Filosofia
. Il concetto di f. in Dante. Per f., ai tempi di D., s'intendeva tutto l'ambito del sapere compreso nelle opere di Aristotele, il Filosofo per antonomasia. Anzi, negli ultimi secoli del Medioevo, essa aveva acquistato il significato di " sapere profano " in contrapposizione alla teologia. D. ne dà l'etimo: amistanza a sapienza, o vero a sapere (Cv III XI 6; cfr. anche XI 1 e 9 [2 volte], XII 12, IV II 18), facendo risalire l'origine del vocabolo ‛ filosofo ', dal quale derivò quello di f., a Pitagora; prima di quest'ultimo, afferma D., i seguitatori di scienza si denominavano non filosofi ma sapienti (§ 4), mentre Pitagora disse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza (§ 5, e cfr. anche Il XV 12), sicché f. è nome non d'arroganza ma d'umilitade (III XI 5; l'origine del vocabolo f. era stata trasmessa, in questi termini, da s. Agostino a tutto il Medioevo). Completando la definizione, D. afferma che la f., fuori d'anima, in sé considerata [cioè, senza riferimento a chi la possiede], ha per subietto lo 'ntendere, e per forma uno quasi divino amore a lo 'ntelletto, che sua cagione efficiente è la verità e fine... quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione, o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione de la veritade s'acquista (§§ 13-14; cfr. anche XIII 10, XIV 1-2, IV XXX 5). Inoltre, il nome di f., così come, per alcuno fervore d'animo, talvolta l'uno e l'altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per lo vocabulo de l'atto medesimo e de la passione, si suole estendere alle scienze (le quali tutte sono membra di sapienza, aveva detto D. in Cv III XI 9), ma specialmente a quelle verso le quali più spesso la f. termina la sua vista... come la Scienza Naturale, la Morale, e la Metafisica, la quale, perché più necessariamente in quella termina lo suo viso e con più fervore, [Prima] Filosofia è chiamata, così che le scienze sono denominate secondamente f. (III XI 16-17; cfr. anche § 18).
D. classifica nel seguente ordine le scienze: prima le sette arti del Trivio e del Quadrivio, poi Fisica e Metafisica insieme, più in alto la Morale e al di sopra di tutte la Teologia (Cv II XIII-XIV ). Insieme al primato attribuito alla Morale rispetto alla Metafisica (per la f. morale cfr. anche Cv II XIV 13 [due volte], 17 [due volte], III XV 11 [due volte] e 14, IV VI 15, XV 14) D. riconosceva la superiorità oggettiva delle virtù intellettuali (dianoetiche) e della contemplazione (IV XVII 9-11) che di esse si nutre, rispetto a quelle morali e alla vita attiva che da queste ultime dipende. Anzi, secondo D., attraverso le virtù morali si consegue una felicità quasi imperfetta, mentre per mezzo di quelle intellettuali (e della contemplazione) si attinge una felicità quasi perfetta (quella perfetta non è condizione attuabile nella vita terrena, ma si consegue, tramite la visione beatifica, nell'altra vita [Cv IV XXII 18]). Ma non tutti sono chiamati alla contemplazione, mentre le virtù morali riguardano ogni uomo (e il Convivio si rivolge specialmente a coloro che partecipano della vita attiva, IV XVII 12; cfr. I I 13). Quasi tutte le opere di D. successive all'incontro con la f. sono fondate sulla Morale, hanno scopi pratici (come pratico era stato il movente del suo amore per la f.: cfr. Cv II XII 2 ss.): e non solo il Convivio, ma la stessa Monarchia (cfr. Mn I I 5, parallelo a Pg XXXII 103; v. anche Mn I II 6), che si proponeva di portare la pace sulla terra, con lo stabilire i limiti e i fondamenti del potere politico e di quello spirituale e, in particolar modo, la Commedia (cfr. Ep XIII 16). Il primato della Morale veniva suggerito a D. dalla sua stessa costituzione di poeta e dall'esperienza di uomo, dall'aver preso parte a vicende politiche, dalle quali era uscito profondamente segnato. Il fatto, poi, che D. abbia messo (come, del resto, tutto il Medioevo) la Teologia al di sopra delle altre scienze, secondo il Gilson non comporta subordinazione della f. alla teologia, nell'ambito della distinzione tra gerarchia di valori e di giurisdizione, di cui si dirà.
D., dopo averne fornita la definizione, esamina la f. nelle sue parti costitutive, ‛ amore ' e ‛ sapienza ': Dio riduce il primo a sua similitudine... quanto esso è possibile a lui assimigliarsi (Cv III XIV 3). L'amore di Dio è eterno e ama cose eterne, perciò, nel rendere simile a sé l'amore, componente formale della f., fa che anch'esso ami cose eterne (la Sapienza): è per questo, afferma D., che dove splende questo, tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi spenti (XIV 6-8). Così, nella sua vicenda biografica, passò in second'ordine anche l'amore per Beatrice, considerata, rispetto alla f., come minore amica (II XV 6).
Per quanto riguarda l'altra componente, cioè sapienza, D. afferma che nelle demonstrazioni (cfr. II XIV 4, III XV 19, IV II 17) e nelle persuasioni di questa si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è massimo bene in Paradiso: infatti soltanto per mezzo di essa si può raggiungere la perfezione e la felicità umana. Peraltro, D. si scusa di non poter parlare a sufficienza di quelle demonstrazioni e persuasioni, perché esse abbagliano il nostro intelletto e lo travalicano (si tratta di questioni quali l'essenza di Dio, l'eternità e la prima materia: III XV 1-6).
In forza della stessa definizione, la f. massimamente è in Dio: in lui, infatti, è somma sapienza e sommo amore e sommo atto (Cv III XII 12-13) e la divina f. è de la divina essenza, perché in Dio non vi può essere cosa aggiunta alla sua essenza, ed è in lui per modo perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio (XII 13; cfr. anche 4 e 11, XIII 10). D. assimila questa f. divina alla Sapienza di cui parla il libro dei Proverbi (cfr. Cv III XV 16 e Prov. 8, 22-31). Più in basso, nella fruizione della f., che in questo caso è quasi... druda de la quale nullo amadore prende compiuta gioia (Cv III XII 13), gli esseri creati intelligenti: prima le Intelligenze separate (quelle celesti, precisa D., perché a quelle infernali manca l'amore che è, per definizione, condizione indispensabile del filosofare; cfr. XIII 1-2), per continuo sguardare, cioè in perenne atto contemplativo, poi gli uomini, per riguardare discontinuato (XIII 7), presi come sono da esigenze pratiche che non permettono loro di essere sempre in atto di speculazione (sicché, pur essendo in essi abituale, non è sempre attuale la f.: XIII 5; e cfr. XIII 6, XIV 11): ciononostante, il filosofo può fregiarsi a buon diritto di questo titolo, XIII 8 (due volte). D. promette di parlare, nel Convivio, soltanto della f. umana (§ 3). Inoltre, afferma, non in tutti gli uomini è f.; vi sono alcuni i quali vivono più secondo il senso che secondo la ragione: costoro non ne possono avere apprensione (XIII 4). La f., peraltro, è condizione essenziale perché l'uomo realizzi la potenzialità della propria ragione: infatti, siccome ogni ente tende alla perfezione e la scienza è l'ultima perfezione della nostra anima e in essa troviamo la felicità, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere (I I 1). Ma non basta che si dia questo generico amore del sapere perché si abbia il filosofo: come, infatti, sussiste vera amicizia soltanto quando l'affetto è scambievole, così, perché si dia il filosofo, occorre che questi ami tutta la f., non una parte soltanto, come fa chi la segue o per il diletto che gli procura qualche scienza particolare o, peggio, per utile. Dal canto suo, la f. deve amare tutto il filosofo, cioè deve assorbirne tutti gli affetti, sicché non resti spazio per altri interessi (III XI 7-12). Lo sguardo della f. (cfr. IV XXX 6), inoltre, fu a noi... ordinato, non pur per la faccia che ella ne dimostra vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ed acquistare (cioè, la materia di fede: III XIV 13); ma siccome per mezzo della f. arriviamo a comprendere razionalmente cose che senza di essa ci sembrano miracoli (maraviglia); così, per mezzo di essa, si crede che in un più alto intelletto possa aver ragione d'essere ogni miracolo. Da ciò ha origine, secondo D., la nostra fede e da questa la Speranza e la Carità, virtù per mezzo delle quali si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove li Stoici e Peripatetici e Epicurii, per la l[uce] de la veritade etterna, in uno volere concordevolemente concorrono (III XIV 13-15). Inoltre la f., per D., fa rifronzire e fruttificare la verace de li uomini nobilitade (IV I 11).
Nel sistema di D. la f. ha una fisionomia autonoma rispetto alla teologia e alla rivelazione (ma in accordo con esse: cfr. If XI 97 ss.): essa ha per scopo il raggiungimento del fine temporale dell'uomo, cioè la perfetta felicità terrena (Cv I I 1), i mezzi per conseguire la quale ci sono stati illustrati dalla ragione umana, quae per philosophos tota nobis innotuit (Mn III XV 9). D. sostiene che il fine naturale dell'uomo non sarebbe raggiungibile se l'intelletto non venisse pienamente soddisfatto nelle sue esigenze conoscitive. Ma ciò è possibile, secondo il poeta, perché il desiderio naturale di conoscere non travalica il limite delle realtà conoscibili in questa vita (cfr. anche Cv III XV 8-10). Tale limite, che solo per errore si cerca di superare (e l'errore è di fuori di naturale intenzione, XV 9), è stato già previsto da Aristotele il quale, ricorda D., afferma che " l'uom si dee traere a le divine cose quanto può " (IV XIII 8). La f. risulta da queste premesse come qualcosa di perfettamente compiuto in sé e autosufficiente (per s. Tommaso il desiderio naturale di sapere non può essere soddisfatto in questa vita perché esso travalica l'ambito delle possibilità conoscitive dell'uomo su questa terrà: Cont. Gent. III 48). In seguito, però, la prospettiva di D. cambierà: cfr. Pg XXI 1-3 e If IV 42, Pg III 40-42). Il fine naturale dell'umanità (in altri termini, la completa attuazione dell'intelletto possibile) per il D. della Monarchia non può essere realizzato dal singolo uomo né dalle comunità inferiori, ma dal genere umano nella sua interezza (cfr. Mn I III 8 ss. e I IV). Di qui la necessità della Monarchia universale (I V). Al fine temporale ci guida Aristotele (Cv IV VI 7-16) per lo 'ngegno [singolare] e quasi divino che la natura... messo avea in lui: egli ha portato a perfezione la f. morale (VI 15; per Socrate e la f. cfr. § 14). Nella Monarchia D. accentua e chiarisce il concetto dell'autonomia della f., poggiandola sulla netta distinzione di due fini ultimi dell'umanità (duo ultima, Mn III XV 6): l'uomo, in quanto partecipe di due ordini (del corruttibile e dell'incorruttibile in quanto fornito di corpo e di anima, XV 3-4), unico tra gli esseri ha due fini ultimi, perché ogni natura ne ha uno (XV 6). Al fine temporale è preposta la f. (XV 8), con l'autorità di Aristotele (Cv IV VI 8); all'uomo perfetto da lui additato nell'Etica a Nicomaco tutti, in quanto uomini, si debbono conformare (Mn III XI 7; cfr. Eth. nic. X 5), anche il papa. Ma siccome la volontà dell'uomo è corrotta a causa del peccato originale, non basta che Aristotele le abbia mostrato il modo di comportarsi (come non bastano la rivelazione e la teologia perché l'uomo consegua il suo fine soprannaturale), ma le occorre una guida presente: l'imperatore (Mn III XV 9-10), sicché l'autoritade del filosofo sommo... non repugna a la imperiale autoritade; ma quella sanza questa è pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile... sì che l'una con l'altra congiunte utilissime e pienissime sono d'ogni vigore (cfr. Cv IV VI 17-19, Mn III XV 8-11, dove si parla anche dell'autorità del papa). Egli ha il compito di far osservare i dettami della f. al genus humanum, come il papa è la guida che conduce gli uomini al raggiungimento del fine soprannaturale con l'ausilio della rivelazione (Mn III XV 10).
La teoria dei due fini ultimi dell'uomo, fu notato dal Gilson e dal Nardi, sconvolgeva il sistema della sapienza medievale, e già nel Trecento il domenicano e tomista Guido Vernani, qualche decennio appena dopo la pubblicazione della Monarchia, espresse il suo netto dissenso su questo e altri punti del trattato dantesco (cfr. il De Reprobatione Monarchiae, ediz. G. Piccini, Firenze 1906, 42 e 45): inoltre, il cardinale Bertrando del Poggetto nel 1329 faceva pubblicamente bruciare la Monarchia. Grave sembrava il rischio per l'ortodossia religiosa: s. Tommaso (cfr. In Eth. I lect. II, n. 31, ediz. Pirotta), pur riconoscendo l'esistenza di un fine temporale, afferma che il fine veramente ultimo di tutto l'universo è uno solo: Dio. Ma D. si doveva ritenere nell'ambito dell'ortodossia perché poneva l'uno e l'altro fine come immediatamente dipendenti da Dio (Mn III XV 7). L'autonomia della f. era stata sostenuta già da Averroè, da Alberto Magno, da Sigieri di Brabante suo discepolo e dagli altri maestri della facoltà delle Arti di Parigi che facevano capo al Brabantino. Ma queste posizioni sono profondamente diverse tra loro: per Averroè l'unica verità era quella del filosofo (di colui, cioè, che sa scorgere la verità al di là dei miti e delle favole di cui è intessuta la rivelazione coranica al fine di essere recepita e di giovare agl'indotti; per raggiungere la verità il filosofo si serve soltanto della ragione e dell'esperienza). Alberto, anche se in un primo momento, forse per ragioni prudenziali, distinse i risultati della speculazione filosofica da quelli della rivelazione, (in quanto i primi si riferivano all'ordine naturale, voluto da Dio, i secondi ad alcune sospensioni di quell'ordine, volute sempre da Dio, ma che non riguardano il filosofo bensì il credente), e altre volte dichiarò di limitarsi a riferire il pensiero dei filosofi pagani, senza darvi il proprio assenso (sanando, in questo come in quell'altro modo, certe discrepanze tra f. e religione), in una fase più matura del suo pensiero sembra che abbia posto la f. in una visione più organica del reale, e che, in definitiva, l'abbia considerata come ‛ ancella ' della teologia. La posizione di Sigieri di Brabante e di Boezio di Dacia era assai più radicale (specialmente quella del primo): Sigieri era legato ai testi degli antichi filosofi, specialmente a quelli di Aristotele, e considerava, in pratica, le conclusioni di quelli come le conclusioni alle quali può arrivare, in assoluto, la speculazione filosofica. Anche quando erano in contrasto, con la fede le riteneva razionalmente necessarie (e in ciò il suo aristotelismo era ‛ eterodosso '), non ‛ vere ': in caso di contrasto, tra f. e fede il Brabantino dichiarava senz'altro che la verità stava nelle proposizioni della rivelazione. Niente, dunque, ‛ doppia verità ', formula mai usata da lui e adottata dai suoi avversari. Tuttavia un grave dissidio rimaneva e in questa luce acquistano una particolare drammaticità i versi danteschi riferiti al Brabantino: uno spirto che 'n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo (Pd X 134-135).
Ora, la posizione di D. non sembra essere ‛ averroista ': non quella di Averroè, per il quale, in definitiva, la religione è sottoposta alla f. (D. per la sua distinzione degli ordini non avrebbe mai potuto accettare una simile posizione che, peraltro, è assolutamente in contrasto con i principi del cristianesimo: per D. l'immortalità dell'anima, l'Inferno, il Paradiso non erano altrettanti miti per tenere a bada il popolo, come per Averroè, e la religione non era in funzione della morale) e neppure quella di Sigieri (a proposito del quale, d'altra parte, la formula " averroismo latino " coniata dal Renan è stata messa in discussione, specialmente dal Van Steenberghen), perché D. non ha mai sostenuto come razionalmente necessarie proposizioni filosofiche che fossero in contrasto con la fede. E la presenza del filosofo del Vico de li Strami in Paradiso (Pd X 133-138) si può spiegare (com'è stato fatto dal Gilson o dal Van Steenberghen) come un omaggio reso al filosofo ‛ puro ', al sostenitore dell'indipendenza della f. (anche se diverso era il modo con cui D. intendeva questa indipendenza). I veri di cui al v. 138 non sembrano potersi riferire ai contenuti della speculazione di Sigieri in gran parte eterodossi, anche se uno studio più approfondito delle opere sicuramente autentiche ha messo in luce un certo mitigarsi del suo estremismo negli ultimi anni della vita. D., nella ghirlanda di beati di cui fa parte Sigieri, ha posto credenti dell'Antico e del Nuovo Testamento che hanno adempiuto, comunque in relazione alla sapienza, la propria vocazione: c'è il re sapiente, il teologo, e c'è il ‛ filosofo puro ', Sigieri (D., per le sue teorie, non poteva collocare Aristotele in Paradiso, sicché sembra quasi che il Brabantino ne faccia le veci). Più ligio ad Aristotele in f. che l'Aquinate (e il Gilson fornisce raffronti interessantissimi tra il pensiero dello Stagirita e quello di D.: cfr. D. et la philosophie, pp. 135-136) D., per quanto riguarda i rapporti tra f. e teologia (anche se prende molto dal pensiero dell'Aquinate per altri problemi) non sembra potersi definire neppure un tomista; per s. Tommaso, infatti, la f., come scienza, si costituisce in maniera perfettamente autonoma. Ma, una volta costituitasi, essa può svolgere una funzione ‛ ancillare ' nei confronti della teologia. Il teologo ‛ si serve ' della filosofia. L 'universo dantesco, invece, sembra costituito di una scala di ordini nella quale ogni ordine inferiore non dipende da quello superiore, cioè, per dirla col Gilson, ogni gerarchia di valori non ne comporta una di " giurisdizione ", come avviene, invece, nell'universo tomisticamente concepito. Per D. ciascun ordine possiede un fine ultimo (Mn III XV 6) ed è, nel campo della scienza, sottoposto a un'autorità competente (Tolomeo in astronomia [Cv II 5-6, dove ricorre il termine f.], Aristotele in f. [IV VI 6 ss.], ecc.).
Studiare l'atteggiamento di D. nei confronti della f. implica, così, la messa a fuoco del posto occupato dalla f. nei sistemi dei massimi pensatori del Medioevo. Per quanto riguarda D., mentre un tempo il suo pensiero filosofico veniva ricondotto senz'altro al tomismo (in particolare dal Busnelli), sondaggi più accurati (per opera, in particolare, del Nardi e del Gilson) hanno mostrato il debito che D. ha anche nei confronti di altri pensatori: Alberto Magno, soprattutto, Bonaventura, Averroè (il cui Commento era molto diffuso), e anche Avicenna, Algazali, Alfarabi, Alpetragio (pensatori che D. conobbe specialmente tramite Alberto) e, infine, il Liber De Causis. Occorrerebbe studiare meglio la situazione dell'insegnamento filosofico a Firenze nell'ultimo Duecento (in particolare, forse, l'opera di Remigio dei Girolami), senza contare l'approfondimento che, di quegli studi, D. fece per proprio conto, negli anni dell'esilio.
La F. nella vita e nell'opera di Dante. - Il vero incontro di D. con la f. avvenne qualche tempo dopo la morte di Beatrice quando, prostrato dal dolore, il poeta decise di ritornare al modo che alcuno sconsolato aveva tenuto a consolarsi (Cv II XII 2) e si diede alla lettura del De Consolatione philosophiae di Boezio e del De Amicitia di Cicerone e, inaspettatamente, oltre al conforto, trovò, come chi cerca argento e trova oro, vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa (XII 2-6; cfr. anche III II 17). Fino ad allora, egli aveva sentito di f. quasi come in un sogno e doveva le intuizioni che di essa aveva più che altro all'ingegno naturale, non conoscendo che l'arte di grammatica (II XII 4). In realtà lo Stilnovo, anche se non ne va esagerato il fondamento speculativo, aveva delle pretese filosofiche che lo ponevano, nella coscienza dei suoi adepti, ben al di sopra delle concezioni poetiche precedenti. Si trattava esclusivamente di f. d'amore: anche le discussioni sulla nobiltà, rivoluzionarie rispetto ai canoni dell'aristocrazia feudale e risalenti ad Alberto Magno e ad Andrea Cappellano, erano strettamente connesse col motivo dell'amore. Alla posizione guinizzelliana, che risentiva del neoplatonismo arabo, si affiancava quella del Cavalcanti, la quale si valeva delle conclusioni della medicina araba e dell'aristotelismo. Quanto a D., l'influsso del primo Guido si sente, nella Vita Nuova, specialmente dalle rime della lode in poi (cfr. Vn XX 3-5), quando D. si allontana decisamente dalle idee del Cavalcanti (l'influsso di quest'ultimo è visibile, tra l'altro, in Vn XIV 12, XV 4-5, XVI 7-10 per uno psicologismo sottile e per la terminologia aristotelica).
Dati i propri limiti nelle conoscenze filosofiche, D., dopo la lettura delle due opere di Cicerone e di Boezio, si recò là dove la f. si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti, e in un periodo di circa trenta mesi cominciò tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero (Cv II XII 7). E qui che il Gilson fa cadere il periodo del puro interesse filosofico che si attribuisce a D. e a cui allude, sempre secondo l'illustre storico, Beatrice nei rimproveri di Pg XXXIII 85-90, periodo non, certo, di miscredenza e neppure di ‛ razionalismo ', cioè di assoluta esaltazione della ragione naturale rispetto alla rivelazione, ma soltanto di una particolare situazione esistenziale per cui D., assorbito ed esaltato dalla nuova scoperta, accantonava, praticamente, senza per questo rinnegarli, altri interessi, come quelli di ordine soprannaturale (secondo il Barbi, invece, la scuola di cui al v. 85 non indicherebbe altro se non la prassi mondana di legare il proprio cuore ai beni della terra). Questo periodo di ‛ filosofismo ' puro è perfettamente superato nel Convivio.
L'incontro con la f. provocò un profondo mutamento nel carattere di D., realizzando in lui quella figura di uomo tetragono ai colpi di ventura (Pd XVII 24), phylosophiae domesticus (Ep XII 6), che non gli consentiva alcun compromesso con sé stesso, fosse pure per tornare nel suo bell'ovile. La sua poesia, superato il pregiudizio stilnovistico per il quale in volgare non si può poetare che d'amore (Vn XXV 6), acquistava con le canzoni allegoriche e dottrinali vigore e ricchezza nuovi, fino a condurlo alla più ricca esperienza, per dottrina, poesia e sostanza umana, della Commedia.
La f. è operante nelle singole opere di D. a livelli differenti. A parte la Vita Nuova (cfr. Cv II XII 4), le canzoni allegoriche sono un compromesso tra la maniera di poetare cortese e l'esposizione filosofica, quelle dottrinali sono vera e propria poesia filosofica. Il Convivio è di un genere misto, tra il filosofico e il poetico; e anche se nelle prose non manca rigore, originalità e passione di ragionamento, esse non possono, per la loro stessa natura di commento, costituire un tutto perfettamente organico. Né il pensiero di D. sembra essere nel Convivio perfettamente unitario, anche se particolare originalità e unità possiede il IV trattato dell'opera. Le opere più tecniche dal punto di visto filosofico (e, nel caso della Monarchia, anche teologico) sono la Monarchia e la Quaestio, dove D. usa il latino e si rivolge a dotti. Discorso a parte reclama la Commedia: in essa D. più che puro filosofo o teologo, è essenzialmente poeta. La f. è, sì, presente, ma in funzione della poesia, anche se Beatrice sillogizza e si richiama ad Aristotele. Anzi, nel poema, D. modifica diversi punti di vista filosofici sostenuti precedentemente: cfr., ad es., la dottrina delle macchie lunari che in Pd n 61 ss. è trattata in maniera sostanzialmente diversa da come è presentata in Cv II XIII 9; il problema se la prima materia de li elementi era da Dio intesa (Cv IV I 8), rimasto insoluto, viene risolto in Pd VII 136; circa l'origine delle lingue la posizione di Pd XXVI 124-138 è diversa da quella sostenuta in VE I IV e VI 4 ss.; e per la trattazione di argomenti filosofici nella Commedia, cfr. ancora, tra l'altro, If VI 107-108, XI 79-83 e 97-105 e Pd XXXIII 85-93. La verità, spesso, non è presentata seguendo il metodo discorsivo, ma per immagini, alla maniera poetica, sicché misurare la Commedia con criterio puramente filosofico o teologico comporta spesso che i conti, come ha mostrato il Gilson, non tornano.
La vecchia polemica di origine idealistica circa il problema del , rapporto tra ‛ poesia ' e ‛ struttura ' o ‛ romanzo teologico ' (ma le posizioni del De Sanctis e del Croce, i maggiori rappresentanti di quella corrente, non avevano la rigidità che talvolta si attribuisce loro: sia l'uno che l'altro, nel maturare del loro pensiero in proposito, arrivarono a posizioni molto vicine a quelle attuali) è ormai superata alla luce dell'estetica e della critica contemporanee, le quali sottolineano con maggiore impegno e coerenza che l'arte, pur essendo un momento autonomo dello spirito, tuttavia è carica di tutta l'umanità dell'artista, col suo mondo intellettuale, spirituale ed esistenziale. In tale direzione si svolgono le ricerche dell'Apollonio (con la sua estetica dell" essere '), del Montanari (Ampiezza e profondità di D., in " Studium " giugno 1952, e L'esperienza poetica di D., cit. in bibl.), del Getto, col suo concetto di " poesia dell'intelligenza " e, dalla scuola del Casella (il quale aveva prospettato una più intima intelligenza del mondo spirituale di D.), del Singleton e del Battaglia. Fondamentali, a questo riguardo, oltre, naturalmente, gli studi del Gilson, del Nardi e del Barbi, quelli dell'Auerbach, del Pagliaro, del Montano, del Pasquazi, del Giannantonio, ecc.
La simbologia. - L'evoluzione subita dal concetto di f. nella vicenda esistenziale di D. è rilevabile anche nella diversa figurazione che essa assume nelle sue opere. Nel Convivio la f. è boezianamente rappresentata come una donna gentile (Cv II XII 6-9) la cui prima funzione fu di consolare D. della morte di Beatrice e per la quale prese a poetare dottamente, giacché non era degna rima di volgare alcuna palesemente po[e]tare (XII 8; e cif. XV 1 e 3, III XI 1 e 15, IV XXX 5,
Rime LXXIX, LXXX, LXXXI, LXXXII, LXXXIII, XC, XCI).
Molto si è scritto su questa figura, se essa corrisponda a quella di Vn XXXV-XXXVIII, ecc. (v. Donna Gentile) e in maniera molto diversa è stata interpretata: il Nardi vi ha visto del " misticismo ", cioè un'indistinta fusione di f. e teologia rivelata che si scioglierebbe soltanto nel IV trattato del Convivio, nel quale, secondo il nostro storico, la f. scenderebbe di cielo in terra e in terra rimarrebbe anche nella Monarchia, dove " Virgilio non aspetta nessuna Beatrice ". La figura ambivalente della gentile si scinderebbe, nella Commedia, rispettivamente in quella di Virgilio, portavoce della f. umana, e di Beatrice, portavoce della sapienza divina. Altri studiosi, tra i quali il Gilson, vedono anche nel Convivio, come in tutta l'opera di D., una distinzione netta tra f. e teologia, autonoma l'una rispetto all'altra. Il Pietrobono, in questo contrastato dal Barbi, vedeva del " razionalismo " nel Convivio.
Il Virgilio dantesco, nella storia della critica, è stato spesso Inteso come simbolo o figura della f. (e della sapienza umana). Fin dal tempo dei commentatori trecenteschi a un Virgilio-f. veniva affiancata una Beatrice-teologia. Non sembra prudente respingere completamente interpretazioni le quali, se non altro, hanno il vantaggio dell'antichità, di una maggiore vicinanza al mondo di Dante. Alcune correnti della critica più recente (Nardi, Gilson, Auerbach, in singolare coincidenza, quest'ultimo, con affermazioni d'impostazione hegeliana del De Sanctis) pongono però, con varie sfumature, l'accento più sulla consistenza reale di personaggi vivi quali Virgilio e Beatrice, anziché sul loro significato simbolico-allegorico. Ma, comunque, ci sembra incontestabile che Virgilio è il portatore, il trasmettitore a D. della sapienza umana. Ma di un particolare tipo di sapienza che, se tiene presente la speculazione, è essenzialmente fondato su quella superiore esperienza pratico-esistenziale (anche qui primato della ‛ morale ': cfr. Pg XXVII 130-141) che è propria del poeta. D. non ha scelto Aristotele come guida nel regno dei morti (chi poteva farlo meglio del maestro... de la ragione umana [Cv IV VI 8]?) ma un poeta, come lui, perché il poeta ha un modo particolare per penetrare il mistero della realtà. A D. non bastavano più la f. e la teologia, come nella Monarchia: il compito che si era assunto, di riformare, cioè, il mondo, era troppo arduo per affidarlo a mere argomentazioni razionali. Occorreva tenere altro viaggio (If I 91), ripetere l'esperienza di Enea e di Paolo (II 13-33), giungere nell'al di là per ripercorrere e riconsiderare la condizione umana, contemplandola dall'eterno. A ciò Virgilio, il famoso saggio (I 89) era particolarmente abilitato, oltre che per la sua sapienza poetica, per aver cantato un viaggio simile, anche questo in vista di grandi eventi (la fondazione dell'Impero, istituto voluto dalla Provvidenza: Mn II XI 1-7, e cfr. Pd VI 82-93 e VII 49-51), e per esser stato, anche se non consapevolmente, profeta di rinnovate età (Pg XXII 67-72). Inoltre Virgilio, per la sua condizione di anima liberata dal corpo, aggiunge, alla sua sapienza di un tempo, la consapevolezza dell'esistenza dell'ordine soprannaturale cristiano.
Anche per Beatrice ci sembra valido il discorso preliminare fatto per Virgilio (ambedue sono figure ben più ricche e complesse della ‛ Donna gentile '). Anch'essa è stata talvolta assimilata alla f.: il Lyll (Dello spirito cattolico di D. Alighieri, Londra 1944, trad. ital. pp. 66 e 22) dice che essa è la f. cristiana (mentre Virgilio è la f. pagana). Il Singleton sostiene che Beatrice svolge nella Commedia il ruolo di " Madonna filosofia ovvero la Sapienza ". Infatti, secondo il dantista americano, " dal punto di vista di Virgilio, da dove ‛ discerniamo ' mediante il ‛ lumen naturale ' concesso ai filosofi, Beatrice può essere vista come quella Madonna Filosofia che essi effettivamente conobbero... Ma poi, sulla vetta, quando Beatrice appare e Virgilio è scomparso, la scorgiamo in uno splendore che supera di molto il ‛ lumen naturale ', e il suo nome sarà piuttosto ‛ Sapientia ', nel senso più profondamente cristiano della parola ". Beatrice, sempre secondo il Singleton, porta a perfezione la vita attiva e quella contemplativa. E questa contemplazione attinta al ‛ lumen gratiae ' non rinnega quella raggiunta col lume naturale, ma la perfeziona: " in Beatrice si raggiunge una Sapientia che include Madonna Filosofia ma al tempo stesso la trascende, essendone la perfezione ".
Bibl. - Della vasta bibliografia sull'argomento si citano solo alcune delle voci più significative del passato e, delle recenti, quelle che le precedenti comprendono e sviluppano.
Sulle correnti di pensiero del XIII secolo, si veda F. Van Steenberghen, La philosophie au XIIIe siècle, Lovanio 1966. Per la valutazione che, dal Trecento ai nostri giorni, si è fatta del momento speculativo nell'opera e nella vita di D., cfr. P. Giannantonio, D. e l'allegorismo, Firenze 1969, 275-415. Cfr., inoltre, i lavori di A. Vallone sulla storia della critica dantesca, che sono riassunti e sviluppati nel volume su Dante, Milano 1970.
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