GONZAGA, Ferrante
Nacque a Mantova il 28 genn. 1507, terzogenito del marchese Francesco II e di Isabella d'Este. Nell'adolescenza mostrò predilezione per gli esercizi cavallereschi. Già nel 1523, forse a causa di una condotta a tratti irrequieta, fu inviato alla corte di Carlo V, accompagnato da P. Pico della Mirandola. La decisione fu anche politica: suo fratello, il marchese Federico, già comandante generale delle truppe del papa e della Repubblica fiorentina, si stava infatti schierando fra i partigiani dell'imperatore in Italia.
Giunto nell'estate 1523 a Valladolid, il G. comprese presto che l'esperienza poteva riuscirgli "de honore et de utile" (a Isabella d'Este, Burgos, 29 maggio 1524, in Tamalio, 1991, p. 167). Si adeguò al sobrio stile della corte imperiale, acquistando rapidamente credito. Mentre progressivamente allentava i legami con Mantova, mise a punto una strategia modellata sui cardini della cultura cortigiana: sapendo che Carlo V faceva "più conto deli homini da guerra che de altra sorte che siano", il G. si preparò, attraverso la carriera militare, a offrirgli esempi di "tal servitù" da ottenerne adeguata "mercede" (a Isabella d'Este, Burgos, 18 luglio e Valladolid, 9 ag. 1524: ibid., pp. 185 e 189). Nell'agosto 1526 vi furono i primi segni che Carlo V era disposto ad assecondare queste ambizioni: non concedette al G. licenza di partire per sposarsi e gli assegnò una condotta di 100 uomini d'arme per passare in Italia, dove il conflitto franco-imperiale era sul punto di riprendere.
Il G. si imbarcò poche settimane più tardi con i rinforzi destinati alla penisola, sotto il comando di Ch. de Lannoy, viceré di Napoli. Giunto in Italia in novembre, visitò a Mantova i congiunti e prese servizio a Reggio Emilia presso il comandante delle truppe imperiali nel Milanese, il conestabile Ch. de Bourbon-Montpensier, cui era legato da parentela. Quindi mosse col grosso dell'esercito che, dopo la congiunzione con i lanzichenecchi (febbraio 1527), iniziava la marcia verso Sud, ottenendo i primi incarichi di comando superiore. Fu l'assalto alle mura di Roma (6 maggio 1527) a offrirgli la migliore occasione di emergere: trovandosi sulla breccia aperta nella cinta della Città leonina poco dopo l'inizio dell'attacco decisivo, contribuì a dissipare lo sbandamento seguito nelle truppe alla morte del Bourbon-Montpensier. Ebbe invece scarso successo il suo tentativo di evitare il successivo sacco della città. Versando una cospicua taglia alla soldatesca riuscì solo a salvare palazzo Colonna, dove dimorava la madre Isabella, permettendole a metà maggio di uscire da Roma per raggiungere Mantova. Secondo i contemporanei il G. non ebbe parte del ricchissimo bottino ottenuto nel sacco; nondimeno si procurò alcuni arazzi della cappella Sistina, della serie degli Atti degli apostoli (da cartoni di Raffaello), riscattandoli da soldati spagnoli. Lasciò Roma alla fine del giugno 1527 per raggiungere Velletri col compito di tenere unite le genti d'arme, ancora non pagate. Cadde quindi malato, accusando per tutto il successivo autunno violenti attacchi di febbre.
Quando gli Imperiali lasciarono Roma per muovere in soccorso del Regno di Napoli minacciato dai Francesi (gennaio 1528), il G. fu nominato capitano generale dei cavalleggeri e divenne stretto collaboratore di Ph. de Chalon principe d'Orange, comandante in capo. Nell'assedio imposto alla capitale da Odet de Foix, visconte di Lautrec, si distinse in azioni di disturbo all'approvvigionamento degli assedianti, esponendosi tanto che in una delle sortite, alla fine del giugno 1528, cadde nelle mani dei nemici e solo "la furia de' tedeschi lo liberò" (Guicciardini, p. 1953). Infine prese parte allo scontro di dimensioni più vaste, che, a fine agosto 1528, dopo la morte del Lautrec, provocò la rotta dei Francesi.
A guerra conclusa il G. ottenne il ducato di Ariano (attuale Ariano Irpino), già del ribelle A. Carafa, provvisto di circa 12.000 ducati di entrata. Nell'ottobre 1528 passò a combattere in Puglia, dove numerosi centri del litorale rimanevano in possesso di nobili e fazioni locali ribelli all'autorità imperiale, appoggiati da forze francesi e veneziane. Al G., alla fine di febbraio 1529, fu affidato l'assedio di due dei maggiori punti di resistenza, Barletta e Trani, mentre contro Monopoli si dirigeva Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto.
Radunati circa 1500 cavalleggeri e un numero non inferiore di fanti, nella seconda metà di aprile 1529 il G. prese posizione in Capitanata. Costretto a far fronte ai disordini fra le truppe e le popolazioni (soprattutto in Ascoli Satriano) e alle tensioni originate dai mancati pagamenti, poté solo tentare qualche operazione in avanscoperta presso Barletta. Il marchese del Vasto, invece, riconquistò alcuni centri del Gargano (Vieste, Vico e Monte Sant'Angelo) e, ottenuta dal principe d'Orange autorità sul contingente del G., decise l'assedio di Monopoli. Il G. non accettò questa subordinazione e alla fine di maggio si recò a Napoli, dove iniziò trattative matrimoniali con Isabella Di Capua, orfana ed erede di Andrea, duca di Termoli e principe di Molfetta. Rientrato a Venosa, pur recando circa 20.000 ducati per i pagamenti alle truppe, ne mantenne a stento il controllo, tentando comunque azioni contro Barletta. Quando però, all'inizio di luglio, giunse notizia della campagna decisa dall'imperatore contro Firenze (in seguito alla richiesta di Clemente VII di riportare i Medici al governo), il G. subito manifestò il proposito di passare a quell'impresa, nonostante Molfetta e Giovinazzo, feudi della sua promessa sposa, fossero cadute nelle mani dei nobili ribelli e dei Veneziani.
In un primo momento parve che egli dovesse rimanere a presidio del Regno di Napoli come luogotenente generale. Ma, pacificata l'Italia meridionale (assegnata a Carlo V dalla pace di Cambrai del 5 luglio 1529), si affrettarono i preparativi delle operazioni contro la Repubblica fiorentina e il G. fu chiamato dall'Orange come comandante dei cavalleggeri. Alla fine di luglio si recò a Napoli, dove non poté superare difficoltà relative al contratto di matrimonio (concluso in segreto e per procura solo nell'agosto 1530, dopo che erano fallite altre trattative con Isabella di Vespasiano Colonna). Quindi, alla fine di settembre 1529, il G. raggiunse il grosso delle truppe, che aveva completato la marcia attraverso l'Umbria e si era impadronito della città (non della rocca) di Arezzo.
Mentre i Fiorentini apparivano intenzionati a concentrare le difese, le truppe dell'Orange si impadronirono del Valdarno superiore, giungendo a metà ottobre nella pianura di Ripoli (oggi Bagno a Ripoli), sotto Firenze, per iniziare l'assedio. Il G. contribuì ad allestire le posizioni offensive, posizionando batterie di artiglieria e durante le rare operazioni a fine 1529 si distinse per il deciso contrasto ai tentativi di introdurre viveri nella città. Nello stesso periodo incontrò anche a Bologna l'imperatore e Clemente VII, dal quale ottenne finanziamenti. Quindi l'assedio entrò nella fase decisiva. Nella prima metà del 1530 gli Imperiali bloccarono la città con rigore sempre maggiore; gli assediati poterono solo tentare sortite, efficacemente contenute dalle truppe del Gonzaga. Respinto un primo tentativo di accordo, nei primi giorni di agosto (a Gavinana) fu annientata una spedizione di soccorso, che doveva spezzare le linee degli assedianti. Morto in questa occasione il principe d'Orange, il G., succeduto nel comando generale, trattò con Malatesta Baglioni, comandante generale dei Fiorentini, ottenendo la resa della città con condizioni apparentemente moderate: i Medici sarebbero rientrati in Firenze, che avrebbe conservato la propria libertà, ed entro quattro mesi Carlo V avrebbe determinato la nuova forma di governo. L'ambiguità dei termini del trattato non nascondeva l'imminente fine della Repubblica; il G. ammise esplicitamente che suo fine era stato "far questo honore" a Carlo V e "far che la satisfation de Nostro Signor [Clemente VII] segua sotto questa coverta" (lettera a Federico II Gonzaga, duca di Mantova, 10 ag. 1530, in Sanuto, LIII, col. 462). Così, superate residue opposizioni interne dal Baglioni stesso e dagli aristocratici fiorentini, il 10 ag. 1530 furono stabiliti i patti concordati.
L'operato del G. fu molto gradito a Clemente VII, soprattutto per il fermo controllo delle truppe imperiali che volevano il sacco della città: così fu nominato governatore di Benevento, enclave pontificia nel Regno di Napoli. Anche Carlo V gli manifestò concretamente la propria stima e nel dicembre 1531 lo insignì dell'Ordine del Toson d'oro. Quando poi, nella primavera 1532, riprese l'avanzata ottomana in Ungheria, al G. fu assegnato il comando della cavalleria. Condotto a Vienna un corpo di circa 2500 uomini, nel settembre 1532 giunse a Linz, dove fu subito impegnato nel mantenere il controllo dell'esercito, scosso da contrasti fra soldati delle diverse nazionalità e da ammutinamenti. Quanto alla condotta della guerra, il G. convenne con l'ipotesi di porre il campo sotto Vienna, ma si trattò di una scelta non molto felice: i Turchi, infatti, non accettarono battaglia e, durante la ritirata, Carinzia e Croazia furono devastate.
Il G. tornò in autunno presso Carlo V e lo precedette in Italia: quindi accompagnò l'imperatore all'incontro di Bologna con Clemente VII e lo seguì a Milano. Solo nell'aprile 1533 ebbe una licenza, ma l'inattività durò pochi mesi: pur senza alcun incarico, infatti, non rinunciò a prendere parte all'impresa contro Tunisi. Nel giugno 1535, per controbattere i pirati barbareschi e riprendere il controllo del Mediterraneo, Carlo V aveva riunito a Barcellona un'armata da dirigere contro Khair ad-Dīn, il Barbarossa. Il G. giunse in Nordafrica qualche giorno dopo la presa della Goletta da parte degli Imperiali. Accolto calorosamente, si distinse per valore nella battaglia del 20 luglio, vinta dalle forze di Carlo V. Presa la rocca di Tunisi e fuggito il Barbarossa, gli Imperiali si impadronirono facilmente della città: il G. ne diede conto in una lettera data alle stampe, che ebbe vasta circolazione (Copia di una littera dil s. don Ferando Gonzaga… de la presa de Tunizi…, s.n.t. [ma A. Blado], 1535).
Consapevole dell'importanza strategica che la Sicilia assumeva a seguito delle nuove conquiste, Carlo V ne nominò viceré il G. (2 nov. 1535), dandogli istruzione di rafforzarne le difese. Ebbe però appena il tempo di insediarsi, perché la morte del duca di Milano, Francesco II Sforza, e la conseguente crisi negli equilibri della penisola lo allontanarono subito dal governo dell'isola. Nel dicembre si recò a Napoli e seguì poi Carlo V a Roma (aprile 1536); l'occupazione francese della Savoia e del Piemonte lo richiamò al servizio attivo nell'esercito imperiale.
Carlo V progettava di assalire alle spalle i Francesi, irrompendo in Provenza e a Nord, nella Piccardia. Il G. sconsigliò una mossa così impegnativa, essendo la stagione troppo inoltrata, ma quando l'invasione fu decisa entrò in Provenza alla testa del contingente d'avanguardia (fine luglio 1536). Mentre i Francesi, devastata la regione, si ritiravano per evitare una battaglia campale, gli Imperiali (guidati dallo stesso Carlo V) avanzavano lungo il litorale. Il G. si distinse nella conquista di Brignoles, che permise all'imperatore di impadronirsi anche di Aix-en-Provence (5 ag. 1536), ma si segnalò soprattutto per fatti non militari. Fu accusato infatti, insieme con Antonio de Leyva, di aver fatto avvelenare il delfino di Francia, Francesco (deceduto il 10 agosto), e l'imperatore stesso intervenne pubblicamente per allontanare i sospetti. Esaurita (inizio settembre 1536) l'avanzata e decisa la ritirata, il G. si recò a Mantova.
Nel marzo 1537 tornò in Sicilia e, trovato esausto l'Erario, convocò il Parlamento. Il generale colloquium aveva competenze su molte materie (difesa e ordine pubblico, giustizia, amministrazioni locali) e determinava ammontare e modalità di riscossione del donativo, la più importante imposta. Aperta la sessione il 10 apr. 1537, il G. ottenne cospicui finanziamenti per far fronte alla minaccia di un'invasione ottomana; alla fine dell'estate, cessato l'allarme, poté dedicarsi a importanti questioni di governo: ispezionò le difese dei principali centri, predisponendo gli interventi necessari, prese provvedimenti risoluti contro il banditismo e approntò una riforma dell'amministrazione della giustizia civile. Perdurava però l'emergenza finanziaria. Il sistema di governo prevedeva, infatti, che il Regno di Sicilia provvedesse in proprio alle spese correnti e a quelle militari, compresi i costi delle guarnigioni della Goletta e di Bona, in Tunisia. Così, per soddisfare il fabbisogno, il G. programmò vendite di "terre" demaniali e uffici pubblici, tentò riforme dei tributi sulla esportazione e il commercio interno dei cereali, appaltò le entrate fiscali a privati, ricorse persino a prestiti e a composizioni di gravi vicende giudiziarie.
Nel contempo non rinunciò a iniziative più ampie, come la proposta di un accordo tra Khair ad-Dīn e Carlo V. Si trattava d'una mossa del tutto aderente alla visione politica generale del G., che riteneva necessario consolidare il dominio imperiale nel Mediterraneo, abbandonando progressivamente i teatri di conflitto nelle Fiandre e in Germania. Così, nell'aprile 1537 egli sostenne presso Carlo V le proposte del Barbarossa, che si impegnava a lasciare il servizio della Porta se fosse stato posto a capo di uno Stato barbaresco da Algeri a Tunisi, alleato della Spagna e legato all'imperatore da vincoli vassallatici. La trattativa durò nei mesi seguenti, mentre riprendeva lo scontro militare. Il G., infatti, per non lasciare inoperosi i contingenti che presidiavano la Sicilia, aveva allestito una spedizione in Nordafrica per sottomettere Hammamet, Sfax, Susa e Monastir, avvalendosi di un accordo politico e finanziario col re di Tunisi, Muley Hassan (reinsediato nel 1535). L'operazione ebbe inizio a fine febbraio 1538; tuttavia, per il maltempo, fu possibile sbarcare solo un esiguo contingente che nel maggio seguente tentò, senza esito, di porre l'assedio a Susa. I timori del G. circa i disagi delle truppe, mal pagate, si dimostrarono fondati. Nello stesso maggio 1538, infatti, egli dovette affrontare l'ammutinamento del presidio spagnolo della Goletta, che col pretesto della richiesta degli arretrati era sbarcato sul litorale ionico e depredava i paesi alle falde dell'Etna. Dopo abili trattative riuscì a ricondurre all'obbedienza il grosso delle truppe e punì i responsabili della sollevazione. La dura repressione provocò in Spagna risentite reazioni, che però non trovarono ascolto: l'imperatore intendeva servirsi del G. negli impegni militari programmati nel Mediterraneo. Infatti, conclusa la lega tra Venezia, Paolo III e Carlo V (8 febbr. 1538), egli fu nominato comandante delle truppe in caso di sbarco a terra e luogotenente del generale Andrea Doria, ricevendo istruzioni di condurre a Messina le galere della Sicilia, unendole al resto della flotta. A fine luglio del 1538 fece salpare l'armata verso il golfo di Corfù. Dato che la stagione era molto avanzata, gli stati maggiori imperiali ritenevano che si potesse solo conquistare qualche posizione a terra, dalla quale lanciare la campagna la successiva primavera. I comandanti delle squadre navali pontificia e veneziana premevano invece per un'azione immediata. Il G., dovendo attendere l'arrivo di A. Doria, non partecipò a un primo tentativo dell'agosto 1538, rimasto senza esito, di conquistare Prevesa, all'imbocco del golfo di Arta. Riteneva, peraltro, che fosse troppo rischioso affrontare il Barbarossa, coperto dalle artiglierie disposte a terra, e che si dovesse attaccarlo solo se fosse uscito allo scoperto. Lo scontro del 27 sett. 1538 (dopo che era giunto A. Doria) avvenne invece proprio nelle condizioni sfavorevoli da lui presagite e la flotta cristiana eseguì un'affrettata ritirata che originò un clima di sospetti e di accuse (amplificato dalle notizie di nuovi contatti fra gli Imperiali e il Barbarossa). Lo stesso G. criticò il comportamento di equipaggi e capitani, censurò l'irresolutezza dell'ammiraglio Doria e sollecitò a tentare nuovamente la battaglia quando le navi ottomane si presentarono davanti all'isola di Paxo. Prese quindi l'iniziativa di assediare Castelnuovo di Cattaro (Herceg Novi), che conquistò il 27 ott. 1538: non riteneva per questo opportuno impegnarsi in un teatro di guerra come il golfo di Cattaro, più adatto ai Veneziani e sarebbe stato pronto a cedere loro la piazza. Nelle stesse settimane peraltro esplorava le possibilità di passare al servizio della Serenissima, essendo insoddisfatto del suo ruolo nell'organizzazione militare imperiale.
All'inizio del successivo dicembre il G. tornò a Messina. Subito dovette far fronte all'ammutinamento dei reduci della spedizione contro Castelnuovo, che, non pagati, erano sbarcati sulla spiaggia messinese e vessavano le popolazioni. Egli ne ebbe di nuovo ragione pagando parte degli arretrati e procedendo risolutamente a esecuzioni dei maggiori responsabili. Nel contempo riprese i contatti col re di Tunisi per impadronirsi delle città del litorale tunisino ancora fuori controllo. Anzitutto tentò di provvedersi di mezzi finanziari, non esitando a imporre in Sicilia (gennaio 1539) un dazio straordinario sui cereali. Il quadro politico generale, però, conclusa la tregua tra Turchi e Veneziani, appariva incerto. Così, dopo che l'imperatore aveva accolto il disegno con freddezza, A. Doria, comandante supremo sul mare, palesò il suo disaccordo (settembre 1539), vanificando il progetto.
Le proposte del G. trovavano ormai scarso ascolto. Nella stessa estate aveva invano esortato a soccorrere il presidio spagnolo di Castelnuovo assediata dai Turchi (caduta all'inizio di luglio). Anche nuovi tentativi per concludere l'accordo col Barbarossa, che al G. pareva vicino, si erano infranti. Così, alla fine dell'ottobre 1539 egli si recò nelle Fiandre per trattare con Carlo V delle possibili iniziative militari e delle difficili condizioni finanziarie del Regno di Sicilia. Tornato nell'isola nell'aprile 1540, convocò il Parlamento, dal quale ottenne un donativo di 300.000 fiorini e un aumento delle imposte sulle esportazioni di cereali. Poi A. Doria lo chiamò all'azione contro le città della costa tunisina. Era un'iniziativa che aveva apertamente sconsigliato: avendo ancora ordini di "concludere la pratica con Barbarossa" non gli sembrava opportuno assalirlo per "levarli le cose sue" (a Carlo V, Messina, 2 ag. 1540, in Capasso, 1906, p. 451). Si preparò comunque a combattere: mosse con 51 galere (settembre 1540) e riconquistò Monastir, Hammamet, Susa, Sfax, sottomettendole al re di Tunisi. Rientrato a Palermo in novembre, tentò di porre rimedio alle drammatiche condizioni dell'Erario siciliano. Non esitò a ricorrere a composizioni finanziarie di vicende giudiziarie anche gravi, ma non poté comunque pagare i presidi spagnoli nelle città tunisine conquistate, dei quali ordinò il reimbarco nell'aprile 1541. Fervevano, nel contempo, i preparativi per la spedizione contro Algeri, personalmente diretta da Carlo V. Alla metà di agosto del 1541 il G. partì per Maiorca, punto di riunione, a capo di un contingente di 8000 fanti; ebbe di nuovo il comando generale delle truppe da sbarco (circa 24.000 uomini). L'esercito imperiale si presentò a fine ottobre davanti ad Algeri; dopo scontri di lieve entità, un violento attacco barbaresco contro il campo delle truppe italiane fu respinto a fatica: quindi le proibitive condizioni meteorologiche obbligarono gli Imperiali a ritirarsi, palesando l'insuccesso completo dell'impresa.
A fine novembre il G. tornò in Sicilia, dove la crisi dell'economia aveva conseguenze esiziali sulle entrate fiscali; egli accrebbe il numero di uffici pubblici in vendita, ipotizzò aumenti del donativo e un tributo progressivo sulle esportazioni di grano. Poté quindi dedicarsi a lavori di fortificazione già avviati (a Palermo, Messina, Trapani, Siracusa) e ne programmò altri a Catania e Lentini. Credeva ancora possibile stringere un patto col Barbarossa; nel luglio 1542 intavolò trattative, giungendo perfino a verificare gli spazi per una tregua triennale con il sultano: di una proposta in tal senso (approvata da Carlo V e firmata dal G.) diedero successivamente notizia gli osservatori a Costantinopoli, ma non ne scaturì alcun risultato.
Nella stessa estate del 1542, le ripetute frizioni tra Francesco I e Carlo V lasciavano presagire una nuova guerra con la Francia. Così, al G. fu ordinato di unire le galere siciliane in azione contro i pirati con il grosso della flotta (a Genova) e di prepararsi a spedire in Spagna un cospicuo contingente di fanti. Carlo V prevedeva, infatti, che l'attacco dei Francesi e dei loro alleati sarebbe stato sferrato nei Paesi Bassi e in Navarra (il che avvenne alla fine del luglio 1542), mentre il G. considerava più esposta la penisola. Recatosi a Palermo a metà del successivo ottobre, ebbe due mesi di licenza all'inizio del 1543 (durante i quali trattò del matrimonio del figlio Cesare con Diana Cardona). Quindi, alla fine di marzo, presieduto il Parlamento siciliano e ottenuti cospicui finanziamenti, lasciò l'isola per assumere il comando degli eserciti imperiali. Raggiunto a Genova Carlo V, fu con lui all'incontro di Busseto con Paolo III (22-25 giugno 1543); allora, come altri consiglieri dell'entourage imperiale, si schierò contro la proposta del pontefice di assegnare Milano a Margherita d'Austria, sposa di Ottavio Farnese, in cambio d'una forte somma di denaro. Gli sembrava infatti che Carlo V avrebbe dovuto continuare a difendere il Ducato, mentre investendone i Farnese non ne avrebbe mantenuto stabilmente il controllo. L'offerta del papa fu lasciata cadere, ma l'aperta presa di posizione del G. gli attirò l'ostilità della famiglia di Paolo III. Alla ripresa della guerra Oltralpe egli prese servizio come luogotenente generale dell'esercito. La campagna era condotta contro Guglielmo III di Kleve-Jülich, alleato di Francesco I, che reclamava il possesso per diritto ereditario della Gheldria e aveva sconvolto i Paesi Bassi con una veloce campagna militare, guidata da M. van Rossem. Il G. pose un duro assedio a Düren, presso Liegi, conquistandola nell'agosto 1543; il feroce saccheggio che seguì consigliò di pattuire la resa ai difensori di Jülich e delle città della Gheldria fedeli al duca Guglielmo. Quest'ultimo, allora, all'inizio di settembre chiese e ottenne il perdono di Carlo V.
Teatro delle azioni successive furono l'Hainaut e il Lussemburgo, caduti nelle mani dei Francesi nella stessa estate 1543. Il G. tentò di conquistare Guise, entrando in contatto con le truppe nemiche; quindi, congiunse le sue forze con quelle che assediavano Landrecy. La piazza appariva molto ben difesa e, a fine ottobre, mosse in suo soccorso un potente esercito guidato dallo stesso Francesco I. La stagione avanzata sconsigliava uno scontro di grandi proporzioni, cui non avrebbe potuto partecipare Enrico VIII, alleato dell'imperatore. Così, per decidere le strategie future e concordare gli apprestamenti necessari, il G. fu inviato in Inghilterra, insieme con G.B. Castaldo. Le istruzioni dategli all'inizio del dicembre 1543 insistevano sulla necessità anzitutto politica di neutralizzare l'espansionismo di Francesco I sfidandolo con un'azione militare decisa, guidata personalmente dai due sovrani e diretta al cuore del territorio francese, fino a Parigi. La missione, rapida, ebbe esito positivo: fu stabilito che Carlo V ed Enrico VIII sarebbero entrati in Francia al più tardi alla fine di luglio, con 20 o 25.000 fanti e 5000 cavalieri. Il primo avrebbe marciato attraverso la Champagne, il secondo attraverso la Piccardia.
Le operazioni iniziarono nel maggio 1544. Al G., col grado di luogotenente generale, fu dato il comando delle truppe concentrate in Cambrai, con l'ordine di riconquistare Lussemburgo e di muovere dentro il territorio francese devastando le campagne, in attesa che Carlo V completasse i preparativi e si ponesse a capo dell'esercito. Fu una campagna brillante: nel giugno 1544, dopo Lussemburgo, il G. conquistò Ligny e Commercy; quindi, posto l'assedio a Saint-Dizier, cedette il comando del campo all'imperatore e - espugnata questa piazza - lo accompagnò mentre tentava l'avanzata verso Parigi, dapprima lungo la Marna poi (all'inizio di settembre) puntando a Nord verso Soissons. Il G. si distinse in questa occasione nelle conquiste di Château-Thierry ed Épernay. Nondimeno, la stanchezza degli eserciti, la difficoltà degli stati maggiori imperiali di garantire approvvigionamenti alle truppe, lo spavento delle masse nella capitale francese favorirono la ripresa delle trattative di pace, delle quali il G. fu protagonista.
Già alla fine del luglio 1544 i Francesi avevano intavolato negoziati con N. Perrenot de Granvelle, al quale, insieme con il G., Carlo V concesse poco dopo poteri di plenipotenziari. Tra la fine di agosto e l'inizio di settembre 1544 entrambi, con il vescovo di Arras (figlio del Granvelle) e il segretario A. de Idíaquez, incontrarono a Saint-Amand, presso Châlons, la delegazione francese guidata dall'ammiraglio C. d'Annebault. Le trattative erano ostacolate dalle onerose condizioni poste dai Francesi: solo dopo la conquista di Boulogne da parte degli Inglesi (sbarcati alla fine di giugno) se ne affrettò la conclusione. Il trattato di Crépy, firmato da Granvelle e dal G. il 18 sett. 1544, ristabilì lo status quo ante, cancellando le modifiche territoriali seguite alla pace di Nizza del 1538; Francesco I rinunciò definitivamente al Regno di Napoli, alle Fiandre, all'Artois e s'impegnò a partecipare a un'impresa contro il Turco. Asburgo e Valois stringevano, altresì, un legame matrimoniale: il duca Charles d'Orléans, figlio di Francesco I, avrebbe preso in moglie la figlia maggiore di Carlo V (con in dote i Paesi Bassi e la Franca Contea), oppure la seconda figlia del re dei Romani (Ferdinando), cui sarebbe stata assegnata Milano. L'alternativa doveva essere sciolta entro pochi mesi. Il G. si espresse apertamente per la cessione delle Fiandre: mentre lo Stato di Milano gli sembrava indispensabile per mantenere il controllo della penisola, giudicava impossibile consolidare il dominio dei Paesi Bassi, privi peraltro di eguale importanza strategica. Egli rimase però isolato: lo Stato di Milano fu ceduto e solo la repentina morte dell'Orléans (1545) vanificò il trattato.
Tornato in Sicilia, il G. presiedette nel marzo 1546 le sessioni del Parlamento, in uno dei suoi ultimi atti come viceré: nel maggio 1546, infatti, lasciò l'isola essendo stato nominato governatore di Milano. Le sue ambizioni a riguardo erano note: dopo che, nel 1536, aveva addirittura esplorato le possibilità di divenirne duca, nel maggio 1542 aveva inviato un suo uomo presso Carlo V per avvertirlo che negargli quell'incarico sarebbe stato "far[gli] un frego in faccia per quanto durasse la vita [sua]" (Memoriale et instruttione secreta… circa le vacantie che accascheranno…, in Capasso, 1905, p. 461). Così, nel 1543 era stato candidato a sostituire Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, responsabile dei rovesci militari in Piemonte, ed era stato effettivamente nominato nell'aprile 1546.
Il 19 giugno il G. fece il suo ingresso a Milano. Subito impostò un'energica azione di governo, impegnandosi nella politica fiscale. Introdusse un'imposta straordinaria (un "servizio" di 220.000 scudi) e insistette affinché fosse reintrodotto e accresciuto il "mensuale" (tassa abrogata nel 1545). Come in Sicilia, però, non riuscì a finanziare stabilmente l'Erario: per pagare le truppe prese più volte somme in prestito a Genova e impose prelievi forzosi al ceto dei notabili, mettendo in vendita censi e redditi della Camera milanese.
Si distinse, nondimeno, per iniziative prestigiose, soprattutto urbanistiche: a Milano commissionò l'ampliamento e il restauro del palazzo ducale, avviò la risistemazione dell'area monumentale del duomo, dotò la città di un ampio circuito di mura bastionate. Cospicui lavori interessarono anche le strutture difensive di Cremona, Alessandria, Novara, Lodi, Pavia sotto la sovrintendenza dell'ingegnere G.M. Olgiati, mentre l'architetto personale del G., D. Giunti, progettò la risistemazione della Gualtiera, villa suburbana acquistata nel 1547 (l'attuale villa Simonetta).
Il G. condusse altresì una politica estera di respiro molto ampio. Progettò di conquistare Bellinzona e di porre Chiavenna e la Valtellina sotto il controllo imperiale, prospettando a Carlo V, a partire dal 1547, diverse ipotesi a riguardo. Verificò quindi le possibilità di sottrarre a Venezia le più prossime città della Terraferma (Brescia, Crema, Bergamo): solo un espresso intervento dell'imperatore lo obbligò alla massima prudenza nei rapporti con la Serenissima. Egli comunque non si limitò a immaginare azioni sulle tradizionali linee di espansione dello Stato di Milano; proponendosi, più in generale, la tutela degli interessi asburgici nell'Italia settentrionale, raccomandò all'imperatore di rafforzare il dominio su Genova e (contro Andrea Doria) sostenne la necessità di costruirvi una fortezza in cui insediare un presidio militare permanente; quindi si ingerì nel confuso stato della Repubblica dopo la congiura dei Fieschi (gennaio 1547), da lui presagita, impadronendosi di gran parte dei domini della famiglia ribelle e occupando Pontremoli e la Val di Taro. Infine affrontò con decisione la questione del marchesato di Massa e Carrara, preteso da Giulio Cibo Malaspina, che aveva occupato le due città nell'ottobre 1546. Il G. dapprima sequestrò lo Stato conteso in attesa che si pronunciasse Carlo V; poi, quando si scoprì che il Cibo preparava, con l'aiuto francese, un colpo di Stato a Genova, lo fece arrestare a Pontremoli (gennaio 1548), lo tradusse a Milano e lo condannò a morte.
Ancora più pesante e determinato parve l'intervento nella questione di Piacenza e di Parma, sfuggite nel 1512 al dominio degli Sforza ed entrate nello Stato della Chiesa. L'eventualità che le due città potessero cadere sotto influenza francese teneva in scacco la sicurezza del Milanese. Per questo, negli anni Trenta del Cinquecento, tanto Francesco II Sforza quanto gli stati maggiori imperiali avevano sentito l'esigenza di recuperarne il dominio. Per gli stessi motivi, quando nell'agosto 1545 Paolo III aveva costituito Piacenza e Parma in Ducati e le aveva infeudate al figlio Pier Luigi Farnese, Carlo V aveva disapprovato la spregiudicata mossa dando al G., dopo il suo insediamento al governo di Milano, disposizioni di preparare un colpo di mano da effettuare dopo la morte di Paolo III. Il G. fu esecutore sollecito, anche perché sul piano personale avversava il Farnese. Condivideva, infatti, sulla rapida fortuna dei Farnese, il severo giudizio dei casati regnanti italiani e aveva mal tollerato resistenze e opposizioni del duca alle sue ambizioni di acquistare un feudo nel Parmigiano (Poviglio prima, poi Soragna). L'ostilità del G. era però anche nutrita da fatti politici: era già stata deplorata l'assistenza del Farnese ai movimenti delle truppe francesi nella campagna del 1544, e allarme ancora maggiore destarono, nel 1547, le voci d'un suo accordo con il re di Francia e del coinvolgimento nella congiura dei Fieschi a Genova. Inoltre, Pier Luigi perseguiva una politica di compressione della nobiltà feudale che aveva colpito anche alcuni sudditi milanesi. In questo clima, si erano verificati persino incidenti di confine tra Piacenza e Cremona. Il G. riteneva dunque indispensabile affrettare i tempi per liberarsi del duca di Piacenza e verificò presso l'imperatore l'opportunità di agire "vivente il papa […] con dar nome dapoi che fosse fatto […] senza ordine" (a Carlo V del 1° febbr. 1547, in Capasso, 1923-24, II, p. 599 n. 2). Gli sembrava che Farnese, prevedendo il delicato momento alla morte del padre, si sarebbe allora difeso più efficacemente, mentre al presente appariva ancora piuttosto tranquillo. Ottenuto l'assenso di Carlo V per un'iniziativa (alla condizione che il Farnese non fosse ucciso), nell'aprile 1547 avviò contatti con nobili piacentini affinché ordissero una congiura contro il duca.
Si ebbero, nel contempo, le prime manifestazioni di ostilità: dopo concentramenti di truppe da entrambe le parti, il Farnese, alla fine di maggio 1547, fece iniziare i lavori per una nuova fortezza a Piacenza. Quindi, nella tarda estate successiva, maturò la congiura: attesa la partenza da Piacenza di Ottavio Farnese, genero dell'imperatore, il 10 sett. 1547 i congiurati (G. Anguissola, A. Landi e G.L. Confalonieri) uccisero il duca. Ne scaturì un tumulto, in un primo momento favorevole ai Farnese. Poi il piano procedette secondo quanto concordato con il G.: il Consiglio generale piacentino, paventando un'invasione francese, gli inviò messi per trattare delle sorti della città, dove entrarono truppe imperiali; il G. stesso giunse a Piacenza il 12 sett. 1547 e subito concluse patti con i rappresentanti locali, perché accettassero la sovranità imperiale. Il piano non ebbe però piena riuscita: era stato occupato solo il territorio fino al Taro (meno Roccabianca e Fontanellato) e O. Farnese era riuscito a entrare in Parma già il 16 settembre. Efficaci, invece, le risposte previste dal G. alla reazione della diplomazia pontificia: quando il nunzio presso Carlo V, F. Sfondrato, chiese conto dell'occupazione di Piacenza, gli fu mostrata una sua lettera all'imperatore datata 10 sett. 1547, in cui definiva l'evento "impensato et inaspettato" (Nuntiaturberichte aus Deutschland, p. 113 n. 3). Il G. non riuscì, però, con questi mezzi ad allontanare i sospetti: a Roma si seppe presto che egli aveva fatto preparativi militari il giorno prima dell'uccisione del duca di Piacenza e fu denunciata la sua avanzata nel Parmigiano, condotta "con ogni modo di guerra scoperta in pigliar et dimandare altri castelli" (il card. A. Farnese al card. F. Sfondrato, Roma, 13 ott. 1547: ibid., p. 143). Il G. si mostrò vieppiù deciso: già nel novembre 1547 trasmise alla corte imperiale un progetto per iniziare la guerra contro la Francia e lo Stato della Chiesa, quindi prese contatti anche in Parma con i nobili della fazione "ghibellina", preparandosi a recuperare la città alla morte di Paolo III. Parma però, soprattutto dopo l'arrivo del generale Camillo Orsini (febbraio 1548), appariva sotto il saldo controllo del pontefice.
In questo contesto, il G. elaborò piani per consolidare il dominio imperiale sull'Italia. In particolare, riteneva opportuno rinnovare l'alternativa sui Paesi Bassi, cedendoli ai Savoia (per mezzo di nozze tra Maria d'Asburgo e il principe Emanuele Filiberto); in cambio Carlo V avrebbe subito preso in consegna le fortezze del Piemonte e l'intero Stato dopo la morte di Emanuele Filiberto. Se poi l'imperatore, assicuratosi di Genova, si fosse impadronito anche di Siena, Lucca e Piombino, sarebbe giunto a controllare il Ducato fiorentino e lo Stato della Chiesa. Si trattava di un disegno coerente, che tendeva a imporre all'eterogeneo sistema dei domini imperiali, legati solo nella persona del sovrano, una nuova fisionomia. Il G. premeva, infatti, affinché Carlo V, pacificata in qualche modo la Germania e abbandonati i teatri di conflitto europei, eleggesse la "Monarquía" spagnola a centro dei propri interessi politici, puntando alla formazione di un vasto Stato, padrone (una volta radicato e ampliato il dominio sul nord Africa) di tutto il Mediterraneo occidentale. Tuttavia nei Consigli imperiali simili disegni non potevano trovare consenso. Concordava solo il duca d'Alba (F. Álvarez de Toledo), che rammentò le proposte del G. di abbandonare i Paesi Bassi durante la prima fase della rivolta fiamminga. Il Granvelle, invece, invitò esplicitamente il G. a non insistere su questa ipotesi. L'isolamento del G. in questioni più ampie limitò la sua azione all'Italia. Per risolvere definitivamente la questione dei Ducati di Parma e Piacenza, nell'aprile 1547 e nel novembre 1549 propose di offrire ai Farnese uno scambio con Siena ed elaborò piani per impadronirsi dei Cantoni svizzeri confinanti con lo Stato di Milano, non esitando (nel 1550) a premere su P.P. Vergerio, passato Oltralpe, perché favorisse il disegno.
Dovette però concentrarsi su problemi di governo: l'Erario milanese era in condizioni assai difficili per le enormi spese della spedizione di Piacenza, del mantenimento d'un presidio nella città emiliana e del rafforzamento delle difese ai confini. All'inizio del 1550, per un forte decremento delle entrate ordinarie, il G. poté far fronte al fabbisogno solo con prestiti garantiti dalle entrate tributarie future; nel 1551 il debito toccò la cifra esorbitante di 750.000 scudi. In questo dissesto finanziario emersero nuovi impegni militari, perché la questione di Parma dominava ancora lo scenario italiano. Giulio III, succeduto a Paolo III, aveva confermato uno degli ultimi atti di papa Farnese, la restituzione della città a Ottavio Farnese, che pareva incline a porsi sotto la protezione del re di Francia. Papa Del Monte avversava con decisione tale esito ma, non intendendo riaccendere un conflitto in Italia al momento della riapertura del concilio di Trento, premeva sul Farnese alternando misure rigide a proposte di accordo. Il G., invece, riteneva necessario un intervento militare, poiché il Ducato emiliano costituiva una minaccia per lo Stato di Milano e per gli altri domini asburgici in Italia: così, già nell'aprile 1551, sollecitò l'imperatore e il papa a stringere la città d'assedio, devastandone i dintorni e impedendone il vettovagliamento. La proposta non fu accolta: Giulio III non si risolveva alla guerra e Carlo V intendeva procedere solo in aiuto alle armi pontificie, per non violare la pace di Crépy. In questo quadro, il G. prese l'iniziativa di impadronirsi di Brescello, feudo imperiale in territorio estense, per controllare gli accessi dal Po a Parma. Da parte francese, poiché quel centro era tenuto dal card. Ippolito d'Este, schierato con i Valois, la mossa fu considerata una rottura della pace e il clima si deteriorò rapidamente: a fine maggio 1551 O. Farnese, che aveva stretto una formale alleanza con Enrico II e accettato aiuti militari francesi, venne dichiarato decaduto dal feudo; il pontefice, allora, senza abbandonare le vie di accordo, affrettò i preparativi militari e, all'inizio del giugno 1551, nominato il G. capitano generale di Santa Chiesa, diede inizio alla guerra ordinando di muovere contro Castro (feudo farnesiano nel Lazio) e Parma.
Il G. passò il Taro e, occupato il castello di Noceto, il 17 giugno 1551 si unì all'esercito pontificio comandato da G.B. Del Monte, nipote del papa. Devastate le campagne intorno a Parma assediò Colorno, che riuscì a prendere agli inizi di luglio, ma le scorrerie nel Bolognese di un grosso contingente al comando di P. Strozzi lo distolsero dall'obiettivo più ambizioso, l'assedio di Mirandola, dove si concentravano i rinforzi francesi. Il pontefice, sostenuto finanziariamente solo in parte da Carlo V e timoroso delle conseguenze della rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia, volle presto disimpegnarsi dal conflitto e la campagna dell'estate del 1551 rimase infruttuosa. Affidato l'assedio di Mirandola a G.B. Del Monte, il G. continuò la sistematica distruzione dei raccolti intorno a Parma, intenzionato a rimandare all'anno seguente le azioni decisive. L'irruzione dei Francesi in Piemonte, all'inizio del settembre 1551, lo obbligò ad accorrere su quel teatro: affidato l'assedio di Parma a G.G. Medici, marchese di Marignano, partì per Asti con un contingente di fanti tedeschi.
Ch. de Cossé, signore di Brissac, aveva conquistato Chieri e San Damiano; le sue truppe scorrevano l'Astigiano e il Monferrato, ma il G. riteneva che il suo vero obiettivo fosse soccorrere il Farnese assediato in Parma. Così egli propose il mero contenimento dell'avanzata nemica e, riconquistata Chiusano, si limitò a far presidiare le vie d'accesso all'Emilia attraverso l'Adda e il Ticino. Accampatosi tra Casale e Vercelli, non mostrò intenzione di accettare uno scontro campale con truppe inferiori di numero, esauste e pagate in modo solo sporadico. Il G. temeva, altresì, che Giulio III fosse vicino all'accordo con i Francesi e stimolava l'imperatore a concentrare le forze contro Parma. Tuttavia lasciò cadere l'ordine di Carlo V (fine ottobre del 1551) di tornare sul teatro di guerra emiliano, convinto che fosse prioritario bloccare l'avanzata francese. La tregua fra Giulio III e Ottavio Farnese, conclusa nell'aprile 1552 dopo la morte sul campo di G.B. Del Monte, e la nuova, risoluta offensiva in Germania dei principi ribelli a Carlo V, mutarono gli scenari. Subito il G. si disse pronto a guidare l'assedio di Mirandola, assoldando per l'imperatore le truppe pontificie. Queste, invece, lasciati i posti prima dell'arrivo degli Imperiali, permisero l'approvvigionamento della fortezza e passarono anzi, in gran numero, con i Francesi. Così, richiesto da Carlo V di un parere, il G., conoscendo gli impegni militari dell'imperatore, consigliò di aderire alla tregua per concentrare gli sforzi in Piemonte. Tuttavia Carlo V, che combatteva contro Enrico II nelle Fiandre e in Lorena e, in Germania, contro Maurizio di Sassonia e i principi tedeschi ribelli, non poteva raccogliere la richiesta del G. di privilegiare il teatro italiano: così l'imperatore (ormai favorevole alla pace) non solo ratificò la tregua promossa da Giulio III (10 maggio 1552) ma richiamò le truppe impegnate sotto Parma, ordinando al G. di tenersi sulla difensiva in Piemonte.
Questi, invece, con le sole sue forze, aveva intrapreso una decisa avanzata, occupando parte del territorio del marchesato di Saluzzo, dal 1549 annesso al Regno di Francia. Si fermò solo dopo aver constatato di non avere truppe sufficienti per riprendere Savigliano, centro strategico per il controllo del Piemonte meridionale, o per impedire i movimenti dei Francesi, che a metà giugno si impadronirono di Verrua. Nuovamente esortato a porsi sulla difensiva, per salvaguardare la linea di comunicazioni tra la Penisola e i domini imperiali Oltralpe, il G. si ritirò ad Asti, disponendo presidi nei centri più importanti; quindi, malato, rientrò in Milano.
Tentò di nuovo, senza esito, di convincere l'imperatore della priorità del teatro di guerra italiano, consigliandolo (luglio 1552) di accordarsi con i principi tedeschi ribelli per concentrarsi contro Enrico II. Quando poi, nella tarda estate, i Francesi ripresero l'iniziativa (conquistando Busca, entrando nel marchesato di Saluzzo e assediando Volpiano), il G., alle prese con gravi disordini nell'esercito, non poté impedire la caduta di Ceva. Subito concentrò gli sforzi per riacquistare questo centro, che apriva la strada verso Genova e Milano, e ne ebbe ragione alla fine dell'ottobre 1552. Nello stesso autunno conseguì nuovi successi a difesa di Ivrea, Volpiano e Asti, ma una rapida azione francese contro Alba lo colse impreparato, mentre il sopraggiungere d'un inverno particolarmente rigido lo costrinse ad acquartierarsi.
Nella prima metà del 1553 il teatro di operazione furono le Langhe: caduta di nuovo Ceva (con Cortemilia), si trovavano esposte la Riviera ligure e la stessa Cuneo, ma il G. constatò di non avere forze, approvvigionamenti, mezzi finanziari per tentare un'offensiva. Così, dopo reiterate richieste di sussidi indirizzate alla corte imperiale - che non potevano trovare ascolto, essendo l'imperatore massicciamente impegnato -, percorse vie per giungere a una tregua. Dei negoziati erano stati avviati nell'agosto 1553 per lo scambio di prigionieri; tuttavia solo dopo che i due eserciti si erano trovati vicini alla battaglia campale (presso Buttigliera d'Asti) il G. parve impegnarsi più a fondo. Accettata una breve sospensione, incontrò (tra agosto e settembre 1553) il generale francese Brissac, dichiarandosi disponibile alla pace nel caso gli fossero restituite le conquiste del 1552-53. L'eventualità non soddisfaceva l'imperatore, perché la chiusura del fronte italiano avrebbe rafforzato i Francesi sugli altri teatri di guerra. Così, a metà settembre 1553, Carlo V sconfessò la sospensione, concedendo solo facoltà di prolungarla. Il G. tentò di difendere la propria decisione ma, dopo una proroga, riprese la guerra: all'inizio del novembre 1553 occupò Valfenera, presso Villanova d'Asti, ma i Francesi riuscirono a compiere una scorreria in Vercelli. L'occupazione della città durò solo pochi giorni, ma esacerbò i malumori nella corte imperiale.
Sopraggiunsero accuse al G. di malgoverno del Milanese. Carlo V si era disposto a ordinare un'ispezione sin dal 1552, dopo che una prima, sommaria inchiesta aveva rivelato episodi di corruzione e malversazioni. Il G. si era difeso inviando un proprio emissario, il cap. F. Gazino, a corte nel gennaio 1553, ma non aveva potuto impedire che nell'autunno successivo J. de Luna, castellano di Milano, G.F. Taverna, gran cancelliere, e F. de Ibarra, tesoriere dell'esercito, presentassero esposti contro il suo operato. Così, a fine gennaio 1554, col pretesto di trattare della guerra di Fiandra, il G. fu chiamato alla corte, dove giunse il 17 aprile. Tra i numerosi capi d'accusa, furono provati casi di corruzione nell'assegnazione di magistrature e uffici amministrativi dello Stato milanese, frequenti malversazioni, tangenti imposte al commercio col Piemonte e la Francia. Non si trattava di delitti in grado di intaccare autorevolezza e prestigio del G., che di continuo era ricorso a denaro proprio per far fronte alle spese di guerra, vantando così circa 70.000 scudi di credito nei confronti dell'Erario. Il rovescio delle sue fortune era di colore eminentemente politico: oltre agli insuccessi della guerra con i Francesi in Piemonte e alla tregua dell'agosto 1553, egli scontava l'avversione di Emanuele Filiberto, duca di Savoia, giovane comandante militare in vista nella corte imperiale, e l'inclinazione del principe Filippo d'Austria - investito del Ducato di Milano e della reggenza di Spagna - a insediare al governo dei domini italiani il fedele duca d'Alba, suo oppositore personale.
Il G. si concentrò nella difesa del suo operato come generale; avvalendosi di una memoria stesa da un suo segretario, G. Gosellini (Compendio storico della guerra di Parma e del Piemonte. 1548-1553), ribadì di aver sostenuto le ultime campagne senza finanziamenti adeguati, scontando il minore interesse dell'imperatore per il teatro di guerra italiano. Proprio l'esito sfavorevole della campagna militare nelle Fiandre dell'estate 1554 provocò, a fine luglio, il suo rientro in servizio attivo, ma solo con limitati incarichi di comando, mentre la guida dell'esercito imperiale rimaneva nelle mani di Emanuele Filiberto. Terminate le operazioni militari per spossatezza dei contendenti, il G. cercò di ottenere l'appoggio del principe Filippo, sposato alla regina d'Inghilterra Maria Tudor, alla propria causa e, nell'ottobre 1554, inviò propri emissari in Inghilterra. Incontrò egli stesso Filippo, poco più tardi, ma senza risultati. Nel gennaio 1555 il duca d'Alba fu deputato a capo di tutti i governi d'Italia, compreso il Ducato di Milano. Caduto ammalato, il G. si dispose a tornare in Italia senza alcun incarico.
L'imperatore, tuttavia, non era intenzionato a interrompere bruscamente un rapporto di servizio che durava da tre decenni, soprattutto per il rischio che il G. o suo fratello, il cardinale Ercole (impegnati dal 1540 nella reggenza dello Stato mantovano), passassero nella rete di alleanze francesi. Sentenziò quindi l'innocenza del G., gli promise adeguate riparazioni finanziarie e gli fece altresì offrire il titolo di maggiordomo del figlio Filippo o di presidente di uno dei più importanti consigli imperiali (il Consiglio di guerra o quello di Stato). Il G. tuttavia non accettò: preso congedo dall'imperatore all'inizio dell'aprile 1555, tornò in Italia, prendendo dimora in Mantova e non in Guastalla, che aveva acquistato dagli eredi di casa Torelli nel giugno 1539 e che, dichiarata alle dirette dipendenze di Carlo V, gli era stata infeudata il 6 sett. 1541. Rifiutata, nel 1556, una proposta di passare al servizio dei Veneziani, rientrò al servizio degli Asburgo nel 1557, nella guerra mossa da Paolo IV a Filippo II, operando a Napoli come consigliere militare. Fu poi nelle Fiandre, partecipando alla preparazione della campagna culminata con la battaglia di San Quintino (10 ag. 1557). Ammalatosi, tornò a Bruxelles, dove morì il 16 nov. 1557. Fu sepolto a Mantova, nella sacrestia del duomo.
Dei figli, Cesare gli succedette nel titolo di Guastalla, mentre Francesco e Giovanni Vincenzo furono avviati alla carriera ecclesiastica, giungendo entrambi al cardinalato (nel 1561 e nel 1578); la primogenita Isabella, sposa a Fabrizio Colonna, mostrò spiccati interessi culturali. Questi non furono altrettanto solidi nel G., il cui ruolo di committente fu per lo più legato a compiti di rappresentanza. Quanto alle arti figurative, ebbe contatti con Tiziano, conosciuto in gioventù (è stata proposta una sua identificazione nel Ritratto di giovane con il guanto e nel Ritratto di giovane in armatura) e nel 1534 gli richiese "due quadri da camera di pittura […] quali vorria mandar a donare in Spagna" (Brown - Delmarcel, p. 56). Ancora come dono a F. de los Cobos, segretario di Carlo V, il G. commissionò a Sebastiano dal Piombo una Pietà. Appariva, d'altro canto, inclinato alle arazzerie di Bruxelles tratte da cartoni italiani o fiamminghi: possedeva la prima edizione (perduta) dei Fructus belli, da disegni di Giulio Romano o della sua scuola, i Giochi di putti (ora nella raccolta Marzotto a Trissino), le Storie di Mosè (ora a Châteaudun), una serie (di 14 soggetti) con le Storie di Enea. Interessato alla numismatica, tenne rapporti con lo scultore e medaglista L. Leoni.
Le speranze suscitate fra i letterati dalla sua nomina a governatore di Milano furono appagate solo in parte. Ebbe i maggiori contatti con L. Contile e P. Giovio, che consultò anche per i progetti di risistemazione della Gualtiera, ma non corrispose alle attese di chi gli aveva indirizzato componimenti (come, fra gli altri, P. Aretino e G.G. Trissino). Mostrò piuttosto gusto per le arti teatrali e la musica, prendendo ai suoi stipendi R. de Lassus (Orlando di Lasso) e chiamando a Milano il madrigalista Hoste da Reggio.
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