenicio, subirono fortemente l'influsso greco, e talune cambiarono nome (così Acce trasformata in Tolemaide). A Cipro i piccoli dinasti fenici seguirono la sorte degli stati greci dell'isola, contesi fra Tolomei e Seleucidi. Il disordine sopraggiunto sotto gli ultimi Seleucidi, rendendo malsicure le comunicazioni col retroterra in cui andavano introducendosi, con devastazioni e saccheggi, le tribù arabe del deserto, contribuì alla decadenza della Fenicia. La conquista di Pompeo (64 a. C.) garantì alle città i privilegi dell'autonomia, parte dei quali furono tolti da Augusto a Tiro e Sidone in seguito a rivolte, ma la maggior parte dei quali rimase, trasformandosi gradatamente in costituzioni municipali. Se, sotto l'impero, le città fenicie continuarono a esercitare l'attività commerciale che la posizione geografica aveva loro destinato, se anzi alcune di esse, grazie alla creazione o alla riattivazione delle grandi vie di comunicazione che univano la costa di Siria da un lato, attraverso la Nabatea e l'Arabia centrale, al Yemen e all'India, dall'altro, attraverso Palmira, all'Eufrate e al Golfo Persico, conobbero periodi di grande prosperità economica, tuttavia il carattere nazionale della Fenicia andò obliterandosi attraverso un processo d'ellenizzazione e di latinizzazione da una parte, d' aramaizzazione dall'altra. L'influenza della civiltà latina fu forte soprattutto a Berito, colonia romana fin dal 14 a. C., dove l'istituzione dell'università costituì un centro di studio e di diffusione del diritto romano.
La civiltà fenicia. - La storia politica dei Fenici, come si è visto, non presenta un carattere di autonomia, ma è dipesa in gran parte da quella delle regioni circostanti, specialmente dell'Egitto e della Mesopotamia. Tuttavia il carattere delle città della costa fenicia si mantenne ben distinto e valse a conferire alla civiltà fenicia una fisionomia particolare. Essa è in sostanza la civiltà cananea, la quale peraltro, come è stato notato sopra, si sottrasse all'influsso della terza migrazione semitica, mentre d'altra parte risentì più forte che non il retroterra l'influsso delle civiltà d'oltremare (Egitto, Egeo). Purtroppo il carattere intimo di questa civiltà ci sfugge quasi interamente: le notizie che si hanno sulla Fenicia, specialmente attraverso gli scrittori classici, sono quasi sempre, nonostante la loro abbondanza, episodiche e si riferiscono a circostanze esterne, tacendo quasi per intero ciò che potrebbe dar luce sull'essenza della vita sociale, dei costumi, della cultura. D'altra parte le fonti indigene sono scarse: della letteratura non ci avanza se non qualche magra notizia annalistica e alcuni testi religiosi, peraltro fortemente alterati (v. appresso); le iscrizioni sono scarse e salvo quelle di Biblo (v.), di età recente (v. epigrafia, XIV, p. 67 seg.). Più abbondanti sono le notizie su Cartagine (v.), ma esse non si possono senz'altro estendere per intero alla civiltà della madrepatria.
Come si è visto, la costituzione delle città fenicie è monarchica, e la monarchia vi sarà stata del solito tipo orientale, in gran parte imitato da quanto era in uso nelle corti egiziane e mesopotamiche. La limitazione del potere regio da parte degli anziani sarà stata meno forte che nei regni di Israele e di Giuda, ma in compenso la classe commerciale vi avrà esercitato un'influenza notevole (se ne vedono gli effetti nella costituzione di Cartagine) e di cittadini ricchi saranno state composte le assemblee che si constatano nell'età ellenistica. Poiché non vi è dubbio che la funzione principale della civiltà fenicia si sia esercitata attraverso il commercio. Quanto questo abbia potuto influire su quello greco è difficile accertare: in generale il commercio greco e quello fenicio sembrano essersi svolti indipendentemente (il solo termine commerciale greco di sicura provenienza fenicia è ἀρραβών "arra"), e molti vocaboli designanti prodotti di civiltà superiore che una volta si credevano introdotti in greco dal fenicio si rivelano di origine minorasiatica e propagatisi tanto tra i Greci quanto tra i Fenici da una fonte comune (tali i termini per vino, oro, chitone, ecc.). Ma di altri l'origine fenicia è certa (porpora, bisso, ecc.), e in genere può dirsi che i prodotti tipicamente asiatici (spezie, aromi) sono giunti ai Greci per via fenicia. Ai Fenici la tradizione fa risalire l'introduzione del vetro, e non vi è ragione di contestare ciò; loro gloria massima è poi l'aver introdotto la scrittura alfabetica (v. alfabeto), estesasi a tutto il mondo civile, con la sola eccezione dell'Estremo Oriente.
Certamente i viaggi dei Fenici valsero ad allargare l'orizzonte geografico del mondo antico: le prime notizie che i Greci ebbero sulle coste africane a occidente della Cirenaica risalgono senza dubbio a fonte fenicia (il racconto di una circumnavigazione dell'Africa compiuto da navi fenicie sotto Serse è tuttavia leggendario); e lo stesso sarà delle notizie sulla Spagna, sulle rive atlantiche della Gallia e sul mare del Nord. Navi fenicie (ossia costruite ed equipaggiate da Fenici) navigarono il mar Rosso fino al paese di Ofir, per acquistarvi oro. Ma ai Fenici, nonostante lo splendore della loro civiltà materiale (di questa una vivacissima descrizione è data in Ezechiele, XXVI-XXVII, in cui la ricchezza e lo sfarzo di Tiro, emporio del mondo, sono rappresentati con preziosi particolari), non toccò in sorte di trasmettere al mondo, come Israele e la Grecia nessun elemento essenziale di civiltà spirituale.
Religione. - Intormo al sistema religioso dei Fenici ci è stata trasmessa una complicata esposizione che sarebbe opera del sacerdote Sanconiatone, di favolosa antichità. Questa esposizione, giunta attraverso un rifacimento greco di Filone di Biblo (contemporaneo di Adriano) conservato in numerosi frammenti, è di dubbia autenticità, e certamente è stata rimaneggiata sotto l'influenza di idee filosofiche e teologiche dell'età ellenistica, sicché è oltremodo arduo lo sceverarne l'elemento originale. In essa la cosmogonia si fonda sull'unione del caos primitivo con lo "spirito", donde nasce un uovo cosmico (Mōt), dalla cui scissione hanno origine il cielo e la terra. Una coppia primitiva dà origine agli dei, ai giganti, all'umanità. In questa bizzarra congerie di racconti si ravvisano elementi che debbono essere sicuramente antichi e autentici (si scorgono in particolare singolari paralleli con la tradizione biblica, tuttavia con tali diversità da escludere la derivazione), e non è inverosimile che il sacerdozio fenicio abbia posseduto ed elaborato una particolare tradizione teologica, più o meno affine ad altre concezioni cosmogoniche orientali, di alcune delle quali è traccia anche nella Bibbia, che poi contribuirono a formare quell'insieme di sistemi che stanno a base dello gnosticismo più tardo. Ma mentre, come si è detto, è difficile il ricostruire l'aspetto originale di tale tradizione, sembra d'altra parte che l'influenza di essa sul culto e sulla fede religiosa del popolo sia stata molto scarsa. I culti fenici appaiono di carattere essenzialmente agrario (è stato opportunamente notato che scarsissimo è in essi l'elemento marittimo, che si aspetterebbe in un popolo dedito alla vita del mare), in corrispondenza con quelli dei Cananei del retroterra. Alla base di questi culti sta la credenza in una coppia divina, Baal (v.) e Astarte (v.), a cui si unisce spesso il culto di un dio fanciullo, rappresentante le forze nascenti della vegetazione, sicché gli esseri supremi appaiono talvolta aggruppati in una triade. Queste divinità presentano un carattere impersonale, il che spiega come esse siano spesso prive di un nome specifico e appaiano strettamente legate al luogo del culto (esempî tipici il Melqart di Tiro: melkqart "re della città"; la Ba‛lat "signora" di Biblo). Ma talvolta il dio, meno spesso la dea, che è ancora più impersonale, riceve un nome proprio, forse in qualche caso risultato di un sincretismo di cui peraltro ci sfugge il processo storico, e si forma così un pantheon variato, nel quale la riflessione teologica del sacerdozio e l'organizzazione del culto introducono una successione gerarchica delle singole divinità, mentre tuttavia il carattere di ciascuna di esse rimane sostanzialmente identico a quello delle altre. A determinare più particolarmente l'aspetto di questa o di quella divinità contribuiscono poi influssi stranieri: così la Ba‛lat di Biblo assume nell'iconografia (e probabilmente anche nel culto) il carattere della Hathor egiziana. Non devono trarre in inganno, invece, le identificazioni con divinità greche fatte da scrittori classici o adottate nel culto indigeno nell'età ellenistica e romana, le quali si fondano su rassomiglianze superficiali: se, per es., il Melqart di Tiro viene assimilato ad Eracle, ciò non significa che tra le due divinità vi sia altra analogia oltre quella di alcune manifestazioni secondarie; il dio Eshmun (uno dei più diffusi nel culto, spesso associato con altre divinità subordinate, i Cabiri) è stato assimilato ad Asclepio per la sua funzione risanatrice, ma questa era probabilmente propria anche di altre divinità; la Tanit e il Ba‛al Ḥammon cartaginesi corrispondono probabilmente, nell'epigrafia latina dell'Africa, a Giunone Celeste e a Saturno non per altro che perché la prima aveva carattere astrale e perché nel secondo era messo in evidenza dal culto il carattere di potenza distruggitrice, il quale si accompagnava nella credenza popolare a quello di potenza procreatrice. Naturalmente accanto al culto dovette svilupparsi anche il mito; ma intorno a esso ben poco si sa di sicuro: alla base delle speculazioni teologiche di Sanconiatone stanno certamente dei miti, e di almeno un racconto mitologico, la morte del giovane dio amato dalla grande dea femminile, si è conservata una versione, attraverso gli scrittori greci, secondo la tradizione di Biblo (Afrodite e Adone); di altri miti le tracce sono scomparse o sono troppo tenui per potersene ricavare alcunché di sicuro.
Sembra tipica della religione cananeo-fenicia la credenza che la divinità si manifesti nel luogo in cui le si presta il culto, e che ha per lo più l'aspetto di un altare quadrato o di un pilastro (ḥammon, maṣṣebet), quest'ultimo spesso accoppiato ad altro simile; di qui si sviluppa la tendenza a trasformare in essere divino l'oggetto stesso del culto. Le rappresentazioni antropomorfiche della divinità non sono infrequenti, ma si deve probabilmente ravvisare in ciò un elemento straniero. Quanto alle azioni cultuali, esse si accentrano nel sacrificio, compiuto secondo un minuzioso rituale e amministrato da collegi sacerdotali: la cosiddetta "tariffa di Marsiglia" e i suoi paralleli cartaginesi mostrano gli stretti rapporti intercedenti fra il rituale sacrificale fenicio e quelle parti della legge mosaica che riflettono costumi cananei (v. R. Dussaud, Les origines cananéennes du sacrifice israélite, Parigi 1921). La pratica dei sacrifici umani è attestata soprattutto a Cartagine, ma, come mostrano numerosi passi biblici, dovette essere seguita largamente anche nella Fenicia propria, avendo riscontri in Canaan e in Israele. La circoncisione era comunemente praticata. Il sacerdozio fenicio appare potentemente organizzato; il nome del sacerdote è lo stesso che presso gli Ebrei: kōhēn. A Cartagine si trova anche un sommo sacerdote, rab kohānīm, che verosimilmente esisteva anche nelle città fenicie; si hanno anche, il che non avviene mai in Israele, delle sacerdotesse. L'esistenza di "profeti" nella religione fenicia è attestata dal famoso episodio di Elia e dei profeti del Baal di Tiro (I(III] Re, XVIII), ma ne manca la documentazione diretta.
Che la religione fenicia abbia avuto fino dall'antichità carattere astrale è molto dubbio; ma certamente essa, come tutte le religioni dell'Asia anteriore, subì lo influsso della trasformazione astrolatrica della religione babilonese che si compiva verso il secolo VII a. C.; tale influsso è però minore di quanto si è affermato da taluni. La grande importanza del culto dei trapassati è attestata dalla cura pietosa delle tombe; comune con gli Ebrei è la denominazione delle anime dei morti col nome di rĕfā'īm, ed è verosimile, benché non attestato esplicitamente, che esistesse anche il concetto della retribuzione dei meriti, per quanto forse in forma meno definita che in Egitto e in Babilonia.
Molto di nuovo è da aspettarsi intorno alle credenze e ai culti fenici nella loro fase più antica dai testi di Rās Shamra (v. sopra) non ancora pubblicati.
Arte. - Di un'arte fenicia in senso rigoroso non si può parlare: la posizione di zona di transito che si è visto essere propria della Fenicia la espose alle influenze delle grandi civiltà prossime, e specialmente intensa fu quella egiziana, che improntò di sé tutta l'arte fenicia dalla fase più antica (specialmente a Biblo) fino a quella più recente, di cui testimonianza caratteristica sono i sarcofagi reali di Sidone, in cui il tipo egiziano antropoide si va modificando sotto l'influenza dell'arte greca. Forse minore dell'egiziano, ma anch'esso notevole, fu l'influsso dell'arte mesopotamica, e non è da escludersi quello dell'arte egea. Ne risultò un tipo composito, e di assai scarso valore, in cui motivi diversi sono avulsi dalla loro funzione primitiva e organica e vengono applicati promiscuamente: è un tipo affine a quello noto nell'arte greca col nome di "orientalizzante", senza per ciò che dovunque quest'ultimo si riscontri vi si debba scorgere un prodotto dell'arte fenicia. Di quest'arte, piuttosto che monumenti architettonici e plastici, sono diffusi i prodotti minori: sigilli, gemme (gl'innumerevoli scaraboidi egittizzanti), bronzi, argenti (notevole il tesoro di Palestrina). Assai presto si fece sentire sui Fenici l'influsso dell'arte greca: forse in occidente prima che in oriente, poiché esso si riscontra a Cartagine almeno fino dal sec. V. a. C., e i prodotti di arte puramente indigena sono ivi scarsissimi. Ma anche dove il modello è esclusivamente greco si nota, nella mescolanza degli stili e nella maniera di trattare gli elementi stilistici, un che di barbarico che rivela a primo aspetto quanto alieno fosse lo spirito fenicio dai motivi dell'ispirazione artistica greca.
Vedi tavv. CLXV-CLXVIII.
Lingua. - I ritrovamenti epigrafici di Biblo - e di Rās Shamra hanno recentemente messo in luce documenti epigrafici di gran lunga più antichi di quelli noti fino a pochi anni or sono, anche se i primi si debbano assegnare, come si vuole da alcuni, al sec. XI a. C. anziché al XIII. La pubblicazione e la decifrazione dei testi di Rās Shamra offrirà un materiale linguistico di gran lunga maggiore di quello esistente finora, il quale è invero alquanto scarso. Dai pochi monumenti che ci è stato possibile conoscere fino a questo momento il fenicio appare strettamente affine all'ebraico (ossia, sostanzialmente, al cananeo), col quale ha in comune alcune particolarità che lo differenziano dalle altre lingue semitiche (per es. il plurale maschile in -īm). Le differenze lessicali sono assai piccole (spesso vocaboli che in ebraico sono soltanto poetici sono quelli più comuni in fenicio, come ḥarūṣ rispetto a zāhāb "oro", addīr rispetto a gādōl "grande", ecc.).
Per quanto assai poco sia dato conoscere del vocalismo fenicio (le iscrizioni non riproducono se non le consonanti), è noto nel fenicio l'oscuramento di ō ebraico (da ā semitico) in ū (sufetes in trascrizione latina di fronte a shōfēṭ) e quello di ā ebraico in ō; probabile è l'esistenza dei "segolati", caratteristica nell'ebraico. La desinenza -t dei nomi femminili si mantiene più che nell'ebraico (dove tende a passare ad -āh), ma nel verbo passa anch'essa, come in ebraico, ad -āh. Anche la sintassi delle due lingue è molto simile, ma in fenicio non è stato ancora constatato con sicurezza il "waw conversivum".
Non è agevole seguire le fasi di sviluppo della lingua fenicia. Le iscrizioni puniche, sparse, oltre che a Cartagine, nel resto dell'Africa fenicia, a Malta, in Sardegna, in Sicilia, presentano una lingua identica a quella della madrepatria, ma dalle trascrizioni greche e latine risulta che la lingua parlata si era alquanto modificata (per es. Καρχηδών, Carthago di fronte all'epigrafico Qarthadashat mostrano il passaggio di -t in -āh già segnalato nell'ebraico e poi di -āh in -ō). Un interessantissimo documento del punico parlato nel sec. II a. C., si ha nei passi in punico del Poenulus di Plauto, i quali offrono il vantaggio di essere vocalizzati, ma d'altra parte sono corrotti nella tradizione manoscritta. L'ultima fase linguistica del fenicio è data dal neopunico, ossia dalle iscrizioni africane posteriori alla caduta di Cartagine: esse mostrano profonde alterazioni ortografiche, talora preziose per lo studio della pronuncia, e anche grammaticali e lessicali, benché forse minori di quanto si creda generalmente; una interessante trascrizione in caratteri latini si ha in un bollo di mattone di Leptis Magna.
Nell'Africa il punico si mantenne, almeno allo stato di vernacolo, fino al sec. V d. c., come è attestato, tra l'altro, da varî passi di Sant'Agostino. In Sardegna si estinse molto prima (le ultime iscrizioni neopuniche sono del sec. I a. C., ma forse la lingua parlata durò più a lungo); in Fenicia stessa esso fu soppiantato dal greco e dall'aramaico: un noto passo di Plutarco (Sulla, XVII), in cui il nome di Tiro è accostato all'aramaico tor "toro", segna il terminus ante quem della sua scomparsa.
Bibl.: F. E. Movers, Die Phönizier, voll. 3, Bonn-Berlino 1841-1856 (antiquato, ma ancora utile per la raccolta del materiale, come pure l'articolo dello stesso nell'Allgem. Enzykl. di Ersch e Gruber, III, xxiv, 1848, pp. 319-443); R. Pietschmann, Gesch. d. Phönizier, Berlino 1889 (nell'Allgem. Gesch. dell'Oncken, anche in trad. ital.); G. Rawlison, Phoenicia, Londra 1899, ed. abbreviata 1896 (The Story of the Nations); G. Contenau, La civilisation phénicienne, Parigi 1926; Ed. Meyer, Gesch. des Altertums, II, 2, Stoccarda-Berlino 1931, pp. 61-186 (fondamentale); St. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, I-VIII, Parigi 1913-1929 (importante anche per la Fenicia propria). Per la religione in specie: M. J. Lagrange, Études sur les religions sémitiques, 2ª ed., Parigi 1905; W. W. Baudissin, Adonis und Eschmun, Lipsia 1911. Per l'epigrafia e la lingua: M. Lidzbarski, Handb. d. nordsem. Epigraphik, Weimar 1898; id., Ephemeris für sem. Epigr., I-III, Giessen-Gottinga 1900-1905; Ch. Clermont-Ganneau, Recueil d'archéologie orientale, I-VIII, Parigi 1886 segg.; Répertoire d'épigraphie sémitique, I-VI, Parigi 1900 segg.; P. Schröder, Die phönizische Sprache, Halle 1869; J. Rosenberg, Phön. Sprachlehre u. Epigraphik, Vienna-Lipsia s. a. (Die Kunst der Polyglottie, 92).