VILLANI, Filippo
– Nacque a Firenze, nel quartiere di San Procolo, intorno al 1325 da Matteo Villani, fratello del cronista Giovanni (v. la voce in questo Dizionario), e da Luisa di Monte Buondelmonti.
Nel 1366 prese in moglie Salvestra di Bartolo della Castellina, dalla quale ebbe la figlia Lisa che nel 1389 sposò Boccio di Giacomo Bocci, recando in dote 450 fiorini d’oro.
Dopo essersi dedicato a studi giuridici all’Università di Firenze – nel 1358 appare qualificato studente nella documentazione –, ottenne il titolo dottorale e la qualifica di iurisperitus e per un anno, nel 1361, fu incaricato dell’insegnamento (ad legendum) presso lo Studio fiorentino. La formazione giuridica non escluse Villani dall’ambito professionale della sua famiglia poiché egli, forse, fu iscritto all’arte di Calimala. Dai consoli di quell’arte ricevette comunque, nel 1375, l’incarico di tutelare gli interessi di alcuni mercanti fiorentini davanti al tribunale di Genova, in un processo complicato perché vedeva gli interessi dei toscani in conflitto con quelli degli armatori liguri, appartenenti alle principali famiglie genovesi; il dibattimento si concluse, dopo alcuni mesi, con la condanna dei fiorentini.
Filippo non sembra avere mai ricoperto uffici pubblici per il Comune di Firenze. Doveva tuttavia essere persona nota e soprattutto gradita a chi reggeva la città poiché – senza avere mai rivestito cariche analoghe – ebbe, con lo stipendio di 208 fiorini l’anno, l’incarico di cancelliere del Comune a Perugia (dal 19 gennaio 1376). L’ufficio, oltre che prestigioso, doveva essere delicato perché veniva assegnato a un fiorentino quando quella città, dopo essersi liberata con una rivolta dal controllo del legato pontificio Géraud Dupuy, aveva da poco stretto alleanza con Firenze all’epoca impegnata nella guerra degli Otto santi. Il 24 dicembre 1376 Villani fu eletto nella stessa carica per altri due anni ed era ancora cancelliere a Perugia nel 1381, quando, invece di essere confermato come sembrava prevedibile – non era stato nominato un sostituto nei tempi previsti – venne sottoposto al sindacato e, seppure assolto dalle accuse, dovette lasciare l’ufficio.
Nel maggio del 1381 egli rientrò a Firenze dove visse stabilmente nei decenni seguenti sino alla morte dedicandosi prevalentemente a quegli studi che gli fecero meritare l’appellativo di Eliconius. In città frequentò Coluccio Salutati e Franco Sacchetti che gli dedicò un sonetto (cfr. Calò, 1904, p. 50); inoltre nelle prime battute della lunga e dotta lettera che apre l’Expositio seu comentum super “Comedia” Dantis Allegherii, egli dedicò l’opera a un personaggio indicato solo con le iniziali che si ipotizza fosse il musicista Francesco Landini, oppure il frate agostiniano Luigi Marsili, che nel 1391 fu incaricato di leggere presso lo Studio fiorentino il De civitate Dei di Agostino. Dallo stesso 1391 (la nomina risale al 2 luglio di quell’anno) Villani venne chiamato a leggere la Divina commedia presso l’Università fiorentina succedendo a Giovanni Boccaccio, con uno stipendio di 150 fiorini l’anno. Fu poi confermato nell’ufficio a più riprese (e con variazioni di salario: prima sceso a 80 fiorini l’anno, poi portato a 100, quindi a 50) sino al 1404, anno dopo il quale non si hanno più sue notizie. Nello stesso periodo era anche incaricato presso lo Studio fiorentino della lettura della retorica di Cicerone in volgare e continuava a svolgere l’attività giuridica come mostrano alcuni suoi consilia ancora inediti e databili alla fine del Trecento. Qualche suo manoscritto, molti con testi di argomento teologico, arrivò al convento francescano di S. Croce di Firenze forse in conseguenza all’amicizia che lo legava a fra Tedaldo della Casa.
Si presume che sia morto non molto dopo il 1405.
Nel 1381, poco dopo il rientro a Firenze, Villani pose mano alla composizione del De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus portandone rapidamente a compimento una prima stesura che inviò a Salutati perché la rivedesse. Coluccio rimandò a Filippo il manoscritto (ora Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashb. 942, da cui dipende la redazione A dell’edizione Tanturli) con molte osservazioni – alcune relative al contenuto, altre alla lingua – accompagnandolo con una breve lettera, l’unica sua indirizzata a Villani che si conserva (Epistolario di Coluccio Salutati, a cura di F. Novati, II, Roma 1893, pp. 47 s.). Grazie alle indicazioni di Salutati e a sue ulteriori ricerche, Villani rivisitò il Liber che condusse a una nuova stesura ultimata tra il 1395 e il 1396 (conservata in Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 2610, da cui dipende la redazione B dell’edizione Tanturli) e che in tale veste fu dedicato al cardinale Filippo d’Alençon, prozio di Carlo VI re di Francia e, al tempo, vescovo di Ostia. Negli anni seguenti Villani continuò a ritoccare l’opera della quale (ma solo per la parte relativa alle vite dei fiorentini illustri) è disponibile un volgarizzamento compendiato, realizzato da Antonio Manetti tra il 1468 e il 1478.
La prima redazione del De origine si apre con un prologo in cui Villani, dipingendosi ormai vecchio, dichiara di dedicarsi agli studi per evitare – secondo la formula topica – i vizi dell’ozio e per amore dell’opera di Dante Alighieri. Prende quindi a scorrere velocemente la storia antica, muovendo dall’atto di fondazione di Roma e di altre città, tra le quali Fiesole, e tracciando così un quadro della storia più remota dove trovano posto Nino, Semiramide, Nembrot, Dardano, Enea e qualche altro: tutti nomi accomunati dalla caratteristica di essere familiari ai lettori della Commedia. Dopo pochi capitoli si affronta con maggior respiro la vicenda dell’origine di Firenze e dei suoi rapporti con Fiesole ai tempi di Catilina; poi la narrazione procede veloce ricordando le distruzioni dei Goti e degli Unni di Attila. Senza fratture evidenti il De origine propone a questo punto una carrellata di biografie di fiorentini illustri aperta con il ritratto di Claudiano che Villani credeva suo concittadino, e poi subito concentrata sulla figura di Dante, presentato come il primo grande poeta dopo che per molti secoli quell’arte era stata trascurata. Filippo esplicita il ruolo fondamentale della biografia di Dante nell’economia del De origine: per comprendere l’opera dell’Alighieri, Villani ha raccolto le informazioni contenute nei capitoli precedenti, ma non è degli scritti di Dante che egli si occupa bensì – riprendendo il Trattatello in laude di Dante di Boccaccio – della sua biografia, presentandolo come un poeta, un filosofo e un uomo d’azione. Seguono i profili dei principali poeti che vennero dopo Dante (Francesco Petrarca, Zanobi da Strada e Boccaccio); a essi Villani aggiunge una galleria dei ritratti dei numerosi fiorentini che si sono distinti negli studi (da Roberto Bardi, ad Accursio, a Taddeo Alderotti, a Dino del Garbo, a Guido Cavalcanti e a tanti altri) nelle arti (Giotto su tutti), ma anche per loro speciali qualità (come il buffone Pietro Gonnella, il cui ritratto non sarebbe stato riproposto nella seconda stesura dell’opera) o per il valore nelle armi (il ghibellino Farinata degli Uberti e il guelfo Guido Guerra) e si conclude con una breve nota dedicata a Giovanni e Matteo Villani.
Nella seconda stesura l’opera è divisa in due libri: il primo ripropone il quadro di storia remota e i capitoli sulla fondazione di Firenze, quindi ospita numerosi paragrafi volti a ripercorrere sinteticamente le vicende della monarchia francese dai merovingi sino ai tempi del giovane Carlo VI (Carlo VIII secondo il computo di Villani), nipote del cardinale d’Alençon cui l’opera è dedicata; il secondo libro si apre con un breve prologo cui seguono la vita di Claudiano e quella di Dante. A questo punto compare un’altra differenza rispetto al testo della prima stesura perché, pur non mutando l’ordine nella disposizione dei ritratti, ora appare chiaro che sono organizzati per categorie: poeti, dotti e uomini d’azione, tre caratteristiche che Filippo riconosceva anche a Dante. Ogni ritratto in questa versione dell’opera è introdotto da una breve rubrica in cui si definisce a quale categoria appartiene il personaggio: Dante è poeta comico, Petrarca poeta laureato, Brunetto Latini retore e così via sino a quando, nel capitolo XVIII, si dà la definizione di semipoeta cui sono da ricondurre quegli scrittori che, pur distinguendosi per condotta di vita e qualità letterarie, non hanno raggiunto le vette dell’arte (tra costoro si ricordano Arrigo da Settimello, ma anche Guido Cavalcanti). Pure in questa versione sono ricordati pittori e musicisti e una piccola sezione è riservata agli uomini d’arme fiorentini, campioni nell’arte della guerra, ai quali il De origine concede un’attenzione che richiama le critiche che Filippo, continuando la Cronica di Matteo Villani, rivolge alla prassi di affidare il comando dell’esercito a capitani forestieri.
La divisione in due libri proposta nella seconda stesura evidenzia meglio il carattere composito del De origine: la prima parte, tutta legata a vicende remote, è ricostruita sulla base delle più diffuse storie universali che circolarono nel Basso Medioevo (Paolo Orosio, Girolamo, Martino Polono), ma anche facendo ricorso alla Nuova cronica di Giovanni Villani, e ripropone un gusto antiquario presente sin dall’inizio del Trecento (per esempio nell’enciclopedia di Benzo d’Alessandria); anche la seconda parte dell’opera è riconducibile a un genere di lunga tradizione sia pure rinverdito in quegli anni, quale la galleria di uomini illustri che ha il suo modello nel De viris illustribus di Girolamo: ma in questo caso Filippo si discosta dalle soluzioni praticate da altri autori – Boccaccio compreso – perché si concentra solo su personaggi fiorentini, scegliendo quasi esclusivamente uomini vissuti in anni recenti e prediligendo artisti e dotti.
Probabilmente dopo il rientro definitivo a Firenze e certo prima del 1391 – perché di questo impegno c’è il ricordo nell’incarico di lettore della Commedia – Filippo si incaricò di continuare la Cronica di suo padre Matteo. Benché l’opera – soprattutto per quanto riguarda la parte dovuta a Giovanni Villani – fosse molto letta nella Firenze di fine Trecento, Filippo non dedicò alla continuazione troppe cure. Egli infatti arrestò il suo lavoro portando a conclusione l’undicesimo libro, interrotto dalla morte di Matteo al luglio del 1363, con il racconto della pace tra Firenze e Pisa del 1364, come egli stesso si era proposto di fare nella nota introduttiva della sua sezione della Cronica. Nonostante il rilievo riconosciuto alla guerra tra Firenze e Pisa, non era sua intenzione redigere una sezione monografica; anzi nel prologo dichiarò che sarebbe rimasto fedele al modello storiografico della Cronica e avrebbe quindi raccolto notizie pertinenti a un largo orizzonte geografico. Lo scontro tra le due città toscane viene così narrato secondo lo stile che alla Cronica aveva assegnato Matteo, e di conseguenza, anche se Filippo racconta a distanza di molti anni dallo svolgimento dei fatti, il testo è costituito da un intreccio di capitoli in cui la narrazione principale è interrotta da numerosi episodi di altro argomento, come per esempio la lunga sezione rivolta a ricapitolare le malefatte attribuite a Margherita Maultasch contessa del Tirolo (XI, 78, M. Villani, Cronica..., a cura di G. Porta, 1995, II, pp. 692-698), o i capitoli in cui si narrano gli sviluppi della guerra dei Cento anni. Nella parte della Cronica dovuta a Filippo sono notevoli le pagine dedicate alle compagnie di ventura, al loro stile di combattimento (cfr. XI, 81, ibid. p. 700 per la descrizione della formazione militare detta lancia) e ai loro capitani, in primo luogo John Hawkwood che al tempo era stato al servizio dei pisani, ma che quando Villani scriveva risiedeva a Firenze. Di rilievo è anche il giudizio politico che Filippo affida alla sua pagina: egli, che mentre scriveva era vicino a chi reggeva il Comune, non risparmia critiche ai governanti di due decenni prima e alla loro imperizia (XI, 65, ibid., pp. 668-670), richiama di tanto in tanto il pericolo che i Visconti, tiranni di Milano, rappresentano per la sua patria e, in particolare, segnala la minaccia per la libertà di Firenze costituita dal ricorso a capitani di guerra che miravano a farsi signori della città (XI, 73, ibid., pp. 684-686, dove Pandolfo Malatesta è accostato a Gualtieri di Brienne, duca d’Atene).
Mentre era impegnato a rivisitare il De origine, Villani iniziò le sue pubbliche letture dantesche, risultato delle quali sono un commento alla Commedia (di cui rimane solo la parte dedicata al primo libro dell’Inferno, forse l’unica composta) e la realizzazione di un codice (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 26 sin. 1) che dipende dall’editio del poema proposta da Boccaccio e testimonia l’impegno di Filippo nel restauro testuale dell’opera di Dante. Per la stesura dell’Expositio seu comentum super “Comedia” Dantis Allegherii Villani poté contare sulla lezione di Boccaccio, sui commenti trecenteschi della Commedia (gli erano noti quelli di Graziolo Bambaglioli, Pietro Alighieri, Francesco da Buti, Guido da Pisa e Benvenuto da Imola) e sulle indicazioni offerte dall’epistola dantesca a Cangrande della Scala che egli conosceva nella sua integrità e dalla quale ricavò lo schema d’analisi secondo i quattro livelli esegetici dell’accessus ad auctorem (letterale, allegorico, morale, anagogico). Di contro all’aggiornato repertorio di opere dedicate all’esegesi dantesca, l’analisi dell’Expositio, come quella del De origine, mostra che Villani utilizzava principalmente i testi medievali più diffusi come le Etimologie di Isidoro di Siviglia o il De consolatione philosophiae di Boezio e soprattutto il De civitate Dei di Agostino, mentre, con l’eccezione dell’Eneide, rivela la sua scarsa familiarità con gli autori latini antichi. L’interpretazione della Commedia proposta da Filippo nell’Expositio si fonda principalmente sull’allegoria in quanto a suo parere la poesia è portatrice di verità assolute e divine, il significato delle quali è nascosto ai lettori non preparati, e giunge alla conclusione che Dante, personaggio del poema, rappresenta l’umanità mentre prova a redimersi dal peccato con l’aiuto della ragione (Virgilio), della teologia (Beatrice) e della fede (s. Bernardo di Chiaravalle).
Fonti e Bibl.: F. Villani, Expositio seu comentum super “Comedia” Dantis Allegherii, a cura di S. Bellomo, Firenze 1989; M. Villani, Cronica con la continuazione di F. V., a cura di G. Porta, II, Milano 1995, pp. 663-748; Philippi Villani De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, a cura di G. Tanturli, Padova 1997; F. Villani, De vita et moribus Dantis poete comici insignis, a cura di M. Berté, in Le vite di Dante dal XIV al XVI secolo. Iconografia dantesca, Roma 2017, pp. 155-187.
G. Calò, F. V. e il “Liber de origine civitatis Florentie et eiusdem famosis civibus”, Rocca San Casciano 1904; B. Basile, Il “Comentum” di F. V. al canto I della “Commedia”, in Lettere italiane, XXIII (1971), pp. 197-224; G. Tanturli, Il “De’ viri inlustri di Firenze” e il “De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus” di F. V., in Studi medievali, s. 3, XIV (1973), 2, pp. 833-881; M. Aurigemma, Letteratura, senso della società e morale religiosa nell’opera di F. V., in Id., Studi sulla cultura letteraria fra Tre e Quattrocento (F. V., Vergerio, Bruni), Roma 1976, pp. 7-60; L. Tanzini, Le due redazioni del “Liber de origine civitatis Florentie et eiusdem famosis civibus”, in Archivio storico italiano, CLVIII (2000), 1, pp. 141-159; J. Bartuschat, Les «vies» de Dante, Pétrarque et Boccace en Italie (XIVe-XVe siècles). Contribution à l’histoire du genre biographique, Ravenna 2007, pp. 85-88, 106-118, 161-165, 197-205, 221-225 e passim; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, XI, 3, Fontes U-V, Romae 2007, pp. 347 s.; M. Seriacopi, Due chiose inedite di F. V. alla “Commedia”, in Id., Dieci studi danteschi, Reggello 2008, pp. 115-120; B. Basile, F. V., in Censimento dei commenti danteschi, I, I commenti di tradizione manoscritta (fino al 1428), a cura di E. Malato - A. Mazzucchi, Roma 2011, pp. 187-191; M. Baglio, F. V. (1325 ca.-1405 ca.), in Autografi dei letterati italiani. Le Origini e il Trecento, a cura di G. Brunetti - M. Fiorilla - M. Petoletti, Roma 2013, pp. 153-159.