musica, filosofia della Grandi teorizzazioni hanno scandito la filosofia della m.: quelle di Pitagora (l’armonia musicale come espressione della più generale armonia del cosmo), di Platone (ancora una versione, soltanto più sofisticata, del nesso musica-cosmologia), di Keplero (la musica come eco del movimento delle sfere celesti), di Hegel (il suono che, nella duplice vita della musica, rappresenta la componente superiore perché ontologicamente determinante rispetto al segno, anche se nella costruzione sistematica della gerarchia delle arti la musica viene trascesa dalla poesia) e di Schopenhauer (la musica come vertice del sistema estetico, sebbene l’argomentazione che conduce a tale risultato sia pesantemente viziata dal punto di vista metafisico, non svolgendo la musica alcuna funzione autonoma di rilievo, ma limitandosi a rappresentare il controaltare, l’altra faccia, speculare e complementare, della volontà del mondo). Attraverso tali passaggi si è venuta sviluppando quella che può essere definita la ‘musica del mondo’, e la filosofia della m. ha preteso di intercettare, sia pure in una certa misura, il linguaggio stesso del mondo e dell’Universo in tutta la sua estensione. Dal punto di vista storico l’espressione filosofia della m. è stata naturalmente associata, almeno fino alla metà dell’Ottocento, a questa interpretazione universalistica, in cui la musica, pur nella sua centralità metafisica, finisce con l’essere progressivamente oscurata. Il passaggio cruciale si è avuto, nella seconda parte dell’Ottocento, con la figura e l’opera di Eduard Hanslick, che è stata fondamentale per approfondire la specificità e il ruolo del bello musicale e per ridisegnare lo statuto della filosofia della musica. La musica, tra tutte le arti, era quella che aveva maggiormente sofferto di una mancanza di autonomia; autonomia che il pamphlet di Hanslick, Il bello musicale, le restituì pienamente. Tale riabilitazione può essere compiutamente inquadrata nella formula ‘dalla filosofia della m. alla musica come filosofia’, a significare il passaggio da una visione ancora totalizzante e totalitaria (al cui interno la musica svolgeva la sua esclusiva funzione) a un’interpretazione che mette al centro la dimensione musicale in tutta la sua irriducibilità. È stato questo il grande merito di Hanslick, che si può quindi considerare il primo grande sistematizzatore dello specifico musicale. Dopo il suo lavoro di grande respiro storico, che è stato, al contempo, di demolizione delle pregiudiziali pregresse e di ricostruzione, è venuto il momento di reinserire ‘il propriamente musicale’ nel dibattito filosofico contemporaneo; si può tornare a usare l’espressione ‘filosofia della m
musica come filosofia’ con rinnovata consapevolezza, secondo il percorso in larga misura rappresentato dalla riflessione novecentesca (Adorno, Bloch, Benjamin, Jankélévitch, Anders, Ernst Kurth), che ha scandito in fasi diverse la progressiva autonomizzazione della musica dalla tutela sistematica del pensiero filosofico.
Si tratta quindi anzitutto di chiarire attraverso quali modalità argomentative la filosofia ha cercato d’impadronirsi della musica, di renderla commensurabile al logos tradizionale, di considerarla alla stregua di uno dei tanti e possibili ‘oggetti’ della filosofia. La correlazione tra musica e filosofia è stata organizzata e dimensionata a partire dalla filosofia, come se si ponesse un rapporto tra un prima (la musica) e un dopo (la filosofia), tra un linguaggio puramente virtuale e uno, invece, compiutamente realizzato: la musica come la ‘notte’ della filosofia, dove quest’ultima detta, dall’inizio alla fine, le condizioni del rapporto, e alla musica non rimane altra scelta che accettarle. Tale rapporto di subordinazione comincia a entrare in crisi nella riflessione musicologica dei primi dell’Ottocento; basti rammentare l’incipit della celebre recensione di E.Th.A. Hoffmann alla quinta sinfonia di Beethoven (1810), dove vengono chiarite in maniera esemplare le ragioni per le quali la musica è l’arte per eccellenza romantica, anzi, a rigore, l’unica veramente romantica, in quanto, recidendo ogni legame di sudditanza, diretto o indiretto, con le altre arti, apre le porte di un regno sconosciuto, contrassegnato dall’ineffabilità del suo linguaggio. Ragioni che inducono a prendere le misure rispetto alle altre arti, quelle poetico-narrative come quelle essenzialmente plastiche, risultando, in linea di principio, la musica incommensurabile alle une e alle altre. Tale processo di liberazione ed emancipazione della musica viene ulteriormente approfondito nel corso dell’Ottocento per opera di Hanslick, il fondatore della moderna filosofia della m.; anche in questo caso si insegue e persegue la specificità del bello musicale, in alternativa a quello rintracciato dalle altre arti, lo si considera totalmente ‘altro’ rispetto ai canoni consueti del linguaggio. L’argomentazione di Hanslick è particolarmente stringente: mentre nel linguaggio consueto esiste un rapporto tra mezzo e fine, tra significante e significato, nella musica il suono è al contempo mezzo e fine. Lo scarto che separa la musica dal linguaggio è dunque non solo profondo, ma addirittura ‘alternativo’; siamo su un’altra lunghezza d’onda, su un ordine di considerazione completamente diverso. Nonostante le apparenze, questa impostazione non prelude soltanto alla rivendicazione dell’autarchia autoreferenziale della musica, ma comporta anche, più sottilmente, una riproduzione a un livello più elevato della trasversalità delle arti. Al limite, infatti, dal punto di vista estetico-normativo, il puro suono e la pura visione finiscono per coincidere. Ma l’autentica svolta nella considerazione e nell’interpretazione della musica si compie nel Novecento; suoi protagonisti si possono considerare, sul piano musicologico, Kurth e, su quello filosofico, Bloch, Benjamin, Adorno, Jankélévitch. Con Kurth si assiste per la prima volta a uno spostamento consapevole dalla filosofia della m. alla filosofia dell’ascolto: non sussistono suoni in sé, i suoni consegnati nei diagrammi spaziali delle partiture devono essere considerati ‘morti’. Ciò che continua a sopravvivere nei suoni è la loro volontà di essere ascoltati. Kurth, con la sua interpretazione in chiave energetistica della corrente melodica, sposta quindi i termini di riferimento: non sono le partiture ma le esperienze d’ascolto a determinare la qualità dei rapporti musicali. Non è la visione, ma l’ascolto, in tutta la sua estensione, a caratterizzare il destino e le finalità della musica. Un tale paradigma implica anche un modello comunitario completamente rinnovato, che viene approfondito e radicalizzato da autori quali Bloch e Benjamin, nonostante la svolta decisiva risulti essere quella adorniana, esemplarmente rappresentata dallo sguardo di Euridice, evocato nella prima delle grandi opere postume di Adorno, il Beethoven. Euridice, il grande mito della musica, ci guarda in modo triste, in attesa non di una risposta qualsiasi, ma di una risposta ‘elettiva’, che può essere fornita dalla filosofia a una sola condizione: accettare fino in fondo un rapporto egualitario con la musica. Questa linea di emancipazione della musica dalla sudditanza alla filosofia prende le misure in modo particolare da quella concezione che si ritrova paradigmaticamente esplicitata in un celebre luogo del Fedone (➔) platonico, in cui Socrate racconta del suo sogno e del conseguente sdoppiamento. Nel sogno Socrate dice a sé stesso d’impegnarsi nel fare musica e nel comporre; e la risposta che Socrate si dà, è del tenore seguente: nella vita Socrate ha sempre perseguito la filosofia, ma, così facendo, ha di fatto coltivato la musica, perché che cos’è, in fondo, la filosofia, se non una forma di musica, la più elevata? Pur concedendo a Platone che la μουσική greca è cosa molto diversa dalla musica moderna – nel primo caso, in modo particolare con il verso greco, abbiamo la strettissima compenetrazione tra linguaggio e dimensione sonora; nel secondo, invece, la dissociazione più profonda fra musica e linguaggio – non si può sottovalutare il fatto che, nella versione platonica, l’unità di misura per quel rapporto è fornito dalla filosofia. Un’interpretazione ‘moderna’ di tale rapporto di subordinazione è stata data da Schopenhauer: come musica, la filosofia rivela la propria essenza, è linguaggio che ‘dice’ il mondo com’era prima della creazione; un tema, questo, che governa la filosofia di Schopenhauer e che rappresenta una costante di tutta la filosofia antica. La musica, al limite, non può considerarsi neppure un oggetto del pensiero, ma è la stessa filosofia a porsi, a declinarsi come musica, la particolare «musica della filosofia»; come un μουσικός, infatti, il filosofo è colui che intreccia le relazioni, che sta tutto nella κοινωνία delle forme. Una prospettiva configurabile come quel particolare non-luogo che è il punto di conversione tra le figure e lo sfondo, fra l’essere e il non-essere. Platone ribadisce tale ruolo nel mito delle cicale (nel Fedro), dove riassume tutta la sua dottrina: (1) la musica non è che un dono delle Muse, peraltro molto tardivo; (2) alcuni uomini presentano una particolare attitudine per la musica; (3) tra queste due attività umane, cioè musica e filosofia, intercorrono strette relazioni. In ogni caso il rapporto tra queste due dimensioni è speculare: le cicale segnalano alle Muse gli uomini che più rappresentano la vocazione per la musica, che sono quelli che si dedicano alla filosofia. Questa linea interpretativa – che possiamo approssimativamente definire la ‘prospettiva Platone-Schopenhauer’ – è puntualmente contestata da Bloch e Jankélévitch, i quali, nonostante le profonde differenze di stili, sensibilità e formazione, concordano almeno su un punto decisivo: la musica esiste nell’attualità di quell’evento evenemenziale per eccellenza che è l’ascolto, inteso come incontro-confronto tra due contingenze considerate nella loro irriducibile individualità, l’ascoltante e il suono. Nell’ascolto-evento si sciolgono i complessi nodi della ricostruzione musicale, che si afferma in tutta la sua portata antinichilistica. Nell’evento-ascolto si consuma, dissolvendosi, la tradizione platonico-schopenhaueriana: Bloch, Benjamin e Jankélévitch danno un contributo decisivo a tale processo di liberazione-emancipazione della musica; emancipazione che viene portata a compimento dalla visione blochiana del suono quale aura dell’ascoltatore che sta ritrovando sé stesso (Spirito dell’utopia, 1918), e dalla lettura benjaminiana della musica come processo redentivo. La musica è quella dimensione verticale che lacera per sempre la dipendenza immanentistica dell’essere-colpevoli; quella dimensione che produce la restaurazione del creaturale. Nell’interpretazione dell’ineffabile di Jankélévitch, la musica vive e continua a vivere solo nell’attualità evenemenziale dell’esecuzione e dell’ascolto. Tali prospettive, tutte e tre insieme, producono una radicale conversione: il suono non è più una cifra meramente speculare di un presunto Universo cosmologico pienamente armonizzato, non è più un semplice messaggio astrale, come nella tradizione (Pitagora, Platone, Keplero, Schopenhauer), ma diventa «materia umana per eccellenza». La particolare ‘fragilità’ e ‘frattalità’ del suono, di un’articolazione significativa sempre nel contempo tesa, offerta e ritirata, è dunque per propria costituzione intrinseca ontologicamente contingente: è il contingente, la contingenza in tutta la sua irriducibilità. Quando si assume che l’accadimento sonoro postula un presente bidimensionale con l’apertura di uno spazio-tempo, di una propria risonanza, si finisce per riconoscere necessariamente la natura contingente del suono e la natura altrettanto contingente di chi si disponga ad accoglierne la portata: un soggetto completamente ridefinito nella sua identità di ascoltante ed ascoltatore. Dal soggetto che ascolta alla comunità di soggetti ascoltanti, il passaggio è diretto: un percorso in cui filosofia della m., antropologia filosofica e filosofia politica possono incontrarsi. Una tradizione di pensiero che mette in discussione il consueto primato della visione e del ϑεωρέιν. La superiorità estetico-metafisica del suono riesce a trasmettere al comparto filosofico un nuovo impulso; la musica diventa essa stessa una forma di pensiero, di filosofia, non solo perché in essa l’attività razionale per eccellenza, il linguaggio, viene piegata a usi e modalità espressive inconfrontabili, e tuttavia più efficaci e duraturi che non quelli della scienza o del senso comune, ma anche perché nella musica, e a partire dalla musica, è possibile costruire una prospettiva contrassegnata dalla speranza, dall’utopia. La superiorità estetica del suono viene chiaramente fondata sull’effetto che esercita sulla nostra ricettività sentimentale: il suono non può non comprometterci sentimentalmente, e metterci interiormente in discussione, anche attraverso l’ascolto.
La musica come filosofia, come ‘apertura di senso’, promuove una interrogazione completamente rinnovata. Se si ripercorrono le linee teoriche del capitolo musicologico dell’opera di Bloch (Spirito dell’utopia), o della particolarissima struttura triadica (mitico-redenzione-speranza) che Benjamin ricava dalla sua decostruzione delle Affinità elettive (1809) di Goethe, e la cui cifra più segreta è costituita dalla musica, se si ‘incrociano’ le indicazioni heideggeriane contenute nel paragrafo 34 di Essere e tempo (1927), e in partic. nella sezione dedicata all’ascolto («sul fondamento di questo poter-sentire esistenzialmente primario è possibile qualcosa come l’ascoltare, che, da parte sua, è fenomenicamente più originario di ciò che la ‘psicologia’ definisce ‘innanzi tutto’ come ‘udito’, cioè la ricezione dei suoni e la percezione dei rumori. Anche l’ascoltare ha il modo di essere del sentire comprendente. ‘Innanzitutto’ non sentiamo mai rumori e complessi di suoni, ma il carro che cigola, la motocicletta che assorda. Si sente la colonna in marcia, il vento del Nord, il picchio che batte, il fuoco che crepita»), con la prima parte delle Grundlagen des linearen Kontrapunkts (1917) di Kurth, affiorano i lineamenti di una filosofia dell’ascolto (dell’ascolto in chiave comunitaria) che consente di reimpostare in maniera radicalmente nuova il rapporto contingenza-comunità. L’ascolto come evento acustico-teoretico, specifico di un’identità contingente (l’ascoltante) che si rapporta a un’altra identità contingente (il suono); l’ascolto come evento-relazione fra due contingenze. Come afferma programmaticamente uno dei maggiori musicisti contemporanei, Wolfgang Rihm, ogni suono ha la sua individualità, il suo carattere, la sua fisionomia, come una persona ha braccia, gambe, bocca. Ogni suono, per es. un re bemolle, suonato da un clarinetto basso, ha la sua aura con il do centrale del clarinetto basso. Entro nello strumento per ottenere quest’aura, per comprenderla, anche quando si tratta di strumenti che non so suonare. Auspico di essere come è quello che suona quando suona. Non si può rimpiazzare un suono con un altro. La musica pertanto non contempla alcun oggetto materiale, è una pura possibilità, una proiezione. La musica non ha luogo, è sempre nunc ma non hic. ‘Ora’, ‘adesso’, è molto importante nella musica, ma questo ‘adesso’ non ha luogo. È questa anche la particolare medialità della ‘situazione musicale’ cui si riferisce Günther Anders nel suo decisivo manoscritto del 1930, Philosophische Untersuchungen über musikalische Situationen. Non si dà, dunque, musica se non nell’accezione umana, come espressione dell’uomo, secondo le indicazioni di quel grande libro di miti rappresentato dalle Metamorfosi di Ovidio. In tal modo la deriva ‘individualistica’, l’apologia di un suono fine a sé stesso, viene superata in una visione antropologica. Antropologia filosofica e filosofia della m. ritrovano un punto di congiunzione e di compenetrazione nella musica considerata come identità dell’umano, come luogo della celebrazione dell’incontro con il proprio Sé più profondo; il suono come aura dell’ascoltatore che sta ritrovando sé stesso. La musica quale unica dimensione ‘auratica’ della modernità, cifra della nostra interiorità più incontaminata. Bloch, che contribuisce in maniera decisiva all’affermarsi di tale prospettiva, muovendo proprio dall’esigenza della trasformazione del Sé, riafferma la coniugazione fra quanto avviene al cospetto del fenomeno musicale e quanto avviene nella storia, nelle sue discontinuità e lacerazioni. La musica non solo non è distinta dalla storia, ma ne rappresenta il sostrato più profondo e più autentico: è nella musica, infatti, che prende forma quel principio utopico di redenzione la cui dimensione propria è il presente, e la cui attualità acquista persino evidenza per chiunque attraversi quel cammino di trasformazione che porta l’individuo a costituirsi come sostanza etica sotto il segno del Noi, e non più sotto quello del suo isolamento monadico. Proprio per questo, allora, la tipologia di fondazione che il legame comunitario ritrova nella musica non potrà essere di natura estetica, ma dovrà collocarsi su un altro piano, non solo diverso, ma addirittura – ed esplicitamente – alternativo all’estetica. L’estetica è pur sempre cosa da intenditori, da fruitori accorti che sanno decifrare gli schemi nascosti e raffinati di ogni composizione. L’ascolto, invece, come categoria comunitaria per eccellenza, non presuppone altro se non un comune riconoscimento intorno alla musica e nella musica. Il primato che Bloch assegna all’udito rispetto alla vista – il senso che, da Aristotele in poi, sta al centro delle filosofie orientate verso il problema della conoscenza – evidenzia al meglio lo spostamento di interessi che fa della musica un catalizzatore di esperienze anche molto diverse e lontane fra loro. La musica delinea pertanto un’originale filosofia dell’accordo intersoggettivo, fondata non sul consenso né sul contratto, ma sul principio dell’autoascolto. Dal momento in cui un esecutore suona un brano musicale, fino a quello in cui un ascoltatore ne fruisce, si stabilisce una sorta di circolarità nella quale ognuno, per così dire, presta orecchio non solo a un fenomeno esterno, ma alle risonanze che questo produce nell’interiorità di ciascuno, nell’anima. Si tratta di un particolarissimo punto di vista, ed è un’affermazione corretta sia se proiettata sullo sfondo della vicenda filosofica del Novecento, sia se considerata nell’orizzonte della possibile o impossibile estensione del principio-musica (altro nome del principio-speranza), in quanto codice di fondazione di una comunità certamente utopica, ma non per questo astratta o irraggiungibile. L’ascolto mobilita e rende attuale un potenziale che è implicito in ogni soggetto, e che corrisponde alla condizione utopica come tale. La scommessa etica e politica di cui la musica si fa portatrice corre, dunque, sul filo di quel ‘mistero’ per penetrare il quale occorrono orecchie per sentire e occhi per ascoltare. Bisogna ripercorrerne le scansioni senza enfasi, preoccupandosi di mostrare i punti di incontro tra la musica e un pensiero filosofico, quello contemporaneo, che forse oblia troppo la lezione di questa arte singolare, trascurata da alcuni autori, sopravvalutata da altri, ma raramente tenuta in conto con l’onestà e con l’ingenuità dimostrate e rivendicate da Bloch. Di fronte alla musica, sembra anzi che, per Bloch, l’ingenuità sia l’unico atteggiamento in grado di tenere insieme le istanze della comunità e dell’anima-contingenza, della speranza e della laicità, del messianismo e dell’attualità. Un’ingenuità che forse la musica richiede, quando si smette di guardarla sotto la prospettiva dello specialismo e la si ricolloca piuttosto nel campo di un vero interesse collettivo.
In seguito al capovolgimento prospettico appena delineato, non si tratta più di verificare come la filosofia abbia considerato la musica in quanto oggetto, ma di sperimentare come la filosofia sia stata capace di rimettere in discussione sé stessa mediante il confronto con la musica. Così, il controverso rapporto tra la musica e il linguaggio può ispirare una concezione ‘oscillatoria’ della filosofia e dei suoi margini, come quella prospettata da Derrida: «ciò non implica solo riconoscere che il margine sta dentro e fuori. Anche la filosofia lo dice: dentro perché il discorso filosofico intende conoscere e dominare il suo margine, definire la linea, inquadrare la pagina, invilupparla nel suo volume. Fuori perché il margine, il suo margine, il suo fuori sono vuoti, sono fuori: negativo di cui non si saprebbe cosa fare, negativo senza effetto nel testo o negativo che lavora al servizio del senso, margine rilevato (aufgehobene) nella dialettica del Libro» (Margini della filosofia, 1972). Il «margine» come oscillazione perpetua, come linea di demarcazione problematica, che mette in primo luogo in discussione sé medesima; la proposta filosofico-teorica che si può desumere da questo contesto ha una portata ‘eversiva’ e si può considerare mutuata dalla musica e dalla vexata questio che da sempre la investe, il rapporto tra musica e linguaggio come rapporto che tende costantemente a debordare sui due piani, con la musica che tende a prevaricare il linguaggio o, viceversa, con il linguaggio che, in un atto di ritorsione, tende a prevaricare la musica. La suggestione della proposta ‘traslata’ del «margine» dimostra tutta la sua incisività se commisurata alle più note e controverse interpretazioni della querelle musica-linguaggio. La possibilità di definire la musica come linguaggio è stata prospettata da molteplici punti di vista. Thrasybulos Georgiades – esponente di spicco della Scuola di Monaco e musicologo particolarmente apprezzato da Gadamer – è giunto alla conclusione che tra musica e linguaggio vi sia una differenza sostanziale, particolarmente evidenziabile sul piano della ‘scrittura’: il compositore non ha nulla a che fare con cellule o unità di significato simili alle parole, bensì con rapporti che investono le dimensioni di ‘altezza’ e ‘durata’ del suono, ossia con componenti elementari che possono essere, piuttosto, plausibilmente comparate ai ‘fonemi’. Inoltre, mentre la parola scritta è una forma fenomenica del linguaggio, per nulla inferiore a quella detta, la musica scritta è davvero lettera morta, una semplice prescrizione per la viva produzione del suono. Nella sostanza anche Adorno, che definisce la musica come «linguaggio non intenzionale», si muove nello stesso ambito interpretativo, pur continuando ad assumere il linguaggio come punto di riferimento privilegiato; in Zur Theorie der musikalische Reproduktion (uno dei suoi scritti postumi di maggior rilievo) mostra infatti come nel sistema segnico vi sia omogeneità compiuta tra il linguaggio e la scrittura linguistica, laddove nella musica non vi è altrettanta corrispondenza tra il linguaggio musicale e la notazione. Molto più radicale è la prospettiva delineata dal compositore-musicolgo Dieter Schnebel, come pure da Hanslick, il quale, con qualche forzatura e ingenuità, celebra l’ipotesi estrema della totale asimmetria tra musica e linguaggio con il famoso, ma altrettanto discutibile esempio dell’aria di Orfeo, nell’Orfeo ed Euridice di Ch.W. Gluck: la stessa aria potrebbe sostenere la situazione logico-esistenziale ‘A’ e la situazione logico esistenziale antitetica, ‘non-A’. Si tratta, con buona approssimazione, di prospettive complementari e speculari, che tendono, nel loro estremismo, a privilegiare un’argomentazione rigida, rigidamente fissata a partire dal linguaggio (assunto come criterio discriminante, in negativo o positivo). La strategia ‘marginalista’, mutuabile da Derrida, sfugge invece a tale regola, smaschera quel tanto di metafisico che ancora grava su tali prospettive, pro o contro l’assimilazione della musica al linguaggio, deludendo ogni tentazione gerarchica e le rispettive ‘istanze-di-priorità’, e indicando la ‘svolta’ impostasi nella musica contemporanea, anche riguardo alla scrittura notazionale, con l’avvento della musica ‘elettronica’ (che tende a prescindere dall’uso della partitura, pur non rinunciando esplicitamente alla funzione scritturale: basti pensare a K. Stockhausen, F. Evangelisti, L. Berio, J.L. Koenig, compositori che producono solo a posteriori una partitura per quanto rudimentale e approssimata). Su un altro piano, si assiste a una linea che tende a trasformare profondamente la continuità della temporalità musicale; sembra quasi che la musica, in analogia con quanto accade nel cinema, ‘spazializzi’ all’ennesima potenza il tempo musicale: il compositore nella creazione riesce a far convivere forme temporali che si emancipano dalla linearità, dando luogo a quel processo che S. Sciarrino definisce «discontinuità della dimensione temporale», alla cui conclusione vi è una «forma a finestre». La strategia oscillatorio-marginalista di Derrida riesce insomma a coprire compiutamente la svolta della musica contemporanea, accompagnandone ed esaltandone tutte le implicazioni-sfumature.
Alla luce di questo nuovo paradigma, cambia il senso stesso della locuzione filosofia della musica. Tradizionalmente, essa andava intesa come formata da un genitivo oggettivo: la filosofia guardava alla musica come a un suo oggetto specifico, un oggetto linguistico che andava notomizzato e ricondotto ad altro. In quella prospettiva, la filosofia era separata dalla musica da un fondamentale scarto assiologico: era la filosofia, e soltanto la filosofia, a dotare la musica di un senso che, da sola, questa non avrebbe mai potuto darsi. In questo modo, allora, la filosofia tendeva a colonizzare, addirittura ad annettersi la musica, che perdeva ogni autonomia e ogni specificità. Nella nuova prospettiva, invece, il genitivo dell’espressione ‘filosofia della m.’ assume un valore soggettivo: la musica viene affrancata dall’ipoteca oggettivante della filosofia e può finalmente procedere iuxta propria principia. Forse ancora più rilevante è l’ulteriore indicazione metafilosofica insita in tale prospettiva. Se la filosofia della m. si farà filosofia dell’ascolto, ma di un ascolto che non è mediato dal linguaggio verbale (e dunque non ha a che fare con gli aspetti semantici, con la rappresentazione linguistica, con il contenuto veritativo), allora in essa si potranno trovare importanti indicazioni per una filosofia che sappia andare oltre la ‘svolta linguistica’ che ha segnato, in massima parte, la filosofia novecentesca (da Frege a Wittgenstein alla filosofia analitica; da Ferdinand de Saussure e lo strutturalismo a Jacques Lacan, da Heidegger a Gadamer) e che era stata anticipata da Kant, nel paragrafo XXI della Critica della facoltà del giudizio (1790). Ma vi è un’implicazione ancora più radicale, poiché la stessa tesi centrale dell’ermeneutica, ovvero il primato teoretico del testo letterario in quanto paradigma del processo interpretativo, viene messa radicalmente in discussione. Il suono musicale, e non la voce linguistica, è il fulcro di questa nuova filosofia, informata a un rapporto non più gerarchico con la musica. Oggi è molto comune attaccare il paradigma filosofico derivato dalla svolta linguistica. L’offensiva parte dal naturalismo, dalla fenomenologia, dal pragmatismo, dal pensiero della differenza; ma la tenzone non è affatto conclusa, per il paradigma linguistico si è ormai aperto anche un fronte musicale. ‘Dalla filosofia della m. alla musica come filosofia’ non è, dunque, solo una formula suggestiva o un artificio letterario ma l’indicazione precisa di una linea di tendenza che si è andata sempre più affermando nella cultura filosofica e musicale del Novecento, una cultura finalmente egualitaria, che non vede la supremazia di una dimensione sull’altra, presumendo, invece, una relazione autenticamente paritetica. Una cultura che aspira a dissociarsi da una concezione cosmologica del suono (l’armonia delle sfere celesti, il suono come eco di tale armonia), che per tanto tempo ha gravato sulla filosofia della m., per approdare a un’interpretazione ‘interioristica’ del suono, in cui questo diviene risonanza della nostra cifra più profonda, materia per eccellenza dell’identità umana.