FILIPPO MARIA Visconti, duca di Milano
Secondogenito di Gian Galeazzo e di Caterina Visconti, nacque il 3 settembre 1392 in Milano. Dal padre ereditò nel 1402, col titolo di conte di Pavia, il dominio su questa città e sulle terre oltre il Ticino e nel Veneto; ma nello sfasciarsi dello stato visconteo, seguito alla morte di Gian Galeazzo, non poté conservare integri i suoi possessi, che si restrinsero presto alle sole terre pavesi. Facino Cane, che già dominava alla corte milanese al fianco del duca Giovanni Maria fratello di F.M., s'accordò coi Beccaria, ancora assai potenti in Pavia, prese questa città, stanziandovisi poi come signore, quasi tutore di Filippo Maria, cui solo di nome rimaneva la signoria.
Il 16 maggio 1412 Giovanni Maria Visconti, duca di Milano, cadde vittima di una congiura: Astorre e Giovanni Carlo, figlio e nipote di Bernabò, furono acclamati signori. Contemporaneamente a Giovanni Maria venne a morte anche Facino Cane. La situazione politica era radicalmente mutata in Lombardia: ciò forse ci spiega l'altro mutamento che a un tratto sembra operarsi nell'indole di F.M. Questi si rivela, quasi all'improvviso, come uno dei più audaci costruttori di stati del Rinascimento. Sposò Beatrice di Tenda vedova di Facino Cane, e poté così disporre del tesoro, della compagnia di ventura e delle terre del morto condottiero; con questi mezzi s'accinse a ricomporre il ducato di Milano e a divenirne unico signore; e infatti, in circa nove anni, riuscì a ricostituire, sia pure entro confini più ristretti, lo stato paterno.
Il 16 giugno 1412 entrò in Milano, si fece riconoscere duca e costrinse Astorre e Giovanni Carlo a chiudersi in Monza, che fu presa nel maggio 1413. Astorre morì durante l'assedio, mentre Giovanni si rifugiò presso Sigismondo d'Ungheria, dal quale sperava aiuto. Ma F.M. seppe tenere a bada Sigismondo quando scese in Italia; approfittò della pressione che gli Asburgo facevano sentire ai confini orientali d'Italia per imporre amicizia o neutralità benevola a Venezia, a favore della quale rinunciò a ogni diritto su Verona e Vicenza. Con Genova simulò intenzioni pacifiche e stipulò nel 1413 una tregua decennale. Accordi strinse anche con Amedeo VIII di Savoia. Poté così, senza incontrare forti opposizioni da parte dei più potenti vicini, condurre innanzi l'opera di ricostituzione del ducato. Riuscì abbastanza facile al Carmagnola, suo capitano, aver ragione delle piccole signorie sorte in Lombardia dopo il 1402. Lotario Rusca, con la promessa d'una pensione, si lasciò indurre a cedere Como; Giovanni da Vignate, signore di Lodi, fu con inganni tratto a Milano e ucciso (1416); i Colleoni furono snidati dal castello di Trezzo (1417); Piacenza fu tolta a Filippo Arcelli (1418); a Cremona Gabrino Fondulo cedette nel 1420 e a Bergamo e Brescia Pandolfo Malatesta poté resistere fino al 1421. Il marchese di Monferrato fu costretto a restituire Vercelli (1417), e gli Svizzeri, che miravano alla pianura padana, furono vinti presso Bellinzona (1422). Le lotte di parte che straziavano Genova offrirono l'occasione d'occupare la città e F.M., per isolare politicamente i Genovesi, mandò ambasciatori a negoziare una grande lega che avrebbe dovuto riunire Veneziani, Fiorentini e Milanesi contro ogni intervento straniero; s'impegnò a non mescolarsi nelle faccende toscane: poté quindi avere anche Genova, che il 2 dicembre 1421 s'arrese al Carmagnola.
Si può dire che da questo momento abbia fine l'incremento della potenza di F.M. Egli mirava a progredire ancora verso la Toscana, la Romagna, il Veneto. Ma la situazione politica italiana era ora ben diversa: vigili, aggressivi e dominati alla loro volta dal desiderio d'espandersi Venezia, Firenze e il duca di Savoia; stretta la Chiesa dal bisogno di costituire di nuovo il proprio stato. Dopo il 1421 sono questi i naturali oppositori del Visconti e dall'urto degli opposti appetiti nascerà la necessità di cercare d'interrompere, con trattati che mantenessero l'equilibrio fra i contendenti, la guerra durata quasi ininterrotta per un quarto di secolo.
Pretesto allo scoppiare delle ostilità furono i fatti di Forlì, dove era morto Giorgio Ordelaffi lasciando la signoria al figlio Teobaldo, ancora fanciullo. Il padre della vedova Ordelaffi, Ludovico Alidosi, signore d'Imola e amico di Firenze, cercò d'approfittare della tenera età del nipote per dominare anche in Forlì. I Forlivesi insorsero contro gli Alidosi e F. M. intervenne. Dopo vane trattative con Milano, i Fiorentini vennero a guerra ed elessero loro condottieri successivamente Pandolfo Malatesta, Braccio da Montone e Carlo Malatesta, ma furono ripetutamente sconfitti (1423-24). Le milizie viscontee minacciano il cuore della signoria malatestiana: occupano Borgo Sansepolcro. Firenze allora, stretta dal pericolo imminente, intensifica la sua azione diplomatica a Venezia e, aiutata dal suo antico signore, stipula un trattato d'alleanza. Anche Amedeo VIII, adescato da larghe promesse, finisce per aderire alla coalizione (1426). Capitano veneto fu il Carmagnola (v.), che iniziò le operazioni militari nel Bresciano, in territorio nemico, e, nonostante parziali successi dei suoi avversarî Niccolò Piccinino, Francesco Sforza e Angelo della Pergola, ottenne a Maclodio (11 ottobre 1427) una vittoria, che avrebbe potuto essere veramente decisiva dell'esito della campagna. Ma F. M. conseguì un grande successo diplomatico: riuscì a staccare dalla coalizione Amedeo, cedendogli Vercelli. I due duchi, il 2 dicembre 1427, stipularono un trattato d'alleanza contro Venezia e Firenze. Suggello dei patti era il matrimonio tra Maria, figlia di Amedeo, e il Visconti, vedovo dal 1418, quando Beatrice di Tenda, accusata d'infedeltà coniugale (e l'accusa non è stata affatto provata vera) saliva il patibolo. F. M. s'accordò di lì a poco anche coi Veneziani e i Fiorentini e firmò la pace di Ferrara (19 aprile 1428), con la quale cedette Brescia e Bergamo a Venezia.
Ma fu solo una breve tregua. Essendo Lucca venuta a lotta con Firenze, fu aiutata da Francesco Sforza, che agiva d'intesa col duca. L'elezione di papa Eugenio IV, veneziano, parve favorevole al sorgere di una forte lega antiviscontea. Veneziani e Fiorentini aprirono quindi nel 1431 le ostilità contro Milano. La guerra si protrasse con esito incerto sino a una seconda pace (Ferrara 26 aprile 1433), che rinnovò i patti del 1428.
Il disordine in cui ricadde lo Stato della Chiesa a causa del dissidio tra papa Eugenio IV e il concilio di Basilea indusse F. M. a tentare nuovamente d'introdursi in Romagna: pur senza far guerra diretta, fece correre le terre pontificie dai suoi condottieri; Firenze e Venezia si schierarono contro di lui, col papa; assoldarono lo Sforza che, indotto appunto dal Visconti, aveva invaso le Marche, e s'era impadronito di parecchie città, e che passò poi al nemico, ottenendo per sé dal pontefice le terre conquistate (1433-34). La situazione italiana s'intorbidò ancor più nel 1435, a causa della contesa tra Renato d'Angiò e Alfonso d'Aragona per il trono di Napoli. Anche F. M., coi maggiori stati, secondò dapprima Genova, timorosa del progredire della potenza aragonese nel Mediterraneo, e stette per l'Angioino. Ma quando ebbe nelle sue mani Alfonso, fatto prigioniero dalla flotta genovese, divenne suo alleato. Genova allora si sottrasse alla supremazia del duca. Venezia e Firenze, con lo Sforza per condottiero, da una parte, Milano dall'altra, furono ancora di fronte in una guerra durata quasi quattro anni, accanto all'altra che frattanto si combatteva per la successione di Napoli. Le vittorie ottenute a Barga (1437) e ad Anghiari (1440) dagli sforzeschi arrestarono due volte l'avanzata milanese in Toscana. Il Piccinino, condottiero di F. M., occupò bensì diverse località della Romagna, ottenne successi anche nella valle del Po sul Gattamelata e sullo stesso Sforza; ma le sue pretese eccessive e, soprattutto, la sua mira evidente di costituirsi un forte dominio dovettero far sentire a F. M. di non poter contare su di lui. F. M. s'indusse allora alla pace di Cremona (20 novembre 1441), che riconosceva l'indipendenza genovese, dava a Firenze il Casentino, a Venezia Ravenna.
Declina ora la potenza della signoria milanese che cercherà negli anni successivi di difendersi piuttosto che di aggredire. Venezia impone il suo primato, anche nella parte settentrionale d'Italia; è prossima la vittoria d'Alfonso d'Aragona nel Napoletano. Minaccioso poi è specialmente lo Sforza, che durante le trattative di pace aveva costretto ad accettare il suo arbitrato e aveva ottenuto in moglie la figlia naturale del Visconti, Bianca Maria, che recava come dote Casale e Pontremoli e apriva al marito la via alla successione nel ducato. Questi pericoli, con la natura sosoettosa del duca, spiegano la sua politica incerta degli ultimi anni. S'appoggiò al pontefice, cui cedette il Piccinino per far guerra allo Sforza. Alleato dell'Aragonese, lo abbandonò nella fase decisiva della lotta per la conquista di Napoli; dopo la sua vittoria, pensò per un momento d'accordarsi con gli Angioini. Prima osteggiò il genero, poi s'accostò a lui e ai suoi amici, i Veneziani e i Fiorentini, infine ritornò a gravitare verso il pontefice e l'Aragonese; cercò di rioccupare Cremona e Pontremoli. I Veneziani furono pronti a contenere l'offensiva ducale; vinsero a Casalmaggiore i Milanesi (1446); corsero il ducato; minacciarono la stessa Milano. Ma il duca sollecitò l'aiuto dello Sforza, che, temendo della potenza di Venezia, accorse in Lombardia nell'agosto del 1447, proprio alla vigilia della morte del suocero. F.M., ultimo signore della famiglia dei visconti, morì infatti a Milano il 13 agosto 1447 senza lasciare eredi diretti.
Non grande né come soldato, né come mecenate, mediocremente colto, superstizioso, F. M. ha avuto apologisti e giudici severi. Quasi tutti forse s'accordano nel mettere in evidenza la sua natura sospettosa e dubbiosa. Certo, al figlio di Gian Galeazzo, che del padre aveva ereditato l'ambizione e i vasti disegni, manca l'audacia patema. Ma doti di abile politico egli rivelò soprattutto nel decennio in cui attese alla ricostruzione del ducato. Erede di uno stato in piena dissoluzione, seppe trarre vantaggio dai legami politici ed economici strettisi, attraverso secoli di storia signorile, fra i minori centri e la capitale lombarda, per dominare le forze disgregatrici. Restaurò una salda organizzazione centrale nello stato; si preoccupò di mettere ordine nelle finanze e nella giustizia; attuò buone riforme dell'estimo per frenare abusi che s'erano infiltrati in tutto il sistema fiscale. Repubbliche e principati della penisola si erano, per circa un decennio, avvantaggiati dal tramonto della potenza viscontea. Egli con la forza, con la diplomazia, anche col tradimento, restituì alla signoria milanese la sua funzione nelle vicende storiche italiane.
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