Film d'archivio
Per f. d'a. s'intende l'utilizzazione di immagini cinematografiche tratte da archivi, collezioni e repertori, al fine di una costruzione filmica autonoma, attraverso il montaggio e il trattamento operato sui frammenti scelti. Alla categoria del f. d'a. sono riconducibili il film di montaggio e il compilation film, il found-footage film (lett., film costruito con materiale trovato, v. anche sperimentale, cinema) e il film-saggio (per tutte queste tipologie, v. documentario). La pratica del f. d'a. è di poco posteriore alla nascita del cinema; già le varie prises de vue dei fratelli Lumière, infatti, vennero assemblate tra loro in modo pseudonarrativo. In questa prima modalità di assemblaggio fu già evidente l'essenza contraddittoria del f. d'a.: testimonianza preziosa del reale passato e al contempo risultato di una manipolazione dell'evento filmato che, a partire dalla scelta di un punto di vista, può arrivare addirittura fino alla falsa ricostruzione.
Già dopo il primo conflitto mondiale le ragioni della propaganda portarono all'utilizzazione delle immagini d'archivio per la costruzione di un discorso ideologico. I primi esempi risalgono al 1917 quando i cineasti sovietici del collettivo Skobelev furono incaricati di ricapitolare le tappe salienti della Rivoluzione d'ottobre. In seguito la sovietica Esfir′ I. Šub realizzò con Padenie dinastii Romanovych (1927, La caduta della dinastia Romanov) e col successivo Velikij put′ (1928, La grande via) una delle prime opere di ricognizione e di rielaborazione a partire dalla filmoteca privata dello zar e da altri materiali girati in Russia dal 1912 al 1927. Parallelamente anche in altri Paesi, negli anni Venti e Trenta, alcuni registi sperimentarono le grandi potenzialità creative dell'utilizzazione del f. d'a.: Bolesław Matuszewski in Polonia, Otto Nelson negli Stati Uniti, John Grierson in Gran Bretagna, Walther Ruttmann e Hans Richter in Germania. Durante la Seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti, i servizi propagandistici dell'esercito commissionarono a Frank Capra la serie Why we fight (1942-1945), affinché le giovani reclute potessero conoscere la volontà aggressiva e liberticida del nemico e reagire: l'intuizione del gruppo di autori che lavorarono con Capra al progetto, tra i quali Vsevolod I. Pudovkin, fu di utilizzare gli stessi cinegiornali nazifascisti ribaltandone il senso primario per mettere in evidenza le sottese mire di supremazia e di totalitarismo. Operazione che fece coniare ad André Bazin l'espressione 'documentario ideologico di montaggio' (Qu'est-ce que le cinéma, 1º vol., 1958; trad. it. 1973, p. 24).
Nel dopoguerra l'urgenza di documentare gli orrori delle recenti vicende belliche rese il film di montaggio strumento di denuncia e di ricostruzione storica. Rievocazioni di questo tipo sono state in Francia Paris 1900 (1947) di Nicole Védrès, Au cœur de l'orage (1948) di Jean-Paul Le Chanois, Ce siècle a cinquante ans (1950) di Denise Tual e l'importante Nuit et brouillard (1955; Notte e nebbia) di Alain Resnais, in cui al repertorio girato all'apertura dei campi di concentramento tedeschi alla fine della guerra si aggiungono riprese girate dieci anni dopo negli stessi luoghi. In Gran Bretagna Paul Rotha riorganizzò il materiale bellico nell'ottica della ricostruzione con Total war in Britain (1945), Land of promise (1946) e The world is rich (1947), seguito da Peter Baylis con la forma del documentario-affresco di The peaceful years (1948) e l'uso di materiale di attualità del periodo tra le due guerre. In Italia Luciano Emmer e Romolo Marcellini realizzarono rispettivamente Cavalcata di mezzo secolo (1952) e Dieci anni della nostra vita (1953), cui seguirono f. d'a. d'impianto storico come Anatomia di un dittatore (1961) di Mino Loy e Adriano Baracco, o come Benito Mussolini (1962) di Pasquale Prunas e Ça ira ‒ Il fiume della rivolta (1965) di Tinto Brass. In seguito i temi resistenziali sono tornati in Fascista (1974) di Nico Naldini, Lotta partigiana (1974) di Paolo Gobetti e Resistenza: una nazione che insorge (1978) di Ansano Giannarelli.
La convinzione di poter ricostruire la realtà storica attraverso un montaggio critico delle immagini di repertorio cominciò a incrinarsi all'inizio degli anni Sessanta a causa di una progressiva presa di coscienza dell'inevitabile manipolazione sottesa a tutti gli stadi della creazione. Proprio la riflessione sullo statuto ontologico delle immagini ha provocato l'uso di registri interpretativi più rigorosi e complessi: l'immagine di repertorio ha perduto il suo carattere di verità tout court intrecciandosi più liberamente a materiale girato ad hoc, come interviste o ritorni sui luoghi degli avvenimenti. Ne sono esempi Obyknovennyj fašizm (1965, Il fascismo quotidiano) di Michail Romm e Le chagrin et la pitié (1971) di Marcel Ophuls, sul collaborazionismo e la Resistenza francese, con cinegiornali montati insieme a interviste di protagonisti e testimoni. I campi di indagine si sono successivamente allargati a temi sociali, culturali e antropologici; così, per es., in Moeder Dao, de schildpadgelijkende (1989-1995, Madre Dao, a forma di tartaruga) Vincent Monnikendam ha utilizzato film documentari, anche amatoriali, girati tra il 1912 e il 1933 nelle ex Indie orientali olandesi per visualizzare il punto di vista europeo orientato verso l'esotico.
Un allargamento del concetto di repertorio si riscontra in una complessa fase di sperimentazione svoltasi negli ambiti del film-saggio e del cinema sperimentale. Il film-saggio ha aperto le immagini d'archivio a tutte le possibili chiavi di lettura, ricontestualizzandole attraverso parametri di definizione insoliti e funzionali a un progetto autoriale; in questi casi il regista utilizza liberamente materiale audiovisivo, iconografico e sonoro, selezionandolo in vista di un particolare percorso teorico. La prima parte del film La rabbia (1962) di Pier Paolo Pasolini (la seconda è di Giovanni Guareschi), e We insist (1964) di Gianni Amico sono stati tra i primi esempi in Italia: quest'ultimo, realizzato a partire da materiale fotografico, affronta il tema del razzismo; l'altro, utilizzando fotografie, cinegiornali 'reazionari' e documenti inediti, concilia ideologia e poesia nel ricostruire la fase di normalizzazione politica e sociale che è seguita in Italia alla Seconda guerra mondiale. Un tale processo di riutilizzazione delle immagini ha anche condotto a riflessioni arditamente teoriche, come La société du spectacle (1973) di Guy Debord, monumento al declino dell'immagine in movimento in un montaggio automatico dell'immenso repertorio offerto dal mondo, come in altri film riconducibili al situazionismo.Nel complesso ambito del film sperimentale, la disponibilità del materiale d'archivio a essere manipolato, trattato, trasformato viene esasperata: le immagini audiovisive subiscono trattamenti che vanno dalla semplice decontestualizzazione di quelle in movimento, fino all'intervento diretto, con segni, incisioni e altro, sulla pellicola. è questo il modo in cui il f. d'a. si è riversato nella pratica del found-footage film, che può avere caratteristiche diverse (per supporti, durate e provenienza) ma, per l'approccio sperimentale e per l'artigianalità dei trattamenti, spesso utilizza formati amatoriali (l'antico 9,5 mm Pathé, l'8 mm, il super 8). Negli Stati Uniti si ebbero i primi esperimenti in questo senso con Joseph Cornell, artista di area tardo-surrealista, che, attingendo alla sua collezione privata, realizzò Rose Hobart (1937) rimontando un b-movie, East of Borneo (1931) di George Melford, ambientato nella giungla. Il film originale risulta riproiettato attraverso un vetro blu, al ralenti e senza audio, isolando i momenti di transizione (per es., le espressioni che sfumano dal terrore al sollievo) e annullando la drammaturgia. Una direzione fertile, all'interno della sperimentazione, è stata quella del film collage: Stanley Vanderbeek, partendo dall'esperienza dei découpages filmati, è giunto a originali esiti con la sovrimpressione di attualità o prises de vues in opere come Achoo Mr Kerroochev (1960) o Days and nights and black and whites (1960). Questo stesso approccio è stato seguito da Al Razutis, che ha scelto come soggetto delle sue opere la massa iconica globale delle banche dati, ormai avviata a diventare ipermediatica.
Sempre negli Stati Uniti, Ken Jacobs con Tom, Tom, the piper's son (1969) ha rielaborato, mediante variazioni in senso musicale basate su cambiamenti di velocità, recadrage, mascherini e inversione del senso di proiezione, un film 'primitivo' della Biograph, della durata di 10 minuti. Negli stessi anni Barbara Hammer ha esplorato le emulsioni e le immagini dimenticate alla ricerca delle vestigia della cultura omosessuale, inaugurando un ricco filone di ricerca della rappresentazione esibita o criptica dell'omosessualità nelle immagini audiovisive, che troverà poi una sua divulgazione presso il grande pubblico con The celluloid closet (1995; Lo schermo velato) di Rob Epstein e Jeffrey Friedman.A partire dagli anni Sessanta si è anche definitivamente consolidato il genere del compilation film, rivolto in particolare alla storia del cinema e strutturato utilizzando il ricco materiale d'archivio (interviste, rushes, provini, riprese sul set, trailer) o, con analisi più complesse, utilizzando le tecniche dei critofilm oppure dissezionando i singoli elementi dei testi.
In Europa, nel cinema sperimentale, il repertorio compare come elemento di collage, come found footage e come pellicola manipolata. In queste direzioni si sono mossi Alain Bonnamy, rielaborando in Cinécité (1973-74) le icone del 20° secolo in un caleidoscopico gioco di sovrimpressioni e deformazioni, o Matthias Müller che, a partire dal 1983, ha realizzato diversi cortometraggi basati sulla rielaborazione del found footage, con un lavoro su materiali eterogenei ricondotti a un'unità di trattamento visivo. In Italia sono stati Gianfranco Barucchello e Alberto Grifi a riutilizzare, con intento critico-politico e sperimentale, materiale filmico preesistente in La verifica incerta (1965) selezionando grandi quantità di pellicole destinate al macero per montarle secondo schemi complessi, accostamenti e assonanze atti a evidenziare i processi inconsci sottesi alla produzione e alla percezione di immagini.
La crescita di interesse per le varie possibili utilizzazioni del f. d'a. è stata accompagnata, a partire dal dopoguerra, da un intensificarsi del numero e delle attività delle cineteche che, in tutto il mondo, restaurando e conservando i film, accrescono il materiale a disposizione per essere utilizzato per un lavoro di studio e approfondimento su autori, opere e periodi. Ciò ha spesso favorito la realizzazione di film a carattere 'archeologico' in cui, attraverso il montaggio di brani di opere perdute, sequenze isolate, inquadrature singole, si sono ricostruite filologicamente parti di film scomparsi. In questa linea si inquadrano le operazioni di Peter Delpeut che, grazie all'attività del Dutch Film Museum, di cui è stato nominato direttore delegato dal 1988, ha realizzato raccolte di frammenti rari tra cui Forbidden quest (1993), ricostruzione fantastica dei viaggi nell'ancora inesplorato Polo Sud, e Diva dolorosa (1999) sul modello divistico femminile nei film italiani (perduti) degli anni Dieci.
In bilico tra archeologia filmica e creatività si è svolta l'attività di Oleg Kovalov dedicata alle ricche e spesso inesplorate risorse degli archivi sovietici, dove il restauro e la ricerca di frammenti d'archivio informano un'idea registica dedita ad approfondimenti critici ed estetici nell'ambito della storiografia e della sociologia: si tratta di una nuova forma di film di montaggio, più colta e ricercata perché ricca di approfondimenti, ma rivolta prevalentemente a un pubblico di specialisti e cinefili. Sady skorpiona (1992; I giardini dello scorpione) smembra la struttura di un breve film di propaganda sulla pericolosità del nemico (spie imperialiste che tentano di circuire un soldato sovietico) e inserisce brani di cinegiornali, filmini didattici e d'animazione e altro materiale propagandistico, con l'obiettivo di amplificarne il significato ideologico. I suoi film Sergej Ejzenštejn. Avtobiografija (1995-96, Sergej Ejzenštejn. Autobiografia) e Sergej Ejzenštejn. Meksikanskaja fantazija (1998, Sergej Ejzenštejn. Fantasia messicana) hanno inventato un percorso registico attraverso il recupero di filmati rari e ricostruito il 'flusso di pensiero' di un maestro del cinema come Sergej M. Ejzenštejn, rivisitando anche il materiale girato all'inizio degli anni Trenta per l'incompiuto ¡Qué viva México! (1931-32).
Un'ulteriore tipologia del f. d'a. è la ricognizione di materiali amatoriali e filmini di famiglia: in The family album (1986) di Alan Berliner alcuni home movies ripresi negli Stati Uniti tra il 1920 e il 1950 compendiano gli idiomi più comuni del genere, mentre in Adria Urlaubsfilme 1954-68 ‒ Schule des Sehens 1 (1990) Gustav Deutsch cataloga e organizza in serie i cliché dei filmini delle vacanze degli anni Cinquanta e Sessanta. L'ungherese Péter Forgács si è dedicato esclusivamente alla ricerca e all'utilizzazione di questo tipo di materiali ed è giunto a elaborare un originale metodo di creazione, mettendo a punto un progetto che esplora gli aspetti della vita privata del suo Paese lungo il tempo (si tratta della serie sull''Ungheria privata', in dodici parti, tra cui si ricordano A Bartos csalad, 1988, La famiglia Bartos, e Az örvény, 1996, Il gorgo); ha quindi realizzato The Maelstrom. A family chronicle (1997), sulle vicende di alcune famiglie ebree olandesi durante la Seconda guerra mondiale, e Angelo's film (2000) sulla vita di un cineamatore greco.Il f. d'a. che risale a immagini preesistenti, come materia prima da riplasmare in nuove e complesse opere, è l'ambito pressoché esclusivo di cineasti quali Artavazd Pelešjan e il duo Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Nella poetica di Pelešjan l'utilizzazione di materiali d'archivio non prende in considerazione né il valore archeologico né quello documentario delle immagini, bensì il movimento insito nelle inquadrature. I frammenti selezionati, usati insieme a riprese documentarie appositamente realizzate, vengono trattati con recadrages, polarizzazioni e modificazioni di velocità, per ottenere una nuova forma. Pelešjan rifugge dalla concezione del montaggio come accostamento di due inquadrature portatrici di senso, teorizzando il cosiddetto montaggio a distanza, che crea appunto una distanza tra le inquadrature di uno stesso contesto tramite l'inserzione di altre immagini; questo provoca, invece della classica concatenazione, una sfera in cui le parti (in alcuni casi sezioni ricorrenti) si richiamano a vari livelli. All'abolizione della dimensione temporale dei singoli frammenti corrisponde di conseguenza un tempo interiore di visione del film che prescinde dalla proiezione meccanica e si basa su raccordi tra le varie immagini. Attingendo ai ricchi materiali degli archivi sovietici, Pelešjan ha quindi realizzato, con lunga elaborazione, intense opere poetiche: dall'impeto rivoluzionario di Načalo (1967, L'inizio), all'elegia della coscienza di un popolo My/Menk (1969, Noi), dai ritmi cosmici e naturali di Obitateli (1970, Gli abitanti), Vremena goda/Tarva yeghanaknère (1972, Le stagioni) e Naš vek/Mer dare (1982, Il nostro secolo) al mistero della vita indagato da Konec (1992, Fine) e Žizn′ (1993, Vita).Y. Gianikian e A. Ricci Lucchi, dalla metà degli anni Settanta, si sono orientati verso un lavoro di ricerca sulla rielaborazione di vecchie pellicole, giungendo a un'opera come Dal Polo all'Equatore (1986), costruita a partire dai materiali filmati negli anni Dieci in varie parti del mondo dal cineasta e viaggiatore Luca Comerio. Come trattamento dei loro f. d'a., i due artisti hanno elaborato una pratica artigianale che permette di studiare e catalogare attentamente i singoli fotogrammi al fine di rifilmarli, reinquadrandoli, ricolorandoli e rallentandone sistematicamente la velocità di scorrimento. Le presenze, i gesti e i movimenti, anche quelli più impercettibili, sono separati gli uni dagli altri dall'estenuato rallentamento: tale procedimento rende possibile l'affiorare di una valenza poetica, nella struggente epifania di elementi sepolti abitualmente nell'impercettibilità, e al tempo stesso lo sviluppo di un punto di vista fortemente critico nei confronti del contenuto e dello sguardo dell'operatore. L'intensità dell'opera risiede nella capacità di rendere drammatico e vitale il confronto con le ideologie sottese ai documenti filmati: ne sono esempio opere come Animali criminali (1994), Diario africano (1994), Images d'Orient, tourisme vandale (2001). Nell'utilizzazione delle immagini legate alle tragedie delle guerre, all'avvento dei totalitarismi e alla propaganda, la concentrazione sui volti della gente comune permette di cogliere non solo l'immediatezza di grandi eventi del 20° sec., ma anche le raffinate tecniche di diffusione del consenso o di legittimazione delle ideologie più nefaste. In quest'ottica sono significativi Ritorno a Khodorciur (1986), Uomini, anni, vita (1990), e ancora Archivi italiani n. 1 e 2 (1991), Prigionieri della guerra (1995), Lo specchio di Diana (1996), Su tutte le vette è pace (1999) e Inventario balcanico (2000).Il mezzo televisivo. ‒ È infine da sottolineare come il medium televisivo abbia favorito interazioni inedite tra il pubblico e i documenti d'archivio, mediati da un conduttore-giornalista che può utilizzare registri di esegesi più o meno problematici. Più complesse sono state alcune operazioni concepite per la RAI, come i programmi Storia del Terzo Reich (1962) e L'età di Stalin (1963) di Liliana Cavani, o quelli più recenti, trasmessi a partire dal 1995, di Nicola Caracciolo sulla storia del fascismo, sulla caduta dei Savoia e sull'avvento della repubblica in Italia. Un lavoro creativo particolare, di rilettura e di reinvenzione delle immagini di repertorio, è quello che Enrico Ghezzi e il suo gruppo di lavoro, sulla Terza rete della RAI, hanno svolto dal 1985 per programmi come Blob, Fuori orario, Schegge, Eveline, dove un'immagine di repertorio di qualsiasi tipo viene riscoperta e valorizzata come autentica nella sua essenza concreta di immagine e non soltanto come testimonianza di una realtà o di un fenomeno sociologico.
J. Leyda, Films beget films, New York 1964; Found footage film, ed. C. Hausheer, C. Settele, Lucerna 1992; P. Sjoberg, The world in pieces: a study of compilation film, Stockolm 2001.