Etnografico, film
Nell'ambito del documentarismo, il f. e. ha sviluppato una sua tradizione specifica che risale alle origini stesse del cinema. Già alla fine dell'Ottocento, infatti, le tecniche cinematografiche furono utilizzate per documentare diverse 'situazioni' etnografiche. La prima opera a carattere antropologico fu realizzata nel 1895 dal fisiologo Félix-Louis Regnault (1863-1938), che riprese una donna Wolof del Senegal nell'atto di fabbricare vasi di terracotta durante l'Exposition universelle di Parigi. Anche le principali spedizioni etnografiche di quel periodo utilizzarono sistematicamente le tecniche cinematografiche per raccogliere i dati sul campo: Alfred Cort Haddon (1855-1940) registrò alcune sequenze relative a diversi aspetti della vita locale durante la spedizione effettuata allo stretto di Torres (1898-99), Baldwin Spencer (1860-1929) filmò le cerimonie degli aborigeni australiani nel 1901, mentre l'etnografo austriaco Rudolf Poch (1870-1921) realizzò nello stesso periodo alcuni filmati in Africa australe e in Nuova Guinea. La cinepresa fu dunque utilizzata già dai primi antropologi nello sforzo di produrre, nell'ambito della ricerca specifica, una documentazione 'oggettiva' delle loro osservazioni. Tuttavia i filmati di quel periodo sono costituiti per lo più da materiale grezzo che non si avvale di alcuna delle possibilità espressive tipiche del linguaggio cinematografico.Solo a partire dagli anni Venti del 20° sec. iniziò a svilupparsi una vera e propria cinematografia etnografica, in grado di comunicare a un pubblico vasto e generalizzato le conoscenze, relative alle culture diverse, che l'antropologia stava accumulando (v. antropologia visiva). Sarebbe stato un documentarista statunitense, Robert J. Flaherty, a realizzare per la prima volta un film che narra in maniera compiuta e suggestiva la vita di un gruppo di Inuit del Canada (Nanook of the North, 1922, Nanouk). Pur non essendo antropologo, Flaherty riuscì a tradurre in termini cinematografici il metodo dell''osservazione partecipante', teorizzato nel 1922 da Bronis-ław Malinowski (1884-1942). Come Malinowski nelle isole Trobriand, anche Flaherty visse per un lungo periodo tra gli Inuit, restituendo nel suo film, anche grazie a uno stile articolato, il senso di un'esperienza di condivisione profonda. Dopo Nanouk, Flaherty realizzò altri film di argomento antropologico, come Moana (1926; L'ultimo Eden) e Man of Aran (1934; L'uomo di Aran), basati anch'essi su indagini approfondite e prolungati periodi di permanenza presso comunità native.
La cinematografia etnografica, nel senso più ampio e compiuto, si è sviluppata, dunque, coniugando lo studio sistematico delle società 'esotiche' e delle culture diverse con le tecniche e le modalità espressive maturate nella tradizione del documentarismo (v. documentario). Tra gli anni Venti e Trenta del 20° sec. furono realizzati vari documentari di interesse antropologico al di fuori degli ambienti accademici. Tra questi vanno ricordate le realizzazioni della scuola documentaristica britannica, nata grazie all'impegno di John Grierson e al coinvolgimento di alcuni enti pubblici, e in parti-colare Drifters (1929) dello stesso Grierson, The song of Ceylon (1934) di Basil Wright, Coal face (1935) di Alberto Cavalcanti. Nel 1924 i cineasti statunitensi Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack girarono Grass (1925), importante documentario sulla transumanza dei pastori Bakhtiari dell'Iran. Tuttavia, la rilevanza scientifica di questi film risulta in qualche modo limitata dall'assenza di specifiche conoscenze antropologiche da parte dei loro autori.
Il primo progetto che riuscì a coniugare competenze antropologiche professionali con un utilizzo consapevole del mezzo cinematografico si deve a Margaret Mead (1901-1978) e a Gregory Bateson (1904-1980). Nel corso degli anni Trenta questi due famosi antropologi girarono circa 22.000 metri di pellicola 16 mm a Bali e tra gli Iatmul della Nuova Guinea. Da tale materiale trassero nel 1950 una serie intitolata Character formation in different cultures, composta da sei brevi film: Learning to dance in Bali, Trance and dance in Bali, A Balinese family, Kerba first years, The first days of a New Guinea baby, Bathing babies in three cultures. Commissionati da un ente per lo studio della dementia precox, i film tentano di mostrare, grazie all'ausilio delle immagini, i tratti fondamentali del carattere e del retroterra emotivo dei Balinesi e degli Iatmul, secondo le teorie circa le relazioni tra cultura e personalità che si erano sviluppate in quegli anni. La realizzazione dei film si rese possibile, oltre che per lo sviluppo della riflessione teorica nell'ambito dell'antropologia visiva, anche per i progressi della tecnica cinematografica. La diffusione di cineprese leggere (16 mm) consentì infatti di girare riprese sul campo senza l'ingombro e le difficoltà tecniche causate dall'uso del 35 mm. Inoltre, il 16 mm stimolò anche alcune innovazioni tecnico-espressive come l'uso della macchina a mano, che in qualche modo facilitò l'inserimento dell'osservatore nel contesto della comunità studiata e della particolare performance che egli intendeva documentare. Tale evoluzione è ben visibile, per es., in un film di grande interesse etnografico realizzato dalla cineasta ucraina, naturalizzata statunitense, Maya Deren (propr. Eleanor′ Derenkovskij), famosa per le sue sperimentazioni negli ambienti delle avanguardie. Si tratta di Divine horsemen. The living gods of Haiti, girato dalla Deren negli anni Quaranta e montato solo dopo la sua morte dal marito, il musicista giapponese Itō Teiji. La macchina a mano fu utilizzata estensivamente, consentendo alla Deren di documentare le danze, le trances e i rituali vudu attraverso uno sguardo in soggettiva che coglie, con uno stile quasi surrealista, le atmosfere e i significati profondi della possessione spiritica.
Un'ulteriore innovazione tecnica contribuì a far evolvere, nel corso degli anni Cinquanta, il linguaggio e lo stile dei documentari etnografici. L'avvento del sonoro sincrono rese infatti possibile la registrazione in presa diretta dei suoni, dei dialoghi, delle musiche, dei rumori, aumentando in maniera sostanziale l'effetto di realtà ottenuto dai film. L'etnologo e cineasta francese Jean Rouch fu tra coloro che per primi compresero la grande potenzialità di questa tecnica. Filmando in presa diretta con cineprese leggere utilizzate per lo più a mano, Rouch sviluppò quello stile di ripresa che poi si sarebbe consolidato nella tradizione del Cinéma vérité (v.). Nel corso della sua lunga carriera, Rouch realizzò circa cento documentari, per lo più in Africa occidentale dove aveva svolto le sue ricerche etnografiche, e più precisamente tra i Songhai e i Dogon in Mali, Niger, Ghana. Tra i suoi numerosi documentari vanno segnalati Les maîtres fous, del 1955, straordinario ritratto del- la dominazione coloniale britannica nell'allora Gold Coast, 'messa in scena' ‒ come in un gioco di specchi ‒ dagli adepti in trance di un culto di possessione songhai. Dal documentario etnografico Rouch passò successivamente a dedicarsi alla fiction, realizzando alcuni film di ambiente africano come Moi, un noir (1959), La pyramide humaine (1961), Jaguar (1967), Petit à petit (1970), e Cocorico! monsieur Poulet (1974).
A partire dagli anni Settanta la produzione di documentari etnografici si intensificò notevolmente. Tra i numerosi film realizzati nell'ultimo trentennio emergono, per la sistematicità e l'estensione dei progetti da cui sono scaturiti, alcune serie che documentano la vita di gruppi etnici e culturali analizzata nei suoi differenti aspetti. Tra di esse, lo Yanomami film project, promosso dall'antropologo francese Napoléon Chagnon in collaborazione con il cineasta statunitense Timothy Asch, che realizzò tra il 1968 e il 1971 trentasette film sugli Yanomamo, un gruppo di cacciatori-raccoglitori della foresta amazzonica stanziati ai confini tra il Brasile e il Venezuela. Negli stessi anni John Marshall diresse per conto del Peabody Museum della Harvard University e della Smithsonian Institution di Washington circa venti film sui San, popolazione boscimana del deserto del Kalahari, in Namibia.
Tra gli anni Settanta e Ottanta la Granada Television di Manchester si impegnò poi nella produzione della serie Desappearing world, composta da più di quaranta documentari relativi ad altrettante popolazioni di diverse parti del mondo. Ciascuno di questi film, frutto della collaborazione tra un cineasta e un antropologo professionista esperto del gruppo in oggetto, costituisce una sorta di monografia etnografica filmata, che descrive la cultura di una particolare comunità umana colta nelle sue caratteristiche più salienti.
Del vasto e variegato scenario della cinematografia etnografica a partire dagli ultimi decenni del 20° sec., si possono citare alcuni dei principali autori e delle loro realizzazioni. L'abbondante produzione del cineasta statunitense Robert Gardner spicca per la varietà dei temi e dei contesti affrontati: dal classico Dead birds (1964), che testimonia di una guerra tribale presso i Dani della Nuova Guinea, a The Nuer (1970), descrizione della vita quotidiana di una società sudanese divenuta famosa grazie alle ricerche antropologiche di E. Evans-Pritchard (1902-1973), da Rivers of sand (1974), sulla condizione femminile nella società degli Hamar dell'Etiopia, sino a Forest of bliss (1986), poetico affresco di Benares, la città indiana dei morti. Un altro autore di grande rilievo, sia per quel che riguarda le realizzazio-ni cinematografiche sia per i suoi contributi teorici, è David MacDougall, che insieme alla moglie Judith ha prodotto numerosi film in Africa occidentale (To live with herds: a dry season among the Jie, 1971; Kenya Boran, 1974; Wedding camels, 1977), in Australia (Photo Wallahs, 1991) e anche in Italia (Tempus de Barista, 1994).
Seppure spesso penalizzato da un mercato che non favorisce il documentarismo di argomento sociale né tantomeno quell'attenzione a realtà lontane dalla cultura occidentale che è tipica dello sguardo antropologico, il f. e. ha saputo trovare canali di produzione e diffusione che lo hanno reso un importante mezzo di comunicazione interculturale. Ancora una volta, i progressi della tecnologia audiovisiva hanno favorito lo sviluppo della cinematografia etnografica, mettendo a disposizione degli antropologi sistemi di registrazione e di edizione elettronici di qualità, in grado di soddisfare le esigenze della ricerca, della didattica e della divulgazione.
B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, London 1922 (trad. it. Roma 1973).
K.G. Heider, Ethnographic film, Austin 1976.
P. Chiozzi, Manuale di antropologia visuale, Milano 1993.
P. Loizos, Innovation in ethnographic film. From innocence to self-consciousness, 1955-85, Manchester 1993.