FILATURA (fr. filature; sp. hilatura; ted. Spinnerei; ingl. spinning; dal lat. filum "filo")
È il complesso di operazioni per cui le fibre tessili vengono opportunamente preparate e tenute insieme mediante torsione, così da formare il filo.
Cronologicamente non è escluso che la filatura abbia preceduto la tessitura, poiché la necessità di legare e di cucire può aver portato alla fabbricazione del filo in un'epoca e presso popoli ai quali era sconosciuta la tessitura. Taluno però ritiene il contrario, basandosi sulla consuetudine di popoli primitivi di fabbricare stuoie mediante intreccio di fibre legnose. Comunque, l'arte del filare risale a epoche remote e si perde nelle tenebre dei secoli: i Cinesi ne attribuivano l'invenzione all'imperatore Yao, gli Egizi a Iside, i Greci a Minerva, i Peruviani a Mama Oello, moglie del loro primo re. La filatura è stata una delle principali occupazioni femminili del mondo antico. Nelle tombe egiziane e su vasi orientali antichissimi si trovano disegnate figure femminili in atto di filare col fuso (figg. 1 a 3). In Omero, non solo le ancelle e le donne di casa, ma principesse o regine trattano la conocchia e il fuso; l'elogio, rimasto classico, della sposa e madre romana del buon tempo antico ne ricorda il lanam fecit, e ancora Tibullo, in piena età augustea, si compiace di stilizzare l'immagine della fanciulla cara chiudente gli occhi al sonno, nella tarda veglia serale, sul fuso. La grande diffusione di questa industria casalinga in Grecia e in Roma ci è attestata, oltre che dalla documentazione archeologica e artistica, anche dal frequente ricorrere d'immagini sia nell'antichissimo simbolo delle tre Parche filanti gli stami delle vite umane, sia in metafore relative all'eloquenza, alla dialettica, alla vita politica stessa (v. Aristofane, Lisistrata, 574-86).
Dagli abbondantissimi passi classici con allusioni o descrizioni della filatura non sembra però che questa sia mai uscita dalle pareti domestiche. Pur tuttavia anche in queste condizioni si otteneva un buon prodotto, come può rilevarsi dal tessuto di lana che protegge la carena delle navi romane tratte dal lago di Nemi. L'armatura di questo tessuto, molto ben lavorato e perfettamente uniforme, è in tela; la catena è a torsione forte di titolo elevato (28 circa metrico) con 16 fili al cm.; la trama è a torsione soffice di titolo grosso (5 circa metrico) con 32 fili al cm.
Dal punto di vista tecnico, la filatura presenta interessanti fasi di evoluzione. Il primitivo sistema di formazione del filo fu completamente manuale realizzandosi col far semplicemente girare sulla coscia la materia da filare. Ma già fin dall'antichità classica questo sistema veniva sostituito dalla filatura con rocca e fuso e dal sec. XV in Europa dalla filatura con rocca e mulinello. Finalmente nel sec. XVIII si esperimentarono i primi sistemi meccanici e si aprì la strada alla lavorazione industriale moderna.
I primi sistemi di filatura.
Tralasciando la filatura completamente manuale, i sistemi di filatura usati dall'antichità fino ai primordî della meccanizzazione, e che ancora oggi si usano in alcune regioni, si possono distinguere in:
1. filatura con rocca e fuso comune (fig. 4);
2. filatura con rocca e fuso comune fatto girare a mezzo di puleggia a corda mossa di solito dalla mano (fig. 5);
3. filatura con rocca e fuso ad alette fatto girare a mezzo di puleggia a corda mossa dalla mano (fig. 6), oppure dal piede (fig. 7).
I due ultimi si dicono anche sistemi di filatura col mulinello, intendendosi per mulinello (impropriamente detto arcolaio) qualsiasi strumento da filare provvisto di puleggia a corda (l'arcolaio è propriamente l'apparecchio che serve a dipanare le matasse).
Da un altro punto di vista, i sistemi di filatura cui si è accennato si possono ridurre a due:
1. filatura intermittente, col fuso comune girato a mano (fig. 4), oppure a mezzo di puleggia a corda (fig. 5);
2. filatura continua, col fuso ad alette girato a mezzo di puleggia a corda mossa dalla mano (fig. 6), o dal piede (fig. 7).
La filatura è intermittente, quando in un primo tempo si forma una data lunghezza di filo e in un secondo la si avvolge sul fuso; la filatura è continua, quando in uno stesso tempo il filo si forma e si avvolge sul rocchetto.
Filatura con rocca e fuso comune. La rocca o conocchia è un bastone leggiero, di solito rotondo, lungo da 90 a 125 cm. (secondo la lunghezza delle fibre da filare) bucato a una estremità e munito di un nastro che serve a tenere unita la materia da filare (fig. 8-a). Può essere anche una canna foggiata a un'estremità a forma di doppio cono, con la materia da filare collocata sul cono superiore, in modo che vi trovi appoggio e non possa scendere (figura 8-b), o nella forma rappresentata dalla fig. 8-c: alla sommità delle rocche di quest'ultimo tipo, per tenere unita la materia da filare, invece del nastro, è applicato un cappello più o meno grande di cartone o di stoffa, con disegni e ricami. Nei musei si ammirano rocche artistiche, finemente lavorate (fig. 9). La rocca ha lo scopo di contenere, a portata di mano, una certa quantità di materia da filare (pennecchio), per l'alimentazione del fuso.
Per servirsi della rocca, si stende su un tavolo la materia da filare formando strati sottili. Impiegando rocche del tipo della fig. 8-a bisogna aver cura che la parte inferiore di tali strati sia un po' più grossa della parte superiore, affinché, quando vengono arrotolati sulla rocca, essi formino un cono col vertice in alto: l'arrotolamento si fa un po' in isbieco, sulla sommità della rocca, accomodando bene gli strati con la mano e fissandoli con diversi giri di nastro (fig. 10-a); per fibre molto corte, gli strati, anziché arrotolati, vengono semplicemente applicati. Impiegando rocche del tipo delle figure 8-b e 8-c, non occorre che gli strati siano ingrossati nella parte inferiore, perché il cono si forma da sé con la semplice aderenza alla rocca (fig. 10-b).
Il fuso comune ha forma di doppio cono, della lunghezza da 20 a 30 cm., con un piccolo ingrossamento alla punta superiore detto cocca, al quale si accappia il filo affinché non scivoli quando il fuso è in rotazione. Il nome deriva dal latino fusus, di etimologia sconosciuta. Ha lo scopo di dare la torsione al filo e di raccogliere il filato prodotto. Come è provato da numerosi ritrovamenti, nell'antichità preistorica (dal Neolitico avanzato in poi) i fusi erano generalmente di legno: tali si trovarono nel secondo strato di Troia e in molte tombe dell'antico Egitto, e tali rimasero nell'uso più comune per tutta l'antichità classica, accanto a tipi più ricchi o di altra materia più pregiata. Le forme erano assai varie. Particolarmente piccoli con altezza aggirantesi intorno a 20 cm., sono quelli usati nell'età del ferro, in cui non raramente appaiono di bronzo. Qualche bel campione metallico è stato raccolto nelle tombe picene e della bassa Etruria, e in strati etruschi: la foggia è analoga alla moderna, con testa quasi cilindrica e un poco rigonfia nel mezzo, e terminata superiormente in forma di grande cono sormontato da un altro più piccolo. Non mancano, però, fusi di materia più nobile: la tradizione ci dice ad es., che Elena ricevette in dono nuziale un fuso d'oro; da tombe della Crimea, dalla Grecia, ecc., si sono ricuperati fusi di avorio, e fusi di osso furono usati, dapprima nell'Europa meridionale e solo con i tempi cristiani nella settentrionale. Dischi per fuso, di pietra, d'argilla, d'osso, di legno, raramente anche d'ambra, si ritrovano in numerose sedi; più rari quelli di bronzo e di piombo (v. fusaiola). Questi dischi hanno lo scopo di facilitare la rotazione del fuso come lo ha il rigonfiamento a forma di cono. Un dipinto sepolcrale di Benī Hasan (Egitto) del 2500 a. C. mostra come si applicavano i dischi ai fusi.
Anticamente certi fusi avevano sulla loro punta superiore un piccolo gancio di fil di ferro, al quale veniva agganciato il filo, risparmiando così il nodo scorsoio.
In Italia e in Germania erano usati, nel Medioevo, anche fusi di corno, che avevano un gancetto in basso; il filo veniva fissato sulla punta liscia della parte superiore per mezzo di un nodo scorsoio e al gancetto veniva appeso un piccolo peso di metallo. Nel Himālaya, invece del gancetto, per attaccare il filo, si usava fare sul fuso un taglio elicoidale.
La fig. 11 rappresenta i principali tipi di fusi usati nelle varie epoche e nei diversi paesi. La fig. 12 mostra tre fusi di uso comune nell'Italia Settentrionale, rispettivamente per la stoppa, per il lino e la lana.
La filatura con la rocca e col fuso comune avviene in tre tempi: 1. rotazione del fuso (figura 13); 2. alimentazione e formazione del filo (fig. 14); 3. avvolgimento del filo sul fuso (figura 15). La filatrice, preparata la rocca, la infila nella cintola al suo fianco sinistro sorreggendola con un nastro puntato alla spalla; col pollice e con l'indice della mano sinistra tira una piccola quantità di materia da filare dalla parte inferiore del pennecchio; l'arrotola con le dita, la fa girare una o due volte sull'estremità superiore del fuso, e ve la fissa per mezzo di un nodo scorsoio. Prende poi tra il pollice e il medio della mano destra (oppure tra il pollice e l'indice) l'estremità superiore del fuso, e imprime a questo un rapido movimento rotativo, operazione che ripete ogni qualvolta il fuso accenna a fermarsi. Mentre il fuso gira, col pollice e con l'indice della mano sinistra tira dal pennecchio un'appropriata quantità di materia da filare, disponendone acconciamente le fibre. La filatrice bagna, quando è necessario, le dita, con le quali tira la materia da filare, con la saliva oppure servendosi di una spugna imbevuta d'acqua. Il fuso, girando, si abbassa a piombo, mentre il braccio destro si stende gradatamente in fuori. Quando il fuso è giunto vicino a terra e non è più a portata di mano per farlo girare con nuove spinte, la filatrice sospende di tirare dal pennecchio la materia; prende il fuso nella mano destra e col pollice della stessa mano spinge in alto il nodo scorsoio facendolo cadere; avvolge il filo prodotto nel mezzo del fuso e verso la parte bassa di esso girando il fuso con le dita della mano destra; fissa il filo al fuso con un nodo scorsoio uguale al precedente, acciocché non si svolga col successivo movimento e la prima gugliata è così ultimata: l'operazione è ripresa tirando dal pennecchio, col pollice e l'indice dalla mano sinistra (bagnati con la saliva o con l'acqua) nuova materia da filare, e continuando come per la prima gugliata, salvo a mettere il fuso in moto con le palme delle mani (fig. 16), anziché con le dita quando è un po' carico di filo. La filatrice continua finché il fuso si è riempito di filo su tutta la sua lunghezza o il pennecchio è esaurito. La quantità di filo avvolta sul fuso ha dato origine al nome di una misura di lunghezza dei filati, lo spindle ("fuso") = yards 14,4 = m. 13,167.
Il modo sopra descritto di filatura subisce qualche variante secondo i paesi e anche secondo la materia tessile. Così può essere adoperata la mano destra invece della sinistra per tirare la materia da filare, e la sinistra in luogo della destra per mettere in moto il fuso; la rocca poi, anziché essere infilata nella cintola, può essere fissata su un piedestallo accanto alla filatrice o anche tenuta con la mano sinistra, come mostra la fig. 19. Il fuso può essere messo in moto anche facendolo girare con una mano contro la coscia e l'avvolgimento del filato può essere fatto anche appoggiando la punta inferiore del fuso sulla coscia destra. Così pure, se si tratta di filo facile ad arricciarsi, la filatrice, a gugliata ultimata, può prima avvolgere il filo tra le dita della mano sinistra in forma di matassina, sollevando così il fuso a portata di mano, e avvolgendo poi la gugliata sul fuso stesso.
In ogni modo, la filatrice deve osservare le regole seguenti: 1. bagnare sufficientemente e secondo il bisogno la materia da filare, senza di che il filo può riuscire debole e fragile; 2. non torcere né troppo, né troppo poco, filando uguale e rotondo; 3. tirare dal pennecchio una quantità di materia proporzionata alla grossezza del filo, alla qualità della materia e all'uso al quale il filo è destinato; 4. tirare sempre la stessa quantità di materia, affinché il filo riesca uguale; 5. fare scorrere bene il filo tra le dita mentre si forma e prima di metterlo sul fuso, per renderlo liscio e uniforme; 6. separare dalla materia da filare quanto vi s'incontra d'impurità; 7. fare il minor numero possibile di nodi.
Con la rocca e col fuso comune, che pur sono mezzi molto semplici, un'abile filatrice poteva produrre un filo regolare, forte ed elastico, quale si può ora ottenere con le macchine più perfezionate. Altrettanto si dica rispetto alla finezza: si afferma che gl'Indiani riuscissero a ottenere da una libbra di cotone (gr. 450) un filo lungo 253 miglia inglesi (m. 407.000) cioè all'incirca del numero 530 tit. inglese (numero 895 tit. metrico); il fuso era di bambù, non molto più grande d'un ago da rammendo al quale veniva aggiunta una pallottola d'argilla; ma siccome un filo così sottile non sopportava neppure il peso di quel fuso, la rotazione di questo avveniva sopra un pezzo di conchiglia. La fig. 17 rappresenta una famiglia di Trecate (Novara), intenta a filare; si vede pettinare il lino, filarlo con rocca e fuso, aspare il filo prodotto, cioè metterlo in matasse, e infine trasformare la matassa in gomitoli con l'arcolaio.
La figura 18 rappresenta un filatore albanese. La figura 19 una filatrice africana; interessante la fomia della rocca e il modo come questa è tenuta. Le figure 20 e 21 mostrano la filatura con rocca e fuso comune nella celebre pittura di Pinturicchio e in quella di Rosso Fiorentino, già attribuita a Michelangelo.
Filatura col fuso comune fatto girare per mezzo di puleggia a corda mossa dalla mano (mulinello). - Non si conosce dove e quando il fuso abbia incominciato a essere messo in rotazione per mezzo di una puleggia a corda, girata a mano (fig. 5). Si suppone che il sistema sia nato in Oriente, dove è ancora usato, e si sia diffuso in Europa, specialmente in Inghilterra, verso la fine del sec. XV.
Il fuso (fig. 22), che è fisso, cioè non si sposta mentre è in rotazione come avviene nel precedente sistema, è munito di una piccola puleggia a gola (noce) ed è portato orizzontalmente da due supporti, da uno dei quali sporge verso la filatrice; su questa parte sporgente del fuso, con la mano destra la filatrice fissa le fibre tirate dalla rocca e, con la mano sinistra sul manubrio, mette in rotazione la grande puleggia a gola che comunica il movimento al fuso a mezzo d'una cordicella di trasmissione. La filatrice procede poi nel lavoro in due tempi: in un primo tempo tiene la mano destra (quella con la quale trae le fibre dalla rocca) verticalmente al fuso, cioè sulla linea dell'asse del fuso, effettuando così la torsione e non l'avvolgimento; quando il filo prodotto è tanto lungo quanto lo consente il braccio destro, la filatrice interrompe il lavoro e porta il filo perpendicolarmente al fuso, cioè in modo da formare con questo un angolo retto; così il fuso, girando, avvolge su sé stesso il filo prodotto (gugliata). La filatrice ripete poi l'operazione del primo tempo. Questo mulinello è conosciuto in Inghilterra sotto il nome di Jersey wheel.
Da notarsi che col mulinello e procedendo nel modo indicato, spesso, anziché ottenere il filato definitivo, dapprima si producevano, avvolti attorno ai fusi, fili grossi, soffici e pochissimo torti, detti stoppini o lucignoli; poi, con un secondo procedimento simile al primo, tali fili venivano assottigliati e trasformati in filato definitivo con nuovo stiro e nuova torsione. In questo doppio procedimento, si riscontra il principio dello stiramento graduale, che forma, insieme con l'accoppiatura, la base della preparazione della moderna filatura.
La fig. 23 mostra lo stesso tipo di mulinello usato in Spagna con il pennecchio tenuto nella mano anziché sulla rocca.
Degno di nota è uno speciale filatoio, basato sullo stesso principio, ma a tre fusi (fig. 24), usato per secoli in Cina e tuttora adoperato nelle regioni più remote. L'operaia, seduta di fianco all'apparecchio, appoggia i piedi sul palo che funziona da pedale, uno a destra e uno a sinistra del sostegno, e mette in movimento la ruota fornita di un nastro, che imprime ai tre fusi la stessa velocità. L'operaia ha così le due mani libere per filare. È forse l'unico mulinello di questo tipo, mosso dai piedi, che si conosca.
Filatura col fuso ad alette (mulinello). - La caratteristica essenziale di questo filatoio a lavoro continuo, è data dalle alette per la torsione, che abbracciano il rocchetto (spola) sul quale il filo si avvolge di mano in mano che è prodotto; le due operazioni di dare la torsione e avvolgere il filo prodotto sul rocchetto avvengono cioè contemporaneamente. La notizia più antica di un tale filatoio (fig. 25) si ha nel Hausbuch der Familie Waldburg, libro nel quale la famiglia Waldburg soleva registrare, secondo l'usanza del tempo (dal 1480 circa) le principali vicende domestiche; ma né vi appare, né si può arguire la data in cui tale filatoio sarebbe stato costruito. La seconda notizia dalla quale si può desumere una data più sicura, si trova nel Steffen Arndes Eyne nyge Kalender di Lubecca dell'anno 1519; ma Leonardo da Vinci, morto appunto nel 1519, aveva studiato un meccanismo da filare, il cui disegno si trova nel Codice Atlantico, foglio 393 v a (fig. 26).
Lo schizzo rappresenta una cassa, nella quale è contenuto il meccanismo e, sporgenti dalla cassa, la spola e le alette. Le fibre da filare (visibili in forma di una linea fine) vengono tirate dalla mano della filatrice e fatte entrare nel mezzo dell'asse per uscirne subito dopo, dirette verso una delle alette. Dall'aletta le fibre ricevono la torsione e si trasformano in filo; questo va poi verso la spola, attorno alla quale si avvolge. Per rendere possibile questo avvolgimento l'aletta e la spola devono girare con diversa velocità: ciò venne raggiunto da Leonardo con pulegge di diverso diametro, fatte girare a mezzo di una grande puleggia a corda mossa da un manubrio. Per impedire poi che il filo si avvolgesse nello stesso punto, Leonardo ideò il guidafili, che si vede nel disegno in sezione. Qui, per mezzo di un ingranaggio, visibile nella parte sinistra della figura, una leva a forcella riceve un movimento di va e vieni, che trasmette alle alette.
L'invenzione quindi delle alette e del guidafili è, come in generale si ritiene, dovuta al genio di Leonardo da Vinci, il quale andò più in là: nel foglio 377 r a del codice Atlantico (fig. 27) si vede infatti una macchina da filare con due fusi ad alette, punto di partenza delle moderne macchine, che arrivano a filare 1000 e più fili contemporaneamente. Il guidafili, come è stato ideato da Leonardo, fu introdotto in Inghilterra solo nel 1794 ed è il medesimo che si applica alle macchine da cucire per distribuire il filo sulla bobina. Da notare, però, che in quasi tutti i tipi di filatoi ad alette, la distribuzione del filo sul rocchetto viene regolata a mano, a mezzo di uncini applicati alle alette ai quali la filatrice appende il filo.
Il filatoio a lavoro continuo in principio era mosso dalla mano (figg. 6, 25, 28); ma con questo sistema la filatrice aveva una sola mano disponibile, per cui il filatoio mosso dal piede prese il sopravvento. Un tipo comune di questo secondo filatoio è rappresentato dalla fig. 29; l'alimentazione viene fatta con la rocca nell'identico modo descritto per la filatura col fuso comune.
Il filatoio continuo a pedale si compone, oltre che dell'intelaiatura, delle seguenti parti fondamentali:
1. Fuso ad alette (fig. 32-a) formato da un asse di ferro ingrossato da una parte e forato; a questo ferro sono fissate le alette di legno, che portano uncini per la distribuzione del filato sul rocchetto.
2. Rocchetto a flange (fig. 32-b) destinato a ricevere il filato; ha una flangia ingrossata con gola per ricevere la cordetta di trasmissione.
3. Carrucola a gola (fig. 32-c), che si fissa sull'asse del fuso ad alette (dopo aver introdotto il rocchetto) per imprimergli il moto. Questa carrucola è di diametro più grande di quello della flangia a gola del rocchetto: il rapporto fra questi diametri è di solito di mm. 70 a mm. 50. La diffeienza di velocità dei due organi determina, come nel filatoio disegnato da Leonardo, l'avvolgimento del filo sul rocchetto.
4. Puleggia grande (diametro circa millimetri 480) con 2 gole, o meglio con una sola, larga, mossa da una leva a pedale. Un'unica cordicella di trasmissione unisce questa grande puleggia alle due pulegge del fuso e del rocchetto.
5. Carro mobile che porta il fuso ad alette col rocchetto; deve essere mobile per poter tendere e allentare secondo il bisogno la cordicella di trasmissione.
Per usare il filatoio, la filatrice dapprima prepara la rocca, esattamente come è descritto per la filatura col fuso, e l'infila nella cintola alla sua sinistra, oppure la colloca su un piedistallo (fig. 30); vi sono anche filatoi provvisti di apposito sostegno per ricevere la rocca, come indica la fig. 31. Prende poi il fuso ad alette (figura 32-a), vi applica il rocchetto (fig. 32-b) e fissa sull'asse del fuso la carrucola (fig. 32-c). Colloca il tutto sul carro mobile negli appositi sostegni e applica la cordicella di trasmissione dandole una giusta tensione; la cordicella, naturalmente, dovendo servire due pulegge, lavorerà incrociata in un punto. Tanto le alette quanto il rocchetto girano nello stesso senso. La filatrice tira dal pennecchio un po' di materia da filare e l'unisce a un filo, che passa poi nel foro del fuso ad alette; da tale foro il filo esce per essere appeso al primo gancetto di un'aletta e avvolto sul rocchetto, come mostra la fig. 32-d. Il filo di attacco può essere l'avanzo della produzione precedente.
Per filare, la filatrice tiene fermo con un piede (di solito il destro) il filatoio e con l'altro fa andare il pedale; la puleggia motrice gira verso la filatrice, ottenendo così torsione destra. Per ottenere torsione sinistra bisogna far girare la puleggia in senso contrario. La filatrice con la mano destra (in alto, vicino al pennecchio) tira la materia da filare (alimentazione) e con la sinistra (sotto la destra) dispone uniformemente le fibre dosando la quantità da lasciare avanzare (fig. 33); procede cioè come filando col fuso comune, soltanto che qui ha ambedue le mani libere per accudire all'alimentazione. Sia la torsione del filo sia l'avvolgimento sul rocchetto avvengono, come si è visto, contemporaneamente e in modo continuo. Il titolo del filato dipende, oltre che dalla qualità della materia, dalla quantità distribuita dalle mani (dosatura). È un lavoro che stanca la vista e che richiede grande attenzione: e perciò è considerato un lavoro malsano. Una filatrice abile in otto ore può produrre circa un rocchetto di filato di lana del n. 20 (titolo metrico).
Per ritorcere si adopera lo stesso filatoio; il filato viene prima riunito a due o più capi, collocando due o più rocchetti su apposito supporto e formando a mano un gomitolo (fig. 34). La donna, servendosi ancora del filatoio, introduce i fili accoppiati nel fuso ad alette, come ha fatto per il filo semplice, tiene il gomitolo nella destra (fig. 35) e fa girare la puleggia motrice in senso contrario di prima; il ritorto riuscirà di torsione contraria al filato semplice e si avvolgerà automaticamente sul rocchetto. La velocità della ritorcitura può essere doppia in confronto di quella della filatura. E un lavoro che non richiede soverchia attenzione.
Direttamente dal filatoio, il filato viene poi messo in matasse (fig. 36). La figura 37 mostra una famiglia di Macugnaga (Valle Anzasca) intenta a filare lana di produzione locale. Si vede l'uomo che dà alla lana la prima cardatura (in grosso) e la giovane che dà la seconda (in fino), mentre la vecchia fila.
In Inghilterra il filatoio continuo ad alette è stato poi costruito anche in modo che il filo si avvolge automaticamente su tutta la lunghezza del rocchetto di mano in mano che si produce e la filatrice non ha più bisogno di sostare per cambiare d'uncino il filo. Tale distribuzione è ottenuta nel seguente modo: l'aletta, oltre che girare con l'asse, può muoversi, come nel filatoio di Leonardo, nella direzione di questo a mezzo di una leva, la quale riceve un moto di va e vieni da un eccentrico e da una vite perpetua, come mostra chiaramente la fig. 38.
Sia il fuso comune mosso da puleggia a mano, sia il fuso ad alette mosso da puleggia, tanto a mano quanto a pedale, vennero in seguito alimentati con rotoli di fibre, chiamati nastri, previamente preparati a mezzo della cardatura in modo che la filatrice non aveva poi che da eseguire con le dita la distribuzione ed eventualmente la stiratura. La fig. 39 mostra un filatoio ad alette alimentato da nastro opportunamente disposto sulla rocca. Questo sistema trovava applicazione soprattutto nelle fibre corte, quali il cotone e la lana.
Si costruirono anche mulinelli doppî, per ottenere due fili contemporaneamente (fig. 40). Erano muniti di due fusi ad alette, fatti girare dalla grande puleggia; la filatrice alimentava un fuso con la mano sinistra e l'altro con la destra.
Nei musei si vedono poi filatoi originali e artistici (figura 41). La figura 42 rappresenta la filatura col mulinello a pedale in un quadro di G. Terborch.
Caratteristica la filatura del lino finissimo come era esercitata nel Belgio; per le tele batiste (v.) si arriva al titolo inglese 900 (544 titolo metrico) e anche al 1600 (968 tit. metrico). Nella Francia settentrionale si è eccezionalmente arrivati al tit. ingl. 2180 (1319 tit. metrico).
La filatura meccanica.
Le prime invenzioni. - Operazioni preparatorie - Cardatura. - Abbiamo accennato alla tendenza a preparare convenientemente la materia da filare sotto forma di nastri per facilitarne la filatura. Si cercò in seguito di perfezionare il modo di preparare tali nastri, rendendo meccanica la cardatura (v.).
Si sa che il nome cardatura deriva dal fatto che in origine le fibre di lana e di cotone venivano districate per mezzo di cardi. Più tardi ai cardi si sostituirono delle spazzole formate da punte di metallo fissate, con angolo conveniente, su strisce di cuoio (scardassi), le quali a loro volta erano assicurate a tavolette di legno, di solito lunghe 30-32 cm. e larghe 13-14 cm. Su una delle tavolette di legno, tenuta ferma, veniva collocata la materia da filare e, strofinandovi sopra l'altra tavoletta con le punte dirette in senso contrario a quelle della prima, avveniva la cardatura; se poi si voltava la tavoletta mobile, in modo che le punte fossero dirette nello stesso senso, i filamenti si staccavano arrotolandosi.
Gl'inglesi D. Bourn, J. Wyatt e L. Paul, che lavoravano insieme, ebbero l'idea di fissare gli scardassi su tamburi e Bourn e Paul presero i brevetti nel 1748. Quello di Bourn portava dei cilindri rotativi guarniti di scardassi, caratteristica della carda a cilindri; quello di Paul portava sotto il tamburo una serie di cappelli fissi, formati da pezzi di legno pure guarniti di scardassi, dando così origine alla carda a cappelli. È interessante notare che R. Peel, nonno del grande statista, provò una macchina di Paul nel 1760 e incaricò J. Hargreaves (il futuro inventore della giannetta) di perfezionarla; ma sembra che non sia riuscito a concludere niente di meglio. Chi ottenne risultati pratici fu R. Arkwright (il futuro inventore del filatoio a cilindri throstle). La fig. 43 rappresenta un primo tipo di carda da lui creato: il prodotto veniva tolto a mano con una bacchetta a punta formandone un rotolo o falda. La fig. 44 rappresenta un altro tipo di carda, perfezionato: vi è applicata l'idea del nastro continuo, che l'Arkwright ha avuto per primo.
Stiramento. - Come si è visto, le varie specie di mulinelli producevano meccanicamente la torsione, ma non lo stiramento, il quale doveva essere fatto dall'operaia con le dita. Per rendere completamente meccanico il filatoio, occorreva trovare il modo, dopo aver preparate le fibre sotto forma di nastro a mezzo della cardatura, di stirare meccanicamente tale nastro per ridurlo al grado di finezza voluto (in generale si usa il nome di nastro quando un fascio di fibre piuttosto grosso è semplicemente riunito senza torsione, e di stoppino o lucignolo, quando esso è più fino e ha ricevuto un po' di torsione). Il primo brevetto di stiramento meccanico (fig. 45) è dell'inglese L. Paul, e fu ottenuto nel 1738. Qualcuno attribuisce l'invenzione su cui si basa il brevetto a J. Wyatt, specialmente per quanto riguarda i cilindri scanalati. Comunque, si tratta di un passo decisivo verso la filatura meccanica. La descrizione del brevetto, che qui si riassume, esprime chiaramente il funzionamento del meccanismo: "preparato un nastro o stoppino di lana o di cotone, questo è introdotto tra due cilindri sovrapposti che, girando, attirano il nastro o stoppino proporzionalmente alla velocità loro impressa e le trasportano tra altre coppie di cilindri, ognuna delle quali gira proporzionalmente più veloce della coppia precedente, stirando quindi il nastro o stoppino al grado di finezza desiderato". La fig. 46 rappresenta il primo stiratoio chiamato lanterna, costruito da R. Arkwright nel 1780. Il nastro proveniente dalla carda passa attraverso cilindri che lo stirano da 1 a 3 e si raccoglie in un vasto sportello, avente forma di lanterna, per poterlo asportare.
Filatura propriamente detta. La giannetta di Hargreaves (Jenny). - L'invenzione di questo primo filatoio, a lavoro intermittente, è dovuta all'inglese J. Hargreaves (v.) che l'avrebbe attuata (la data è dubbia) tra il 1764 e il 1767. Sembra che occasionalmente guardando sua moglie a filare cotone, il mulinello (probabilmente del tipo fig. 22), per caso si sia rovesciato e il fuso, da orizzontale che era, si sia disposto verticalmente senza cessare di filare; ciò gli avrebbe ispirato l'idea che si potesse cambiare la direzione del fuso e rendere mobile il punto di filatura. Forse ad altre osservazioni dovette l'idea di far agire più fusi a un tempo. Comunque, essendo abile falegname, dopo varie prove, riuscì a costruire un filatoio a più fusi, a ciascuno dei quali presentava uno stoppino tenuto tra due traverse di legno formanti strettoio, detto filiera, che stringeva fra le mani, facendo in pari tempo un moto retrogrado in modo che girando i fusi, lo stoppino veniva allungato e torto. Ottenuti i primi buoni risultati, perfezionò rapidamente la sua macchina e costruì un filatoio con 8 fusi che chiamò Jenny in onore della moglie, che portava quel nome. Tale macchina, conosciuta in Italia sotto il nome di giannetta, poteva produrre 8 volte quanto produceva il solito mulinello; ma Hargreaves non si arrestò lì e nel 1770, quando prese il brevetto, aveva portati i fusi a 16, poi a 30 e, a poco a poco, a 120.
Nella giannetta venivano strettamente imitati i principî della filatura a mano con la rocca e col fuso; soltanto che il fuso, anziché spostarsi, era fisso, come nel mulinello del tipo illustrato nella fig. 22, e si spostava invece il punto di filatura. I fusi erano messi in moto da un tamburo orizzontale e lo stiramento era ottenuto a mezzo di un carrello mobile portante lo strettoio, attraverso il quale gli stoppini passavano per andare ai fusi e venivano stirati e torti.
Si trattava di un'intelaiatura (fig. 47) che aveva nel mezzo gli stoppini collocati su una rastrelliera (a) e in fondo una fila di fusi (b). Gli stoppini passavano, formando un angolo, nello strettoio (c), che si apriva e chiudeva a volontà, e andavano ai fusi. Quando una determinata parte degli stoppini era tesa dai fusi allo strettoio, questo veniva chiuso e fatto scorrere lungo l'intelaiatura allontanandolo così dai fusi per una determinata distanza; con ciò i fili venivano stirati, cioè allungati, e ridotti dello spessore desiderato. La mano sinistra del filatore era occupata in questa operazione, mentre la destra, impugnato il manubrio (d), faceva girare una ruota (e), che per mezzo di una cinghia, metteva in moto un tamburo orizzontale (f), attorno al quale passavano tante cordicelle di trasmissione quanti erano i fusi da far girare; gli stoppini ricevevano così, oltre lo stiramento, la torsione. La fig. 47 mostra la macchina al termine della corsa.
Facendo ritornare lo strettoio alla posizione primitiva, avendo prima abbassato opportunamente la bacchetta di guida (g), il filato ottenuto era avvolto sul fuso. La bacchetta, che portava un filo di ferro ben teso per tutta la lunghezza della macchina, aveva una grande importanza perché serviva a mantenere i fili sulla punta dei fusi durante la torsione e a eseguire poi l'avvolgimento del filato sui fusi stessi.
Va notato che il fuso, girando rapidamente, avrebbe avuto la tendenza ad avvolgere i fili in lavorazione; ma essendo essi mantenuti dalla bacchetta sulle punte coniche dei fusi, scivolavano via continuamente dalle punte permettendo così la torsione e evitando l'avvolgimento.
Potendosi aprire e chiudere lo strettoio in qualsivoglia punto della corsa e potendo quindi mettere a disposizione una parte più o meno lunga di stoppino per ogni gugliata, la quale invece era di lunghezza costante (corsa dello strettoio), si poteva regolare la grossezza del filato. La fig. 48 rappresenta la giannetta esposta al Museo industriale di Monaco di Baviera.
Nella macchina di Hargreaves, considerata nel 1770 perfetta, vi erano quindi tutti gli elementi del self-acting moderno; stiro, torsione, avvolgimento intermittente, operazioni eseguite a mano anziché meccanicamente. Lo stiro però, come abbiamo visto, non era ottenuto a mezzo di coppie di cilindri di differente velocità, sebbene questa invezione fosse precedente e avesse anche il vantaggio sul sistema a strettoio di rendere le fibre parallele. Evidentemente Hargreaves non era a conoscenza dell'invenzione fatta da Paul.
Il filatoio a cilindri di Arkwright. - La giannetta di Hargreaves, che ad onta delle ostilità della classe operaia cominciava a essere adottata dappertutto per cotone e per lana, venne sorpassata dal filatoio di R. Arkwright (v.) a lavoro continuo, caratterizzato dall'applicazione dei cilindri di stiro, detti anche laminatoi, e dai fusi ad alette. Questa macchina (fig. 49) inventata nel 1768 e brevettata nel 1769, si chiamava anche filatoio a cilindri. Arkwright conosceva l'invenzione di L. Paul e ne utilizzò l'idea; così pure utilizzò l'idea delle alette di Leonardo, già applicata ai vecchi mulinelli. Costruì il suo primo filatoio mosso da un cavallo, a Nottingham; ma trovando che questo motore animale costava troppo, nel 1771 si trasportò a Cromfort, nel Derbyshire, ove poteva utilizzare la forza d'acqua. Il filato ottenuto con la sua macchina si chiamò water "acqua" appunto perché la macchina era mossa dalla forza idraulica.
Nella prima macchina ideata da Arkwright per filare il cotone (fig. 49) e che servì di modello alle altre venute dopo, gli stoppini erano avvolti su rocchetti (a); dal rocchetto lo stoppino passava tra le coppie di cilindri di stiro (b), che potevano allungare lo stoppino fino a 10 volte; i cilindri erano pressati a mezzo di corde, leve e pesi (c); lo stoppino cosi assottigliato riceveva la torsione dal fuso ad alette (d) e veniva contemporaneamente avvolto sul rocchetto (e), come nel vecchio mulinello. Solo più tardi a questa macchina venne applicato un movimento di va e vieni come nel filatoio disegnato da Leonardo (figg. 26 e 27).
Le quattro coppie di cilindri stiratori, ingranati insieme a mezzo di pignoni, erano di bronzo e acciaio; i cilindri inferiori erano coperti di legno e scanalati e quelli superiori erano ricoperti di cuoio e pressati sui cilindri inferiori. Le alette, girando, producevano la torsione; la differente velocità tra rocchetto e aletta produceva l'avvolgimento del filato sul rocchetto. La macchina si chiamò throstle ("tordo") forse a motivo dei rumori che facevano le alette girando. La fig. 50 rappresenta la macchina esposta al Museo scientifico di Londra.
Si costruirono anche dei throstle doppî, cioè con fusi dalle due parti mossi dallo stesso tamburo; ma tutti gli altri organi rimasero quali Arkwright li aveva in origine ideati.
Con i throstle si potevano ottenere fili di cotone fino al n. 100 (tit. ingl.) buoni per catena (ordito) e da ciò il nome di water dato ai filati di cotone per catena, mentre la Jenny di Hargreaves non poteva produrre che filati per trama e piuttosto grossi. La torsione del filato avveniva tra l'ultimo paio di cilindri di stiro e le alette del fuso; questo è anche il principio dei ring attuali; la torsione avveniva cioè appena lo stoppino usciva dall'ultima coppia di cilindri stiratori e se lo stoppino era regolare il filato riusciva regolare, se invece lo stoppino era grosso e fino, anche il filato presentava le stesse irregolarità.
Il Mule di Crompton. - Anche il throstle di Arkwright, come prima la Jenny di Hargreaves, venne presto sorpassato dal mule di S. Crompton (v.), detto Mule-Jenny, filatoio a lavoro intermittente. In realtà Crompton combinò insieme l'invenzione di Hargreaves e quella di Arkwright e alla nuova macchina, brevettata nel 1779, pare sia stato dato il nome di mule "mulo" trattandosi, in certo modo, di un incrocio. C'è però chi sostiene che il nome derivasse dal fatto che la macchina dava un filato di cotone tanto fino da poter essere adoperato per la fabbricazione della mussolina, e fosse quindi un storpiamento di muslin wheel flfilatoio per mussolina". Questa macchina riuscì una combinazione dei principî su cui erano basati il filatoio intermittente di Hargreaves (Jenny) e la macchina continua a cilindri di Arkwright (throstle). Aveva un carrello mobile, contributo personale di Crompton alla nuova macchina, su cui erano installati i fusi e un paio di cilindri attraverso i quali veniva stirato lo stoppino. In principio la macchina fu mossa a mano; nel 1790 fu usata la forza idraulica per muovere il carrello.
In questa macchina (fig. 51) il filato era stirato e torto a un tempo, come nella jenny di Hargreaves; ma l'azione era automatica e i cilindri di stiro si fermavano quando era passata una lunghezza sufficiente di stoppino. Il carrello mobile che oltre i fusi trasportava i tamburi verticali, i quali, a mezzo di cordicelle, trasmettevano il moto ai fusi stessi, veniva spostato di circa m. 1,40 lontano dal portacilindri (lunghezza nota sotto il nome di tirata o gugliata) per poter stirare e torcere il filo. Completata la torsione, il carrello ritornava indietro verso il portacilindri e nel frattempo il filato si avvolgeva sui fusi. Il cambiamento di direzione del movimento del carrello era fatto a mano.
Mentre nella jenny di Hargreaves i fusi erano fissi e la filiera (strettoio) si spostava, nel mule di Crompton i fusi si spostavano e i cilindri di stiro erano fissi.
Le macchine Crompton poterono essere introdotte nelle fabbriche soltanto dopo il 1786, epoca in cui scadde il brevetto di Arkwright per i cilindri di stiro. Esse producevano filato molto fine.
La fig. 52 mostra un modello di mule-jenny di Crompton esposto al Museo industriale di Parigi.
Ulteriori invenzioni e perfezionamenti. - Le tre macchine da filare descritte comparvero: quella di Hargreaves verso il 1764-1767, quella di Arkwright nel 1769, quella di Crompton nel 1779; nello spazio cioè di meno di 15 anni, i problemi fondamentali della filatura meccanica furono risolti. Le macchine di Hargreaves e di Arkwright si tentò per alcuni anni di perfezionarle, ma poi vennero abbandonate, mentre quella di Crompton, che comprendeva gli elementi buoni delle prime due, continuò il suo cammino trionfale col nome di Mule-Jenny.
Della macchina di Hargreaves è rimasto il principio di stiro, ancor oggi usato nei self-acting a carro fisso per lana cardata, oltre il sistema di torsione e di avvolgimento; della macchina di Arkwright è rimasto il principio della filatura continua con i fusi ad alette, principio dovuto però, come si è visto, a Leonardo Da Vinci; di Paul è rimasto il principio di stiro a cilindri, base di tutte le macchine moderne; di Crompton, il carro mobile portante i fusi.
Dopo le prime grandi invenzioni meccaniche, si susseguono incessanti i perfezionamenti per rendere sempre più automatiche e potenti le macchine di filatura. Per ogni materia tessile si studiarono variazioni adatte, e sempre maggiore importanza andarono acquistando le lavorazioni preparatorie alla filatura. Si può dire anzi che la filatura è diventata un succedersi di operazioni diverse eseguite con macchine speciali. L'ordine delle invenzioni e dei perfezionamenti conseguiti nella filatura meccanica può essere rilevato dal seguente indice cronologico:
1730 - J. Wyatt pare abbia per primo avuto l'idea di stirare le fibre a mezzo di cilindri scanalati.
1738 - L. Paul ottiene il primo brevetto di stiro meccanico a mezzo di coppie di cilindri scanalati.
1748 - L. Paul ottiene un brevetto per una macchina da cardare e pettinare il cotone.
1764-1767 - J. Hargreaves inventa il filatoio intermittente Jenny (figg. 47 e 48).
1769 - R. Arkwright inventa il filatoio continuo Throstle (figg. 49 e 50).
1775 - R. Arkwright ottiene un brevetto per cardatura, stiratura e filatura.
1779 - S. Crompton inventa il filatoio intermittente Mule (figg. 51 e 52).
1780 - R. Arkwright costruisce il suo primo stiratoio per cotone, chiamato Lanterna (fig. 46). Arkwright è autore anche del banco a fusi per cotone, nel quale introdusse il principio, non più abbandonato in seguito, di tenere indipendente il movimento del fuso da quello della spola; egli applicò per primo il movimento differenziale alle spole a mezzo di tamburi conici, affinché la velocità diminuisse, aumentando il diametro delle spole.
1792 - W. Kelly prende un brevetto per un meccanismo atto a far marciare il Mule-Jenny di Crompton con qualunque motore, mentre, come si è visto, era mosso dal filatore mediante un manubrio fissato all'asse della grande ruota.
1794 - E. Whitney inventa la prima macchina da sfioccare il cotone.
1797 - Snodgrass inventa la battitura meccanica fatta a mezzo di una aspa, munita di tre o quattro sbarre (lame), girante a grande velocità.
1810 - F. De Girard inventa la prima pettinatrice per fibre lunghe (lino e canapa), perfezionata poi da costruttori francesi e inglesi. J. Raymor ottiene un brevetto per l'applicazione del movimento differenziale alle macchine da filatura.
1814 - J. Crighton inventa il primo apritoio che porta il suo nome con dispositivo per ottenere un rotolo di cotone greggio.
1824 - Ch. Danforth brevetta la sua macchina di preparazione chiamata banco a fusi.
1825 - R. Roberts brevetta il suo filatoio automatico intermittente - SelfActing Mule (fig. 53) - nel quale anche il cambiamento di direzione del carro avviene automaticamente.
1826 - H. Houldsworth perfeziona l'applicazione del movimento differenziale alle macchine da filatura.
1828 - J. Thorpe inventa e brevetta il filatoio continuo ad anello Ring (fig 54)
1828 - Ch. Danforth brevetta la macchina da filare a campanella (fig. 55)
1833 - W. Mason costruisce la prima macchina da filare continua Ring.
1841 - J. Smith brevetta un meccanismo di arresto dello stiratoio.
1845 - J. Heilmann inventa la prima pettinatrice per fibre corte (lana e cotone) che porta il suo nome. All'incirca alla stessa epoca Noble crea la sua pettinatrice circolare.
1853 - G. Wellman inventa una carda con apparecchio automatico di pulitura (carde del genere, ma imperfette, aveva brevettato A. Buchanan nel 1823, J. Smith nel 1834, E. Leigh nel 1850).
1867 - Rabbeth brevetta il suo fuso per le macchine ring.
1912 - F. Casablancas inventa il grande stiro con manicotti. Il grande stiro, avente lo scopo di sopprimere lavorazioni intermedie, ha formato e forma ancora oggetto di studio di molti tecnici e oggi lo si ottiene preferibilmente con quattro o cinque cilindri, come mostra la fig. 56.
Altri nomi sono legati alle invenzioni introdotte per perfezionare e rendere sempre più automatiche le macchine da filare, adattandole alle varie fibre tessili.
Principî di filatura moderna. - La lavorazione delle varie fibre tessili si effettua in generale secondo un metodo analogo per tutte. Varia il mezzo particolare in dipendenza delle qualità, ma i principî sono sempre i medesimi. Le macchine più moderne si trovano illustrate alle voci: agave; amianto; canapa; cocco; cotone; iuta; lana; lino; ramie; seta.
La lunghezza delle fibre, esclusa la seta sia naturale sia artificiale, varia da mm. 10 a oltre un metro; di solito oltre i 70 cm. di lunghezza le fibre non possono essere lavorate e vengono quindi convenientemente tagliate.
Le prime manipolazioni, fatte generalmente sul luogo di produzione, hanno lo scopo di pulire il più possibile le fibre dalle sostanze estranee. Le fibre vengono poi sottoposte a una serie di operazioni, di cui le principali si succedono di regola nell'ordine seguente:
Classifica o assortissaggio: serve a scegliere tra le fibre quelle i cui caratteri sono più adatti a produrre il filato desiderato.
Apertura e pulitura: hanno lo scopo di sfioccare e pulire le fibre separando la parte buona dalle sostanze eterogenee. Si ottengono a mezzo di macchine speciali per ogni materia tessile. Il principio generale di queste macchine è la battitura, ottenuta con svariati sistemi.
Cardatura e pettinatura: servono a isolare e raddrizzare le fibre. Si ottengono a mezzo di carde e di pettinatrici speciali per ogni materia tessile (v. cardatura; pettinatura).
Accoppiamento e stiro: ha lo scopo di parallelizzare e unire un uguale numero di fibre su tutta la lunghezza del nastro prima e dello stoppino poi. Si ottengono riunendo più nastri o stoppini in uno solo ridotto a titolo sempre più fino.
Filatura propriamente detta: ha lo scopo di formare il filato definitivo di determinato titolo e torsione. Si ottiene a mezzo di filatoi intermittenti (self-actings), o di filatoi continui (rings).
I self-actings hanno raggiunto un alto grado di perfezione; ma i rings tendono a sostituirli vantaggiosamente perché producono di più e possono essere condotti anche da giovani operaie. Tendenza moderna, per ottenere un buon filato, è di eliminare tutte le giunte, sia in preparazione sia in filatura, ultimando contemporaneamente i vasi provenienti dalle carde e dagli stiratoi e le spole dei banchi.
Segnaliamo il crescente successo che va ottenendo il ring da cardato, sia per cotone sia per lana, col quale si può ottenere una produzione più che doppia del self-acting con fibre anche cortissime. La fig. 57 mostra uno dei tipi più moderni: la cannella A sulla quale sono avvolti gli stoppini preparati dalle macchine cardatrici viene appoggiata sui tamburi B, che girando svolgono il filo richiamato dal cilindro alimentatore C. Fra questo cilindro e il cilindro stiratore D vi è un morsetto E che dà la torsione provvisoria (falsa torsione) allo scopo di aumentare la coesione fra le fibre e permettere lo stiro. Lo stoppino uscito dal cilindro stiratore D attraversa l'occhiello F, passa nell'anellino G e, mentre riceve la vera torsione, s'incanna sulla spola H.
In questo sistema l'anello è fisso e il fuso è mobile in senso verticale per la formazione della bobina, col vantaggio di mantenere una lunghezza costante alla gugliata. I due fusi contrapposti sono comandati da un'unica cinghia con tenditore.
Bibl.: A. Gray, A treatise on Spinning Machinery, Edimburgo 1819; H. Grothe, Bilder und Studien zur Gesch. vom Spinnen, Berlino 1875; M. Maiseau, Hist. de la filature et du tissage de coton, Parigi 1877; E. Leich, The science of Modern Cotton Spinning, Manchester 1877; H. v. Rettich, Spinnrad-Typen, Vienna 1895; L. S. Wood e A. Wilmore, The Romance of the Cotton Industry, Londra 1827.
Etnografia.
Si è già detto come la tecnica della filatura, precedentemente alle invenzioni meccaniche, sia passata nel suo sviluppo per tre grandi tappe: una prima in cui il filo è fabbricato interamente a mano, facendo girare la materia da filare sulla coscia; una seconda in cui il filo è fabbricato usando la rocca e il fuso sia questo con peso, sia senza peso o a pseudopeso (cioè un dischetto che serve a fermare il filo senza concorrere alla stabilità del fuso); una terza, in cui il fuso è sostituito dal mulinello nei diversi sistemi sopra descritti.
Uno stesso popolo può usare simultaneamente procedimenti appartenenti alle diverse fasi suddette a seconda del materiale di cui fa uso e senza d'altronde che questo materiale sia esclusivo degli altri procedimenti. Così gli Australiani, i quali sono in possesso di fusi primitivi, non se ne servono che per filare capelli umani, peli di canguro e di opossum, mentre avvolgono a mano i fili di fibra vegetale. Nell'America Meridionale le tribù che si servono di fusi a pseudo-peso non filano con essi che cotone; quelle che possiedono fusi a contrappeso filano cotone, eventualmente fibre vegetali e lana; sembra tuttavia che fusi a pseudo-peso siano pure serviti nei tempi protostorici (precolombiani) a filare la lana. Abili filatori affermano che per la filatura della canapa e di materie analoghe occorre un fuso con grosso peso di pietra o di argilla mentre quella della lana non vuole che una fusaiola leggerissima di legno o di scorza; se a tale distinzione si potesse dare affidamento si potrebbero trarre dalle scoperte preistoriche interessanti deduzioni: significherebbe da una parte che le popolazioni delle quali si ritrovano fusaiole (di pietra naturalmente) avrebbero filato la canapa, ma d'altra parte la mancanza di esse non escluderebbe che la popolazione in questione abbia filato la lana.
Per quel che riguarda la distribuzione e l'appartenenza culturale delle diverse forme di filatura si può osservare che nell'Australia il fuso, senza peso, si presenta sotto quattro forme: asta terminante a uncino, asta terminante a forchetta, asta munita non lontano dalle sue estremità di una bacchetta corta infilata a croce, asta fornita di due bacchette corte disposte a croce su un piano perpendicolare all'asta, non lontano da una delle estremità. Questi fusi australiani vengono girati orizzontalmente sulla coscia oppure verticalmente girati su sé stessi; sono usati per fare il filo semplice e ritorto, e come arcolai, e il filo può essere avvolto sia intorno all'asta sia fra i bracci della croce. Dalla forma a croce perpendicolare all'asta sono derivati, a livelli culturali più elevati, non solo i fusi con peso a disco (sostituzione della croce) ma alcuni arcolai a forma di ruota i cui raggi, invece di essere riuniti da un cerchio, portano ognuno, alla loro estremità, una piccola asta perpendicolare al piano dei raggi. La tecnica australiana della filatura appartiene tanto al ciclo culturale del bumerang, come a quello del totem (v. culturali, cicli).
Nel rimanente dell'Oceania in genere il fuso non è usato; sappiamo però che i Polinesiani hanno abbandonato molte arti mentre ne hanno sviluppate altre al massimo. Il fuso usato quasi dovunque nell'Asia e nell'Africa è quello a contrappeso. L'analisi del materiale etnografico deve d'altronde essere fatta con molta cautela: troviamo così presso gli Ostiachi e i Voguli della Siberia occidentale fusi simili a quelli del terzo tipo australiano precitato (asta perforata all'una o alle due estremità da una bacchetta in croce): ora, questi fusi non sono usati che per la fabbricazione di filo ritorto, mentre presso le stesse popolazioni il filo semplice è lavorato col fuso classico a peso discoide. Nell'India la filatura, come gli altri mestieri di origine anteriore alla conoscenza del metallo, cioè anteriore al periodo ariano, è occupazione dei paria. Nell'Indonesia si riscontrano accanto a fusi primitivi simili a quelli dell'Australia anche fusi a peso e filatoi usati sia per filare sia come arcolai.
L'America Meridionale offre un dato interessante relativo all'uso dei fusi a pseudo-peso. Le tribù di questo continente possono essere classificate, in relazione alla filatura, in tre gruppi: i Fuegini (Terra del Fuoco), la maggior parte delle tribù Gês (altipiano orientale brasiliano), alcune tribù dell'alto Paraguay, alcune del Rio Negro (appartenenti soprattutto alla famiglia linguistica arawak) non conoscono alcun fuso. Nel centro dell'America del Sud, sull'alto Madeira e nella regione vicina, un gruppo di tribù delle quali la principale è quella dei Bororó, hanno fusi a pseudo-peso; su questi il filo è avvolto non sulla porzione lunga dell'asta ma su quella corta, il fuso è girato a mano sulla coscia o su un ceppo di legno: il peso quindi non ha più alcuna funzione. Se dunque i Bororó praticano una tecnica più antica, analoga a quella degli Australiani, è da chiedersi se il pseudo-peso a forma discoide non sia stato adottato da essi per imitazione dei veri contrappesi a disco usati dalla maggior parte delle altre tribù. Un altro stadio intermedio si riscontra presso alcune tribù della regione delle Guiane, le quali hanno un fuso col peso discoide, situato poco al di sotto della metà dell'asta; la punta inferiore gira sul suolo ma l'asta non è tenuta verticalmente, bensì è girata all'estremità superiore sulla coscia.
La filatura è stata riscontrata nella protostoria fino a 2500 anni a. C. a Troia, e fino a 3000 anni nella Mesopotamia, nell'Egitto e a Creta, ma la preistoria è già in possesso di tale arte, come dimostrano le numerose fusaiole in pietra dell'età neolitica.
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