Giudiziario, film
Il processo è stato da sempre il rituale che, forse più di qualsiasi altra espressione dell'esercizio di un potere istituzionale, ha goduto di un'eccezionale attenzione, colpendo la sensibilità collettiva. Prima che il cinema facesse dell'amministrazione della giustizia una scena considerevolmente prolifica per la sua produzione, la storia, la politica e la letteratura ne avevano fatto l'oggetto di un'ampia narrazione e tematizzazione. La rappresentazione cinematografica delle dinamiche sociali, giudiziarie e psicologiche an-nodate intorno allo spettacolo pubblico di un processo, più che dare vita a un genere a sé stante, si è diffusa nelle forme diversificate dei generi più popolari. La definizione in lingua inglese courtroom drama ha il merito di raggruppare la molteplicità di generi e aspetti che gravitano intorno alla scena processuale. Pur nell'ambito di tale varietà, un aspetto tuttavia caratterizza peculiarmente il f. g.: il dominio sull'immagine della parola e del discorso, attraverso cui il conflitto drammatico viene infaticabilmente esplorato, narrato e analizzato, trasformando lo spettatore stesso in una sorta di giurato, vulnerabile alla retorica di tutte le voci in campo.
Il courtroom drama si ritrova all'origine dell'esplorazione della sintassi narrativa del cinema (come nel celebre The cheat, 1915, I prevaricatori, di Cecil B. DeMille); costituisce anche la scena centrale di La passion de Jeanne d'Arc (1927; La passione di Giovanna d'Arco) di Carl Theodor Dreyer, una delle più rinomate espressioni del linguaggio cinematografico come prodotto di un'estetica, di una soggettività e di una creazione artistica destinate a essere successivamente definite cinema d'autore. Tuttavia, il f. g. è stato sempre contaminato, nella storia del cinema, da altri filoni, e basta una rapida indagine per constatare come 'il processo' sia presente in film appartenenti a generi diversi: la commedia (da Adam's rib, 1949, La costola d'Adamo, di George Cukor, a Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), 1970, di Ettore Scola; da Legal eagles, 1986, Pericolosamente insieme, di Ivan Reitman, a My cousin Vinny, 1992, Mio cugino Vincenzo, di Jonathan Lynn); il thriller (da Beyond a reason-able doubt, 1956, L'alibi era perfetto, di Fritz Lang, a Jagged edge, 1985, Doppio taglio, di Richard Marquand, e a Presumed innocent, 1990, Presunto innocente, di Alan J. Pakula); il melodramma (da The cheat a A place in the sun, 1951, Un posto al sole, di George Stevens, a Victim, 1961, di Basil Dearden); il film di impegno civile (da To kill a mockingbird, 1962, Il buio oltre la siepe, di Robert Mulligan, a Philadelphia, 1993, di Jonathan Demme, ad Amistad, 1997, di Steven Spielberg). Alcuni registi, come Sidney Lumet, hanno portato sullo schermo l'universo processuale scavandone ripetutamente le articolazioni specifiche e i risvolti psicologici all'interno di molteplici variabili (12 angry men, 1957, La parola ai giurati; The verdict, 1982, Il verdetto; Night falls on Manhattan, 1996, Prove apparenti); altri, come Pietro Germi, nei cui film l'aula giudiziaria riaffiora in continuazione, hanno rappresentato sia l'idea civile della giustizia sia la sua più grottesca negazione (Il testimone, 1946; Divorzio all'italiana, 1961; Alfredo, Alfredo, 1972). Fu, in ogni caso, il francese André Cayatte, in precedenza avvocato, l'autore che consacrò al dramma processuale la propria filmografia (Justice est faite, 1950, Giustizia è fatta; Nous sommes tous des assassins, 1952, Siamo tutti assassini; Le dossier noir, 1955, Fascicolo nero; Le glaive et la balance, 1963, Uno dei tre; Les risques du métier, 1967, Attentato al pudore), spesso denunciando i limiti del sistema giuridico.A riprova della forte contiguità tra cronaca e finzione, attualità e rievocazione drammatica che è alle radici della messa in scena cinematografica del rito processuale come delle istruttorie, delle indagini e delle offensive legali che ne costituiscono la premessa, il f. g. si è ispirato spesso a casi realmente accaduti (The life of Emile Zola, 1937, Emilio Zola, e Dr. Ehrlich's magic bullet o The story of Dr. Ehrlich's magic bullet, 1940, Un uomo contro la morte, entrambi di William Dieterle; Dr. Crippen an bord, 1942, Il delitto del dottor Crippen, di Erich Engels, fatto di cronaca ripreso poi nel 1962 da Robert Lynn in Dr. Crippen; The Winslow boy, 1948, Tutto mi accusa, di Anthony Asquith; The franchise affair, 1950, di Lawrence Huntington; Cell 2455, death row, 1955, Cella 2455 braccio della morte, di Fred F. Sears; The court-martial of Billy Mitchell, 1955, Corte marziale, di Otto Preminger; Les sorcières de Salem, 1957, Le vergini di Salem, di Raymond Rouleau, tratto da The crucible di A. Miller; Inherit the wind, 1960, …e l'uomo creò Satana, di Stanley Kramer; The trials of Oscar Wilde, 1960, Il garofano verde, di Ken Hughes; Judgment at Nuremberg, 1961, Vincitori e vinti, di Kramer; Landru, 1963, di Claude Chabrol; Sacco e Vanzetti, 1971, di Giuliano Montaldo), anche se, significativamente, con l'affermazione inarrestabile del dominio televisivo nel sistema dei mass media, è stato il piccolo schermo ‒ sia attraverso l'informazione quotidiana, sia attraverso la fiction ‒ a strappare al cinema l'egemonia di tale rappresentazione (come attesta il successo del serial giudiziario, da Perry Mason, iniziato nel 1957, a Los Angeles law, iniziato nel 1986, o del programma Un giorno in pretura, iniziato nel 1988).Se è genericamente l'imputato il protagonista del f. g., il grande schermo non ha trascurato nessun altro dei partecipanti all'iter processuale: dalla giuria (Murder!, 1930, Omicidio, di Alfred Hitchcock; Justice est faite; The monster and the girl, 1941, di Stuart Heisler; The devil and Daniel Webster, noto anche come All that money can buy, 1941, L'oro del demonio, di Dieterle, film fantastico in cui la giuria è composta da illustri fantasmi della storia americana; Perfect strangers, 1950, di Bretaigne Windust; 12 angry men), al giudice (Destry rides again, 1939, Partita d'azzardo, di George Marshall; Talk of the town, 1942, Un evaso ha bussato alla porta, di Stevens; Anatomy of a murder, 1959, Anatomia di un omicidio, di Preminger, forse l'unico film a utilizzare un vero giudice, Joseph E. Welch), anche se è stato probabilmente l'avvocato che, nel contenzioso tra individui e società, è venuto acquisendo un potere di singolare visibilità nell'immaginario cinematografico contemporaneo, quello su cui l'attenzione della cinepresa ha concentrato il proprio fuoco nell'ultimo ventennio. Da ... and justice for all (1979; … e giustizia per tutti) di Norman Jewison a Suspect (1987; Suspect ‒ Presunto colpevole) di Peter Yates a Class action (1991; Conflitto di classe) di Michael Apted a The guilty (2000; The guilty ‒ Il colpevole) di Anthony Waller, la tensione tra l'etica della professione e lo sfruttamento redditizio di un suo esercizio cinico e spregiudicato è diventata un leitmotiv del film giudiziario. Il successo internazionale dei libri di J. Grisham, inventore della fortunata formula del legal thriller, popolati di ricche società di avvocati, all'interno delle quali si raddoppia il conflitto tra legalità e reato che è oggetto del dibattito giudiziario, ha focalizzato l'attenzione su questo punto di vista nell'ambito del dramma processuale. I molti film tratti dalle sue opere (The firm, 1993, Il socio, di Sydney Pollack; The Pelikan brief, 1993, Il rapporto Pelikan, di Pakula; The client, 1994, Il cliente, e A time to kill, 1996, Il momento di uccidere, entrambi di Joel Schumacher; The chamber, 1996, L'ultimo appello, di James Foley; The rainmaker, 1997, L'uomo della pioggia di Francis Ford Coppola; The gingerbread man, 1998, Conflitto di interessi, di Robert Altman; Mickey, 2002, di Hugh Wilson), anche se decisamente diseguali come esito, hanno arricchito schemi e snodi del f. g. grazie all'erudizione tecnica delle procedure legali di cui fa uso lo scrittore, già esperto avvocato, nella costruzione drammatica.
Tuttavia il riflesso di un contesto così determinato e la plasticità con la quale il cinema ha reagito a eventi di rilevanza collettiva e ha metabolizzato riti, pratiche e lin-guaggi propri dell'amministrazione della giustizia non esauriscono i contenuti del f. g.: se è vero che il mondo giudiziario è un ambiente di segni e significati così codificato che la narrazione cinematografica lo ha adottato più che reinventato, è altrettanto vero che il cinema non è entrato nell'aula di giustizia senza lasciare il proprio segno. Ci sono tribunali che somigliano ad antri di giustizia imbevuta di violenza tribale e dolore (come quello della malavita nel finale di M, 1931, di Lang) e altri che riescono nell'impresa di ospitare un dibattito inteso come confronto sereno, ispirato, nobile, delle idee, che mira all'uguaglianza tra gli uomini e al risarcimento dei torti (è ciò che riesce a fare John Ford in Young Mr. Lincoln, 1939, Alba di gloria, ma anche Milos Forman, che in The people vs. Larry Flynt, 1996, Larry Flint ‒ Oltre lo scandalo, trasforma una vicenda giudiziaria individuale in un caso di riflessione sulla libertà): Charlie Chaplin in Monsieur Verdoux (1947) converte l'aula del tribunale nella sede di un'appassionata arringa contro l'illimitato arbitrio che ogni forma di potere, anche la giustizia, esercita per raggiungere i propri fini. Orson Welles, al quale come attore si deve una delle più belle requisitorie in un film (Compulsion, 1959, Frenesia del delitto, di Richard Fleischer), ha trasferito sullo schermo, realizzando Le procès (1962; Il processo) tratto da F. Kafka, il romanzo contemporaneo più minaccioso sul mito negativo della giustizia come persecuzione inspiegabile; Abbas Kiarostami, in Nāma-ye nazdik (1990; Close-up), si serve della serrata e imperturbabile istruttoria di un giudice islamico per mostrare un processo in cui la ricerca del pentimento e del perdono sono perseguiti con lo stesso rigore della sanzione; Zhang Yimou, in Qiu Ju da guansi (1992; La storia di Qiu Ju), compie, attraverso la storia di un processo, una radiografia della Cina contemporanea, allo stesso tempo radicale e partecipe. Ci sono nel f. g. tribunali ricchi di quinte, navate e ballatoi come quelli che caratterizzano la splendida scenografia di Witness for the prosecution (1957; Testimone d'accusa) diretto da Billy Wilder, per il quale Alexandre Trauner costruì un tribunale maestoso e labirintico come un tempio barocco, e altri, come quello di The rainmaker, tratto da Grisham, che ha le luci basse, i ventilatori al soffitto e l'aria popolare di un salone da ballo: ma la presenza fisica del luogo in cui si celebra la giustizia non è una condizione inderogabile nella struttura narrativa di questo tipo di film, come dimostra, per es., Erin Brockovich (2000; Erin Brockovich ‒ Forte come la verità) di Steven Soderbergh, nel quale l'analisi degli indizi, i conflitti tra la difesa e l'accusa, il resoconto drammatico dei soggetti coinvolti nell'azione giudiziaria si svolgono quasi completamente al di fuori del tribunale. Infatti, ciò che accomuna tutti i film in cui la pratica giudiziaria e il rito processuale rivestono un ruolo non accessorio, non è, o non è soltanto, un set di ambienti o una peculiare tipologia di conflitti impliciti nella ricerca della verità, nel diritto alla difesa e nell'etica dell'esercizio della giustizia, quanto l'ossessione del potere della parola intesa come strumento sovrano che finisce per dominare questi set e questi conflitti. Tutti i più grandi f. g., da Anatomy of a murder a 12 angry men, da The verdict a Witness for the prosecution, da Philadelphia a The Winslow boy (1999; Il caso Winslow), remake del film di Asquith realizzato da David Mamet e tratto dal medesimo dramma di T. Rattingan, sia che arricchiscano di dettagli il dibattito processuale con lunghe sequenze, sia che si svolgano nei corridoi dei tribunali o nei lussuosi studi degli avvocati statunitensi o negli interni e nella vita qualsiasi degli imputati, condividono lo spettacolo dell'esposizione, del discorso, della dialettica serrata. Il cinema, arte della visione, ha saputo spesso rendere incandescenti le tecniche proprie della parola, come l'arte della persuasione, la competizione nel dialogo, l'abilità logica della dimostrazione, ricorrendo per lo più alla semplice scelta dell'alternanza di piani ravvicinati e di un loro ritmo intransigente e incisivo (come accade in A few good men, 1992, Codice d'onore, di Rob Reiner). Più della letteratura, o, ovviamente, della scienza giuridica, il f. g. raggiunge la sua acme in una sorta di palpitante teatro dell'ambiguità assoluta nel quale entrambe le par-ti processuali riescono a persuadere lo spettatore della propria verità. Si tratta, forse, dell'aspetto di maggiore prossimità tra l'ontologia processuale e la natura della finzione cinematografica. Quest'ultima sa bene di poter alimentare in continuazione il piacere e l'attenzione dello spettatore solo se è capace di persuaderlo di un significato e successivamente del suo contrario. Solo pochissimi registi sono riusciti a sottrarsi al fascino e al potere manipolatorio di questa drammaturgia che, mentre mette in scena la giustizia, allestisce la rappresentazione di un mondo ‒ così simile al nostro ‒ in cui il senso delle cose è in uno stato di perenne transizione. La più grande obiezione al nichilismo involontario dello spettacolo del rito giudiziario, che più cerca una verità più ne scopre di molteplici ‒ in incubazione nel film processuale ancor prima che la cronaca confermasse con sempre più spietata evidenza la plausibilità statistica di questo sospetto ‒, è forse contenuta nel finale di Fury (1936; Furia) di Lang, dove, in un tribunale, è proprio il cinema il mezzo mediante il quale viene documentata e testimoniata la furia cieca dei responsabili di un linciaggio, a dimostrare che la verità può essere indagata e svelata, e che la giustizia possiede una forza arcaica, travolgente e prodigiosa.
P. Bergman, M. Asimow, Reel justice: the courtroom goes to the movies, Kansas City 1996; M. Sebastiani, Obiezione Vostro Onore, ovvero: la parola al film giudiziario, in M. Sebastiani, M. Sesti, Delitto per delitto. 500 film polizieschi, Torino 1998, pp. 271-73.