Ferdinando il Cattolico
Figlio del re Giovanni II d’Aragona e della regina Giovanna Henríquez, Ferdinando di Trastámara nacque a Sos, Aragona, nel 1452. Maturò le prime esperienze di governo durante la guerra civile in Catalogna (1462-72). Nello stesso anno in cui egli divenne re di Sicilia (1468), morì l’infante Alfonso, erede designato al trono di Castiglia. Si aprì così la via all’infanta Isabella, che F., riconosciuto come erede al trono di Aragona dal 1461, sposò nel 1469. Nel settembre 1479, alla fine della guerra di successione iniziata alla morte di Enrico IV (1474), Isabella s’impose definitivamente come regina di Castiglia e, in base a un precedente accordo, F. – che in gennaio era succeduto al padre sul trono di Aragona con il nome di Ferdinando II – assunse il titolo di re di Castiglia.
La sua politica fu anzitutto segnata dal tentativo di superare le tensioni che attraversavano i due regni: colpì la nobiltà avversa alla corona, rispose con l’Inquisizione alla crescente ostilità verso gli ebrei convertiti, e diede inizio alla guerra contro il regno di Granada (1481-92), che capitolò al termine di un lungo assedio. I «re cattolici» – titolo concesso loro da papa Alessandro VI (1496) – introdussero riforme che, se migliorarono le condizioni economiche, non attenuarono la distanza tra Castiglia e Aragona. Nel 1492, a pochi mesi dalla presa di Granada, decretarono l’espulsione dalla Spagna di centinaia di migliaia di ebrei non battezzati (un’analoga misura sarebbe stata presa nel 1502 contro i musulmani di Granada), finanziarono la spedizione che portò Cristoforo Colombo in America e spostarono l’asse delle operazioni militari verso l’Italia e l’Africa settentrionale.
Se le campagne nordafricane, che condussero alla conquista di Orano, Bugia (Bejaïa) e Tripoli (1509-11), erano sostenute anzitutto dall’ambiente di corte castigliano, l’attività militare in Italia proseguiva la tradizionale proiezione geopolitica aragonese. A partire dalla calata nella penisola del re di Francia Carlo VIII (1494), F. animò i movimenti antifrancesi in tutta Europa. Accordatosi poi temporaneamente con il successore di Carlo VIII, Luigi XII (1500), ne approfittò per penetrare nell’Italia meridionale, ma volse quasi subito le armi contro l’alleato, imponendosi come re di Napoli (1504), grazie all’abile e intraprendente condottiero Gonzalo Fernández de Córdoba y Aguilar (→).
Alla morte di Isabella (1504), F., pur proclamando sua figlia Giovanna regina di Castiglia, assunse la reggenza. Nel giugno 1506 concesse la piena titolarità regale a Giovanna e a suo marito, l’arciduca d’Austria Filippo I d’Asburgo detto il Bello, ma in novembre, alla morte di quest’ultimo, fece imprigionare Giovanna e riassunse la reggenza. A causa del suo impegno personale nelle guerre d’Italia, lasciò la reggenza dell’Aragona al cardinale Francisco Jiménez de Cisneros dal 1506 fino alla tregua con la Francia (1513). Nel 1512, inoltre, annetté la parte spagnola del regno di Navarra.
Alla sua morte, a Madrigalejo nel 1516, F. aveva di fatto riunito sotto una sola corona, in poco più di tre decenni, tutta la penisola iberica tranne il Portogallo, trasformando il nascente regno di Spagna nella più te-muta potenza europea.
La molteplicità delle gesta di F. pareva incarnare le ragioni dell’ascesa della Spagna. Era proprio questo l’aspetto che più attirava M., il quale tuttavia non mancò di esprimere le sue perplessità in alcune lettere scritte a Francesco Vettori tra l’aprile e l’agosto del 1513, di fondamentale importanza per la stesura del Principe (Sasso 1993, 1° vol., pp. 334-49; Cutinelli-Rendina 1998, pp. 74-89; Inglese 2006, pp. 34-35). In esse M. rifletteva sulla scelta di F., in un momento all’apparenza a lui propizio, di firmare una tregua con Luigi XII, e arrivava a riconoscere «in Spagna astutia et buona fortuna più tosto che sapere o prudenza» (29 apr. 1513, Lettere, p. 251). Come che sia, a «Ferrando di Aragona, presente re di Spagna», M. dedica in Principe xxi 1-8 un celebre ritratto. Elenca innanzitutto i modi con cui si ottiene la stima: le «grandi imprese» e il «dare di sé rari esempli»; era appunto quanto aveva fatto F., che «si può chiamare quasi principe nuovo, perché d’uno re debole è diventato per fama e per gloria el primo re de’ cristiani». L’elenco delle sue «azioni», «tutte grandissime e qualcuna estraordinaria», conferma come l’attenzione di M. dipendesse anzitutto dalla politica seguita dal re per consolidare ed estendere il suo potere in Spagna. M. elogia l’«impresa» di Granada, «fondamento dello stato suo», poiché
tenne occupato in quella gli animi di quelli baroni di Castiglia, e’ quali, pensando a quella guerra, non pensavano a innovazioni: e lui acquistava in quel mezzo reputazione e imperio sopra di loro, che non se ne accorgevano.
Né sfugge a M. la capacità del re di usare leve fiscali per «nutrire, con danari della Chiesa e de’ populi, eserciti, e fare uno fondamento con quella guerra lunga alla milizia sua, la quale lo ha di poi onorato». Se in M. manca qualsiasi accenno alla scoperta dell’America, il 1492 emerge comunque come anno decisivo per il successo politico di F. che, «per potere intraprendere maggiori imprese», decretò l’espulsione degli ebrei, un atto di «pietosa crudeltà» compiuto «servendosi sempre della religione», sul quale il giudizio di M. è un misto di ammirazione e biasimo («né può essere questo esemplo più miserabile, né più raro»). Questo passo è stato interpretato come un’intuizione, da parte di M., della nascita di un uso politico della religione, all’origine di un ordine sociale fondato su razzismo e antisemitismo (Prosperi 2011). M. ne aveva avuto in qualche modo esperienza diretta, stando a una lettera non autografa del 26 dicembre 1510, che avrebbe scritto a nome della Repubblica fiorentina al capitano di Pisa Giovan Battista Bartolini, allora alle prese con un gruppo di ‘marrani’ portoghesi giunti in città:
Ora a noi ci occorrerebbe per distinguere che fusse bene fare osservare diligentemente e’ costumi e’ portamenti loro e quelli che si portassino bene, e da cristiani, tollerargli, massime quando siano per beneficare costì la città; e gli altri che pel contrario si portassino, e da non fare costì alla città bene alcuno, e sopra stomaco anzi costì, dare loro licenzia (Opere di Niccolò Machiavelli cittadino e segretario fiorentino. Nuova edizione riveduta e corretta sulle migliori fino ai di’ nostri pubblicate, t. 8, L’ asino d’oro. Lettere di Niccolò Machiavelli scritte sopra differenti affari di governo a nome della Repubblica fiorentina, 1798, p. 30).
Il passo di M. sulla «pietosa crudeltà» di F. va letto anche alla luce di un altro giudizio, espresso in Principe xviii 19, che la critica è concorde nel riferire al re cattolico:
Alcuno principe de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto e la riputazione e lo stato.
Proprio la questione dell’uso strumentale della religione, del resto, è al centro della parte finale del ritratto di F., in cui si osserva come egli
assaltò, sotto questo medesimo mantello, l’Affrica; fece l’impresa di Italia; ha ultimamente assaltato la Francia. E così sempre ha fatte e ordite cose grandi, le quali hanno sempre tenuti sospesi e ammirati gli animi de’ sudditi, e occupati nello evento di esse.
Oltre che per mezzo della sua doppiezza, F. si era rivelato capace di accrescere e consolidare il suo potere anche grazie al ritmo incessante delle «sua azioni», «che non ha dato mai in fra l’una e l’altra spazio alli uomini di potere quietamente operarli contro». Tuttavia, questo non aveva impedito che contro di lui si ordissero congiure, come a Barcellona nel 1492 (Discorsi III vi 32).
M. sottolinea, infine, un terzo aspetto caratteristico del re cattolico: la «parsimonia». Come ricorda,
e’ sarebbe bene essere tenuto liberale. […] e però, a volersi mantenere in fra li uomini el nome di liberale, è necessario non lasciare indreto alcuna qualità di sontuosità: talmente che sempre uno principe così fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà (Principe xvi 1-2).
Così, «debbe, s’egli è prudente, non si curare del nome del misero, perché col tempo sarà tenuto sempre più liberale veggendo che, con la sua parsimonia, le sua entrate gli bastano, può difendersi da chi gli fa guerra, può fare imprese senza gravare e’ populi» (xvi 5). Del resto, «ne’ nostri tempi noi non abbiamo veduto fare gran cose se non a quelli che sono tenuti miseri» (xvi 7). Proprio in questo punto interviene il rinvio a F.:
Se fussi tenuto liberale, non arebbe fatto né vinte tante imprese. Pertanto uno principe debbe estimare poco, – per non avere a rubare e’ sudditi, per potere difendersi, per non diventare povero e contennendo, per non essere forzato di diventare rapace – di incorrere nel nome del misero, perché questo è uno di quelli vizi che lo fanno regnare (xvi 10-11).
In M. i riferimenti al re cattolico sono arricchiti anche da notazioni sul suo ruolo nelle guerre d’Italia. Si insiste su due aspetti: l’errore di Luigi XII nell’aver ricercato l’alleanza di F., e l’ingratitudine di quest’ultimo nei confronti di Gonzalo Fernández de Córdoba. In particolare, M. rimprovera al re di Francia di aver fatto «il contrario di quelle cose che si debbono fare per tenere uno stato in una provincia disforme» (Principe iii 31): non solo aveva aiutato Alessandro VI nella campagna in Romagna, deludendo così coloro che ne avevano salutato con entusiasmo l’occupazione della Lombardia, ma
per volere il regno di Napoli, lo divise con il re di Spagna; e dove egli era prima arbitro di Italia, vi misse uno compagno, acciò che gli ambiziosi di quella provincia e malcontenti di lui avessino dove ricorrere; e dove poteva lasciare in quel regno un re suo pensionario, e’ ne lo trasse per mettervi uno che potessi cacciarne lui (iii 39).
M. presenta invece la vicenda di Fernández de Córdoba come un caso esemplare d’ingratitudine di un principe: «ciascuno che al presente vive sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel regno di Napoli contra a’ Franciosi, per Ferrando re di Ragona conquistassi e vincessi quel regno»; tuttavia, «per premio di vittoria» ottenne solo che il re lo raggiungesse a Napoli, dove «in prima gli levò la ubbidienza delle genti d’armi, dipoi gli tolse le fortezze, e appresso lo menò seco in Spagna, dove poco tempo poi inonorato morì» (Discorsi I xxix 13).
M. aveva intuito tale esito già un anno prima della deposizione di Fernández de Córdoba, commentando in una lettera ai Dieci le trattative tra F. e il suo condottiero:
Ho sentito ragionare di questo accordo fra Consalvo e il Re, e maravigliasi ciascuno che Consalvo se ne fidi; e quanto quel Re è stato più liberale verso di lui, tanto più ne insospettisce la brigata, pensando che ’l Re abbi fatto per assicurarlo e per poterne meglio disporre sotto questa sicurtà (28 sett. 1506, LCSG, 5° t., p. 488).
Nel Principe si trovano anche altri riferimenti alla partecipazione di F. alle guerre d’Italia. L’uso delle «arme mercennarie» da parte degli italiani, per es., è posto all’origine del fatto che la penisola fu «sforzata da Ferrando» (xii 31). Si ricorda, inoltre, sia il suo appoggio al papa Giulio II in occasione dell’«impresa di Ferrara» (xiii 1) sia la sua contrarietà all’entrata delle truppe papali a Bologna nel 1506 (xxv 20).
Bibliografia: J. Vicens Vives, Historia crítica de la vida y reinado de Fernando II de Aragón, Zaragoza 1962; F. Fernández-Armesto, Ferdinand and Isabella, London 1975; L. Suárez Fernández, Los Reyes Católicos, 1° vol., La conquista del trono, Madrid 1989; M.A. Ladero Quesada, La España de los Reyes Católicos, Madrid 1999.
Per gli studi su F. in M. si vedano: M. Marietti, La figure de Ferdinand le Catholique dans l’oeuvre de Machiavel: naissance et déclin d’un mythe politique, in Présence et influence de l’Espagne dans la culture italienne de la Renaissance, éd. A. Rochon, Paris 1978, pp. 9-54 (trad. it. in M. Marietti, Machiavelli. L’eccezione fiorentina, Fiesole 2005, pp. 27-65); F. Giunta, I re cattolici nelle opere di Machiavelli e Guicciardini, «Clio», 1984, 3, pp. 419-32; E. Andrew, The foxy prophet: Machiavelli versus Machiavelli on Ferdinand the Catholic, «History of political thought», 1990, 3, pp. 409-22; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2 voll., Bologna 1993; E. Cutinelli-Rendina, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma 1998; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello Stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; A. Prosperi, Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492, Roma 2011.