Filosofia pratica
sommario: 1. Che cos'è la ‛filosofia pratica'? 2. La ‛riabilitazione della filosofia pratica' in Germania. 3. Temi, problemi ed esponenti dell'odierno neoaristotelismo tedesco. a) La riabilitazione della ϕρόνησις in Gadamer. b) La riabilitazione della πρᾶξις nella Arendt. c) La riabilitazione del metodo topico-dialettico in Hennis e Bubner. d) La riabilitazione dell'ἕθος in Ritter. 4. La tradizione della filosofia pratica. 5. Le intuizioni epistemiche del neoaristotelismo. 6. Filosofia pratica e neoaristotelismo nelle aree di lingua francese, italiana e anglo-americana. a) L'analisi della ‛prudenza' in Aubenque. b) Le critiche alla riabilitazione della filosofia pratica nella Scuola di Padova. c) Elementi di ‛filosofia pratica' nella cultura filosofica anglo-americana. 7. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Che cos'è la ‛filosofia pratica'?
Tra i problemi maggiormente dibattuti nel pensiero filosofico contemporaneo un posto di primo piano è occupato da quelli relativi all'agire e alle sue forme di razionalità. Essi riguardano l'uomo nelle sue scelte di vita individuali, nel suo partecipare alla vita della società civile e nel suo essere membro di una comunità politica, e afferiscono dunque ai campi disciplinari dell'etica, del diritto e della politica. Fino a poco più di due secoli fa, all'incirca fino a poco prima di Kant, tutti questi problemi rientravano nell'ambito di competenza della cosiddetta philosophia practica, distinta dalla philosophia theoretica e dalla philosophia mechanica, secondo quanto insegnava una articolazione scolastica del sapere di origini vagamente aristoteliche. Dopo Kant, e in tempi più recenti, con lo sviluppo delle scienze umane e sociali e con la crescita della loro autonomia, i problemi relativi all'agire sono stati trasferiti nell'orizzonte della considerazione epistemica propria di tali discipline. La convinzione oggi largamente diffusa è che in questo modo anche il sapere concernente l'agire umano abbia finalmente assunto un carattere scientifico, ossia constatativo e descrittivo, e che tale tipo di sapere sia attuato in modo assai più efficace e affidabile dalle scienze umane che non dalla filosofia. Questo perché le scienze umane, meglio della filosofia, sono in grado di descrivere le azioni dell'uomo così come avvengono e sono, e non come dovrebbero essere.
Nel frattempo, tuttavia, ci si è accorti che tale sviluppo non ha pienamente corrisposto alle aspettative che aveva suscitato agli inizi e, anzi, ha lasciato sostanzialmente insoluti molti problemi che riguardano soprattutto l'autocomprensione metodologica delle discipline umane. Quasi prima ancora di ottenere il riconoscimento epistemologico di sapere scientifico, le scienze umane sono entrate in quella che potremmo chiamare una vera e propria ‛crisi' dei loro fondamenti.
In ragione di ciò si è assistito a una rinascita di interesse per il tipo di competenze che la riflessione filosofica può offrire, in particolare in relazione ai problemi dell'agire e del sapere che lo governa. E in questo campo si è tornati a guardare con una qualche aspettativa a quella che, con un termine ripescato dalla summenzionata tradizione scolastica, viene oggi chiamata nuovamente ‛filosofia pratica'. Uno tra i segnali più consistenti di questo fenomeno è stata la cosiddetta ‛riabilitazione della filosofia pratica' (Rehabilitierung der praktischen Philosophie) che si è avuta in Germania.
2. La ‛riabilitazione della filosofia pratica' in Germania
Con tale designazione si è intesa originariamente la ripresa di alcune intuizioni della filosofia pratica aristotelica e la rivendicazione della loro attualità da parte di alcuni pensatori contemporanei. Costoro si sono richiamati, da punti di vista metodologici e disciplinari diversi, al sapere pratico così come Aristotele lo definisce in relazione alle sue finalità, al suo oggetto e alla sua epistemicità specifica, e ne hanno tratto spunti e motivi per una critica della comprensione dell'agire nel pensiero etico e politico contemporaneo. La pluralità delle prospettive secondo le quali essi si sono rifatti ad Aristotele - peraltro nella consapevolezza dell'impossibilità di una restaurazione pura e semplice - ha conferito alla ripresa della filosofia pratica, e al suo originario nucleo neoaristotelico, contorni piuttosto sfumati e non riducibili a una definizione unitaria, tanto più che il fenomeno va compreso nel contesto di una più generale presenza di Aristotele nel pensiero del Novecento e va inoltre differenziato a seconda delle aree linguistiche in cui si è sviluppato (v. Berti, 1992).
Ciò che può essere indicato con sufficiente precisione sono le origini del movimento: esso si è sviluppato nell'area linguistica tedesca in un ampio e articolato dibattito a partire dagli inizi degli anni sessanta. L'espressione ‛riabilitazione della filosofia pratica' fu usata per la prima volta da Karl-Heinz Ilting (v., 1963-1964, 1964-1965 e 1983, p. 7), ma si affermò perché fu adottata da Manfred Riedel come titolo di due volumi, da lui curati, che costituiscono la prima documentazione d'insieme del dibattito (v. Riedel, 1972-1974; v. Oelmüller, 1978-1979; v. Apel e altri, 1980-1984). Si possono distinguere nella riabilitazione della filosofia pratica alcune fasi principali, e poi individuare con maggior chiarezza, entro l'articolazione che ne risulta, il fenomeno del neoaristotelismo.
1) La riabilitazione della filosofia pratica, in particolare l'iniziale fermento ‛neoaristotelico', ha una sua preistoria. Essa fu preparata, sia pure in modo indiretto e da lontano, nei corsi su Aristotele che il giovane Martin Heidegger tenne a Friburgo (1919-1923) e Marburgo (1923-1928). Nello sviluppare il programma filosofico di una ‟ermeneutica della fatticità" e di una ‟analitica dell'esistenza", che si prefiggeva di cogliere la vita umana nella sua dinamica propria, Heidegger adottò come filo conduttore Aristotele, in particolare l'Etica Nicomachea. Le sue lezioni, che mettevano magistralmente in luce l'attualità delle intuizioni di Aristotele contro la tradizione teoreticistica moderna, furono seguite allora, tra gli altri, da Hans-Georg Gadamer, Hannah Arendt, Joachim Ritter, in parte anche da Leo Strauss, cioè da autori che con i loro scritti furono in seguito i principali ispiratori o promotori della riabilitazione della filosofia pratica e del neoaristotelismo.
2) Un secondo fermento che indirettamente contribuì a preparare il fenomeno fu la riscoperta, negli anni cinquanta, della filosofia politica classica da parte di alcuni filosofi della politica tedeschi emigrati in America, cioè Strauss (v., 1950, 1959 e 1964), Eric Voegelin (v., 1952 e 1959) e la già ricordata Arendt (v., 1958). In generale essi rivendicarono l'attualità della filosofia politica di Platone e Aristotele, da loro intesa come un sapere normativo finalizzato alla realizzazione della buona costituzione, contro la scienza politica moderna intesa invece come mera indagine descrittiva e neutrale dei fatti politici.
3) Preparato da questi prodromi, il dibattito sulla riabilitazione della filosofia pratica si sviluppò in Germania negli anni sessanta in seguito all'influenza di testi come Wahrheit und Methode di Gadamer (v., 1960), Vita activa della Arendt (v., 1958 e 1960), Politik und praktische Philosophie di Wilhelm Hennis (v., 1963), Metaphysik und Politik di Ritter (v., 1969). Ciascuno a suo modo, questi scritti contribuirono alla riscoperta della concezione aristotelica del sapere pratico, che veniva rievocata e messa in campo sia contro alcuni esiti unilaterali della scienza politica moderna, quali il positivismo e lo storicismo, sia contro le concezioni moderne dell'etica che separano virtù e felicità e che restringono l'etica a una mera dottrina della virtù. Parallelamente alla riscoperta di Aristotele si ebbe anche una riconsiderazione del pensiero etico, giuridico e politico di Kant, riproposto come modello da seguire vuoi in alternativa ad Aristotele, vuoi in combinazione con Aristotele (v. Held, 1981; v. Ilting, 1994; v. Riedel, 1975, 1988 e 1989; v. Höffe, 1971, 1979 e 1987; v. Vollrath, 1977 e 1987).
4) Il rinnovato riferimento a questi due paradigmi classici è sfociato negli anni settanta in una discussione corale in merito all'attualità dei problemi dell'agire e della razionalità pratica. In tale dibattito hanno preso la parola tutte le principali scuole filosofiche tedesche, in particolare: a) la vecchia Scuola di Francoforte di ispirazione hegeliano-marxista, attraverso Theodor Wiesengrund Adorno e il giovane Jürgen Habermas; b) il razionalismo critico, rappresentato in Germania da Hans Albert, Hans Lenk e, in una certa misura, anche da Ernst Topitsch; c) l'ermeneutica filosofica, sostenuta in primis da Gadamer e dai suoi allievi diretti (Rüdiger Bubner, Jürgen-Eckhardt Pleines), ma anche da Ritter e dalla sua scuola (Hermann Lübbe, Odo Marquard, Willi Oelmüller, Günther Bien, Reinhart Maurer), nonché da un pensatore versatile come Riedel; d) il costruttivismo della cosiddetta Scuola di Erlangen, fondata da Paul Lorenzen, sviluppata da Friedrich Kambartel, Jürgen Mittelstrass e Oswald Schwemmer, poi però disunitasi; e) infine, la nuova Scuola di Francoforte - di Karl-Otto Apel e dell'ultimo Habermas - che ha sviluppato il programma di un'etica del discorso (o della comunicazione) fondata su una pragmatica trascendentale (o universale).
Lo sviluppo teorico-sistematico del dibattito, qui distinto per comodità dall'originaria riscoperta di Aristotele e di Kant, può essere fatto cominciare al più tardi dal 1969, cioè dalla data del IX Congresso tedesco di filosofia. In tale occasione - nelle relazioni di Lorenzen (Das Problem des Szientismus), di Habermas (Bemerkungen zum Problem der Begründung von Werturteilen) e di Richard M. Hare (Wissenschaft und praktische Philosophie): in proposito, v. Landgrebe, 1972 - la discussione dei problemi riscoperti e riproposti dalla ‛riabilitazione della filosofia pratica' fu sganciata dal riferimento ai paradigmi tradizionali, quello aristotelico e quello kantiano, per essere esplicitamente sviluppata da prospettive e posizioni filosofiche odierne. Fu in questa fase che si prese piena consapevolezza del carattere ‛neoaristotelico' degli spunti di Gadamer, Ritter, Arendt, Hennis. E a tal proposito va detto che la designazione ‛neoaristotelismo' fu messa in circolazione da Habermas e Apel, che la usarono specialmente per criticare la posizione etico-politica propria dell'ermeneutica, sostenitrice dell'attualità della prudenza e della corrispondente concezione della felicità, alla quale essi contrapponevano il programma postkantiano di un'etica del discorso, dal carattere universalistico, deontologico e formalistico.
5) Come un ulteriore sviluppo di tale dibattito può essere considerata la discussione intorno all'‛etica della responsabilità', che si è sviluppata più tardi in riferimento al libro di Hans Jonas Das Prinzip Verantwortung (v., 1979), il quale, nelle sue argomentazioni fondative preliminari, opera con alcuni assunti di derivazione aristotelica (v. Volpi, Le ‟paradigme perdu"..., 1993). In connessione con la discussione circa le possibili applicazioni del ‛principio responsabilità' (v. Jonas, 1985) e, inoltre, con lo sviluppo delle cosiddette ‛etiche applicate' - come l'etica della medicina, l'etica dell'ambiente o l'etica economica - il concetto di ‛filosofia pratica' è stato impiegato - in una accezione molto dilatata, e distorta rispetto alle sue origini e alla sua semantica specifica - per indicare in generale l'etica applicata (v. Bayertz, 1991; un equivoco analogo in Pontara, v., 1988).
3. Temi, problemi ed esponenti dell'odierno neo aristotelismo tedesco
La complessità del dibattito e la sua irriducibilità a un denominatore comune rendono difficile una valutazione d'insieme. Da un punto di vista generale, comunque, si può dire che la riabilitazione della filosofia pratica si sia sviluppata nell'orizzonte di una istanza ‛neofondativa', nel senso che essa mirava a ridefinire un quadro filosofico-concettuale e un modello di razionalità pratica che consentissero di uscire dall'impasse in cui avevano condotto alcune idee vincenti del pensiero sociologico post-weberiano, prima fra tutte la convinzione che la comprensione dell'agire umano messa in atto dalle scienze sociali debba essere ‛avalutativa', ossia neutrale rispetto ai valori. In generale, contro o a correzione dell'unità monologica dell'idea moderna di ragione, tale istanza neofondativa si è tradotta nella dichiarazione programmatica della necessità di differenziare i paradigmi della razionalità in corrispondenza della polimorfia degli ambiti considerati, e quindi anche di ritagliare un paradigma di razionalità pratica omogeneo e adeguato all'agire e alla sua peculiarità. In questo senso la ‛riabilitazione della filosofia pratica', che peraltro solo raramente è andata oltre la mera dimensione programmatica, è stata più un fenomeno di reazione alla modernità che non una riappropriazione di Aristotele e dell'aristotelismo politico.
Per sviluppare un'analisi dei contenuti e delle diverse proposte in essa emerse, bisognerebbe indagare quali ragioni abbiano provocato questo movimento di reazione, nella comprensione dell'agire e del sapere che lo concerne, rispetto alle tendenze più proprie della modernità. E a tal fine bisognerebbe non solo riconsiderare le diverse tradizioni alle quali nella genesi e nello svolgimento del dibattito si è fatto rispettivamente riferimento, ma, risalendo storicamente più indietro, bisognerebbe esaminare altresì come in epoca moderna, in seguito alla identificazione della scientia con la theoria e all'affermarsi dell'ideale unitario del metodo, la comprensione dell'agire e del sapere corrispondente abbia subito una profonda trasformazione, e come in ragione di ciò siano venute meno la possibilità e l'idea stessa di una ‛scienza pratica'. Sarebbe inoltre interessante studiare in quale misura questa tendenza di sviluppo abbia successivamente condotto a una crisi del moderno ideale unitario di razionalità e di sapere scientifico, per mostrare poi come il ricorso alla cosiddetta tradizione della filosofia pratica sia interpretabile come una reazione a tale crisi.
Comunque stiano le cose in merito alle origini della riabilitazione della filosofia pratica e ai fattori che ne hanno promosso lo sviluppo, la spinta iniziale più consistente venne da posizioni filosofiche che furono designate con il termine generale di ‛neoaristotelismo' (v. Schnädelbach, 1986; v. Volpi, Che cosa significa..., 1988, e Réhabilitation de la..., 1993). Per quanto diversi siano stati i modi di riferirsi ad Aristotele, e per quanto tale riferimento sia stato condizionato da aspettative odierne, è certo che agli inizi del dibattito si verificò una forte convergenza nel riconsiderare il paradigma di sapere definito dall'etica e dalla politica di Aristotele. In questo senso agli inizi degli anni sessanta i lavori dianzi citati di Gadamer, Arendt, Hennis e Ritter hanno fornito una serie di spunti di riflessione importanti per la riconsiderazione della determinazione aristotelica del sapere pratico, sia quello della saggezza pratica (ϕρόνησις), sia quello della scienza pratica (ἐπιστήμη πρακτική).
a) La riabilitazione della ϕρόνησις in Gadamer
L'impulso forse più significativo è venuto dalla riabilitazione della ϕρόνησις proposta da Gadamer in Wahrheit und Methode, e poi sviluppata in vari saggi successivi. In un significativo e fortunato capitolo dell'opera, Gadamer rivendica con decisione l'‟attualità ermeneutica dell'etica aristotelica", riferendosi in particolare a quella forma di conoscenza pratica che Aristotele definisce come ϕρόνησις, cioè saggezza pratica, che è appunto il sapere di tipo pratico-morale capace di orientare l'agire alla sua riuscita, vale a dire al bene (v. Gadamer, 1985-1995, vol. I, pp. 317-329). In verità, dall'impianto dell'opera e dall'argomentazione ivi sviluppata risulta chiaro che lo scopo principale cui Gadamer mira è quello di trovare un modello per definire il sapere all'opera nel processo ermeneutico del comprendere, e che egli è convinto di poterlo trovare nella concezione aristotelica del sapere pratico, al quale si riferisce in termini generici senza troppo preoccuparsi di distinguere tra saggezza e scienza pratica. Secondo Gadamer, infatti, il sapere pratico teorizzato da Aristotele, in cui universale e particolare si compenetrano, offre un paradigma per risolvere il problema ermeneutico dell'applicazione, in cui è in gioco fin dagli inizi un reciproco condizionarsi di universale e particolare. È questo il tipo di sapere che Gadamer, sulla scia di Heidegger, considera proprio della comprensione (Verstehen), intesa come la struttura stessa dell'‟essere nel mondo e nella storia" che caratterizza la vita umana. L'ermeneutica filosofica pensa di trovare nel concetto aristotelico di ϕρόνησις un ausilio per definire quel sapere in cui tale struttura si fa trasparente.
Questa precisa limitazione, da parte di Gadamer, nello sfruttamento della filosofia pratica aristotelica, non ha impedito che le sue argomentazioni circa l'attualità della ϕρόνησις fossero recepite in un senso più ampio, e venissero dunque sganciate dallo specifico contesto ermeneutico in relazione al quale erano state avanzate. È avvenuto così che l'ermeneutica gadameriana - in congiunzione con l'interesse suscitato anche dai ricordati studi di Arendt, Hennis e Ritter - desse un contributo decisivo alla riabilitazione della filosofia pratica. Non è esagerato dire che essa abbia svolto la funzione di punto di riferimento per gran parte delle riprese e dei riferimenti all'etica e alla politica di Aristotele che si sono avuti, oltre che in filosofia, anche in altri campi disciplinari, e che sono stati designati come ‛neoaristotelismo'.
Va aggiunto inoltre che l'interesse dell'ermeneutica per la filosofia pratica aristotelica non è stato occasionale ed episodico, ma ha radici profonde. Oggi, dopo la pubblicazione dei corsi universitari del giovane Heidegger, abbiamo la possibilità di constatare in quale misura la riscoperta gadameriana della ϕρόνησις dipenda dall'interpretazione di Aristotele proposta da Heidegger nelle lezioni di Friburgo e Marburgo, che, come si è detto, pongono le lontane condizioni della ‛riabilitazione della filosofia pratica'. Oggi sappiamo, tra l'altro, che le idee contenute nel summenzionato capitolo di Wahrheit und Methode erano già state elaborate da Gadamer in un saggio, scritto nel 1930 ma pubblicato solo di recente (v. Gadamer, 1985), dal titolo Praktisches Wissen, nel quale è compendiata e sviluppata l'interpretazione dell'Etica Nicomachea proposta nei corsi universitari heideggeriani.
Negli scritti successivi a Wahrheit und Methode Gadamer ha ulteriormente enfatizzato il richiamo alla filosofia pratica aristotelica, facendone uno dei motivi di fondo sui quali ha insistito nel presentare la prospettiva filosofica dell'ermeneutica. Ciò è avvenuto specialmente nei saggi Hermeneutik als praktische Philosophie (1972), Die Idee des Guten zwischen Plato und Aristoteles (1978), Vom Ideal der praktischen Philosophie (1980), dove Gadamer ha precisato in che senso ed entro quali limiti sia da intendere la sua ripresa di Aristotele, nella consapevolezza di non poter proporre una semplice ripetizione e quindi nella volontà di impegnarsi in un rapporto critico con il grande filosofo greco. La disposizione di fondo nella quale Gadamer si è rifatto alla filosofia pratica aristotelica è stata dunque quella di una libera interpretazione che ha trasformato alcune intuizioni fondamentali di Aristotele per applicarle a problemi e aporie del pensiero contemporaneo.
b) La riabilitazione della πρᾶξις nella Arendt
Nelle analisi critiche che la Arendt ha svolto in Vita activa è riconoscibile una ‛riabilitazione della πρᾶξις'. Preoccupata degli esiti patologici ai quali è giunto il mondo moderno, organizzato secondo gli imperativi del lavoro e della tecnica, la Arendt ha attirato l'attenzione sul concetto aristotelico di πρᾶξις e sulla sua funzione di paradigma nella comprensione dei caratteri genuini e originari del ‛politico' (distinto dalla politica), mettendone in luce l'utilità per l'analisi delle varie forme della pluralità umana e per la critica delle istituzioni politiche che le corrispondono.
Al pari della riabilitazione gadameriana della ϕρόνησις, anche la riscoperta arendtiana della πρᾶξις dipende, nelle sue motivazioni di fondo, dall'insegnamento del giovane Heidegger. Per quanto ciò possa stupire - tanto più in considerazione dell'ottusità politica che Heidegger manifestò nel 1933 - fu proprio lui a insegnare che il carattere originario della vita umana è l'agire, la prassi intesa nel senso aristotelico di azione, distinta dalla produzione e dalla teoria. Fu Heidegger a far vedere come il tradizionale privilegio accordato alla teoria e il corrispondente primato della presenza avessero fatto della prassi, vale a dire della vita umana, un oggetto lì presente, una cosa tra le cose, da osservare e descrivere. Analogamente, la Arendt mira a decostruire il ‛teoreticismo' del pensiero politico tradizionale, che ingabbia il carattere aperto dell'azione entro la stabilità di categorie e schemi teorici a essa estranei, oggettivanti e reificanti. La sua convinzione è che il pensiero politico occidentale occulti il carattere di possibilità dell'agire politico e lo ri(con)duca nell'orizzonte del mero produrre. Tale tendenza verrebbe portata all'estremo nel mondo moderno: qui ogni attività umana viene ridotta a lavoro; qui il ‛politico' è ormai soltanto amministrazione politica, cioè tecnica per la conservazione e la gestione del potere. L'eclissi dei caratteri autentici e originari del ‛politico' è allora totale. È questa, per la Arendt, la radice più profonda della moderna desertificazione del mondo e della fuga dell'individuo ‟dal mondo del deserto, dalla politica, verso... non importa dove" (v. Arendt, 1993; tr. it., p. 183).
Per opporsi a tale tendenza la Arendt proclama l'urgenza di rivalutare i caratteri dell'agire politico screditati dalla tradizione: la sua pluralità e imprevedibilità, la sua irripetibilità e irreversibilità, la sua originalità nel duplice senso di novità e inizialità: in una parola, la sua libertà. L'agire politico è un agire senza scopi perché conosce soltanto finalità disinteressate: la gloria (che ci è nota dal mondo omerico), la libertà (testimoniata dalla Atene del periodo classico), la giustizia e anche l'uguaglianza, intese come ‟convinzione della originaria dignità di tutti coloro che hanno volto umano". Se Heidegger aveva riscoperto la prassi, racchiudendola però nell'orizzonte di un rigido solipsismo della decisione in cui l'esistenza sta sola di fronte al suo nudo destino, la Arendt riprende l'intuizione heideggeriana ma la rovescia, esaltando il carattere intersoggettivo, plurale, pubblico, ossia politico, dell'agire (v. Volpi, 1987).
c) La riabilitazione del metodo topico-dialettico in Hennis e Bubner
Confrontandosi con la crisi di identità metodologica della scienza politica, in Politik und praktische Philosophie Hennis ha individuato la causa principale di tale crisi nel prevalente orientamento della scienza politica moderna secondo l'ideale del metodo analitico. Esso risulta eterogeneo e riduttivo, dunque alla lunga inapplicabile, rispetto alla peculiare natura delle azioni umane. Se nondimeno viene loro applicato, ciò accade al prezzo di trasformare le azioni in processi o eventi che, al pari di quelli naturali, possono essere osservati e descritti nella loro meccanica. In alternativa a ciò egli ha proposto una ‛riabilitazione del metodo topico-dialettico'. Teorizzato per la prima volta da Aristotele e mantenutosi vivo attraverso varie trasformazioni nella tradizione della retorica, tale metodo ha perduto in età moderna la sua importanza venendo soffocato dall'affermarsi del metodo analitico cartesiano - pur con importanti eccezioni come quelle di Giambattista Vico e di Edmund Burke. Hennis propone di considerarlo - pensando di potersi richiamare su questo punto ad Aristotele - come il metodo adatto a quella scienza pratica che è la politica, il cui oggetto mutevole non è passibile di conoscenza esatta (v. Hennis, 1963; v. Kuhn, 1974; v. Pöggeler, 1974).
Una riabilitazione della topica quale forma di argomentazione efficace nell'ambito del sapere pratico è stata proposta, nel quadro di una generale rivalutazione del pensiero antico, anche da Bubner (v., 1990). Va detto, infine, che a rinnovare l'attenzione dei filosofi per la tradizione della retorica e della dialettica ha contribuito in misura decisiva l'importanza che è stata assegnata a tali discipline nell'ambito della teoria dell'argomentazione giuridica (v. Viehweg, 1953; v. Perelman e Olbrechts-Tyteca, 1958).
d) La riabilitazione dell'ἕθος in Ritter
Con studi svolti nell'arco di due decenni e mezzo e riuniti nel 1969 in Metaphysik und Politik, e con indagini da lui promosse nella sua scuola (v. Bien, 1973; v. Marquard, 1973; v. Oelmüller, 1978-1979; v. Spaemann, 1977), Ritter ha proposto una ‛riabilitazione dell'ἕθος'. Operando un connubio tra l'idea aristotelica del sapere pratico e la determinazione hegeliana della Sittlichkeit - ovvero l'eticità concreta contrapposta all'universalità astratta della Moralität, cioè alla virtù che va contro il corso del mondo - egli ha sottolineato il necessario compenetrarsi della ragione pratica con il contesto concreto della sua attuazione e, criticando gli intellettualismi etici e gli utopismi politici contemporanei, ha assegnato la preminenza, nella valutazione dell'agire, alla riuscita di una forma di vita, cioè di un ἕθος concreto, rispetto al criterio dell'osservanza di principî universali astratti.
Tutti questi spunti, focalizzando l'interesse sul pensiero aristotelico, ne hanno innescato una ripresa assai diffusa, che in generale è partita però da esigenze metodologiche o epistemiche contemporanee, dunque estranee al pensiero aristotelico, e che solo raramente è maturata dallo studio diretto della filosofia pratica aristotelica nella sua specifica strutturazione e nella sua diversità rispetto alla concezione moderna del sapere. Si sono così avute incursioni rapsodiche e occasionali, la cui finalità di fondo è stata principalmente quella di ricavare da Aristotele spunti e intuizioni da sfruttare nel dibattito contemporaneo. Peraltro, più che ad Aristotele stesso, ci si è genericamente richiamati alla cosiddetta ‛tradizione della filosofia pratica' - mantenutasi viva nel sistema scolastico-universitario dell'area tedesca - e ad alcune intuizioni epistemiche fondamentali che insieme a essa si sarebbero trasmesse, prima fra tutte la differenziazione di sapere teoretico, pratico e poietico, messa in campo contro la moderna unità del metodo e contro il corrispondente ideale di scientificità.
4. La tradizione della filosofia pratica
In effetti, indipendentemente da un riferimento preciso e rigoroso ad Aristotele, nella storia dei sistemi del sapere e della sua trasmissione è possibile rintracciare la presenza di una continuità disciplinare della cosiddetta philosophia practica, tripartita in etica, economia e politica, e più tardi in etica, diritto e politica, che viene distinta dalla philosophia theoretica e dalla philosophia mechanica. Si è anche affermata la consuetudine, sul piano della storia del pensiero politico, di parlare di ‛aristotelismo politico' per indicare la relativa continuità - dall'antichità al Medioevo, e sino agli inizi dell'età moderna - di alcune dottrine di provenienza aristotelica, come l'assunto della natura politica dell'uomo, la distinzione tra la comunità domestica e la comunità politica, la teoria delle diverse forme di costituzione e dei loro mutamenti.
In verità, la tripartizione della filosofia pratica in etica, economia e politica non risale propriamente ad Aristotele, il quale distingue semmai soltanto diverse forme di ϕρόνησις in relazione all'agire nella πόλις, all'agire nell'οἶκος e all'agire individuale (v. Etica Nicomachea, VI, 8), ma non tre forme di ἐπιστήμη πρακτική, giacché questo termine non indica delle discipline, ma una modalità del sapere. La tripartizione fu introdotta e si affermò solo più tardi, nella cultura latina, specialmente con Boezio, che ne parla nel suo commento all'Isagoge di Porfirio. La si ritrova poi, nelle variazioni più diverse, nelle principali enciclopedie medievali come il De artibus ac disciplinis di Cassiodoro, le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, lo Speculum quadruplex di Vincenzo di Beauvais, il Didascalicon di Ugo di San Vittore, il De divisione philosophiae di Domenico Gundisalvi, il De ortu scientiarum di Roberto di Kilwardby.
Ma come si giunse alla formazione e all'affermazione di una filosofia pratica autonoma? Dalla metà del XIII secolo in poi, con la riscoperta dell'Etica e della Politica di Aristotele, la tendenza sino allora dominante a trattare la morale e la politica come dipendenti dalla teologia fu progressivamente abbandonata: fu così che incominciò a costituirsi una autonomia, almeno disciplinare, della philosophia practica. Nella facoltà parigina delle arti, l'etica cominciò a essere insegnata come disciplina autonoma già intorno al 1215 (v. Wieland, 1981). Dapprima l'insegnamento si basò sulla traduzione dei libri II e III, 1 dell'Etica Nicomachea, cioè sulla cosiddetta Ethica vetus, comprendente la dottrina della virtù; poi anche sulla successiva traduzione del libro I, ossia sulla cosiddetta Ethica nova, contenente la dottrina della felicità e la connessione dell'etica con la politica. Infine sull'intera Etica Nicomachea, che nel frattempo, intorno al 1246-1247, era stata messa in latino da Roberto Grossatesta. Lo sforzo di conciliare l'etica aristotelica con la teologia divenne particolarmente arduo dopo la traduzione dell'Ethica nova, poiché essa poneva il Medioevo cristiano faccia a faccia con la dottrina aristotelica della felicità intesa in senso terrestre, cioè pagano. Si ebbe allora, per prima cosa, un ridimensionamento dell'idea aristotelica dell'εὐδαιμονία, che venne subordinata alla beatitudo caelestis. Ma questo sforzo di conciliazione condusse anche a un'interpretazione teoreticistica dell'etica aristotelica, la quale venne intesa sempre più come ethica docens piuttosto che come ethica utens (v. Delhaye, 1988; v. Wieland, 1981). In ogni caso, l'insegnamento della filosofia nelle università incominciò a essere organizzato in modo tale che, oltre alle lezioni dell'organicus che trattava la logica secondo i libri dell'Organon, e oltre a quelle del philosophus naturalis e del metaphysicus, furono previste anche le lezioni di un ethicus, che trattava l'Etica e la Politica e più tardi anche l'economia e la crematistica.
In tal modo la tradizione della filosofia pratica si costituì e si mantenne viva nella cultura scolastico-medievale delle università e delle enciclopedie, venendo tuttavia intesa di volta in volta in maniera assai diversa, a seconda del contesto particolare nel quale si collocava. L'insegnamento della philosophia practica secondo la tripartizione in etica, economia e politica si mantenne vivo a lungo, sia pure soltanto nella forma, e in Germania lo si ritrova fino alla fine del XVIII secolo.
Molteplici e complesse sono le ragioni di questo perdurare della filosofia pratica e della sua articolazione in Germania: un primo fattore determinante fu la vasta influenza della aristotelizzazione del pensiero riformato a opera del praeceptor Germaniae, Filippo Melantone (v. Petersen, 1921). Un ruolo importante ebbe poi la refrattarietà della cultura politica tedesca nei confronti della espansione dell'idea moderna di politica, teorizzata da Machiavelli e da Hobbes, che rappresentava l'antitesi più potente alla concezione aristotelica della politica come sapere pratico strettamente connesso all'etica. Funse da argine anche la circostanza che la penetrazione in Germania di elementi innovativi e antitetici alla tradizione della philosophia practica, come il pensiero giusnaturalistico e successivamente la cameralistica, non soppresse la vecchia tradizione, ma si innestò piuttosto sul suo tronco (v. Sellin, 1978; v. Riedel, 1975; v. Maier, 1966 e 1985).
In questa tradizione propria dell'insegnamento scolastico-universitario, cui si contrappose la nuova idea di scientia formatasi e diffusasi specialmente nell'ambito ‛laico' delle accademie, il trattato di Christian Wolff, Philosophia practica universalis (1738-1739), può essere considerato l'ultima significativa presenza della strutturazione formale della philosophia practica, ormai ben lontana e diversa dalla ἐπιστήμη πρακτική aristotelica. La filosofia pratica era detta da Wolff ‛universale' perché stava alla base della tripartizione formale delle discipline pratiche, cioè della Philosophia moralis sive Ethica, dell'Oeconomica e della Philosophia civilis sive Politica. Se in questa tripartizione formale è riconoscibile l'influenza della tradizione scolastico-medievale della philosophia practica, va subito aggiunto che l'analogia rimane del tutto esteriore. In realtà, fin dagli anni giovanili Wolff si era interessato al nuovo metodo matematico e si era prefisso di applicarlo a tutto lo scibile umano, quindi anche all'etica, all'economia e alla politica. Nel 1703, presentando il primo progetto della Philosophia practica universalis annunciava nel sottotitolo che la trattazione era mathematica methodo conscripta - un'idea, questa, in stridente contrasto con il concetto aristotelico di filosofia pratica.
Tracce della trasmissione dell'etica e della politica aristotelica si possono riconoscere anche in canali della trasmissione del sapere diversi da quelli della tradizione scolastico-universitaria, di cui Wolff è l'ultimo esponente di rilievo. Sarebbero da indagare in questa prospettiva generi letterari come la trattatistica degli ‛specchi del principe', la manualistica del buon comportamento e della ‛conversazione civile' da Castiglione e Della Casa fino a Gracián, Knigge e alla cosiddetta ‛letteratura dei padri di casa' (Hausväterliteratur: v. Curtius, 1948; v. Brunner, 1949 e 19682; v. Frühsorge, 1974; v. Bonfatti, 1979).
5. Le intuizioni epistemiche del neoaristotelismo
La recente riabilitazione della filosofia pratica, nel suo nucleo caratterizzante neoaristotelico, si è richiamata alla menzionata tradizione scolastico-universitaria, risultata perdente nella modernità, e all'idea di philosophia practica in essa conservata, rievocandola come alternativa rispetto alla tradizione vincente della modernità, quella del metodo analitico e dell'idea unitaria di scienza. Da tale tradizione, più ancora che da Aristotele stesso, i ‛neoaristotelici' hanno ripreso alcune intuizioni fondamentali che hanno fatto valere nel dibattito filosofico contemporaneo sulla crisi della modernità e dell'idea di ragione scientifica che in essa si sviluppa.
1) Essi hanno asserito la necessità di riaffermare l'autonomia della πρᾶξις rispetto alla θεωρία, contro la subordinazione moderna dell'agire a una considerazione di tipo teoreticistico, quindi descrittivo e constatativo. Le comprensioni moderne dell'etica e della politica soffrirebbero appunto, nella loro interpretazione dell'agire, di questa subordinazione e di questa riduzione.
2) I ‛neoaristotelici' hanno poi cercato di individuare gli elementi specifici che contraddistinguono la πρᾶξις dalla ποίησις, cioè l'agire dal produrre, e corrispondentemente la ϕρόνησις dalla τέχνη, il sapere pratico-morale dal sapere pratico-tecnico. Si tratta di una distinzione importante, giacché costringe a riconsiderare il problema dell'agire etico e politico, liberandolo da una serie di sedimentazioni e occlusioni concettuali che ingombrano la sua comprensione nel pensiero moderno e contemporaneo.
3) Infine, contro l'idea moderna di una razionalità meramente descrittiva, neutrale e strumentale, i neoaristotelici hanno affermato l'esigenza di ricomprendere i caratteri propri del sapere connesso all'agire, cercandoli nel modello alternativo offerto dal sapere fronetico o prudenziale di Aristotele, cioè da quel sapere concreto, capace di orientare e guidare l'agire umano verso il suo successo (εὐ πράττειν), ossia verso la scelta di vita migliore (εὐ ζῆν) e la realizzazione del bene (ἀγαθόν). In ragione di questa considerazione si capisce anche perché i neoaristotelici abbiano criticato l'intellettualismo etico e politico così diffuso tra i filosofi contemporanei. Essi hanno sostenuto in linea di principio l'esigenza di riconnettere il momento cognitivo-razionale con quello attuativo-decisionale dell'agire, riabilitando il momento della scelta e della decisione (cioè di quella che Aristotele chiama προαίρεσις), che nell'orizzonte della moderna comprensione dell'agire è stato spesso demonizzato come irrazionale (Habermas) o, al contrario, esaltato come sua essenza costitutiva (Carl Schmitt). Contro questi due estremi, per i neoaristotelici si tratta piuttosto di riconciliare ragione e decisione, e ciò diventa più facile se nel contempo si ricompone anche la divaricazione tipicamente moderna tra la razionalità universalistica dei principî dell'agire e la contestualità storica delle consuetudini e delle istituzioni concrete nelle quali l'agire si realizza.
6. Filosofia pratica e neoaristotelismo nelle aree di lingua francese, italiana e anglo-americana
Queste e altre ragioni hanno fatto sì che la riabilitazione della filosofia pratica e il neoaristotelismo tedeschi siano stati seguiti con attenzione e interesse anche al di fuori della Germania, in particolare in Francia e in Italia.
a) L'analisi della ‛prudenza' in Aubenque
In Francia, già agli inizi degli anni sessanta e con un approccio autonomo rispetto al dibattito tedesco, Pierre Aubenque ha svolto una sua indagine intorno alla ϕρόνησις aristotelica, sottolineando, pur senza professarsi neoaristotelico, l'importanza che essa può avere come modello di sapere pratico (v. Aubenque, 1963). Egli ha assunto però un atteggiamento critico nei confronti delle troppo facili e immediate trasposizioni della ‛prudenza' antica nel contesto dei problemi moderni, e ha invitato a considerare con attenzione le trasformazioni che tale concetto subisce, rispetto all'archetipo aristotelico, già nel mondo tardo antico e poi in quello medioevale e moderno fino a Kant (v. Aubenque, 19863 e 1993). Le sue precisazioni, in particolare il risalto da lui dato alla differenza tra la ϕρόνησις, quale capacità di agire bene, e la ἐπιστήμη πρακτική, cioè la ‛scienza pratica' quale modalità del sapere etico e politico che si occupa in maniera scientifica di ciò che si può fare (πρακτόν), aiutano a capire quante precisazioni siano necessarie per non cadere in quei richiami generici ad Aristotele che caratterizzano il neoaristotelismo tedesco. Contestualmente, Aubenque ha messo in guardia dalle illusioni riposte nella riscoperta del sapere fronetico, che rimane legato alla prospettiva dell'individuo singolo e risulta inefficace nelle situazioni del mondo complesso della tecnica e delle moderne società di massa (v. Aubenque, 1993).
b) Le critiche alla riabilitazione della filosofia pratica nella Scuola di Padova
La riabilitazione della filosofia pratica è stata oggetto di una particolare attenzione in Italia, dove il centro principale della discussione è stata la Scuola di Padova, costituitasi intorno a Enrico Berti. Lo studio di Aristotele, che vanta nell'Università patavina una tradizione secolare, ha favorito il maturare di un'attenzione specifica per i problemi della filosofia pratica e del neoaristotelismo etico-politico (v. Berti, 1992 e 1993; v. Natali, 1989; v. Pacchiani, 1980; v. Volpi, 1980, 1986, 1990 e 1992; v. anche, dello stesso autore, Che cosa significa..., 1988 e Réhabilitation de la..., 1993).
Proprio in ragione dello studio più approfondito di Aristotele, in Berti e nei suoi allievi, alla speciale attenzione per la filosofia pratica e il neoaristotelismo sono seguite la presa di distanze e la critica. Si è rilevato, per esempio, che nel riprendere le intuizioni portanti della filosofia pratica il neoaristotelismo le ha scorporate dal quadro epistemico complessivo di Aristotele, e ciò ha finito per rendere problematiche e inefficaci le singole riabilitazioni della ϕρόνησις, della πρᾶξις, dell'ἕθος o del metodo topico-dialettico.
Rispetto alla proposta di Gadamer, che riabilita il sapere pratico della ϕρόνησις come risorsa contro la crisi dell'idea moderna di ragione e la sua incapacità di indicare senso e finalità ultime all'agire, si è fatto notare che il sapere fronetico è in Aristotele un sapere relativo ai mezzi e non al fine stesso (che è invece presupposto dalla ϕρόνησις). E se ciò che manca al mondo moderno, nella sua ‛imprudenza', non sono certo i mezzi, che la scienza mette a disposizione in misura sempre maggiore, bensì i fini, non si vede allora come possano venire dalla saggezza pratica indicazioni sul da farsi. In Aristotele la ϕρόνησις poteva garantire l'equilibrio tra l'efficacia dei mezzi e la qualità morale dei fini, e quindi la riuscita dell'agire, perché era pensata nel quadro specifico tracciato dalla scienza politica. Nell'ermeneutica, invece, la riabilitazione della ϕρόνησις manca il suo scopo, perché non è in grado di ricostruire un quadro di riferimento analogo a quello aristotelico. Nell'assenza di un siffatto quadro, la ϕρόνησις perde la sua qualificazione morale e - come già era accaduto in età moderna alla prudencia o arte dell'ingegno di Baltasar Gracián - diventa mera abilità calcolativa dell'utile e del vantaggioso (per dirla con Aristotele, semplice δεινότης). Essa rischia peraltro di diventare un'ideologia, e precisamente, come alcuni sostengono, l'ideologia di un moderato relativismo culturale di stampo conservatore, come sarebbe appunto quello di Gadamer.
In rischi e fraintendimenti analoghi incorre la ‛riabilitazione della πρᾶξις' operata dalla Arendt. Per quanto importanti siano i frutti che ella ha ricavato dalla riscoperta di questo concetto aristotelico, specialmente per la critica del concetto moderno di lavoro, bisogna nondimeno osservare che il suo fortunato libro Vita activa ha avallato in qualche misura un equivoco circa l'importanza attribuita da Aristotele all'agire e alla vita pratica: Aristotele infatti non intende esaltare la πρᾶξις e il βίος πολιτικός, ma vuole piuttosto creare, mediante la scienza politica, le condizioni che consentano la realizzazione di quella forma suprema di πρᾶξις che è la θεωρία.
Quanto poi alla ‛riabilitazione dell'ἕθος' a opera di Ritter, anche in questo caso va osservato che l'aspirazione di Aristotele all'ideale della vita contemplativa segnala che la sua filosofia pratica non è affatto una celebrazione dell'ἕθος vigente nella πόλις - quello della vita pratico-politica che mira agli instabili onori - ma aspira alla realizzazione di una forma di vita che garantisca una felicità duratura, quella che può offrire la vita teoretico-contemplativa, considerata privilegio di pochi iniziati, cioè dei filosofi.
Infine, circa la riabilitazione del metodo topico-dialettico, essa è già stato oggetto di critiche in Germania (v. Kuhn, 1974; v. Pöggeler, 1974). La principale obiezione cui essa va incontro è che per Aristotele la dialettica non è una scienza, come per Platone; è piuttosto la capacità di discutere e argomentare che risulta utile a diversi scopi, tra i quali quello di favorire le scienze filosofiche, aiutando a distinguere meglio in ogni questione il vero dal falso e insegnando a trovare le proposizioni prime dalle quali parte la dimostrazione apodittica della scienza. In quanto preliminare alla scienza vera e propria, la dialettica non può essere il metodo di una scienza quale è la ἐπιστήμη πρακτική.
c) Elementi di ‛filosofia pratica' nella cultura filosofica anglo-americana
Anche nella cultura filosofica anglo-americana, in particolare in due dibattiti importanti per l'etica e la politica, è possibile rintracciare un interesse per Aristotele, che può essere messo a confronto con la riscoperta neoaristotelica della filosofia pratica, pur non essendovi alcuna contiguità tra i due fenomeni.
Il primo di tali dibattiti ha avuto per tema il cosiddetto ‛ragionamento pratico' (practical reasoning) o ‛inferenza pratica' (practical inference) e ha richiamato l'attenzione sul fatto che Aristotele, con la sua dottrina del ‛sillogismo pratico', fornisce un valido paradigma per tale tipo di ragionamento. Il problema da cui ha preso le mosse la discussione era stato posto dall'ultimo Wittgenstein, il quale si interrogava su come fosse possibile descrivere adeguatamente le azioni umane, dal momento che il loro senso e le loro finalità sfuggono a una descrizione che colga semplicemente la sequenza meccanica di causa ed effetto. Per esempio, l'azione del pompare acqua per innaffiare un giardino non è adeguatamente descritta se ci si limita a registrare i movimenti del braccio come un semplice movimento di leve. Oltre l'aspetto fisico esteriore dell'azione bisogna cogliere il suo senso, cioè la finalità che l'agente si propone di raggiungere ragionando circa i mezzi opportuni per farlo. Ebbene, Elizabeth Anscombe ha cercato di dimostrare che il sillogismo pratico descritto da Aristotele fornisce a tal fine un modello di spiegazione efficace (v. Anscombe, 1957; v. Müller, 1982). Georg Henrik von Wright ha sviluppato queste analisi ricavandone una teoria dell'azione e distinguendo in prospettiva metodologica due tipi di approccio conoscitivo per cogliere e descrivere azioni ed eventi, cioè la ‛spiegazione' (explaining) e la ‛comprensione' (understanding). Estendendo poi questa distinzione alla storia della scienza, egli ha sostenuto che la prima operazione conoscitiva sarebbe propria della scienza moderna, la seconda invece sarebbe vicina alle intuizioni epistemiche di Aristotele (v. von Wright, 1971; v. Apel 1979).
L'altro dibattito che, per i problemi toccati e per il suo contrapporsi alle concezioni etiche e politiche della modernità, può essere messo a confronto con la riabilitazione della filosofia pratica neoaristotelica, è quello sul cosiddetto ‛comunitarismo'. Il termine è stato introdotto da Michael Sandel per indicare una concezione della società opposta a quella individualistica del liberalismo, ed è diventato la designazione di un movimento di pensiero che si è sviluppato soprattutto negli Stati Uniti ed è poi stato recepito e discusso anche in Europa. Nel contrapporsi al liberalismo individualistico, in campo etico il comunitarismo ha criticato soprattutto l'inefficacia dell'universalismo della maggior parte delle fondazioni postkantiane della morale, sostenendo che imperativi e principî universali rimangono astratti e non sono sufficienti a produrre virtù. Quest'ultima può nascere soltanto nel contesto di forme concrete di vita - con le quali l'individuo può identificarsi - sviluppate in una comunità reale. Per il comunitarismo, quindi, la riuscita dell'agire non dipende tanto dalla conformità a principî universali ai quali l'uomo nel suo agire dovrebbe tendere, bensì dall'inserimento organico di chi agisce in una comunità nella quale norme e massime di comportamento vengono assunte come valide con il riconoscimento della propria appartenenza alla comunità stessa. Le riflessioni più significative del comunitarismo, nella prospettiva delle affinità con la filosofia pratica, sono quelle di Alasdair MacIntyre (v., 1981) in After virtue e di Martha Nussbaum (v., 1990 e 1993), la quale ha parlato di un ‟aristotelismo socialdemocratico".
7. Conclusione
Pur nella consapevolezza della necessità di un giudizio differenziato che tenga conto delle molteplici forme in cui la ‛riabilitazione della filosofia pratica' è stata interpretata, si può dire che essa ha avuto un merito fondamentale: quello di riproporre alcune intuizioni epistemiche fondamentali per la determinazione del sapere pratico, richiamando l'attenzione su una comprensione dell'agire e del corrispettivo sapere alternativa a quella moderna, e mettendo in evidenza le perdite che, sotto questo aspetto, la modernità ha comportato. Essa ha così risvegliato una consapevolezza critica nei confronti dei paradigmi etico-politici della modernità e, mostrando le conseguenze implicite nell'identificazione paleomoderna e moderna di scientia e theoria, ha posto le condizioni per capire più approfonditamente quali siano state le radici storico-filosofiche e le ragioni epistemiche che hanno determinato il venire meno, in età moderna, della possibilità di un'etica e di una politica intese come ‛filosofia pratica' o scienza pratica.
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