FILOSOFIA (gr. ϕιλοσοϕία; lat. philosophĭa)
Le ricerche per sapere quando fu sostituito il nome di filosofo e quindi filosofia al termine sofo (o sofista) e sofia, hanno un interesse puramente filologico, poiché quel che importa alla filosofia è che Platone, e prima di lui Socrate, avendo adottato e trasmesso a tutte le generazioni future di pensatori questo termine, hanno scelto, fra quanti prima di loro s'erano occupati di ricerche scientifiche, alcuni pensatori e alcuni problemi, e quelli hanno introdotto nella storia come filosofi, e questi hanno posto in connessione con le loro ricerche. La creazione del nome nuovo o l'accoglimento di esso dai Pitagorici che l'avrebbero usato ad esprimere la differenza tra il sapere umano e quello di Dio, secondo una tradizione poco sicura (v. Krug, Zeller), indica certamente la necessità di creare una distinzione dove prima non c'era: Socrate volle distinguersi dai sofisti; cioè da coloro che adoperavano la ricerca scientifica a scopi pratici, ma anche da coloro che erano giudicati scettici non solo perché dubitavano delle conoscenze possedute (anche Socrate dubita), ma perché non compivano tutto lo sforzo che è necessario per superare i dubbî presentati alla conoscenza e alla moralità e non avevano fede in un processo continuato di pensiero per il quale non si dispera di poter risolvere anche i problemi tuttavia dichiarati insoluti: erano quindi troppo poco amici della sofia. Ma Socrate, senza dichiararsi sapiente, dichiarava d'aver fede nella sapienza. La filosofia quindi consisterebbe in questa fede nell'acquistabilità del sapere, onde il filosofo si distingue dallo scettico, pur dubitando. Ma altri caratteri si aggiungono che possono ricavarsi dalle diverse rappresentazioni del filosofo nei dialoghi platonici. Nel Fedone la filosofia viene distinta dalle religioni (naturalmente soprattutto da quelle misteriosofiche) perché, avendo in comune il fine di liberare l'anima dall'incatenamento delle passioni, non "si affida a una divina rivelazione", ma "segue il raziocinio e in esso persiste ininterrottamente, attendendo alla contemplazione del vero, del divino, di ciò che non è soggetto alle illusioni dei sensi e da ciò traendo il suo nutrimento vitale". C'è quindi una finalità etica nella filosofia comune con la religione e un metodo proprio ch'è il ragionamento. E quando questo si contrappone all'illusione dei sensi, bisogna intendere questi come fonte e delle sensazioni e delle passioni insieme. Nel Teeteto poi viene distinta la filosofia dall'attività pratica in genere: i ragionamenti che sono rivolti a persuadere gli altri e che si fanno nel tempo limitato perché bisogna concludere (tenendo d'occhio la clessidra) e persuadere giudici e padroni, da quegli altri che si fanno da uomini liberi (non per nascita ma per spirito) e che non si preoccupano del tempo e pensano "col solo studio della natura degli esseri". Non si occupa quindi la filosofia di questo o quell'uomo, ma di "che cosa l'uomo è, e che cosa alla natura dell'uomo, a differenza degli altri esseri, conviene fare e patire". Si aggiunge che non guarda "chi abbia fatto ingiuria e chi l'abbia ricevuta" ma "la giustizia e l'ingiustizia e la natura dell'una e dell'altra", non "chi sia felice", ma "che sia felicità e infelicità, la natura d'ambedue e in che modo si conviene alla natura dell'uomo procacciarsi l'una e fuggire l'altra". La filosofia viene quindi distinta dalla conoscenza dell'empirico, dell'individuale. Con Aristotele si accentua la distinzione dalle scienze empiriche, rivolte a fini utilitarî, e si dichiara filosofia quella sapienza "che è desiderata per sé stessa e per amore del sapere", la quale sola è libera "perché ha il fine in sé stessa". Questa scienza è dapprima determinata più per la forma che per il contenuto, è quel grado del sapere nel quale noi conosciamo le cose secondo le cause e i principî; indi diventa la scienza delle cause e dei principî: quindi abbraccia tutta la realtà in quanto di essa si cerchino le cause e i principî. Proseguendo l'indagine Aristotele determina come suo oggetto "l'ente in quanto ente e le sue proprietà essenziali" e la dichiara diversa da ogni altra scienza particolare perché nessuna delle altre studia in universale l'ente, ma dopo averne rescisso qualche parte, di questa considera gli accidenti" (Met., IV, 1, 1003). Questa definizione viene perfezionata con la distinzione delle scienze in poietiche (arti), pratiche (che si servono solo in parte di ragionamenti) e speculative. In queste ultime la filosofia prima si accosta alla fisica e alla matematica per distinguersene: la fisica studia la forma nella materia (se ne deve dedurre che è soggetta all'empiria); la matematica studia le forme pure ma astratte: solo la metafisica studia la forma pura concreta (Met., VI,1, 1025 b-1026 a). Aristotele quindi considera filosofia ogni ricerca disinteressata, ma costituisce una scala ascendente di scienze fino alla filosofia prima, secondo la purezza dell'oggetto. La distinzione è materiale e formale: la filosofia infatti è "una scienza divina in quanto è posseduta soprattutto da Dio, e in quanto è scienza di cose divine" (Met., I, 983 a).
Con queste vedute egli comprende nella filosofia tutti i cosiddetti fisici da Talete a Democrito, non perché ritenga che abbiano propriamente compiuta questa indagine, ma perché "se cercando gli elementi dell'ente cercavano i principî e le cause supreme, necessariamente questi elementi erano dell'ente, non in quanto considerato accidentalmente, ma in quanto ente" (Met., IV,1, 1003 a-26). Ne furono esclusi i mitologi, sebbene "chi ama il mito è anch'egli in certo modo un filosofo, ché il mito risulta da un complesso di meraviglie", e cioè è anch'esso disinteressato (Met., I, 2, 982 b), evidentemente perché non adoperarono il ragionamento. Questo processo vivo fu nelle scuole successive schematizzato e il platonico Senocrate, secondo scolarca degli accademici, distinse nella filosofia tre parti: dialettica, fisica, etica. La medesima divisione fanno gli stoici, ma con carattere differente. Infatti essi distinguono fra sapienza e filosofia. La sapienza è la filosofia in senso aristotelico come sapere: "Scienza delle cose divine e umane e delle loro cause" (Sen., Ep., 89) e la filosofia è questo sapere guardato nella sua efficacia pratica: "la filosofia è esercizio dell'arte necessaria. Unica e sommamente necessaria è la virtù" (Aetii, Placita, I, 2). Ma nello stesso tempo che essi distinguono i due sensi in cui Socrate intendeva la filosofia, essi li uniscono indissolubilmente perché "la filosofia è studio della virtù, ma per mezzo della virtù stessa: perché né può esserci virtù senza studio di sé stessai; né studio della virtù senza lei medesima" (Sen., Ep., 89). E perciò essi parlano di tre virtù: la naturale, la morale e la razionale a cui corrispondono le tre parti della filosofia, fisica, etica e logica (Aetii Pl., I, 2), ma inseparabili tra loro (Sext. Emp., Adv. math., VII, 16). Epicuro non solo differenzia la via religiosa di raggiunger la virtù dalla via filosofica (Socrate), ma elimina la prima e riduce tutta la filosofia alla funzione liberatrice dell'anima. La liberazione tuttavia si ha mediante una conoscenza non più di carattere razionale, ma empirico, costituita da "intuizioni presenti sia dell'intelletto, sia di qualsivoglia dei criterî, come pure dalla testimonianza effettiva dei sensi interni" (Epist. ad Herod, 38). Lo stesso carattere pratico ha la filosofia per gli scettici, sebbene la natura del loro filosofare appaia più dialettica; serve infatti a raggiungere la serenità. Nello stoicismo romano filosofia e sapienza sono tutt'uno. "Non nelle parole ma nelle cose è la filosofia. Essa forma ed edifica l'animo, dà ordine alla vita, regge le azioni, addita ciò che si deve e ciò che non si deve fare, siede al governo e sceglie la via tra le cose dubbie". (Sen., Ep., 16). Col tentativo di fusione del mondo orientale e di quello greco, in Filone la distinzione tra religione e filosofia posta da Socrate comincia a perdere d'energia: i filosofi greci sono ispirati, e gl'ispirati d'Israele sono filosofi. Per questa via la filosofia sostituisce alla liberazione socratica, l'estasi, il rapimento, l'oscuramento d'ogni cosa e l'abbandono di sé (Filone). Ancora Plotino compirà uno sforzo per dare una base razionale a questo processo verso l'estasi e la sua filosofia è ragionamento e intuito, il suo intelletto ha due potenze: "l'intelletto assennato" per intendere ciò che è in lui, e l'"intelletto amante". "Quando esce di senno inebriato di nettare divino, allora si fa amante, dispiegandosi in una soavità piena di saturazione; ed è assai meglio per lui inebriarsi, che più gravemente usare di siffatta bevanda" (Ennead., VI, 9, 10). Tendenza questa non estranea del tutto al pensiero di Platone (vedi Fedro) ma da lui dominata. Questo sforzo fallisce nella teurgia con la quale non è più il pensiero che libera l'animo e lo conduce almeno fino alle soglie della contemplazione della verace essenza, ma sono i simboli e i riti. Per ritrovare un concetto della filosofia bisogna guardare alla difesa che la religione dovette compiere di sé stessa dalle intrusioni teosofiche. Si avrà così un nuovo processo di distinzione in senso inverso: sarà la religione (qualunque sia il suo atteggiamento verso la filosofia) a differenziare da sé la filosofia. La rivelazione ha bisogno di essere, oltre che diffusa, difesa dai suoi nemici teorizzanti che adoperano soprattutto l'intuizione neoplatonica per una ricostruzione del paganesimo. Non ci si difende da attacchi dottrinali se non con la dottrina. Bisogna tener presente che la storia non fu considerata mai dagli antichi come scienza, se pure occorrevano dei concetti per costruirla (per es., la virtù dei Greci e dei Romani contro la passione dei barbari); fino al punto che Aristotele giudica la conoscenza artistica superiore a quella storica (Arist., Poet., 1451 b-5). Il popolo d'Israele invece aveva dato a tutto il suo pensiero un valore attraverso la semplice forza della tradizione storica. Gli argomenti non potevano quindi trovarsi che nella filosofia greca. Lì le analisi di concetti. Onde avvenne il congiungimento della religione cristiana con la filosofia greca considerata come uno strumento da adoperare a vantaggio della nuova intuizione del mondo. La ragione non è assolutamente autonoma, ma serve a farci raggiungere con la fede la conoscenza e il possesso di Dio (Agostino). La filosofia viene quindi concepita ancora una volta nel senso socratico di "liberatrice dell'anima"; e nel senso aristotelico di scienza razionale è considerata come semplice strumento. Gli entusiasmi che fanno dichiarare "identica la vera filosofia e la vera religione" (Scoto Eriugena) mostrano che sulla distinzione formale predomina l'identità oggettiva (del contenuto). La disiinzione riacquista valore nelle lotte tra dialettici e teologi del secolo XI, nel senso che la filosofia si ripresenta in forma di sofistica: ragionante ma indifferente alla serietà morale del ragionamento. La distinzione si ristabilisce e S. Anselmo compie lo sforzo di provare l'esistenza di Dio con argomenti puramente razionali. Non che egli non presupponga la fede, ma ritiene un dovere morale (il non farlo è negligentia) sforzarsi d'intendere. Un principio nuovo si trova in Abelardo quando egli vuol procedere alla costruzione della nuova filosofia cristiana raccogliendo e ponendo a confronto le opinioni contraddittorie della Scrittura e dei Padri della Chiesa, che è il principio d'una elevazione della storia (autorità) a metodi scientifici. Il contrasto tra religione e filosofia si produce parimente nella filosofia araba dove ci sono da una parte coloro che credono di poter comprendere e interpretare razionalmente la tradizione religiosa, e coloro che come al-Ghazzālī si oppongono a questi tentativi. Ciò nonostante bisogna considerare come uno degli effetti dell'introduzione d'Aristotele in Europa attraverso gli Arabi la distinzione che si produsse tra pensiero razionale e pensiero religioso nel sec. XIII dando luogo, così negli spiriti liberi come nei religiosi, a una divisione netta tra filosofia e religione, fino al punto da porre negli estremi sviluppi due verità: quella di fede e quella di ragione. L'indimostrabilità dichiarata di certi dogmi della Chiesa giova a ridare alla filosofia il suo carattere di dimostrazione (catena continuata di ragionamenti) "Philosophia enim est, id quod dicit, dicere cum ratione" (Alberto Magno). Con S. Tommaso la divisione si chiarisce: il filosofo deve ammettere solo ciò che egli può conoscere con la ragione naturale e dimostrare col solo aiuto di questa. Il teologo può argomentare, ma fondandosi sulla rivelazione. Due dominî quindi: la natura al filosofo; Dio e la vita morale al teologo. Ma per quanto paia facile dividere i due campi, ci sono i punti d'incontro, come per es., il famoso problema dell'unità dell'intelletto attivo che, risolto filosoficamente in un senso o in un altro, conduce ad affermare o negare l'immortalità individuale, cioè un dogma di fede. Tommaso non accetta la comoda dottrina delle due verità: deve quindi subordinare una delle due vie all'altra, e la subordinata sarà la filosofia, in quanto dove c'è dissenso tra filosofia e teologia vuol dire che o s'è argomentato male, o si è argomentato in una sede che non è quella propria della filosofia. Il dominio della filosofia viene dunque circoscritto dalla religione, pur riconoscendosi che la ragione è insostituibile nel suo campo. Quanto a una distinzione della filosofia dalle scienze particolari non c'è traccia neanche là dove si stabilisce una certa corrente scientifica, come quella che va da Ruggero Bacone a Giovanni Buridano, Albertutius e Nicole Oresme, i precursori di Leonardo da Vinci e di Galileo; ma il concetto dell'esperienza che si va formando in contrasto con quello del ragionamento astratto o per lo meno da esso distinto precorre a questa divisione. La distanza tra religione e filosofia si pronuncia più nettamente in Duns Scoto. Data una definizione secondo lui più rigorosa (in senso aristotelico) della dimostrazione, Scoto rifiuta le prove a posteriori del tomismo intorno alla dimostrazione dell'esistenza di Dio, dell'immortalità dell'anima, ecc., rinviando alla teologia tutto ciò che non è dimostrabile. Mentre così la teologia cessa dall'essere una scienza speculativa per divenire una regola delle nostre azioni fondata sulla rivelazione, la filosofia trova nella sola ragione il suo fondamento.
Con Occam il processo viene condotto oltre e la perfetta cognizione diviene quella che si fonda sull'esperienza, la cognitio intuitiva per la quale non esiste che il particolare. La filosofia viene così ad acquistare definitivamente un campo suo proprio che non è più quello della religione, ma, come da allora si disse, quello della natura. Incomincia con l'umanesimo un nuovo periodo. Ora in realtà la filosofia mentre si distingue dalla religione, non si distingue bene dall'arte. Dal Petrarca a Leonardo, e forse oltre, si chiama filosofia un'intuizione immediata del reale, fatta, sì, di rielaborazione di pensieri tradizionali, ma più di auto-osservazione e di aforismi sulla natura. Questo carattere l'ha in parte ancora la filosofia del Rinascimento, ma essa tende piuttosto a costituire una religione naturale o razionale, cioè a tornare al senso originario della filosofia per fare di questa una guida della vita mediante la conoscenza razionale dei tre oggetti: anima, mondo, Dio. Tale è l'oggetto della filosofia ancora per Cartesio il quale si propone di dimostrare con nuovi argomenti l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima; e la definizione della filosofia che egli dà nella prefazione dei Principii di filosofia non si allontana da quella classica: "studio della saggezza"; "saggezza è non solo prudenza negli affari, ma una perfetta conoscenza di tutte le cose che gli uomini possono sapere... e affinché questa conoscenza sia tale è necessario che sia dedotta dalle prime cause...; è tenere gli occhi chiusi, senza cercare d'aprirli, vivere senza filosofare...; il bene sovrano considerato dalla ragion naturale senza la luce della fede è solo la conoscenza della verità per le sue prime cause, cioè la saggezza di cui la filosofia è lo studio". Nulla di nuovo nei termini. La novita è nella richiesta che questo sapere sia il sapere nostro (dubbio metodico), personale. Per Bacone invece la filosofia è un grado del sapere che guarda i principî comuni a tutto il reale conoscibile e che sta in rapporto di circolo con le scienze particolari: la filosofia è prodotta per l'utilità delle scienze e le scienze debbono essere ricondotte alla filosofia. L'atteggiamento critico appare in Locke per il quale la filosofia è non più uno studio di Dio, del mondo, della materia e dello spirito, ma l'analisi delle idee nostre, di ciò che noi intendiamo per Dio, mondo, ecc. Quest'analisi può farsi perché le idee non sono in alcun modo innate. Sono formate da noi. Filosofia diventa quindi un'analisi della formazione delle idee, e come tale si distingue da tutte le scienze particolari. Così viene indicato con più precisione il compito da Bacone assegnato alla filosofia. Spinoza concepisce la filosofia come una teologia; ma non gli è estraneo il concetto d'una filosofia liberatrice degli spiriti con echi neoplatonici. La filosofia di Leibniz è soprattutto metafisica sboccante in una teologia. Berkeley, sebbene continui l'analisi delle idee pigliando il problema da Locke, è tutto proteso verso una teologia che assorba la filosofia naturale. Più vicino a Locke resta Hume per il suo sforzo di analizzare il contenuto della coscienza come premessa ad ogni conclusione. Il suo problema è quello dei limiti del sapere e dei gradi raggiungibili di certezza. Con Kant la filosofia piglia per oggetto della sua ricerca sé medesima. Per Kant la filosofia è la metafisica con i suoi tre oggetti: anima, mondo, Dio. Ma a questa filosofia non si può arrivare se non dopo aver risolto il problema: se è possibile una metafisica. La soluzione di questo problema è quella che si è chiamata "filosofia critica" e che Kant chiamò "filosofia trascendentale". Noi abbiamo così duplicato il problema: da una parte si differenzia la filosofia (metafisica) dalla matematica e dalla fisica, i cui oggetti si dimostra che sono sintesi compiute dalla coscienza in genere. Dall'altra si prova che le categorie dell'intelletto non sono idonee a farci conoscere l'oggetto della Metafisica (filosofia) e da questo si ricava che quest'oggetto è un oggetto speciale: non l'essere, ma il "dovere essere" di cui non si ha cognizione, ma pensiero. La metafisica quindi in quanto scienza dell'essere pare negata, e si costruisce implicitamente una metafisica del dover essere; invece di rappresentarci l'assoluto come essere, ci rappresenta la funzione dell'assoluto nella costruzione della scienza, della moralita, dell'arte, della natura. La prima parte di questo problema diede origine al modo d'intendere la filosofia di Fichte. Accettando l'inconoscibilità dell'oggetto della metafisica come oggetto, Fichte ne deduce che la filosofia non può aver questo oggetto, ma al contrario deve avere per oggetto quello che è il contenuto della filosofia trascendentale cioè la scienza. La filosofia diventa quindi la dottrina della scienza. Infatti la trasformazione delle categorie (sostanza, causa, ecc.) da oggetti di conoscenza in funzioni unificatrici del soggetto, riguardo a un contenuto (il mondo) costituentesi di pari passo con la sua forma (la coscienza), fa sì che il vero assoluto sia l'attività unificatrice della coscienza e non se ne possa cercare altro. La seconda parte del problema invece attraverso una critica del concetto che il dover essere non può essere tale se non essendo, diviene il concetto della filosofia di Hegel, che ha di nuovo a suo oggetto l'assoluto, ma nel processo attraverso il quale esso si fa tale quale deve essere. La filosofia torna ad avere per Hegel lo stesso oggetto della relìgione: Dio, cioè la Verità, e la natura e lo spirito umano in quanto non sono guardati in sé (come il finito) ma in rapporto con la loro verità, cioè con Dio (Enc., par. 1). Ma si differenzia dalla religione per la forma, in quanto l'unico contenuto nella religione è dato in forma d'intuizione, nella filosofia, di speculazione o pensiero riflesso. Il concetto (e perciò la sua vera forma, il sillogismo) è la forma della filosofia. Il concetto è l'universale concreto, quindi si differenzia la filosofia dalle scienze matematiche che hanno un universale astratto e dalle empiriche che hanno un concreto non universale: esse hanno di mira e producono leggi, proposizioni generali, teorie: sono pensieri e non il pensiero. Inoltre né la matematica né le scienze empiriche possono cogliere la libertà, lo spirito, Dio, sebbene questi concetti facciano parte dell'esperienza in senso lato. Inoltre la filosofia non ammette presupposti, cioè col suo processo deve giustificare il suo punto di partenza. Le diverse filosofie sono una medesima filosofia in diversi gradi di svolgimento. Il Rosmini partendo dallo stesso punto di vista (identità dell'oggetto della religione e della filosofia: la verità) rovescia la posizione. Per lui nella filosofia "la verità si mostra come una regola della mente" (assoluto = principio regolativo), nella religione "si porge compiuta e intera in sé medesima sussistente" (Saggio, 13); quindi la filosofia diventa "una propedeutica alla vera religione" (id.).
La filosofia italiana possedeva intanto un auro germe che doveva dar frutto ai nostri giorni: la scienza nuova di Vico ch'era un nuovo concetto della filosofia come storia concreta. È perciò che l'idea di Hegel dell'assoluto che si sviluppa poté essere intesa meglio che altrove in Italia. Il sec. XIX vide dapprima ridurre la filosofia a generalizzazione dei principî delle scienze particolari: poi assisté a una faticosa ricostruzione del punto di vista kantiano della filosofia come critica. Per contrapporsi al materialismo scientifista, la "filosofia dei valori" cercò di mettere in evidenza quegli oggetti che sfuggono all'esperienza sensibile, i cosiddetti valori dello spirito, e assegnare alla filosofia questo come il campo suo proprio (arte, diritto, morale, ecc.). Poi, infine, rovesciando la posizione positivistica, si considerò come concreta la storia, e astratta la natura e si diede ad oggetto della filosofia il mondo storico (Rickert). La critica delle scienze, in altri indirizzi, divenne l'oggetto della filosofia la quale fu dottrina delle scienze in tono minore, in quanto ritrovava il suo concetto del reale in un'analisi critica dell'esperienza già sistemata nel pensiero scientifico. Questo indirizzo si può dire che vada dall'empiriocriticismo al contingentismo e intuizionismo e combatte soprattutto il meccanicismo delle scienze o assegna più semplicemente i limiti al sapere scientifico. Al concetto della filosofia come principio dell'attività morale del soggetto tornano in forma inadeguata i pragmatisti e in forma più compiuta e profonda la filosofia dell'azione. Il Blondel considera la filosofia come la soluzione e teorica e pratica del problema della destinazione umana, regola di vita fondata sulla certezza. Le correnti hegeliane determinantisi nelle varie nazioni (Inghilterra, Francia, America, Italia) hanno fatto tornare al concetto della filosofia in senso hegeliano come conoscenza dell'assoluto. In Italia il Croce ha però considerato come inesistente un problema filosofico (quello che egli chiama il problema teologico) e come propria della filosofia la trattazione dei problemi filosofici, cioè l'arte, il diritto, la vita morale, la metodica storica; e ha finito poi col ridurre la filosofia a "momento metodologico della storia". Questo concetto vuol essere l'inveramento della concezione kantiana della filosofia come critica: la sua superiorità sul concetto della filosofia come metafisica si fa consistere nel fatto ch'esso risolve nel processo storico i problemi ch'erano insolubili per la metafisica (mondo-esterno, anima-sostanza, ecc.) nell'antica concezione. La distinzione dalle scienze particolari avviene in quanto i concetti di queste sono pseudoconcetti, laddove in filosofia si cerca il concetto concreto. In altro senso accetta la concezione critica l'attualismo per il quale la filosofia è la stessa concretezza dell'atto spirituale: quindi tutto è filosofia, nella sua realtà concreta; ma poiché tutto ha un valore determinato dal suo grado di sviluppo nel processo storico dello spirito, spetta il nome di filosofia propriamente detta soltanto a quella forma di attività spirituale nella quale le curiosità della coscienza sono elevate a problemi universali, o necessarî, "cioè derivanti dalla stessa natura del pensiero umano" (Gentile, Fil. dell'Arte, I, 1). La distinzione dalla filosofia della religione e dell'arte nasce dalla forma intuitiva dell'una e dalla astoricità dell'altra. La distinzione dalle scienze non è in sé, ma sorge tutte le volte che una filosofia limita un'altra filosofia considerandola come veduta parziale. La non parzialità è dimostrata dal presentarsi il problema, sempre particolare, nella sua connessione con la totalità degli altri problemi necessarî del reale come pensiero puro (non riferito ad altro), invece che in sé isolato. In seno all'attualismo è sorta una corrente che tende, in conseguenza, a sciogliere la filosofia stessa nelle scienze particolari filosoficamente considerate (U. Spirito). Per contro altri indirizzi si sono sforzati di ripresentare il problema oggettivo della filosofia, affermando che la critica kantiana ha solo dimostrato l'impossibilità d'una metafisica scientifica, ma non l'impossibilid d'una metafisica critica (P. Carabellese). E non si può negare che giustificazioni di questo punto di vista si trovino nella dialettica trascendentale di Kant.
Bibl.: In F. Ueberwegs e K. Praechter, Grundriss d. Gesch. d. Philos., 12ª ed., Berlino 1926, I, pp. 1-201, sono citati particolarmente i lavori di E. Zeller, F. Paulsen, A. Riehl, A. Döring, W. Windelband, W. Dilthey, H. Rickert, P. Natorp, P. Menzer sul concetto di filosofia e varie enciclopedie e dizionarî filosofici. Nel Wörterbuch d. philos. Begriffe di Eisler si trovano alla voce Philosophie numerosissime definizioni del termine filosofia degli scrittori del secolo XIX. Altre se ne trovano in A. Lalande, Vocabulaire technique et crit. de la philos., 2ª ed., Parigi 1923 segg., s. v. Philosphe e Philosphie; per quanto riguarda l'Italia contemporanea v. P. Martinetti, Introd. alla Metafisica, 2ª ed., Torino 1904; B. Varisco, I massimi problemi, Milano 1910; id., Conosci te stesso, Milano 1912; B. Croce, in genere nei quattro volumi della Filosofia dello spirito; particol. in Teoria e storia della storiografia, 3ª ed., Bari 1927; id., Contributo alla critica di me stesso, Napoli 1918; G. Gentile, varî scritti raccolti in Riforma della dialett. hegeliana, Messina 1923; Idealismo e misticismo, in Ann. bibl. filos. di Palermo, 1911; La filos. dell'arte, Milano 1931; Filosofia e scienza in Giorn. critico della filosofia italiana, 1931; G. De Ruggiero, La scienza come esperienza assoluta, in Ann. bibl. filos. di Palermo, 1912; V. Fazio-Allmayer, Intr. alla st. della filos., Bologna 1921; L'universalità della filosofia, in Giorn. crit. della filos. it., 1923; P. Carabellese, Che cos'è filosofia?, in Riv. di filos., 1921; id., Il problema teologico come filosofia, Roma 1931; U. Spirito, Scienza e filosofia, in Atti del VII Congresso naz. di filosofia, Milano 1929; id., Il nuovo confetto di filosofia, in Giorn. crit. della filos. it., 1930; J. Dewey, Ricostruzione filosofica, trad. it., Bari 1931.
Storia della filosofia.
La storia della filosofia è storia d'una categoria e quindi variamente intesa col variare del modo d'intendere la categoria stessa: anzi si può dire ch'essa è una disciplina variamente intesa secondo lo svolgimento del concetto di storia e del concetto di filosofia. Nell'antichità e nel Medioevo non si possono trovare vere storie della filosofia poiché il concetto della storicità del vero è tuttavia latente: pure a chi scorra i dialoghi platonici o i trattati aristotelici, specie se si guarda ai primi libri della Metafisica e del De anima, non può non apparire come la filosofia si sia sempre fondata sopra una sua storia, ciò perché il pensiero filosofico è risoluzione della particolarità del pensiero individuale nel processo eterno del pensare. E come Platone ed Aristotele, anche filosofi minori si sforzano di rappresentare chiaramente le dottrine dei loro predecessori e di discuterle o per dimostrarne il valore o per saggiare nel confronto la propria dottrina: fra costoro sono da notare Cicerone, Seneca, Plutarco, Sesto Empirico, Porfirio, Proclo, Filone d'Alessandria. Con altri intenti i Dottori della chiesa discutono le dottrine dei pagani per combatterle, ma frattanto se le rappresentano e ne conservano tratti. Accanto a questi scrittori debbono ricordarsi i raccoglitori di notizie che si posero dal punto di vista biografico, come Senofonte nei Memorabili, e poi Teofrasto, Dicearco, Eratostene e tanti le cui opere andarono in gran parte perdute e ci son note per le citazioni di Diogene Laerzio, cui siamo debitori di dieci libri sulla vita e la dottrina dei più celebri filosofi. Questo genere di storia della filosofia, consistente nel raccogliere opinioni e nel riunire aneddoti e leggende, più o meno significativi, a notizie storiche della vita, rappresenta per tutta l'antichità e quasi fino al secolo scorso l'unica forma autonoma di storia della filosofia. Nel secolo scorso invece i due modi di fare la storia della filosofia, fondendosi, dànno luogo a una scienza autonoma, alla quale si deve l'esame critico delle fonti, la raccolta e la pubblicazione di esse l'esame critico di tutte le notizie tramandateci intorno ai filosofi, l'ordinamento di esse notizie in modo tale da giovare a chiarire il pensiero filosofico stesso, attraverso il legame delle scuole e la valutazione delle esperienze di vita dei filosofi, facendo tutto convergere a una ricostruzione del corso del pensiero filosofico considerato nella sua unità. Questo punto di vista dovuto in gran parte a Hegel, ebbe altri iniziatori nel Tennemann, nello Schleiermacher e nel Ritter. Esso diede luogo alle storie della filosofia dello Zeller (per il pensiero greco), dell'Erdmann e del Fischer (per il pensiero moderno), del Cousin (in Francia), del Lewis (in Inghilterra), dello Spaventa (in Italia).
Questo indirizzo accanto ai suoi grandi meriti ebbe nei minori il difetto di distaccare la storia della filosofia, come una disciplina a sé, dal filosofare stesso, quindi diede luogo a trattazioni erudite con pretese critiche di scarso interesse costruttivo, onde negli ultimi tempi si è manifestata una reazione, che dimostrando l'identità della filosofia con la sua storia, tende a riassorbire questa disciplina nella critica che ogni filosofia deve compiere del pensiero filosofico per inserirsi in esso.
Finché non si è formato il concetto che la storia della filosofia è essenziale alla vita della filosofia stessa rimane il problema se la filosofia oggettivamente abbia una storia, se cioè il pensiero filosofico abbia una formazione sua propria i cui momenti conservino il valore di gradi costruttivi della totalità dell'organismo. Finché non si sia conquistato questo concetto, le singole filosofie, oggetto dell'indagine storica, appaiono come opinioni disparate e la filosofia non ha oggettivamente una storia. Conquistato invece il concetto che lo spirito è autoformazione e che la filosofia è lo sforzo per un'espressione unitaria dello sviluppo dello spirito attraverso le singole individualità, si riconosce che la filosofia ha una storia oggettiva, è cioè un'attività che si sviluppa da sé. È lo svolgimento di questo concetto della storia oggettiva della filosofia che produce gli atteggiamenti che sopra abbiamo indicato come caratteristici della storia soggettiva della filosofia.
A mano a mano che la storia della filosofia acquista un carattere tecnico sorgono per essa quelli che sono i problemi speciali d'ogni costruzione storica: problemi di metodo, problemi tecnici delle fonti e degli strumenti in genere. La prima questione da fare è se possa sussistere una storia della filosofia che non sia giudizio. Dal concetto stesso d'una storicità oggettiva della filosofia risulta che l'inclusione o meno di un sistema nello sviluppo di essa implica il giudizio se esso sia o non sia un elemento costitutivo della filosofia vivente. I limiti quindi di una storia siffatta fanno parte del giudizio storico. La tendenza erudita vuole slargarli più che è possibile includendovi l'Oriente e l'Estremo Oriente che ebbero anch'essi delle forme di speculazione simili a quella che in Occidente si chiama filosofia, ma non in rapporto con essa.
Ma a ben guardare si perde così quell'unica base che può servire a costruire scientificamente la nostra storia, ch'è il filo unico dello svolgersi del pensiero che pone come suoi problemi le soluzioni date dai pensatori ch'esso prende a esaminare. Guidati da questo filo, noi riconosciamo in tutto il corso della filosofia europea il formarsi del vivente pensiero nostro, che, fondato su una sempre più determinantesi concezione del reale, si manifesta in tutte le forme della civiltà: arte, religione, morale, politica. Di questo vivente pensiero si può fare la storia come d'un'unica grande personalità, alla cui vita partecipiamo noi stessi Per ricostruire questa vita occorre a noi non soltanto disporre di fonti sicure, ma rivivere queste fonti come documentì della nostra formazione spirituale, tale essendo la nostra situazione di fronte ad esse che, da una parte noi troviamo in noi, uomini del nostro tempo e partecipì d'una civiltà politica, artistica, religiosa, economica che da esse ha tratto vitale nutrimento, già anticipato il loro senso e il loro valore, dall'altro attraverso lo studio di esse intendiamo e rivalutiamo forme spirituali che abbiamo fino ad allora vissuto come semplici portatori. Da ciò nasce che le fonti sono sempre interpretate, non solo, come si dice, filologicamente, ma criticamente, cioè la loro valutazione è un'opera filosofica.
Nella ricostruzione e valutazione delle fonti si manifesta però più chiaramente il carattere comune e superindividuale di questo lavoro, poiché servono da fonti già tutte le storie precedentemente tentate e così esse stesse influiscono nella costruzione delle storie future e ogni testo poi ha una sua propria tradizione d'intendimento, di lettura e di trasmissione; di modo che ci arriva già carico del lavoro di varie personalità che con noi collaborano a quest'ultimo intendimento. C'è dunque una questione generale delle fonti: cioè come debbono adoperarsi, e accanto tutte le questioni particolari che si fanno attorno a ciascuna fonte, la cui valutazione è in fondo già un giudizio storico che si esercita, e riguardo al pensiero dello storico e riguardo al suo contenuto. Naturalmente quanto più antiche sono le fonti e quanto maggiore è stato il logorio e il lavoro esercitatosi sopra di esse, tanto maggiore è il posto da fare a quella critica filologica che si esercita entro certi limiti nella semplice ricostruzione materiale della fonte. Ma bisogna tener presente che il valore dei suoi risultati non può veramente essere riconosciuto se non quando coincide con quello della critica filosofica che trova il nesso e il valore storico di quel risultato nel corso totale del pensiero.
Per gli autori moderni il problema delle fonti si riduce ad una analisi delle edizioni per lo più curate dagli stessi autori o da immediati discepoli i quali per alcuni, come per Hegel, aggiunsero anche quanto poterono raccogliere dei chiarimenti orali dati al proprio pensiero dai maestri. Pure non di rado, come per esempio per Spinoza, attraverso le ristampe, le stesse edizioni curate dagli autori si sono corrotte.
Più grave è il problema delle fonti per la storia del Rinascimento e più ancora per la storia medievale, poiché parte del materiale giace tuttavia inedito nelle biblioteche e quello che è stato pubblicato ai nostri tempi dal Duhem e da altri studiosi specialisti ha mostrato quali tesori ci siano ancora da esplorare. Parte poi delle fonti è ancora edita in edizioni antiche e malagevoli e il materiale per ricostruire l'influsso della filosofia araba e giudaica sulla filosofia medievale è stato poco curato dai nostri ricercatori. Maggiori cure sono state rivolte al pensiero greco-romano per lo sviluppo notevole che l'umanesimo e la cultura che ne uscì diedero alla filologia classica. Salvo che per Platone ed Aristotele, di cui possediamo certo la maggior parte delle opere, e per Cicerone, Seneca, Plutarco, i neoplatonici e i Padri della chiesa, noi abbiamo della cultura antica solo frammenti e testimonianze, raccolti dal Diels in due opere fondamentali, i Vorsokratiker e i Doxographi graeci.
Accanto alla raccolta e allo studio delle fonti, bisogna porre la sistematica raccolta della letteratura propria della storia della filosofia. In questa raccolta ha reso e rende grandi servigi la cultura tedesca con opere collettive, quale può considerarsi l'opera dello Ueberweg, Grundriss der Geschichte der Philosophie, che, curata successivamente da varî autori, si va sempre ristampando con un'appendice bibliografica ch'è fra le più compiute.
La filosofia greca. - Il pensiero filosofico si fa cominciare fin dai tempi di Aristotele con Talete (sec. VI). Ciò perché con Talete s'inizia quella serie di ricerche scientifiche che, a differenza di quelle compiute da altri popoli (come l'egiziano), non sono rivolte al possesso di nozioni utili per la pratica, ma a un sapere orientativo per lo spirito. Agl'inizî della speculazione greca si hanno due opposte tendenze: l'una ricerca il principio del reale nella materia (in ciò di cui le cose son fatte), l'altra nella forma (in ciò che fa le cose diverse). La prima tendenza è rappresentata specialmente dalla scuola ionica. Occupa coi suoi tre rappresentanti quasi tutto il sec. VI a. C. Per gli Ionî cercare il fondamento del reale significa cercare la materia da cui è formata tutta la realtà. Per Talete è l'acqua, per Anassimandro l'ἄπειρον, per Anassimene l'aria. Chi si fermi a una considerazione superficiale di questa filosofia può scambiarla per materialismo; ma in realtà non esiste ancora la possibilità di contrapporre materia e spirito. La materia degli Ioni è animata, ha un'attività propria di ordine psichico. Come risulta dal De anima d'Aristotele ciascuna di queste filosofie ha identificato il principio animatore degli esseri viventi e il principio di cui tutta la realtà consta. Qui non si ricerca, e questo è caratteristico di tutto l'indirizzo, il perché dell'individualità, ma l'identico e il costante che viene considerato come "ciò di cui le cose constano". In che modo da quest'elemento sorgessero i molteplici esseri non fu cercato: infatti non importava giustificare il molteplice che si constatava empiricamente, ma la sua unità, la ragione per la quale il molteplice costituiva un sistema. Il fatto che dopo Talete quest'uno si sia considerato come l'ἄπειρον "infinito", mostra come si sia subito determinata la sfiducia nella possibilità di determinare la natura di questo principio. Nell'ἄπειρον di Anassimandro (610-547 circa) non si deve vedere se non l'assenza di ogni determinazione qualitativa. È erroneo anticipare in esso il concetto della potenzialità aristotelica; non è già la presenza comune dei contrarî che si deve cercare in esso, ma l'indifferenza infinitamente differenziabile. È perciò che ad Anassimandro si deve attribuire il merito d'aver mostrato la necessità di trovare un principio capace di differenziare questa indifferenza. Il ritorno a una concezione qualitativamente determinata con l'aria di Anassimene (585-528 circa) non avviene se non insieme alla ricerca d'un principio determinante la rarefazione e condensazione che spieghi il differenziarsi. Per poter concepire l'essere senza determinazioni qualitative occorreva una critica e non una semplice negazione della sensibilità, mentre tutta la cognizione in questo periodo è concepita come sensazione. Si crea una conoscenza mediata, ma si scambia per immediata. Ciò avverrà anche più tardi in Platone. quando si parla di visione delle idee. Ma già negli eleati e negli atomisti s'inizia una mediazione della conoscenza.
L'altro punto di vista (il formale) è dapprima rappresentato dai pitagorici. Si sa che per Pitagora (570-497 circa) l'elemento della realtà è il numero, e più determinatamente l'essenza delle cose è un rapporto che esiste in ogni cosa reale e ne è il fondamento. È chiaro che il numero non è la materia di cui constano le cose ma piuttosto la forma caratterizzante il vario essere. Qui la varietà è riconosciuta e a unificarla non si pone la comunità della materia costituente, ma l'identica natura del principio determinante. Anche qui però oggetto della speculazione è l'essere, non il divenire. Questo comincia a formare oggetto di speculazione con Eraclito (fior. 500). I suoi rapporti con l'orfismo debbono intendersi nel senso che dall'orfismo Eraclito trasse una maggiore libertà rispetto alle concezioni mitologiche a cui era legato il pensiero comune: soprattutto ne trasse l'idea del trapasso del cielo nella terra e viceversa. Il suo πάξτα ρεῖ sposta il centro della speculazione dall'essere al divenire. Questo è rappresentato come l'unione dei contrarî (giorno e notte, pace e guerra, essere e non essere), come l'unità di ciò che si presenta con determinazioni opposte. Quando si dice che Eraclito, ponendo il fuoco come materia fondamentale non ha che variato il principio del reale ponendolo in un altro degli elementi, si disconosce il principio eracliteo. Il fuoco non è una materia come l'acqua o l'aria, ma è il momento della trasformazione della materia: intendere quindi il fuoco eracliteo significa intendere l'identità di fuoco e divenire. Questo divenire è dato nella più alta espressione dall'affermazione del passaggio dal divino all'umano, e dall'umano al divino. Questo senso religioso del filosofare allontana Eraclito dalla πολυμαϑία e dà alla sua filosofia un carattere d'iniziazione.
Gli stessi inizî religiosi ha la filosofia eleatica che il suo fondatore Senofane d'Elea (fior. 540 circa) rivolse alla critica del politeismo. Sono le prime derivazioni del monoteismo dal monofisismo. A questo movimento corrisponde un movimento generale della coscienza, che se non perviene all'unificazione, perviene almeno a costituire una gerarchia fra gli dei con a capo Zeus. Il suo discepolo Parmenide (fior. 500 circa) fondendo i due aspetti ne trasse il concetto dell'unità dell'essere. Il principio di tutta la realtà che era unico e determinato qualitativamente viene liberato dalle determinazioni qualitative e studiato in quei caratteri logici che deve avere per essere principio unico. Gli eleati possono essere considerati come gl'iniziatori dell'intellettualismo, cioè di quell'indirizzo che, basandosi sul concetto finito, disconosce il movimento del reale. L'analisi del concetto di essere conduce infatti gli eleati alla negazione del divenire e del movimento. Il carattere di dimostrazione a queste affermazioni fu dato da Zenone d'Elea (fior. 460 circa), che è il primo a porre l'argomentazione di natura dialettica al posto dell'intuizione. Queste argomentazioni consistono nella critica interiore del concetto stesso, ossia nel cercare se una cosa sia concepibile o no. Piuttosto che rendere concepibile il dato, l'eleata lo nega. Alla base di questo procedimento è posta l'identità dell'essere e del pensiero, ma non nel senso che il solo essere è l'essere del pensiero, ma nel senso che il solo pensiero è il pensiero dell'essere.
In questo momento cominciano le filosofie costruttive che vogliono avvalersi dell'insieme delle speculazioni precedenti. Empedocle (492-432) ne dà il primo esempio: ammette il divenire, riunisce i principî fino allora indicati: acqua, aria, fuoco, più la terra, e vi aggiunge il principio formale dell'amicizia e dell'odio. I principî sono secondo la sua terminologia radici, e in essi si ha da un lato la riunione dei principî precedenti, ma dall'altro la loro svalutazione, poiché essi divengono semplice materia su cui agisce il principio formale duplice e contraddittorio della sua forma.
Più costruttivo ancora è l'atomismo che finalmente parte, non da una semplice opposizione al dato sensibile, ma da una critica di esso mediante l'affermazione della soggettività delle sensazioni. S'incomincia a rendersi conto che ci sono cose esistenti per natura (ϕύσει) e cose che si costruiscono sopra la natura per convenzione (νόμῳ). È il primo barlume della spiritualità: ci si domanda se sono per natura o per convenzione le leggi (storici, sofisti), il linguaggio (eraclitei), la conoscenza (atomisti, sofisti). Il valore è però sempre posto nell'essere per natura, poiché sempre alla natura si guarda come all'essere reale. Tolto valore alle qualità sensibili con la dimostrazione della loro soggettività, restano a caratterizzare la realtà alcuni elementi astratti ai quali si mescolano però ancora elementi sensibili non riconosciuti come tali. Il divenire non viene negato ma considerato come risultato del rapporto di termini immutabili. Questo rapporto non è numerico (pitagorico) ma fisico. Questi termini sono enti, ognuno dei quali è assolutamente uno (Eleati), ma uno dei molti. A rendere possibili questi molti si pone il vuoto: l'essere è quindi un essere fisico (il pieno). Quest'essere fisico è determinato solo dalla sua forma e si chiama atomo, perché in sé non contiene alcun vuoto, ed è quindi immutabile, omogeneo, non nato. Tutti i mutamenti apparenti del reale si debbono spiegare col mutamento di luogo. Dalla differenza di forma degli atomi nascono però differenze di rapporti, quindi si ha una differenza anche per il mutamento d'ordine degli atomi. Tutto avviene per pressione e urto. A giustificare il valore dell'urto e della pressione gli atomi conservano delle qualità sensibili: la gravità, la densità e la durezza. Il numero degli atomi è infinito, infinito lo spazio in cui si muovono e infinito il tempo di questo urtarsi, riunirsi e scindersi degli atomi. Tutto questo moto è necessario. La concezione atomistica fondata da Leucippo (fior. 420) e Democrito (460-360 circa) ebbe un grandissimo sviluppo e formò la base anche di varî sistemi successivi. Fra quante concezioni furono rinnovate dalla filosofia del Rinascimento fu la più fortunata ed ebbe un corso sboccante nell'atomismo scientifico del sec. XIX. La sua affermazione fondamentale d'una indifferenza qualitativa del reale non ebbe fortuna nel mondo greco che tornò subito all'affermazione della natura qualitativa del reale, e costruì la fisica qualitativa d'Aristotele che dominò fino al Rinascimento.
Il sistema d'Anassagora (500-428 circa) può essere considerato come un atomismo qualitativo: ciascuna particella contiene in sé tutti i caratteri che si manifesteranno nell'unione delle particelle. Si torna così ad affermare che tutto esiste già ϕύσει. Come l'atomismo è l'affermazione che con l'essere eleatico è impossibile spiegare la realtà, così la posizione delle omeomerie (come Aristotele chiamò gli σπέρματα anassagorei) è l'affermazione che i molti esseri indeterminati non spiegano neanche il reale, il quale finalmente viene spiegato come ciò che è sempre identico a sé stesso nonostante l'apparente mutamento. Bisogna trovare in questo interiore significato la ragione della fortuna d'Anassagora, apparentemente fondata sul fatto d'avere per il primo parlato della mente (νοῦς). Ma pare che Anassagora spiegasse fino ai limiti del possibile i fenomeni del reale con forze meccaniche. Il νοῦς funziona da concetto supplementare e si riduce esso stesso a una forza naturale: se però non si può attribuire a questa mente un valore di attività finalistica, bisogna riconoscergli certi caratteri differenziali: esso è privo di mescolanza, solo per sé, e perciò, differente da tutte le altre omeomerie che insieme mescolate formano un caos, si rende capace d'imprimere il movimento che distingue. L'opposizione a cui precedentemente si è accennato fra natura e convenzione ha il suo sbocco nella sofistica. Questa ha una propria storia di svalutamento e incomprensione, poi di rivalutazione e eomprensione (Hegel, Grote, Zeller). I sofisti più antichi sono Protagora e Gorgia, Ippia e Prodico: a essi compete veramente tal nome, gli altri o sono eristi come Eutidemo e Dionisodoro o retori come Polo, Antifonte, Licofrone, Protarco e l'incerto Callicle. Oratori tutti, i sofisti cominciarono a trattare i problemi più per gusto di provare in essi la loro abilità che per interesse intrinseco. In ogni modo si accorsero che il mondo della convenzione, quello che si domina con i discorsi, merita altrettanto interesse che il mondo della natura. Questa scoperta li ha fatti iniziatori d'una nuova corrente di pensiero. Intanto le tesi di Gorgia (483-375) che l'essere non è, che se ci fosse non si potrebbe conoscere e che se si conoscesse non si potrebbe comunicare, rappresentano una vigorosa eritica dell'eleatismo. Maggiore importanza ha poi Protagora (480-410 circa): il suo principio che l'uomo è misura di tutte le cose, è la prima affermazione pragmatica della verità. Perché esso sia vero occorre che le cose non siano più guardate in sé, ma nel loro rapporto col mondo umano e la conoscenza sia considerata in rapporto alla pratica. Il punto di vista protagoreo è quello d'un mondo che si comporta in un certo modo verso di noi e verso il quale noi dobbiamo comportarci in questo o quel modo. Lo stesso termine misura mostra che siamo in campo di valutazioni e non di rappresentazioni. Gli sviluppi che nel Teeteto Platone fa della dottrina mostrando che così la cognizione si riduce a sensazione e che la sensazione di Protagora è una convenzione, un incontro di particelle attive (più rapide) e passive (meno rapide) dal quale nasce insieme la qualità sentita e la sensazione, se pure non rispondono alla dottrina storica di Protagora ci svelano il modo con cui Protagora influì sul pensiero di Platone stesso mostrandogli l'impossibilità di porre un oggetto fisico immutabile a base della conoscenza.
I sofisti ci sono da Platone presentati in contrasto con Socrate (469-399). I. e fonti per la conoscenza, indiretta sempre, del pensiero socratico sono tre: Senofonte, Platone e Aristotele. A quest'ultimo che ascoltò l'insegnamento di Platone dobbiamo la netta distinzione tra i due: egli infatti ci mostra Socrate scopritore del concetto e ci dà la differenza tra la dottrina metafisim ed etica di Socrate e di Platone: Socrate mostra la necessità di ricorrere alla definizione, ma Platone avendo visto che la definizione non poteva riguardare il vario sensibile, attribuisce le definizioni alle idee; per Socrate la virtù è scienza, Platone pone invece la virtù nel rapporto tra la parte razionale e irrazionale dell'anima. Il centro della speculazione socratica è l'idea di fine, egli inclina quindi a quella corrente che sopra la natura guarda all'attività umana. Gli basta perciò della natura asserire ch'essa è opera d'una mente, come è dimostrato dalla struttura degli organismi dove ogni parte è adatta alla sua funzione (Senofonte, Mem.). Poiché la natura è opera della mente, di ogni cosa c'è un concetto che esprime la funzione di quella cosa nel mondo. La scoperta di questo concetto è il fondamento dell'attività conoscitiva e dell'attività pratica. Infatti solo adoperando ogni cosa secondo il suo concetto, si può riuscire bene ed essere felici. Ma esiste questa conoscenza concettuale? Questa ricerca fu l'opera di Socrate, che Senofonte ci rappresenta come se Socrate cercasse e trovasse singoli concetti e Platone ci rappresenta invece sempre come incompiuta, poiché egli rimane insoddisfatto della soluzione socratica che non dà una base metafisica al valore oggettivo dei concetti e sembra riconoscerlo nel campo stesso dell'empiria. Il concetto socratico è una definizione il cui effetto è di distinguere nettamente un campo di conoscenza, escludendo dentro quel campo ogni contraddizione.
La morte di Socrate fu il grande esperimento della vita di Platone (427-347) ed esercitò un influsso decisivo sul suo orientamento. Educato dapprima da Cratilo eracliteo imparò a non disconoscere il carattere contraddittorio del divenire; avvicinatosi a Socrate, ne trasse il concetto e la fede nel valore oggettivo della conoscenza come fondamento dell'oggettività morale; partecipe di credenze orfiche, considerò la vita come una grande prova e riconobbe la necessità dell'immortalità dell'anima, sia per spiegare l'assolutezza della conoscenza, sia per sanare il dissidio fra virtù e felicità. Venuto per mezzo di Socrate a contatto con i sofisti, pur dispregiandone la figura morale, Platone sa valersi delle loro argomentazioni. Il sistema platonico non è lineare e architettonico e ogni tentativo di ricostruirlo così è vano. La forma della sua filosofia è il dialogo, non come ornamento letterario, ma come l'unica che corrisponde alla natura del suo pensiero, da un lato tendente al mito (alla costruzione positiva) e dall'altro alla critica (all'insoddisfazione del finito), così da assumere spesso carattere scettico. Questi dialoghi sono poi d'incerta cronologia: il tentativo di ordinamento che ne ha fatto il Wilamowitz (v. platone) è degno di grande attenzione, poiché dà una certa linea di sviluppo al pensiero platonico. Il cui valore educativo è grandissimo proprio per la finezza e l'acume con cui il filosofo critica le sue stesse teorie e fa valere ogni argomentazione dell'avversario anche al di là di quanto l'avversario stesso saprebbe fare. La dottrina di Platone che lo rappresenta meglio storicamente è la dottrina delle idee trascendenti (pur non mancando nel suo filosofare accenni di critica a questa trascendenza). Plattme accoglie dalla sofistica (Protagora) la critica della conoscenza sensibile e ponendola in rapporto con lo scorrere perpetuo del reale (eraclitismo) ne ricava che una conoscenza assoluta non può riguardare gli oggetti fisici. Lo stesso concetto d'oggetto fisico non è in fondo formulabile se la realtà che constatiamo è un perpetuo divenire. Frattanto nell'esperienza morale si constatano con Socrate concetti universali e questi non possono provenire dall'esperienza sensibile. Platone pone dapprima l'esigenza che ci sia un oggetto ideale eterno a cui corrisponda la conoscenza assoluta, e poi costruisce con elementi mitici il mondo ideale eterno, al quale corrisponde un principio soggettivo eterno: l'anima immortale. Così il soggetto comincia, sebbene nella semplice forma della rappresentazione, a manifestarsi esso stesso come una realtà assoluta. La sostituzione dell'oggetto ideale all'oggetto fisico è la grande scoperta di Platone. Dopo averla compiuta Platone si sforza di darne una compiuta analisi. In che consiste l'idealità dell'oggetto? Due elementi la caratterizzano: uno intellettuale: l'oggetto ideale ha una natura costante e determinata; l'altro morale: l'oggetto ideale è quale deve essere, è perfetto e quindi rappresenta un modello rispetto alla realtà transeunte. Da questa perfezione deriva che l'oggetto ideale è uno. Il nome unico col quale noi indichiamo la molteplicità è già un segno dell'idealizzazione degli oggetti sensibili. Ma questa idealizzazione, che è opera soggettiva, viene proiettata nell'oggetto sensibile come l'essenza propria di esso, sebbene solo o partecipata o manifestata o imitata. Nel caso in cui il rapporto tra le idee e le cose è concepito come partecipazione (metessi), le cose sono incontri d'idee (neve = idea del bianco + idea del freddo, ecc.), le modificazioni delle cose si hanno mediante la sostituzione d'una partecipazione a un'altra: il perpetuo divenire di questo mondo sensibile è la dissoluzione e composizione di queste forme ideali. Nel caso in cui invece è concepito come manifestazione, parusia, le idee sono presenti nelle cose in una specie di partecipazione per immagine. Nella mimesi le idee invece funzionano da modello delle cose: ne divengono quindi la causa finale. Le cose non realizzeranno mai in pieno il loro modello, ma il loro essere sarà sempre lo sforzo di realizzare le idee. Platone non considera però l'idea come immanente a questo reale, perché egli trapassa di fronte all'idea da questo atteggiamento filosofico a quello religioso: il dover essere che agisce nella costruzione del reale è per lui già reale e quindi non solo oggetto di amore (aspirazione verso l'eterno), ma oggetto di contemplazione intellettuale. Da questa concezione delle idee, come separate, sorgono per Platone stesso alcune difficoltà: v'è idea d'ogni specie di cose? sarà tutta l'idea in ciascuna delle molte cose pur rimanendo una? Alla prima domanda si può rispondere che esistono idee solo delle cose che hanno valore, delle altre sussiste solo l'apparenza. Ma donde nasce un'apparenza quando non sussiste l'idea da cui nasce? Alla seconda si risponde mediante analogie. Ma non è possibile concepire l'oggetto ideale con analogie ricavate dagli oggetti fisici: esso deve essere costruito con elementi proprî dell'idealità stessa. Negli ultimi suoi dialoghi Platone tenta questa costruzione. Le idee hanno vita, movimento, intelletto e perciò esse sono fra di loro associabili, comunicabili, secondo una propria legge che non è quella del mondo fisico. La scienza che studia i rapporti delle idee, questo loro essere uno e diverso è la dialettica: con la dialettica si dimostra l'impossibilità di concepire l'uno senza molteplicità e la molteplicità senza l'uno. La filosofia platonica viene a sboccate in questa concezione del mondo: da una parte sussiste il sistema eterno delle idee, dall'altra la materia che si riduce alle determinazioni spaziali. Il demiurgo costituisce il mondo a somiglianza delle idee, dando luogo a un processo di gradi decrescenti che avrà un ampio svolgimento storico. Elemento fondamentale di questo mondo è l'uomo in cui la funzione delle idee si manifesta chiaramente. L'uomo è essere corporeo (mortale) e anima immortale. Come anima immortale partecipa del dramma dell'universo. Egli nell'iperuranio contempla le idee e compie la scelta assoluta del tipo di vita che intende incarnare nel tempo. Entra così nel giro della realtà transeunte dove la sua opera è una prova che lo rende infine degno di tornare all'iperuranio a sedere al banchetto delle idee. Si comprende così come la concezione del reale acquisti un valore soprattutto etico e il Bene sia l'idea suprema.
Dallo sviluppo della filosofia platonica è sorta la più grande sistemazione del sapere dell'antichità: l'opera d'Aristotele (384-322). Il concetto fondamentale di questa sistemazione è l'idea di sostanza nella quale Aristotele sintetizza la tendenza a cercare il reale nella materia con la tendenza a cercare il reale nella forma. Partendo dal concetto delle categorie (che già perfeziona l'idea platonica distinguendola dal concetto rappresentativo) Aristotele trova il rapporto tra le categorie nel giudizio e la vera forma del giudizio nel sillogismo, ch'è la forma essenziale del sapere scientifico. Noi non possiamo unire la categoria (universale) e la rappresentazione (il particolare) se non attraverso il termine medio, il concetto. Questo è la vera rappresentazione della sostanza. Il mondo è un sillogismo reale nel quale il particolare e l'universale si unificano. Nella filosofia precedente la realtà apparteneva o al particolare (l'essere materiale) o all'universale (l'essere ideale). Nel sistema aristotelico né il particolare né l'universale in sé sono reali, ma lo è il particolare in quanto ha in sé l'universale, cioè la sua forma ideale determinante. L'indeterminato non può avere che un'esistenza potenziale. L'universale poi, avendo per ufficio di essenziare, di determinare l'esistenza, di definire la realtà, non può essere concepito se non nell'unione col particolare. Così dà frutto la critica del Parmenide: le idee che unificano il molteplice non possono essere concepite fuori di questa unificazione, se esistessero per conto proprio non sarebbero più idee, essenze. La filosofia cercando l'ente in quanto ente ricerca "i principî e le cause degli esseri, s'intende in quanto sono". L'ente e l'uno sono la stessa cosa e s'implicano l'un l'altro come principio e causa sebbene i loro concetti siano diversi. Il principio è l'assoluto, la causa il suo aspetto relativo. Il divenire non contraddice all'essere unitario platonico, anzi il divenire non è concepibile senza tale unità. Se ciò che è dopo fosse assolutamente altro da ciò che è prima non diremmo che la cosa è divenuta ma che il termine A è stato soppresso e al suo posto è subentrato il termine B. All'unità di essere e divenire non si oppone il principio di eontraddizione che viene da Aristotele determinato con più precisione. I contrarî si potranno affermare dello stesso soggetto sotto diversi riguardi. L'essere infatti si dice in due sensi, in uno di questi qualcosa può generarsi dal non-ente, ma nell'altro non può; ed è possibile che una stessa cosa si trovi a essere e a non essere insieme, ma non nello stesso rispetto: poiché i contrarî possono essere insieme in potenza ma non in atto. La soluzione dunque del problema del divenire è data da Aristotele creando il concetto dell'essere possibile. L'atto è la realtà manifesta, la potenza è la realtà non manifesta che insieme è e non è (unione di contrarî). Il divenire quindi non implica la sussistenza dei contrarî ma solo la loro possibilità. Il principio di contraddizione viene sviluppato con il chiarire che tra due opposti contraddittorî non sussiste un terzo termine: questo si disse principio del terzo escluso. Si forma così quel complesso logico che determina perfettamente i caratteri della realtà pensata: per il principio d'identità ogni essere è identico solo a sé stesso in quanto esclude da sé mediante il principio di contraddizione ciò che non è sé stesso. L'esclusione dei contrarî non sarebbe reciproca se per contrario non s'intendesse la totalità dei termini che sono differenti dal termine dato. Posto l'essere non come identico al divenire ma come fondamento di esso, la sostanza è la base di tutte le altre categorie, poiché tutte le categorie, a cui si può ridurre la realtà, in tanto sussistono in quanto si riferiscono alla sostanza, ma la sostanza sussiste per sé stessa ed è una, fondamentale e pura e perciò le specie e i generi, "l'uomo, il cielo, le parti del cielo, ecc." sono varî gradi di sostanza. La sostanza si può analizzare distinguendo la materia dalla forma, ma non si deve ritenere che venga costituita dall'unione di questa a quella, essa è anteriore logicamente e realmente alla materia e alla forma. La materia (ὕλη) è ciò di cui la cosa può esser fatta. Per ogni mutamento deve sussistere necessariamente una materia soggetta a questo mutamento, un substrato che sia determinato mediante la forma. Mentre per la forma i contrarî si escludono, per la materia, che è ciò che non è per nulla atto, l'indefinito, non possono distinguersi contrarî. Le quattro cause dell'essere sono: materia, forma, causa efficiente e causa finale. Genesi, dice Aristotele, si dice in due sensi: in uno si parla del divenire delle sostanze (non della sostanza), che è quello che propriamente si dice generazione, nell'altro del divenire delle categorie che è sempre possibile in quanto esiste un substrato di ciò che diviene e l'opposto da cui tutto ciò che diviene si genera. Con questa determinazione che il divenire proviene dal substrato e dall'opposto, si viene a eliminare la difficoltà in cui restarono impigliati i presocratici che credevano si dovesse farlo derivare o dall'essere o dal non essere: ora l'essere è ciò che è, e quindi non diviene, il non essere è impossibile che generi, in quanto dal nulla nulla può venire. Come è necessario che ci sia vero e falso, così per ogni determinazione è necessario che sia concepita la privazione di quella determinazione. Mediante il divenire si va dalla privazione all'essere. La distinzione dell'essere in materia e forma agli effetti del divenire si manifesta come la distinzione dell'essere in potenza e in atto. L'essere in potenza si dice in due sensi, come indeterminazione e come determinazione non esplicantesi: in questo senso l'occhio perfettamente costituito ma che non è colpito dalla luce è in potenza, colpito dalla luce passa all'atto. Quando Aristotele vuole indicare l'atto dell'essere già determinato, ma che può ricevere ulteriori determinazioni, usa il termine ἐντελέχεια ἡ πρώτη (p. es. per l'anima in genere, che riceve poi le determinazioni ulteriori di vegetativa, sensitiva, intellettiva). I termini potenza e atto hanno da una parte il valore assoluto di determinazione e indeterminazione, ma dall'altro un valore relativo per cui un essere in atto è in potenza rispetto a ulteriori determinazioni. Ma questo processo non è infinito: esiste in ultimo un atto che è assolutamente privo di potenza (cioè d'indeterminazione) ed è l'atto puro. Questo punto d'arrivo di tutto lo svolgimento del reale è il primo reale e perciò la causa finale di tutto. Esso è il motore che non si muove, il pensiero del pensiero, la forma delle forme, l'autocoscienza intesa in senso obiettivo e intellettualistico. Con questi elementi Aristotele spiega la totalità dell'universo e nella totalità le singole cose. Bisogna dunque partire dal centro, la νόησις νοήσεως. Questo è il risultato del movimento socratico-platonico. Se la potenza negli esseri particolari può essere concepita come anteriore all'atto, la potenza in genere non può essere il principio della realtà, non avendo in sé il suo principio. Quindi atto deve essere il punto di partenza di tutta la realtà, il centro della concezione dell'universo. Ma atto avrebbe potuto essere come semplice ἐνέργεια, se non che Aristotele ha bisogno di concepirlo come non soggetto a mutamento e allora quest'atto non deve riuscire a qualcosa di diverso da sé medesimo ora il solo atto che non produce altro da sé medesimo pare ad Aristotele il pensiero che "pensa sé stesso in quanto partecipa del pensato; perché esso diviene intelligibile a sé stesso nell'atto di toccare e intendere il suo oggetto; onde pensiero e pensato sono la stessa cosa" (Metafisica, XII, 1072 b). È questa dunque l'unica azione che non si rivolge ad altro da sé e perciò è perfetta: infatti non possiamo andare al di là dell'atto del pensiero che pensa sé stesso. "Se Dio sempre pensa così, come noi qualche volta, Egli è degno d'ammirazione". Così Dio viene presentato come una persona. "Ma se Egli è in una posizione superiore è anche più degno d'ammirazione. Orbene Egli è così. Ed è anche vivente; poiché l'atto d'intendere è vita, ed Egli è quell'atto: quell'atto che, essendo per sé stesso, è in Lui vita ottima ed eterna. Noi affermiamo che Dio è essere vivente eterno perfetto, sì che a lui appartiene una vita continua e un'esistenza eterna. Perché questo è Dio". Di questo pensiero in atto noi siamo partecipi solo qualche volta. Infatti Aristotele nel De anima avendo distinto l'intelletto in intelletto potenziale e intelletto attivo, pone che l'intelletto potenziale può passare in atto solo per opera dell'intelletto attivo, ma quando sia passato in atto allora egli pensa sé stesso e ha la capacità di passare all'atto da sé. È così che noi, attraverso la nostra esperienza intellettuale, possiamo formarci un'idea di Dio. Come la mente è il principio motore del nostro essere, così la νόησις νοήσεως è il principio motore dell'universo, in quanto agisca sull'universo non come una volontà, ma come la causa finale. Del pari le idee platoniche, mediante l'amore, muoiono l'anima. Non c'è la possibilità di concepire una volontà in Dio perché la volontà è sempre legata alla tendenza, quindi alla privazione, laddove Dio è perfetto. Per intendere quindi il movimento che Dio imprime all'universo bisogna riferirsi al concetto della στέρησις in quanto questa, sebbene privazione dell'essere, venga concepita come tendenza, quindi positivamente. La materia insomma per Aristotele esige una forma, è già una certa forma determinantesi, in quanto desiderio di una forma. Le sostanze si trasformano seguendo un determinato processo. Il divenire aristotelico non è divenire meccanico perché la successione delle forme è determinata dal valore delle forme stesse. Il sistema del mondo concepito da Aristotele è il sistema geocentrico che, più della concezione eliocentrica già nota, risponde alla sua concezione metafisica. Per Aristotele l'origine del reale è posta in una fonte (il motore immobile) che sta al di là dell'universo fisico e che non può dunque imprimere il movimento all'universo fisico se non dalla periferia. Presso Dio sta il ciclo delle stelle fisse la cui sfera abbraccia tutto il tempo e tutto lo spazio e che riceve dal Motore immoto un movimento circolare. Le stelle fisse sono costituite di una quinta essenza: l'etere in nulla pari alla materia del mondo in cui viviamo, che è un mondo soggetto a patire, e perciò non è né terra, né acqua, né aria, né fuoco. Dentro la sfera delle stelle fisse sta la regione dei pianeti che comprende anche il sole e la luna e che da quella riceve il movimento. Nel centro di questa regione sta la terra, il luogo del mutamento continuo della successione, del nascere, del crescere, del perire. La natura è tutta questa realtà chiusa nel tempo e nello spazio. Il vuoto non esiste. Lo spazio si estende ovunque quanto le cose. Lo spazio è rapporto di spazî. Il tempo è misura e numero di movimenti, cioè non è indipendente dagli avvenimenti che lo riempiono. Spazio e tempo sono divisibili in potenza all'infinito, ma in atto la loro divisione è espressa da un numero finito. Così Aristotele elimina tutte le difficoltà degli Eleati intorno al movimento che si fondavano sulla divisibilità all'infinito dello spazio e del tempo, considerata come attuale. Di tutti i pianeti quello che esercita maggiore influsso sulla terra è il sole, perché col suo movimento determina l'avvicendarsi del caldo e del freddo e quindi delle generazioni e correzioni degli esseri. Sulla terra quello che c'è di più vicino alla perfezione del ciclo delle stelle fisse è il movimento circolare. Il circolo del divenire col passaggio dall'atto alla potenza e dalla potenza all'atto, dal seme alla pianta e dalla pianta al seme, ne è un esempio. La totalità del mondo e anche la totalità delle specie esistenti sono eterne attraverso questa circolarità. Il fine di tutto il processo delle generazioni è il principio di esso. Si passa così dal processo discendente al processo ascendente, dalla natura a Dio. La natura non fa niente senza scopo: essa tende sempre all'ottimo e fa sempre ciò che è più bello, e questo scopo in ultimo è il pensiero in atto. Nelle singole specie per la circolarità non c'è sviluppo ma nell'insieme sì. Il punto di partenza è la semplice materia che possiede il movimento nel luogo, la forma più elementare di movimento, così com'esso è l'ultimo gradino della scala discendente. Il movimento è di quattro specie: il cambiamento di luogo (ϕορά), il cambiamento qualitativo (ἀλλοίωσις), il cambiamento quantitativo (αὔξησις o ϕδίσις "accrescimento" o "diminuzione"), e quello onde una sostanza si crea o si distrugge (γένεσις o ϕδορά "generazione" o "distruzione"). Quest'ultimo è tuttavia movimento solo in senso più lato che i primi tre. Il moto locale dipende dal moto del sole, le vicende della temperatura producono un afflUuire e defluire della materia, simile alle onde, e quindi il trapasso degli elementi, l'insieme dei fenomeni fisici. Questi sussistono col fine di permettere le variazioni qualitative delle cose (fenomeni chimici). La variazione qualitativa è il passaggio da un contrario all'altro e ha per fine il nascere della vita. Questa per Aristotele si estende dalla pianta al pensiero: poiché già la funzione del nutrirsi e riprodursi implica una vita, l'attività d'una forma propria. La forma della pianta non è semplice disposizione di parti, non è forma materiale, ma l'attività mediante la quale le piante si costruiscono. Il fenomeno del nutrimento connesso a quello della dispersione propria d'ogni essere naturale è la resistenza della forma contrapposta alla resistenza della natura. La riproduzione è la resistenza della specie opposta alla dispersione degl'individui. La vita dell'animale è senso e come tale si pone al disopra della vita vegetativa: il senso fa partecipare l'individuo d'una sfera più ampia di realtà. Al disopra dell'animalità è il pensiero di cui solo l'uomo partecipa e che permette di collegare la natura a Dio. La funzione dell'uomo nel reale è perciò la più importante: egli è l'essere destinato a raggiungere la pienezza dell'atto; in lui la natura gode. L'aspirazione alla felicità di tutta l'etica greca raggiunge in Aristotele una pienezza che le fa trascendere l'eudemonismo. Ogni sensazione ha un tono (piacere o dolore) dipendente dalla proporzione fra il termine della sensazione e il sensorio. L'oggetto proporzionato produce la pienezza dell'atto del sensorio e quindi il piacere. A piacere e dolore corrisponde la tendenza a cercare o sfuggire. Ma questa tendenza comune all'animale e all'uomo riceve nell'uomo un'infomiazione sua propria e diviene la ϕρόνησις, cioè l'appetito determinato dall'intelletto. Piacere e dolore sono l'immediatezza del bene e del male. La mediazione avviene per opera dell'intelletto che riconosce il vero piacere nella perfetta attività del soggetto, conforme alla sua essenza. Se il soggetto prova piacere per ogni azione, questo piacere sarà maggiore per l'attività delle potenze superiori: finché si giunge alla beatitudine di Dio che è perfetto atto e quindi assoluta felicità. La perfezione, e quindi la felicità dell'uomo, non può essere concepita come la pienezza dell'essere sensibile perché l'essere umano è soprattutto ragione, e lo stesso senso nell'uomo è il senso dell'essere ragionevole. La felicità perciò è il coronamento della virtù perché è l'attuazione compiuta di quella ἕξις (abito) ch'è l'intelletto in atto (che pensa sé e passa da sé all'atto). La virtù stessa quindi è abito. Compire una buona azione non è virtù perché non è perfezione continua. Ogni virtù per Aristotele è medietà fra due estremi opposti: la liberalità, p. es., tra l'avarizia e la prodigalità. La virtù maggiore è la giustizia in quanto rappresenta l'universale di questa medietà: l'attribuzione a ciascuno di ciò che a lui spetta secondo il merito suo. La trasformazione del concetto del rapporto tra universale e particolare da Platone ad Aristotele produce le differenze tra la Politica e la Poetica dell'uno e dell'altro. Il fine dello stato platonico è lo stato stesso; il fine dello stato aristotelico è la felicità dei cittadini. L'arte è da Platone svalutata come imitazione d'una imitazione, da Aristotele esaltata come la purificazione mediante cui il reale ci si manifesta nella sua idealità. Il sistema d'Aristotele rappresenta la maggiore e più chiara sistemazione di tutta la speculazione greca e si presentò ai successori come il fondamento d'ogni ulteriore ricerca.
Dopo Aristotele comincia il lavoro delle scuole, cioè un lavoro collettivo di perfezionamento dei particolari, d'interpretazione dell'insieme appartenente piuttosto alla cultura dei popoli che alla speculazione attiva. Accademici, seguaci di Platone, e peripatetici, seguaci d'Aristotele, si dividono il campo. Ma tosto contro di essi si accampano le due scuole degli stoici e degli epicurei alle quali si attribuisce l'aver limitato la filosofia al solo problema etico: in verità si dovrebbe dire che già col movimento socratico-platonico il pensiero si è indirizzato a considerare come centrale il problema etico. Ma il predominare della polis sull'individuo dava a questa ricerca un carattere più generale che si perde quando il problema morale comincia a presentarsi come il problema della felicità individuale e risorge solo col trasformarsi del problema in quello della destinazione dell'uomo. La filosofia platonico-aristotelica serve in questo periodo da sfondo. Non che manchino figure originali come Zenone fondatore dello stoicismo, Cleante, Crisippo, Posidonio, Epicuro, fondatore dell'epicureismo, Pirrone lo scettico e altri, ma tutti subiscono l'influsso d'una tradizione ormai ben salda, organizzata in scuole combattive. La scuola platonica, nell'Accademia intorno al primo scolarca, Speusippo, nipote di Platone, si riunisce per il culto delle Muse che implica non solo la ricerca filosofica ma ogni genere di occupazione scientifica. Così i primi compagni di Speusippo non diedero frutti filosofici, ma a poco a poco s'indirizzarono a ricerche particolari. Con Senocrate, secondo scolarca; s'inclina verso speculazioni religiose, si attenua il carattere critico, si sviluppa l'elemento pessimistico con l'affermazione che l'anima del mondo è cattiva (Filippo d'Opunte). Eraclide Pontico accetta dai pitagorici il sistema eliocentrico. Arcesilao chiude il primo periodo dell'Accademia detto l'antico. La scuola peripatetica sorta con Teofrasto si sviluppò con grandi mezzi di studio. La scuola aristotelica si mantenne nell'ambito del pensiero del maestro più della platonica. Teofrasto ed Eudemo aggiunsero alle forme logiche trattate da Aristotele il sillogismo ipotetico che dà alla scienza più evidentemente il carattere di ricerca. A Teofrasto non sfuggì la difficoltà d'intendere il rapporto tra Motore immoto e mondo nel sistema del maestro. Eudemo accentuò l'elemento teologico. Dicearco, che raccolse le varie costituzioni a cominciare da quella d'Atene, studiata già da Aristotele, promosse un indirizzo etico. Contemporanei di Senocrate e Teofrasto furono Zenone (la cui vita si pone tra il 334 e il 262), Epicuro (341 a 271-70), Pirrone (360 c.-270 c.), cosicché contemporaneamente allo svolgersi delle scuole accademica e peripatetica si vengono formando la scuola stoica, epicurea e scettica. Quest'ultima ha meno il carattere d'istituzione. Le altre svolgono anche un'attività di carattere sociale nella quale trova il suo scopo il cittadino ormai distaccatosi dalla vita della polis. Né bisogna dimenticare la preesistenza di alcuni indirizzi che s'erano formati sotto l'influsso di Socrate e continuavano in forma di scuola: i cirenaici (da Aristippo di Cirene), che guardarono all'eudemonismo socratico; i megarici (da Euclide di Megara), che sottilizzarono nelle ricerche logiche fino a dar alimento agli scettici; i cinici (da Antistene d'Atene che raccolse i suoi seguaci nel Cinosarge), i quali, sviluppando il carattere ascetico della vita esemplare di Socrate, pervennero a una rivolta contro la civiltà, assegnandosi una missione di purificazione e liberazione. Questa scuola abbandona a un certo punto la ricerca speculativa per farsi semplice pratica di vita. Il problema comune da cui partono epicurei e stoici è quello della felicità individuale. Questa dipende da un rapporto tra desiderî e beni atti a soddisfare i desiderî. Ora l'esperienza più comune ha già dimostrato che una proporzione tra i due elementi della felicità non esiste. Ma uno di essi, i beni, dipende limitatamente da noi o non ne dipende affatto. Resta dunque da modificare l'altro elemento, il desiderio. Alla modificazione di questo sono rivolte l'una e l'altra scuola. Epicuro (341-270) di tutti i beni sociali non salva che l'amicizia: scomparso il valore della tradizionale religione, ormai superstizione, scomparso il valore della città, della patria con le sue leggi. Nell'intuizione della natura torna all'atomismo, ma liberandolo con l'ipotesi del clinamen (ossia d'una deviazione arbitraria degli atomi) dalla dura necessità di Democrito. Del resto tale dottrina non è considerata che per la sua capacità di rappresentare i fenomeni senza alterarli, tale essendo il compito della scienza. Se ad essa si dà la preferenza sulle spiegazioni finalistiche socratico-aristoteliche è perché così si può più facilmente liberar l'animo dal timore della divinità e rivolgerlo a quello che è il suo compito: la serenità onde l'animo si rende indipendente dalle circostanze esterne, e si libera dal dolore. Ridurre e vincere i desideri è l'opera del saggio. Lo stoicismo, fondato da Zenone di Cizio (334-262) e continuato da Cleante (304-233), fu portato al massimo splendore da Crisippo (281-208). Continuò fino al periodo imperiale romano con Seneca (3-65 d. C.), Epitteto (morto nel 125) e Marco Aurelio (121-180). La filosofia dello stoico è sempre una maniera di vita e più profondamente che nell'epicureismo; ciò riesce anche a dare un carattere originale alla teoria della conoscenza. Infatti per la prima volta viene inteso il posto che la volontà ha nella formazione della conoscenza e lo stoico distingue fra la rappresentazione (pensiero astratto, diremmo noi) e l'assenso (pensiero concreto) per il quale l'anima aderisce alla rappresentazione e la fa sua come principio di vita. Nella stessa conoscenza viene dunque riconosciuta un'attività volontaria. I gradi della conoscenza sono distinti per un possesso sempre più pieno del soggetto di quella prima rappresentazione che è opera dell'oggetto. In fisica gli stoici, mentre affermano che nulla esiste che non sia materiale, negano il carattere fondamentale della materia fisica, l'impenetrabilità. La materia resta perciò per loro semplicemente quella passività che si contrappone all'attività che è la ragione, o Dio, immanente a tutto il reale. Il fatalismo greco che già si era affermato nel ritorno platonico, nel ciclo aristotelico, torna con maggior potenza nell'idea d'un ciclo universale nel quale tutti gli eventi saranno riprodotti senza differenza. In tale senso di nullità dell'individuale, non parrebbe esserci posto per una visione morale; pure gli stoici si sforzarono di darla, sottraendo così a questo fato una sola cosa: l'atteggiamento interiore della coscienza di fronte a un reale fattole estraneo. La virtù per lo stoico non è più infatti un abito come per Aristotele, ma una disposizione interna dell'animo, costante e conforme a sé stesso in tutti i momenti della vita, che c'è o non c'è senza mezzi termini, che deve essere cercata per sé stessa, non per speranza o timore d'altro, e basta a sé stessa essendo essa stessa la felicità. L'uomo stoico è socievole perché proviene da una comune ragione, ha in sé una comune divinità, una legge comune, un diritto naturale che distingue il giusto e l'ingiusto. Vengono dunque respinte le teorie convenzionaliste. Il bene comune è da anteporre al bene privato: e poiché il concetto dell'uomo si è ormai sciolto da quello del cittadino, dalla legge di natura si deduce una fratellanza universale.
L'accademia platonica ai tempi di Arcesilao e Carneade (fra il sec. III e il II) volse a quella forma di scetticismo che, inaugurato già da Pirrone (sec. IV-III), fu poi continuato dai pirroniani fino al sec. III d. C. Di quest'indirizzo ci tramandò larghe notizie Sesto Empirico. L'attività di Carneade (214-129) si esercitò principalmente contro lo stoicismo di Crisippo, ed è suo merito avere con l'eloquenza suscitato l'interesse romano per la filosofia greca. Lo stoicismo a Roma con Seneca (3-65 d. C.) assume nuovi caratteri sviluppando un senso quasi religioso della vita: il distacco dal mondo, la meditazione sopra la morte, la solidarietà umana, il riconoscimento della dignità umana, l'indulgenza del savio, la presenza di Dio nell'uomo. Caratteri che permangono e si sviluppano in Epitteto e Marco Aurelio (121-180 d. C.). La speculazione platonica in Alessandria si volge a ricercare pretese infiltrazioni mosaiche nel pensiero greco e tende a fondere i risultati del pensiero greco col mosaico attraverso l'interpretazione allegorica dei testi sacri. Filone (30 a. C.-50 d. C. circa) definisce il Dio ebraico con categorie platonico-aristoteliche. Identifica Dio e l'essere, gli attribuisce l'impassibilità e lo sottrae a ogni mutazione avendo Egli la pienezza dell'essere. Ma questo Dio è triplice: Essere, Bontà, Potere; accanto a Lui è il Verbo. La creazione è fatta sul modello delle idee (v. timeo), ma le idee sono create da Dio e stanno nel Verbo, che è l'ombra di Dio mediante cui Dio creò il mondo fatto a immagine di quest'ombra e cioè dell'ombra. La contemplazione del mondo è una scala per arrivare a Dio: dal sensibile all'intelligibile, dagli effetti alla causa. Ma solo Dio ci fa comprendere Dio; la sua grazia arriva a noi indipendentemente dai nostri meriti. In Alessandria rinasce anche il pitagorismo e si fonde con elementi platonici. Tutti questi indirizzi fusi con altri più antichi sboccano nel neoplatonismo ch'è la conclusione della filosofia antica. In Plotino (204-270) i cenni nel sistema platonico d'una discesa da Dio al mondo e d'una ascensione dal mondo a Dio, la più chiara costruzione aristotelica d'una scala discendente da Dio attraverso le stelle fisse al mondo sublunare e ascendente dal mondo fisico al vegetale, all'animale, all'intelletto, all'intelletto in atto, pigliano la loro forma definitiva. I rapporti tra il mondo e Dio diventano il centro della speculazione. La concezione di Dio, che nella filosofia greca è stata cercata in funzione d'una concezione del mondo, diventa per sé stessa l'oggetto della speculazione. Il mondo si è andato dissolvendo nella realtà di Dio e l'emanatismo di Plotino non è che una grandiosa rappresentazione di Dio. La stessa concezione aristotelica della νόησις νοήσεως sembra insufficiente a rappresentare la divinità che è l'Uno, mentre ogni pensiero si scinde nella duplicità del pensare e del pensato. La natura di Dio non può essere concepita che attraverso la negazione d'ogni determinazione finita: in tal modo egli non è conoscibile, né di lui si può parlare. Da quest'Uno, principio fonte e potenza, emana l'universo, ossia s'irradia il reale come da una fonte luminosa i raggi. Quest'emanazione è assoluta posizione (ecco sparita la materia presupposta platonica) nascente non da necessità, ma da sovrabbondanza. La creazione è un atto emanante dall'essenza di Dio ma non dell'essenza di Dio. Così con analogie si tenta di spiegare che tutto è da Dio, ma non è Dio stesso. Dio ha tre sussistenze o ipostasi: l'Uno, dal quale procede l'intelletto e da questo l'anima universale. L'intelletto è da meno dell'uno perché ha bisogno dell'uno; così l'anima è da meno dell'intelletto. Ciascuna di queste ipostasi da un lato si congiunge e dall'altro si distacca dal suo principio. L'intelletto è luce che illumina sé stessa come il νοῦς νοήσεως aristotelico. L'intelletto abbraccia quindi tutti gl'intelligibili ed è identico a loro e perciò ogni intelligibile è diverso e identico. Dall'intelletto procede l'anima che ha duplice natura intellettiva e sensitiva: per lei è meglio vivere nell'intelligibile, ma la domina una necessità di partecipare del sensibile. Da questo procede il corpo; quindi lo spazio e la molteplicità, e il frazionarsi dell'essere in una molteplicità di esseri. E a mano a mano che ci allontaniamo dalla fonte, la luce si affievolisce e per contrasto genera da sé l'ombra e nasce il non-essere, la materia. L'ombra inframmezzata alla luce la stacca nelle individualità che trascorrendo in direzioni contrarie si compiacciono di questa loro indipendenza, "come figli cresciuti gran tempo lontani dai padri ignorano sé stessi e i padri" (V,1,1). E cadono, dimentichi della loro sorte divina. Da questa concezione del mondo nasce l'aspirazione al distacco dal mondo, dal corpo materiale ch'è vana apparenza. Risuona nuovamente l'invito alla morte del saggio. Gli elementi platonici rivivono in questa via ascendente: musica, amore, filosofia sono le tre vie dell'elevazione spirituale a Dio. La bellezza ripiglia la sua funzione cosmica, purificatrice. L'anima ricevendone l'efflusso si muove e si esalta e si fa piena di stimoli e in lei nasce l'amore. E dalla bellezza risale al creatore di essa, a Dio, e cerca l'unione con Dio. E quando Dio subitamente apparisce l'anima non se ne accorge poiché obliando tutto oblia anche sé stessa. È l'estasi.
La filosofia ch'è cominciata con la critica della realtà fisica, si chiude con l'annullamento dell'uomo in Dio, cercando non più nell'intelletto, ma attraverso l'intelletto in una forma di amore superiore la soluzione di tutti i problemi. I tempi sono mutati per il sorgere della religione nuova che vivifica in sé tutti gli sviluppi di tanti secoli di meditazione. Ma ciò non avviene senza che queste recenti forme mistiche uscite da germi platonici e influssi religiosi orientali e lo spirito schiettamente scientifico e intellettuale d'Aristotele e dei suoi seguaci, non le disputino il campo per alcuni secoli finché la barbarie invadente non sconvolge le condizioni materiali d'ogni studio e muta il soggetto di questa storia che non sarà più né la Grecia né Roma, ma l'Europa, fusione di popoli differenti e incolti con popoli che dello splendore dell'Impero romano serbavano solo l'attaccamento ai vecchi e gloriosi costumi, e il desiderio della "pace romana".
La filosofia del cristianesimo. - Il periodo di storia della filosofia che s'inizia con l'avvento del cristianesimo è caratterizzato dalla preminenza degl'interessi religiosi su quelli filosofici. Ciò che era già in parte accaduto col decadere della vita politica greca e il fomiarsi delle scuole e società filosofiche, accade in misura molto più grande col formarsi d'una società religiosa (la chiesa cristiana) che si sviluppa indipendentemente dalla società politica, spesso in contrasto con essa finché non la domina. Questa società religiosa accumula nel suo seno una serie di esperienze di natura profondamente diversa da quelle in cui lo spirito greco aveva trovato il suo punto di partenza e quindi apre alla speculazione filosofica nuove vie. Ma l'interesse filosofico essendo secondario, strumentale, i frutti che da esso si colgono appaiono piuttosto progressi religiosi che filosofici. Intendere la nuova intuizione religiosa del mondo appare un mezzo per viverla più intensamente e compiutamente. Gli errori che si possono commettere in questo intendimento non appaiono errori individuali e deficienze della ragione, ma errori della volontà e pericoli per la società, non oggetto di critiche quindi, ma di condanne. Da ciò appare che la verità non è più l'oggetto della contemplazione, ma il principio dell'azione. Se oggetto della speculazione non è più la natura ma l'uomo come soggetto della virtù e del peccato, come buono o reprobo, come tocco dalla grazia di Dio o perduto dall'orgoglio, il mezzo per comunicare con quest'oggetto non è più l'intelletto rappresentativo, ma l'amore, la volontà. Guardato nella sua assolutezza l'oggetto sarà esso stesso un soggetto, Dio, Padre, persona, creatore del cielo e della terra per atto di volontà e non involontariamente o per sovrabbondanza che trabocca, agente di continuo nelle cose di questo mondo, Provvidenza diretta non a soddisfare i desiderî degli uomini in vista della felicità, ma a salvare le anime, a mostrare la vera strada verso il regno di Dio. Nell'accettazione del comune messaggio si crea un'interiore solidarietà fra tutti gli spiriti individuali e una corresponsabilità nell'eliminazione del male. Il primo rapporto tra la religione e la filosofia si ha nell'influsso che il pensiero occidentale mediante Paolo esercita sul giudaismo facendo riconoscere l'universalità di Dio, quindi l'universalità dell'opera della redenzione, l'uguaglianza di tutti i popoli dinnanzi a Dio. Il concetto dell'uomo sostituisce la rappresentazione del popolo eletto. Nell'attesa del Regno di Dio, sperato imminente, viene ripreso il concetto dell'immortalità dell'anima già elaborato dal pensiero greco. Bisogna però aspettare un periodo più maturo per trovare ben formati i concetti corrispondenti a quella sintesi che costituisce la dottrina della chiesa: ché le prime elaborazitmi, in parte poi rifiutate come eretiche, tendono troppo a interpretare la nuova religione con i concetti dell'antica filosofia. Si tende a disconoscere il carattere storico del cristianesimo, l'unicità dell'avvento, della buona notizia, per trasformare tutto in concetti universali. Il Messia diviene il logos o un eone. La mescolanza d'elementi mistici coi filosofici è tale da togliere poi anche ogni valore filosofico a questi indirizzi. Gli apologisti greci cercano da una parte di mostrare nel pensiero greco elementi che giustifichino il nuovo contenuto della fede, e dall'altra di presentare come rivelazioni anticipate le verità della filosofia greca. Gli apologisti latini reagiscono invece a questa razionalizzazione della religione, ritengono necessario allontanarsi da ogni filosofia, sostituire del tutto alla verità la certezza. Ma il maggiore dei loro rappresentanti, Tertulliano, non perciò evitò di filosofare e contro la ragione rivalutò il senso, l'immediatezza, la mrporeità, che egli con gli stoici, scambia per concretezza. Lo gnosticismo (v.) disegna vaste cosmogonie, valendosi soprattutto dell'emanatismo per intendere i rapporti tra la divinità e il mondo. Contro le aberrazioni dei loro sistemi occorrerà una filosofia più meditata, che sarà data da Clemente Alessandrino e da Origene. Con Clemente viene nettamente distinta l'opera salvatrice della fede, che può essere perfetta anche nelle anime più semplici, dalla filosofia che interpreta e sviluppa le intuizion) della fede e alla quale solo si può chiedere il criterio della verità. Origene, speculando nello stesso ambiente spirituale dal quale sorse il neoplatonismo, trae ispirazione da dottrine platoniche e stoiche contemporaneamente. Al concetto di Dio sembra ormai indissolubilmente connesso l'attributo dell'immutabilità. L'intuizione nuova del mondo cristiano introduce il concetto di creazione. Ne nasce il nuovo concetto filosofico della "creazione continua". Dio ha creato il mondo e generato il Figliolo. Facendosi eterna la creazione, viene assimilato il processo generativo a quello creativo. Dio infatti non crea cose ma spiriti. Questi formano un mondo di spiriti, legati fra loro dalla fruizione di un unico bene, l'amore di Dio. Con grande finezza speculativa la materia si fa sorgere dal distacco degli spiriti dall'unico Bene, così che essi diventino estranei l'uno all'altro, quindi una molteplicità. Il peccato è l'origine della materia. Questa, sotto la specie del corpo, è tanto più spessa quanto maggiore è l'allontamento dello spirito da Dio. E poiché corpo significa dolore, il peccato porta in sé la sua punizione. Da questa punizione sorge la possibilità della redenzione. Ma la ricostituzione della perfezione originaria è opera di ciascuno e della totalità: sicché il ritorno a Dio è opera collettiva. In quest'opera viene inserita l'incarnazione del Logos, la quale è però difficilmente concepibile quando si riduca la materia a una degradazione dello spirito dovuta al peccato. La divinità del Cristo redentore e la presenza dello Spirito nella chiesa, richiede una rappresentazione concettuale della Trinità; questa viene concepita come il triplice aspetto dell'attività divina creatrice: il Padre dà l'essere alle cose, il Figlio che è il Verbo conferisce loro la razionalità; lo Spirito le santifica. Siamo così pervenuti alla posizione dei due grandi problemi intorno a cui si travaglierà la patristica: la Trinità e la cristologia. La chiesa affermerà il carattere personale di Dio nella concezione della Trinità, come trinità di Persone, e la concretezza dell'umanità e della divinità nel Cristo, come quella che sola poteva della redenzione salvare il carattere storico e impedire che divenisse un semplice valore concettuale. Così in un mondo fatto di spiriti, il cui principio è una Persona, e l'atto originario un atto di volontà; in cui tutti gli eventi hanno un valore etico rivolto alla liberazione e salvazione, la storia piglia il posto che nel mondo greco aveva avuto la natura; il soggetto piglia il posto dell'oggetto. La sintesi che Aurelio Agostino (354-430) fa sulle soglie della nuova epoca oltrepassa di gran lunga la cultura dell'epoca e resta in attesa di tempi ben lontani per dare tutto il suo frutto. Venuto a contatto dei neoplatonici, convertitosi al cristianesimo, fu, dalla sua educazione filosofica, da una natura ardente, da una brama mai soddisfatta d'analisi, messo in condizione di liberare il neoplatonismo da molte scorie e di consegnare alla storia i frutti di quell'analisi della coscienza, ch'era stata iniziata dagli stoici, dagli scettici e dagli epicurei, sotto il segno del cristianesimo. L'intuito della filosofia (la visione di Parmenide, il demone di Socrate, l'intuito di Platone) diventano la fede, forza soggettiva dell'anima, ma sorretta da una doppia oggettività: l'azione di Dio nell'anima, l'organismo della comunità cristiana. Ma non perciò la razionalità di Zenone e d'Aristotele vien meno. La fede è la radice della ragione e la ragione costituisce, celebra e potenzia la fede. Il carattere intimamente religioso che viene ad acquistare la filosofia importa ch'essa non possa soddisfarsi d'essere ricerca (Platone scettico) ma voglia il possesso della verità. Il carattere filosofico assunto dalla religione importa che la stessa vita religiosa sia una perpetua ricerca della verità. Onde Agostino sarà perpetuo ricercatore come Platone, e avrà anche lui il suo problema insoluto attraverso una perpetua soluzione: il problema della libertà e della grazia. Perciò anche lui chiederà la certezza all'analisi del dubbio. Chi dubita non può dubitare del suo dubitare ch'è una certezza assoluta: la certezza della coscienza che sa di essere e di essere come coscienza; perciò invece di contrapporre alla negazione dell'oggetto fisico l'oggetto ideale (Platone) vi si contrappone la sorgente stessa dell'idealità; la realtà intelligente. La realtà della coscienza analizzata ci dà le categorie dell'essere, del conoscere, dell'amare, ci dà il tipo esemplare dell'unità del molteplice. Con questi elementi conosciamo il mondo esterno, lo misuriamo, lo giudichiamo. Ma non perciò l'io diventa la misura di tutte le cose; le rende intelligibili. Dio spiega la conoscenza. D'altro canto la necessità della conoscenza prova Dio. Questo Maestro interno non è però tanto immanente alla ragione nostra da identificarsi con lei. Egli non è ìa ragione, ma la ragion d'essere della ragione: il Vero assoluto e oggettivo, il supremo intelligibile e quindi non definibile, perché non può differenziarsi dall'altro. Le formule della conoscenza di lui contengono solo ciò che non se ne deve pensare. Nell'ineffabilità di Dio Agostino viene a contatto col neoplatonismo. Ma questo è il risultato del razionalismo. La fede d'altro canto gli riempie di contenuto questo ineffabile: che è l'Uno, Dio persona, ed è la Trinità. La sua unità è distinzione in sé. Egli è creatore e dà l'essere a ogni cosa, Egli è il vero in sé e la luce di verità che illumina ogni mente, Egli dà valore alle cose ed è Bontà e fine d'ogni cosa. Questa trinità noi l'esperimentiamo nella nostra coscienza: che è, giudica, vuole. Dalla nostra coscienza si riversa su ogni cosa che venga conosciuta. La metafisica dello spirito a cui tendeva già il neoplatonismo trova in Agostino la sua espressione. Il mondo d'Agostino è un mondo di spiriti, di esseri esistenti per sé, i cui rapporti sono tutti di ordine morale. In questa metafisica il problema centrale è il problema del rapporto tra lo spirito assoluto e gli spiriti particolari. Generazione, emanazione, creazione sono i concetti già elaborati. Per Agostino non può esserci che la creazione, ma questa deve risolvere il problema dell'immutabilità di Dio e del sorgere del mondo mutevole in modo razionale. Agostino scopre che la soluzione del problema è nella correzione dei concetti del tempo e dell'eterno. Già Aristotele aveva rifiutato il concetto d'un tempo vuoto. Ma Agostino vi aggiunge la necessità di superare il tempo per misurarlo. C'è un passato e un futuro solo per una coscienza che li pone nel presente, non c'è cioè né passato né futuro, né presente (tramonto del futuro nel passato), ma una presenza del passato, presenza del futuro, presenza del presente. La creazione della coscienza particolare è la creazione del tempo: il mondo invece d'esser creato nel tempo, è creato col tempo, così che non c'è un tempo in cui il mondo non ci sia. Ma non perciò è eterno. Perché ben diversa è la concezione dell'eternità. La coscienza è un'immagine di questo contrarsi del passato e futuro nel presente. Ciò vi avviene di continuo, ma non in un istante, in un presente che sia tutto e sempre tale. Ciò avviene nella coscienza assoluta, Dio. Essa pone non le determinazioni singole temporali, ma la temporalità stessa e per porla si pone necessariamente fuori della temporalità: è l'Eterno, negazione del tempo e sua condizione. Il Motore immoto di Aristotele senza perdere i suoi caratteri d'assolutezza acquista così la sua funzione riguardo al mondo mutevole senza che ne nasca un dualismo. E il mondo mutevole, senza perdere il suo elemento essenziale ch'è la privazione, acquista mediante la coscienza di questa privazione la capacità d'elevarsi a Dio con forza propria: la libertà umana. E l'insieme della realtà il cui ordine in Aristotele è un ordine estetico, diventa un ordine morale. Ogni creatura partecipa più o meno dell'essere e quindi più o meno del non-essere. Questa privazione d'essere è il male in senso metafisico. Essa costituisce una scala ascendente o discendente, secondo il punto di vista, delle creature. Al suo grado ciascuno è buono. Ma l'uomo, che è sopra tutte le creature, se si volge col suo volere all'essere pieno è nel bene, se si volge all'essere che ha meno di essere è nel male: pecca. Ne nasce il male morale. Così il male non può attribuirsi a Dio, cui spetta quanto di bene è nell'universo, ma al volere libero, d'altronde necessario affinché l'essere non sia natura ma spirito. Dal peccato nasce il grande processo dello spirito ch'è la storia universale, ossia la nuova realtà, la realtà spirituale: la caduta, la degradazione nel male, la venuta del Redentore, l'inizio del processo di costituzione della società dei buoni che sboccherà nella definitiva costituzione della città di Dio, e nel definitivo inabissarsi dei cittadini della città terrena. A questo punto l'eternità nella concezione agostiniana torna a confondersi con il tempo infinito, e il meraviglioso equilibrio tra la ragione e la fede è rotto. I concetti della massa dannata, della grazia, della predestinazione non appartengono più alla filosofia.
Frattanto l'Impero romano d'Occidente cadeva, la scuola d'Atene veniva chiusa e dispersa (529). Proclo (410-485), ultimo rappresentante della filosofia neoplatonica, ne trasmetteva i concetti all'Oriente più lontano. Boezio (480-525), ultimo latino fornito d'una cultura classica, trasmetteva a lontani successori le sue traduzioni d'Aristotele. La cultura greca iniziava il suo largo giro attorno al gran campo di fusione di popoli da cui doveva nascere la nuova Europa. Chiusa nel 489 la scuola di Edessa, in Mesopotamia, dove s'insegnava Aristotele, Ippocrate e Galeno, le scuole della Persia ospitarono Aristotele, ch'era anche studiato in Siria. Di lì trassero maestri i califfi ‛Abbāsidi (sec. VIII segg.), e Aristotele fu dal greco, o dalle traduzioni siriache già eseguite, tradotto in arabo. In questo ambiente culturale, attraverso l'inserzione di opere neoplatoniche fra gli scritti di Aristotele, avvenne la formazione di quel complesso aristotelico-neoplatonico che doveva avere tanta importanza nel Medioevo occidentale. La filosofia araba si sviluppa dall'interpretazione d'Aristotele; al-Fārābī (morto nel 950) tenta una dottrina della causa prima e dell'emanazione del mondo a cominciare dall'intelletto. Avicenna (nato nel 980) considera il mondo come effetto eterno d'un Dio eterno, assolutamente uno. Le opposizioni religiose fanno passare la filosofia araba in Occidente. A Cordova, Averroè (1126-1198) compì lo sforzo d'una grande interpretazione d'Aristotele, includendovi gli elementi neoplatonici. L'universo è creato da Dio, ma ab aeterno, ed eterno è sebbene non sia per sé stesso. Dio uno non può produrre che l'uno, perciò produce l'intelligenza prima da cui derivano le sfere celesti gradualmente. Eterna è la materia, ricettacolo di tutte le forme in potenza: l'opera dell'intelligenza prima è di estrarre dalla materia le forme che contiene. L'intelletto umano è la più bassa forma d'intelligenza emanata da Dio. C'è dunque un unico intelletto agente per tutta la specie umana e per opera di lui noi pensiamo. A lui solo appartiene l'immortalità: ciò che l'intelletto agente crea negli uomini entra a far parte di quest'unico intelletto immortale. Nella stessa Spagna d'Averroè fiorisce la filosofia giudaica con Salomone Ibn Gabirol (Avicebron, 1021-1058 circa) autore d'un'opera Fons vitae che si muove nell'ambito neoplatonico, dove tutto, eccetto Dio, è composto di materia e forma, intendendosi però per materia la potenza e per forma l'atto; questa materia più o meno spessa determina i gradi discendenti dall'essere, dalla materia sottile dell'intelligenza a quella grossolana dei corpi. Nella stessa Cordova di Averroè nacque Mosè Maimonide (1135-1204) che ripone in primo piano Aristotele. Ricostruendo aristotelicamente la scala ascendente della natura egli perviene a quell'intelletto potenziale che mediante l'influsso dell'intelletto agente unico, si costituisce in intelletto agente esso stesso e contribuisce con l'opera sua all'incremento di quello. Egli prova l'esistenza di Dio con la necessità d'un essere necessario, fondamento dell'essere contingente, e con l'esistenza d'una causa prima; ma l'essenza di Dio gli rimane inconoscibile sebbene gli attribuisca una Provvidenza.
Un altro focolare di cultura s'era mantenuto vivo nella lontana Irlanda, dove era noto ancora il greco, quando l'Occidente se ne era dimenticato. Giovanni Scoto Eriugena, venuto dall'Irlanda a Parigi circa l'847, introduce un nuovo lievito nel pensiero medievale con la traduzione delle opere dello Pseudo-Dionigi l'Areopagita (fine del sec. V-principio del VI). Questo pensatore, dipendente principalmente da Proclo, interpreta allegoricamente il culto cristiano, e rappresenta il cristianesimo nei termini della filosofia neoplatonica; egli è la via attraverso cui il Medioevo conobbe i due processi discendente e ascendente del reale che costituiranno come lo schema in cui si muoverà tutta la futura metafisica. A lui s'ispira Scoto Eriugena nella sua opera originale. Identificata religione e filosofia, Eriugena, partendo dall'autorità di Dio, afferma la necessità di interpretare la sua parola con la ragione, non sottomettendo questa a nessun'altra autorità. Scoto Eriugena distingue: 1. la natura che crea e non è creata; 2. la natura che è creata e crea; 3. la natura che è creata e non crea; 4. la natura che non crea e non è creata. La prima e la quarta posizione rappresentano Dio come principio e fine del mondo. La seconda e la terza rappresentano il mondo nel suo aspetto eterno (idee) e nel suo aspetto temporale. La grande cosmogonia è il processo per cui il reale esce da Dio e ritorna in Dio. Sebbene l'emanatismo sia sostituito dal creazionismo, l'idea del riassorbimento del creato in Dio domina il sistema. Lo sforzo del pensiero di Scoto Eriugena è rivolto a mostrare da una parte che tutto l'essere è in Dio, dall'altra che il mondo non è Dio stesso; a determinare come fine della creatura il ritorno a Dio e a impedire che questo ritorno si concepisca come una confusione con Dio e quindi eliminazione della creatura. Ne risulta un contrasto interiore fra teismo e panteismo, fra trascendenza e immanenza, fra razionalismo e misticismo che costituirà un nuovo problema del Medioevo.
Frattanto la parte dell'Organo d'Aristotele tradotta, insieme con l'Introduzione di Porfirio, da Boezio, ch'era rimasta accessibile alla cultura occidentale e che si chiamò Logica antica e il resto dei libri della logica, ritrovati o ritradotti, che costituirono la Logica nuova, suscitarono nel corso dei secoli IX, X e XI discussioni di carattere astratto sul modo d'intendere le idee, il cui significato doveva apparire ben chiaro solo nei secoli seguenti quando tutto Aristotele fu ritrovato. Si trattava ora di poter determinare con lo strumento della dialettica se gli universali fossero enti reali o concetti della mente. Si riponevano di fronte Platone e Aristotele, ma senza che valesse in pieno la trasformazione che Agostino aveva compiuto del platonismo concependo il mondo come ordine di spiriti. Questa dialettica avanzò fino al punto d'invadere il campo di quelle che erano tenute come verità di fede, suscitando la reazione da parte dei teologi (S. Pier Damiani). Solo verso la fine del sec. XI Roscellino darà un significato concreto a queste dispute mostrando che il loro vero contenuto è o l'affermazione che reale è la specie, o l'altra e contraria che reale è l'individuo. Scelta questa seconda posizione (più conforme al pensiero d'Aristotele) Roscellino ne trasse conseguenze nei riguardi della Trinità, per cui fu accusato di Triteismo. Inoltre, volendo intendere il concetto della Personalità di Dio, tornò al concetto classico della sostanza. Le teorie di Roscellino ebbero il titolo di "nominalismo", volendosi indicare ch'egli considerava gli universali solo come nomi. Mentre così si preparava il ritorno dell'aristotelismo, l'agostinianismo aveva un'altra fioritura in S. Anselmo d'Aosta (1033-1109). Il sistema d'Anselmo riunisce fede e ragione con metodo neoplatonico. La fede e il punto di partenza della visione beatifica, che coronerà i nostri sforzi, ma fra l'una e l'altra deve porsi il grado intermedio dell'intelligenza della fede. Rinunziare alla ragione è negligenza. Posto questo compito alla ragione, non è possibile assegnarle dei limiti se non soggettivi (la potenza limitata di ciascuna creatura umana); ma tenendo conto che, assistiti dalla grazia, i Dottori della chiesa vanno completandosi l'un l'altro. Così Anselmo affronta la trasformazione in prova razionale della fede in Dio. Le cose possiedono un grado differente di perfezione, questi gradi differenti provengono dalla partecipazione alla perfezione. Deve esserci dunque una perfezione che vince tutte le perfezioni, l'assoluta perfezione, Dio. Tra le perfezioni quella che appartiene a tutti gli esseri esistenti è l'essere. Tutto ciò che è ha una causa o in sé o fuori di sé. Se l'ha fuori di sé ci sarà una causa di tutte le cause e sarà Dio. Se l'ha in sé ci sarà questa potenza presente in tutte le cose che consente loro d'esistere per sé e questa sarà unica, Dio. Né si può ammettere che esse si causino reciprocamente perché la reciprocità non è intelligibile per sé. Tutti gli esseri costituiscono una gerarchia, questa gerarchia non può procedere all'infinito, ci sarà dunque un essere supremo, Dio. Tutte queste prove tratte dall'esperienza hanno in comune questo carattere: che ciò che è necessario per il pensiero è reale. Sviscerando il principio in esse contenut0 Anselmo trova la famosa prova ontologica del Proslogium. Il valore di questa consiste nell'avere riconosciuto che l'impossibilità di passare dall'essenza all'esistenza può riguardare ogni essere particolare in quanto dalla particolarità deriva una distinzione dell'esistenza dall'essenza, ma non può riferirsi all'essere assoluto la cui assolutezza sta proprio nel fatto che la sua esistenza non dipende da nient'altro che dalla sua essenza. Ne deriva poi che l'esistenza di Dio e del mondo vengono a differenziarsi come l'esistenza per sé e l'esistenza per altro. Dio dà l'esistenza al mondo col suo verbo. Il Verbo è l'esemplare d'ogni creatura e l'intermediario per cui Dio la conosce. Anselmo esclude che la categoria di sostanza possa servire a intendere Dio.
Le scuole frattanto pigliano vigore. Chartres díviene un centro di cultura dove perfino il dubbio degli accademici, e quindi il carattere critico del pensiero, vien rimesso in onore. A Parigi convengono maestri d'ogni dove. Fra questi Pietro Abelardo (1079-1142) riuscì a padroneggiare la logica aristotelica in un momento in cui il possesso di questo strumento, senza la sua base metafisica, faceva inclinare gli spiriti a una elegante sofistica. Egli trova nell'autorità stessa il campo d'esercizio della ragione e col Sic et non pone a fronte le opinioni contraddittorie dei Padri della chiesa e della Scrittura, non per negarle, ma per risolvere il contrasto. Abelardo cerca di risolvere l'opposizione tra realismo e nominalismo in un suo concettualismo, l'opposizione tra razionalisti e mistici in una ragione ch'è intellectus fidei. Esaminando poi la vita morale, mentre scopre nella buona intenzione la sola cosa buona per sé stessa, considera la bontà dell'intenzione come un valore oggettivo. Questo senso dialettico spiega la varia fortuna di Abelardo. Contro di lui S. Bernardo di Chiaravalle esalta l'umiltà che conduce a Dio. Misticismo e dialettica ormai si oppongono sempre più: le ultime sintesi compiute dagli agostiniani di S. Vittore si svolgono fra il pullulare di eresie mistiche. Il pensiero cristiano ha bisogno di salvarsi dagli eccessi dell'una e dell'altra. In questo momento il giro compiuto dalla filosofia aristotelica attorno all'Occidente per opera degli Arabi e degli Ebrei si compie. Dalla Spagna Aristotele torna nel mondo latino, presentato da Avicenna e da Averroè, con la sua opera fisica e metafisica. Nonostante le difficoltà incontrate, nonostante soprattutto le condanne del 1210 e del 1263 (v. aristotele, IV, pp. 360-361), l'aristotelismo, accolto ufficialmente nei programmi delle università, si afferma decisamente soprattutto per merito di Alberto Magno e del suo discepolo Tommaso d'Aquino durante il sec. XIII. Il corso del quale è dominato dunque da tre grandi correnti filosofiche: il persistente agostinianismo, l'aristotelismo albertino-tomista. l'aristotelismo averroista. L'agostinianismo è caratterizzato dal tentativo di costruire una metafisica dello spirito, quindi dal formare oggetto proprio della speculazione filosofica la persona, sia in Dio sia negli uomini; la deficienza di questa metafisica sta nel non aver ancora trovato il modo di concepire la natura nel suo rapporto con lo spirito. Nella sua decadenza mostra di confondere filosofia e teologia. Dall'orientarsi verso una metafisica dello spirito deriva che il bene venga considerato come preminente riguardo al vero e un primato della virtù sull'intelligenza venga riconosciuto (e negli uomini e in Dio) senza che si raggiunga il concetto d'una attività conoscitiva eticamente condizionata. L'opera dell'intelligenza facendosi consistere nel ricevere l'illuminazione da Dio, l'agostinianismo inclina facilmente verso il misticismo. Accentuando il carattere relativo della materia, estende alle stesse sostanze spirituali l'unione di forma e materia: in tal modo attribuendo all'anima umana una materia propria, la rende indipendente dall'unione col corpo. Sebbene più impregnata di neoplatonismo che di platonismo, questa corrente esalta Platone contro Aristotele, giustamente cogliendo il carattere più religioso della filosofia platonica.
S. Bonaventura da Bagnorea (1221-1274), precorso da Alessandro di Hales (circa 1180-1245), è il maggiore rappresentante di quell'indirizzo. Il suo mondo è lo spirito, perciò il problema centrale quello etico. Alla felicità degli antichi è subentrata la beatitudine: questa conserva del mondo antico il carattere di contemplazione, dal cristianesimo riceve quello di contemplazione di Dio, persona e termine dell'amore. La soluzione del problema è quindi la ricerca dell'itinerarium mentis ad Deum. Per percorrere quest'itinerario si stabiliscono i gradi della realtà che sono i momenti di questa ascensione: il mondo sensibile, che serba le vestigia di Dio; l'anima, che ne ha l'immagine; Dio. Le cose sensibili sono extrasoggettive e si conoscono solo col senso, ma l'anima si conosce per sé stessa perché contiene in sé la luce illuminante. Il mondo sensibile può darci segni continui dell'esistenza di Dio, ma solo l'anima può darcene la prova: poiché in ogni sua operazione è inclusa l'idea di Dio. L'idea di Dio facendo dunque conoscenza ogni conoscenza, la prova della sua esistenza non è che il riconoscimento della sua effettiva presenza. Ciò nonostante Dio non diventa oggetto di conoscenza chiara e distinta: poiché la nostra conoscenza di esseri limitati non può divenire illimitata se non per opera dello Spirito Santo e quindi nello stato mistico di grazia cui si connette l'ineffabilità. Questo mondo, segno e immagine di Dio, è concepito, conforme alla metafisica spiritualista, come il linguaggio di Dio: non è cosa ma verbo. Frattanto bisogna risolvere il problema del suo rapporto con Dio nel tempo. Esso è creato e come tale è temporale. Bonaventura aristotelizza nel provare che l'idea d'infinito attuale è contraddìttoria, poiché egli sente che se ogni esistenza fosse eterna, per nessuna cosa potrebbe distinguersi esistenza ed essenza. Le altre tesi sue rispondono allo schema tracciato di sopra.
Come l'aristotelismo si affaccia per alcuni aspetti nella dottrina di Bonaventura, così l'agostinianismo non è del tutto assente dalla sintesi aristotelica che compie il tomismo. Questa corrente è caratterizzata da una distinzione netta tra fede e ragione, che senza opporle, anzi ammettendo che in fine non possa esserci contraddizione tra i risultati dell'una e dell'altra, ammette da una parte l'indimostrabilità di alcuni dogmi e dall'altra la necessità d'un processo razionale completo, per la filosofia. Accetta da Aristotele che la conoscenza umana abbia origine dal senso e nell'intelletto umano non ci sia la presenza immediata di Dio (respingendo quindi la prova ontologica moltiplica le prove che vanno dal contingente all'assoluto, come suo principio). Respinge il problema dell'origine del mondo nel tempo. Ritiene individuale l'intelletto agente e quindi immortale l'anima individuale. Alberto Magno accolse nella sua opera quanto la scienza empirica aveva prodotto ripigliando il contatto con la natura come l'avevano concepita gli antichi. Se così non si costituì quel nuovo concetto della natura, ch'era richiesto dalla metafisica dell'agostinianismo, cioè la natura nel mondo dello spirito, si evitò che a causa della mancanza d'una natura, la nuova metafisica svanisse nel misticismo. Agostino resta l'autorità in fatto di fede e costumi, ma Ippocrate, Galeno e Aristotele tornano in onore per le scienze della natura. Tommaso non ereditò del pensiero albertino solo l'interesse per l'esperimento scientifico, ma in tutto il resto della sua opera l'assorbì, lo rivisse, lo potenziò in modo tale che l'opera del maestro ne fu come annullata. Egli distingue due specie di verità, quelle di ragione e quelle di fede; ma non sono che due gradi d'un'unica verità che apparirebbe nella sua unità se fosse possiòiile all'uomo trovare tutti i gradi intermedî. Una conclusione filosofica quindi che contraddica a una verità rivelata porta in sé il segno della falsità, ma nessuna costrizione alle dimostrazioni razionali può venire dalla verità rivelata. Mentre per l'agostinianismo la fede impegna l'inizio della ragione, qua impegna il punto d'arrivo di essa. È perciò che questa distinzione di fede e ragione non distoglie la ragione dal cercare di condurre la dimostrazione fin dove è possibile. Quest'opera della ragione nel campo teologico costituisce la teologia naturale ch'è il necessario completamento della filosofia della natura. A questa Tommaso applicò il metodo aristotelico, costruendo nell'aristotelismo una scienza nuova. Questa scienza di Dio sta nel passaggio dalla conoscenza del sensibile alla conoscenza della sua condizione, Dio; non più nell'esame d'una conoscenza di Dio da cui possa ricavarsi l'esistenza sua. Infatti la gnoseologia tomista, come l'aristotelica, parte dal senso per pervenire all'intelletto mediante l'immaginazione. Le immagini impresse dalle cose nel senso forniscono la materia da cui l'intelletto astrae l'immagine intelligibile. Respinto l'innatismo platonico e l'illuminazione divina agostiniana, Tommaso attribuisce all'intelletto agente la capacità di formare le conoscenze dei primi principî partendo dalle immagini (species) intelligibili, astratte dai sensibili. Le prove dell'esistenza di Dio (v. tommaso, santo) partiranno dalla constatazione dei caratteri del sensibile: esperienza del movimento. che implica l'esistenza di un Primo Motore; esperienza della causalità, che implica l'esistenza di una causa prima; esperienza della contingenza, che implica l'esistenza di un essere necessario; esperienza dei valori che implica l'esistenza di un bene in sé, che è perciò essere in sé, causa dell'essere degli altri; esperienza dell'ordine del mondo che implica l'esistenza di un'intelligenza prima ordinatrice della finalità delle cose. Così il mondo viene legato all'esistenza di Dio, la cui essenza però non è penetrabile, data la nostra maniera di conoscere. Solo portando al limite dell'infinito le perfezioni delle creature noi possiamo scorgere alcuni aspetti della perfezione infinita, e perfettamente una, di Dio. Il legame tra Dio e il mondo è la creazione che è atto volitivo di Dio e non necessità della sua natura, e che, dovendosi porre il problema della creazione ugualmente per ogni realtà, è dal nulla. Essa presuppone solo, come atto volitivo, l'essenza che contiene in sé virtualmente l'esistenza di tutte le cose. La creatura partecipa del Creatore in questo senso: che riceve da Lui tutto il suo essere, senza per ciò far parte di Lui: si ha così l'eliminazione del panteismo. La creatura ha la sua realtà. Risorge la questione del rapporto fra tempo ed eternità. Tommaso non intende la soluzione di Agostino, anzi ritiene insolubile il problema: resta solo la rivelazione che afferma il mondo creato nel tempo. Tommaso affronta ancora un altro dei problemi agostiniani, il problema del male, e adotta la soluzione del male come deficienza di essere, inevitabile nella creatura. Tutta la speculazione dell'indirizzo neoplatonico portava a stabilire una gerarchia di esseri che del resto non contraddiceva al sistema aristotelico. Tommaso la rifà per suo conto: dagli angeli, all'uomo, ai corpi materiali. L'uomo e i corpi sono unione di materia e forma. L'anima è la forma del corpo umano (Aristotele): essa è al confine tra i corpi materiali e le intelligenze pure (angeli). Così l'anima perde la sostanzialità che aveva presso gli agostiniani. La sua parte migliore è l'intelletto che in quanto agente partecipa della natura intelligibile e in quanto paziente (παϑητικός) riceve le specie sensibili contenenti virtualmente le intelligibili. Qua Tommaso s'incontra con il problema dell'unità dell'intelletto attivo. La fede nell'immortalità dell'anima acuisce l'ingegno di Tommaso e gli fa vedere ciò che sfuggiva agli avversarî: se l'intelletto attivo fosse uno alla maniera averroista, l'uomo non potrebbe parteciparne: perché ciò di cui si può partecipare è la specie intelligibile, non l'intendere ch'è atto proprio. La luce può fare la parete visibile non veggente e l'intelletto invece non è intelligibile ma intelligente. Ma l'immortalità pareva anche compromessa dall'essere l'anima semplice forma del corpo. L'anima, per Tommaso, nasce nella sua individualità col corpo. Egli risolve infatti il problema dell'individuazione (se sia la materia o la forma a rendere individuale la sostanza) nel senso più vicino ad Aristotele, che suppone l'inscindibilità di materia e forma. L'uomo, dice A., non nasce dall'unione della materia con la forma, l'uomo nasce dall'uomo. Ogni forma ha la sua materia. Ciò serve a liberarsi dal mito della preesistenza delle anime. Ma a fondare l'immortalità post morten Tommaso adopera un concetto nuovo: l'anima con la sua vita intellettiva spiritualizza il suo corpo, si fa un corpo proprio, ch'è come l'idealità del corpo naturale: concetto agostineggiante. E così, dimostrata la possibilità dell'immortalità, Tommaso può indicare di là da questa vita temporale il Bene supremo, il termine a cui l'anima intende. Con Tommaso, Aristotele trionfa di Agostino. Il problema d'intendere una realtà come mondo dello spirito cede alla costruzione di una realtà dove lo spirito ha di fronte la natura ed è egli stesso in certo qual modo la natura. Il mondo greco richiede d'essere inteso e non semplicemente negato.
La terza corrente, l'aristotelismo averroista, è caratterizzata da un ritorno al concetto aristotelico di Dio: Dio non conosce nulla fuori di sé, quindi non conosce il particolare, né può quindi occuparsi delle azioni umane (Provvidenza); il mondo è eterno; non c'è che un solo intelletto per tutti gli uomini, quindi è improprio dire che l'uomo comprende, ne si può parlare d'un'immortalità individuale. Queste proposizioni che riconducevano Aristotele, attraverso Averroè, al suo significato letterale, eliminando dalla sua filosofia quei residui di neoplatonismo che ne attenuavano il naturalismo, avevano come base una divisione e opposizione netta tra fede e ragione, mancando agli averroisti la fiducia di Tommaso nel convergere di esse. Il rappresentante maggiore dell'averroismo latino è Sigieri di Brabante, noto soprattutto per la questione dell'unità dell'intelletto, ma la cui ricostruzione d'Aristotele trascende Aristotele fino a congiungersi con la stretta necessità degli stoici: poiché Dio è sempre in atto e non si può in lui porre una potenza che non sia attuata, egli muove e agisce in eterno, quindi niente di nuovo è creato nel mondo, quindi secondo il concetto del ciclo (aristotelico) e in conformità delle rivoluzioni dei corpi celesti torneranno infinite volte le medesime specie, i medesimi uomini, le stesse leggi, le stesse opinioni, le stesse religioni. Così la storia viene riassorbita dalla natura. La condanna pronunziata dal vescovo di Parigi il 7 marzo 1277 contro le dottrine averroiste, che comprendeva anche non poche proposizioni albertino-tomiste, non poté fermare la marcia dell'aristotelismo. Lo stesso agostinianismo con Ruggero Bacone (circa 1210-morto dopo il 1292) è condotto ad assumere linguaggio aristotelico, onde la teoria dell'illuminazione divina di Agostino sembra in lui confondersi con la teoria dell'intelletto unico averroista. Ma Bacone dall'esperienza interiore con cui si costruiva l'agostinianismo, con facile passaggio va all'esperienza esterna, con cui si ricostruisce la natura, senza dispregiare manuum industria. Il platonismo dà ancora un posto alle matematiche in questa ricostruzione, ma l'esperienza vi ha il posto privilegiato e per la prima volta spunta il nome di scienza sperimentale. L'universo tuttavia conserva il suo carattere di storia: in una grande visione della quale la filosofia è un aspetto fondamentale. Il volontarismo di S. Agostino trova in Duns Scoto (tra il 1266 e il 1274-1308) una nuova potente affermazione. La separazione di filosofia e teologia iniziata da Tommaso si accentua; le prove dell'esistenza di Dio fondate sul contingente vengono giudicate insufficienti. L'argomento ontologico viene ripreso. Ma ciò che caratterizza lo scotismo è il più pieno riconoscimento dell'individualità. L'universale esiste solo nell'intelletto, nella sua universalità, nella realtà ha un'esistenza particolare distinta. Questa tesi non è né realismo né nominalismo, ma l'inizio della concezione d'un universale come universalizzare. L'individuo, contro certe deficienti interpretazioni del tomismo, non è individuato dalla materia (con una degradazione sull'universalità della specie), ma dalla propria ecceità ch'è una determinazione da considerare come perfezione. Tale determinazione rende l'individuo conoscibile per sé, laddove l'individuazione dovuta alla materia sottrae l'individuo come tale alla conoscenza. L'esperienza dell'individuale è il punto di partenza d'ogni conoscenza, e l'intelletto che è tabula rasa è spinto al giudizio dalla volontà. La volontà ha il primato sull'intelletto. Non solo nell'uomo ma in Dio. Dio avrebbe potuto creare un mondo diverso, con leggi e valori diversi. La fusione di elementi agostiniani e aristotelico-tomisti compiuta da Duns Scoto tende a salvare il carattere storico della realtà e quindi l'individuo. Ciò nonostante sono in essa i germi d'una dissoluzione: la volontà di Dio trabocca nell'arbitrio, la concretezza dell'individuo minaccia di sciogliersi nelle astrazioni del genere, della specie, dell'haecceitas. Occam (circa 1300-1350) conduce oltre l'opera di Duns Scoto: l'intelletto raccoglie un certo numero d'individui aventi caratteri affini in un'unica classe, creando per essi il signum il quale non è aliqua res quae sit de esse illorum de quibus praedicetur, ma è una intentio in anima naturaliter significans omnes illas res de quibus praedicetur, e quindi non un semplice nome che sarebbe secundum istitutionem volontariam, ma naturaliter (terminismo). La conoscenza individuale è pertanto la più concreta; gli universali valgono solo in quanto si constatano nel particolare. Il rapporto causale è vero quindi dentro i limiti in cui l'esperienza ci mostra la connessione di due fenomeni, e la sostanza è concepita solo come complesso dei fenomeni sensibili. Questa concezione affida in tal modo la dimostrazione dell'esistenza di Dio alla pura fede, la stessa metafisica ne esce limitata. Da Occam si parte una corrente che, criticando i concetti della fisica d'Aristotele con Giovanni Buridano (circa 1300-1358), Alberto il Minore (morto nel 1390), Nicola Oresme (morto nel 1382), elimina alcuni pregiudizî sul movimento, sul luogo proprio di ogni corpo, sull'unicità del mondo, sulla differenza tra materia sublunare e superlunare, preparando Leonardo da Vinci e Galileo Galilei. Frattanto la netta distinzione tra filosofia e fede dà più libero respiro a certe correnti mistiche che trovano in Maestro Eckhart (v.) il loro maggiore rappresentante.
Spariti i maggiori rappresentanti delle tre correnti, a poco a poco esse vanno dissolvendosi. Quelle società spirituali ch'erano le scuole (che diedero nome alla scolastica) vengono in parte riassorbite nell'unità maggiore della chiesa di cui il tomismo diventa la dottrina, e in parte disciolte nella personalità dei filosofi che si affermano come singolari pensatori. La ragione, indeboliti nella stessa scolastica i suoi vincoli con la fede, comincia le sue prove e inclina verso la distinzione più netta compiuta dalla corrente averroista. Il possesso più largo delle cognizioni storiche, con il ritorno a mano a mano sempre più compiuto della cultura latina e greca, dà un senso sempre maggiore dell'individualità e scioglie la storia dal suo legame col processo della redenzione; al concetto d'una storia distribuita tra caduta e redenzione si sostituisce il concetto d'una storia progrediente, dramma più umano che religioso. La natura, richiamata in onore, riafferma i suoi diritti.
Il Rinascimento. - Il primo inizio del Rinascimento è umanesimo. L'influsso che la religione aveva fino allora esercitato sulla filosofia cede all'influsso esercitato dall'arte. La realtà dell'individuale si fa valere nel rinascere della vita artistica sì che Dante, Petrarca, Boccaccio, pur senza appartenere alla storia della filosofia contribuiscono alla formazione dello spirito nuovo. Due centri di studio si formano in Italia: Padova sede delle lotte tra aristotelici averroisti e alessandristi (seguaci dell'interpretazione di Alessandro d'Afrodisia), Firenze sede dell'accademia platonica. Aristotele e Platone conosciuti direttamente vengono contrapposti e discussi, i loro problemi rinnovati. Platonica è la posizione accordata da Nicolò Cusano (1401-1464) alle matematiche, ma neoplatonica la sua concezione in genere. La cognizione umana parte dal senso, analizza i dati confusi di questo e districandoli li definisce. Questa è l'opera della ragione e per lei valgono i principî logici d'Aristotele (contraddizione). Ma sopra la ragione è l'intelletto, che negando le distinzioni della ragione perviene all'intuizione della coincidenza degli opposti. Ogni essere della realtà è un particolare, in cui è contratta tutta la realtà, Dio è il medesimo tutto ma esplicato: in Lui tutti gli opposti coincidono. Questa filosofia è un nuovo sforzo di concepire il contenuto della mistica razionalmente; ma è un tentativo che non adopera la vecchia logica per nuove intuizioni, al contrario vuol costruire una nuova logica adeguata all'oggetto da intendere. Questa è la "dotta ignoranza" del Cusano. Questo principio dell'implicazione del tutto in ciascuno troverà larghi sviluppi. Già Marsilio Ficino (1433-1499) e G. Pico della Mirandola (1463-1494) traggono ragione d'esaltare l'uomo dall'essere in lui presenti le opposte nature. Questo uomo, capace d'idealizzare (Platone) ogni oggetto, simbolizza la natura dello spirito. Il dramma del cristianesimo viene rappresentato con maggior rilievo d'elementi storici: incominciando a scorgersi il valore religioso anche fuori del cristianesimo. Ermolao Barbaro (1454-1493) introdusse nella cultura del Rinascimento i commenti greci d'Aristotele: Alessandro (sec. II), Temistio (sec. IV), Simplicio (sec. VI). Sorse così quell'alessandrinismo a cui è dovuto il De immortalitate animae di Pietro Pomponazzi (1462-1525) che accentuando la dottrina della doppia verità (quella di fede e quella di ragione) afferma più arditamente il naturalismo d'Aristotele. Se funzione dell'intelletto è d'astrarre l'intelligibile dal fantasma sensibile e se i sensi sono legati necessariamente al corpo, qual funzione potrebbe avere l'intelletto separato? Estinto il corpo cessa la sua ragion d'essere. Pertanto bisogna guardare al problema dell'immortalità come ad uno di quelli che ricevono una doppia soluzione: dal punto di vista della ragione (teoretico) non c'è immortalità, dal punto di vista religioso (pratico) essa si deve affermare perché necessaria a mantenere il volgo sulla via del bene. La polemica più aspra contro gli aristotelici, sia averroisti sia alessandrinisti, venne dagli umanisti che vi opposero o l'eclettismo a carattere pratico dei Romani, rifacendosi a Cicerone, o l'Aristotele senza commenti, come Rodolfo Agricola (1442-1485) e Giacomo Lefèvre (1485-1537). Anche le scuole post-aristoteliche trovarono seguaci, lo stoicismo in Giusto Lips (1547-1600) e Gaspare Schoppe, l'epicureismo in Lorenzo Valla (1405-1457) e piti tardi in Pietro Gassendi (1592-1655); lo scetticismo in Michele Montaigne (1537-1592), Francesco Sanchez (1562-1632), Pietro Charron (1541-1603). In questo nuovo clima spirituale sorse la Riforma tedesca che diede luogo, da una parte al sorgere d'una nuova scolastica luterana, dall'altra allo svilupparsi d'un nuovo misticismo il cui maggiore rappresentante è Giacomo Böhme (1575-1624). Egli dall'osservazione del travaglio interiore della coscienza morale sale al concetto d'una universale opposizione di contrarî che concepisce come la stessa natura di Dio. Il mondo è la necessaria rivelazione di Dio, quindi il dramma del mondo è il dramma di Dio, la storia del mondo ha un significato eterno: la nascita, vita e soluzione del contrasto tra il bene e il male. D'altro canto una libera teologia si sviluppa dando aspetto religioso a concezioni filosofiche, quali quelle di Lelio e Fausto Socino (1539-1604) sulla Trinità. Dopo aver costituito una filosofia religiosa si tendeva a costituire una religione filosofica (o naturale come si disse). Anche la divisione politica del temporale dallo spirituale iniziata nella teoria medievale (Occam), rappresentata e ragionata da Dante, trova il suo sviluppo nell'umanesimo. Il Machiavelli (1469-1527) cerca nell'uomo stesso la ragione della fondazione dello stato. Ne viene un concetto della virtù come capacità di realizzazione e quindi d'una libertà umana che è non già arbitrio intenzionale, ma lotta con la fortuna mediante cui l'uomo governa la sorte e non se ne lascia governare. Negl'interessi particolari cerca invece di fondare la sua idea di stato Tommaso Moro, inglese (1480-1535), che può considerarsi come l'iniziatore del movimento per la tolleranza religiosa, che doveva trovare seguaci in Francesco Bacone e Giovanni Locke. Iniziatasi la riflessione sul diritto il Bodin, francese (1530-1597), ne ricercò i fondamenti filosofici valendosi delle nuove ricerche storiche. Secondo l'indirizzo del tempo anche il diritto con Alberico Gentile (1551-1611) e Ugo Grozio (1583-1645) cercò di fondarsi sulla natura. Si costituì così quel concetto di "natura umana" che ritroveremo fino nel Rousseau.
Frattanto la più larga esperienza scientifica rendeva possibile il tentativo di dare forma definitiva a quel concetto della natura a cui fin dalla rinascita dell'aristotelismo nel sec. XIII tendeva il pensiero europeo. Un primo tentativo fu quello di Bernardino Telesio (1509-1588) che nel De rerum natura iuxta propria principia unifica i due opposti materia e forma ch'egli pensa coincidenti in un'unica realtà: la materia che ha in sé la sua forma; unifica gli opposti caldo e freddo come le contraddittorie determinazioni di questa forma a cui tutti i fenomeni sono dovuti. Così egli supera la trascendenza aristotelica della forma (atto puro), e inaugura il movimento verso l'immanenza bruniana: la natura è spiegata mediante forze naturali sue proprie. E nella natura viene incluso l'uomo stesso. Tuttavia Telesio riconosce che il mondo morale non può ridursi al giuoco delle forze della natura e postula un'anima soprannaturale creata da Dio. Giordano Bruno (1548-1600) inverte il rapporto posto dal Cusano: Dio è per lui l'universo implicato, l'universo è Dio esplicato (l'universo nella sua totalità); ciascuna cosa invece fuori della totalità è un aspetto della totalità, una differenza, che per non esser tutto esplicitamente è deficienza e trapassa. Il Dio di Bruno è la monade fonte di tutti i numeri, ciò che tutto oltrepassa ed è innumerabile e immenso. La natura è invece il numero numerato, la grandezza misurabile, il momento attingibile. La ragione (il logos) è il numero numerante, la grandezza misurante, il momento estimante. In Dio quindi coincidono tutti gli opposti. Egli è la materia dell'universo. Ma la materia che ha la sua forma; non come in Telesio forma naturale, ma quella forma totale che era "il pensiero del pensiero" aristotelico. Il concetto oscuro in Aristotele d'una materia contenente in potenza tutte le forme si fonde col concetto dell'atto puro. Intanto la materia di Bruno non è un sensibile ma si conosce con l'intelletto: il senso ci mostra sì le cose, ma come attraverso un cancello. La materia che è Dio è una materia intelligibile cioè l'infinita potenza ch'è infinito atto, essendo a lui solo concesso d'esser tutto. Le cose esplicate non sono tutto quello che possono e si sforzano di diventare quel che non sono "là onde, non potendo essere insieme e ad un tratto tante cose, perdono l'uno essere per aver l'altro e talor sono diminuite". L'essere di Dio resta immutato in questo mutare dei suoi modi; poiché la mutazione non è cercare altro essere, ma altro modo di essere. In fondo perciò nulla si genera, ma "tutte le cose sono nell'universo, e l'universo è in tutte le cose, noi in quello e quello in noi, e così tutto concorre in una perfetta unità". Così spunta il minimo bruniano, la monade. Il minimo è la misura. Tanti sono i generi di minimo quante le cose, ciascuno di questi è un assoluto minimo, ma non si deve confondere col minimo assoluto. Il minimo non è né l'atomo di Democrito, né l'omeomeria d'Anassagora. La materia sensibile è già un prodotto del minimo, dove il tutto appare in una forma limitata che è la limitazione stessa del senso, triplice limitazione: Mihi, hic et nunc. L'intelletto trapassa questo velo del senso e coglie il tutto ch'è sotto il particolare: il Dio svelato. Ma anche Bruno non è tutto qua. Il Dio mens insita omnibus, quello che conosciamo, è solo il riverbero del Dio in sé, di quel Dio che è Mens super omnia, conoscibile solo per fede. Così Bruno ha voluto riunire ancora immanenza e trascendenza: in realtà la sua immanenza, come quella di Telesio, è ancora del tutto insufficiente mancando il vero concetto della conoscenza. Questo processo d'interiorizzamento della realtà fa un passo decisivo con Tommaso Campanella (1568-1639) che, mentre accetta da Telesio la presenza del senso in tutta la natura, si avvede che il sentire non può essere ridotto al patire una modificazione. Già Aristotele aveva detto che sentire è nello stesso tempo "sentire di sentire", ma non ne aveva tratto le conseguenze. La prima conseguenza è che chi sente perché possa conoscere l'altro da sé, deve conoscere sé, deve porre sé. Così viene sciolto lo stato di dubbio ch'è il punto di partenza della filosofia. La conoscenza contiene, pur nel senso, un dato sicuro ch'è la conoscenza di sé, del soggetto. Questa conoscenza, che invano si cercherebbe di raggiungere discorsivamente, è data intuitivamente nella sensazione: cognoscere est esse. I.'essere che conosce sé, conosce l'altro in quanto egli stesso è l'altro; non perché riceva la forma (per informationen), ma perché diviene esso stesso l'oggetto sensibile e intelligibile. È perciò l'eccellenza della conoscenza di sé: non occorre che il soggetto diventi sé per conoscersi, perché già è ciò che è. Questo pregio della conoscenza si muta d'altro canto in deficienza. Noi, conoscendo, noi stessi, ci conosciamo come finiti e sentiamo il bisogno dell'altro. Ma quest'altro non possiamo averlo che come il noi stesso. L'esternità dell'oggetto è il risultato d'un ragionamento. Questo conserva valore finché rimaniamo al vivo dell'intuizione immediata. Ma già la ragione con la quale inferiamo il simile dal simile e l'intelletto col quale conosciamo l'universale ci presentano illanguidita quella certezza che è propria del senso. L'inversione che qua incontriamo del valore dell'universale e del particolare è una conseguenza non solo del consolidarsi del concetto che unicamente il particolare è reale, ma ancora del diffondersi di quella conoscenza umanistica che fa asserire al Campanella che la vera conoscenza sarebbe la conoscenza di tutti i singoli e l'universalizzare è la conseguenza della nostra impotenza a percorrere l'innumerevole serie dei finiti. Quest'empirismo conduce quindi a una forma di scetticismo, dalla quale Campanella si salva ricorrendo ancora una volta alla trascendenza. La coscienza di noi (certezza) è offuscata dal sopraggiungere delle sensazioni esterne (Platone). Allora interviene la mente, un ente speciale, che aggiungendosi allo spirito diventa la coscienza di questo, fa che l'anima si riconosca immortale e infinita procedente da Dio infinito. Da questo punto Campanella costruisce la sua Ontologia come un risultato dell'esperienza interna. L'uomo trova nella sua anima tre primalità (diremmo categorie): essere, conoscere, volere: potenza, sapienza, amore, ciascuna delle quali è tutto e quindi tutte le altre. Queste primalità sono non solo i principî primi del reale ma anche le "influenze magne" che regolano il processo di sviluppo della realtà. L'uomo trova in sé la limitazione (è un particolare) cioè il non-essere. Alle tre primalità positive si contrappongono le negative: impotenza, insipienza, odio. Da queste opposiziani nascono le determinazioni del reale. Il non-essere è il mistero del mondo, l'essere è Dio cui noi, creature finite, ma coscienti della nostra finitezza, tendiamo. Da ciò nasce la religione naturale, elemento permanente d'ogni religione, compreso il cristianesimo. La rivelazione non ha altro ufficio che di ridurre a chiarezza questo intimo contenuto del soggetto, la Chiesa è lo strumento di questo ritorno dell'uomo alla sua intima natura: la Chiesa non deve temere che il codice vivo della natura smentisca il codice scritto della Bibbia. La natura non può mentire, noi dobbiamo guardarla liberi da ogni pregiudizio "servendoci solo di osservazioni fisiche e matematiche".
La filosofia moderna. - I due elementi che abbiamo visto costituire la filosofia medievale: il tentativo iniziale di Agostino di dare una concezione filosofica del regno degli spiriti, e quello finale di Tommaso di ricostituire di fronte al mondo dello spirito un mondo della natura, attraverso la libertà che il più pieno possesso della cultura antica e le esperienze della nuova vita civile diedero allo spirito nel Rinascimento, condussero a una nuova posizione dei problemi filosofici. Gli antichi avevano conosciuto una natura in cui confondevano lo spirito. Il Medioevo aveva posto uno spirito che l'assenza d'un concetto ben fondato della natura rendeva estraneo a quel mondo ch'era il suo stesso mondo e spingeva a porre il suo fine nell'oltremondo. L'epoca moderna doveva essere caratterizzata dall'unione di queste due esigenze in un'unica vita. Essa comincia con la fondazione delle scienze della natura. Tre nomi vi sono collegati sebbene con caratteri molto diversi: Galileo, Bacone, Cartesio.
Galileo Galilei (1564-1642), ponendo come ipotesi scientifica l'atomismo, torna a una concezione quantitativa della natura e valorizza come costitutivo della vera scienza naturale l'unione della matematica con l'esperienza. Per Francesco Bacone (1561-1626) la scienza ha il compito di render l'uomo signore del mondo: essa dunque non si esaurisce nella conoscenza, ma trabocca nell'azione e nell'azione trova la sua stessa giustificazione come verità. Il processo della conoscenza è per lui prima catarsi dello spirito (liberazione dagli idola mediante il loro riconoscimento), poi esperienza litterata, cioè raccolta scritta di fenomeni fatta con ordine (tavole), poi confronto ed esclusione che si chiude con la formulazione d'una ipotesi, indi esperimento o deduzione ai fatti mediante cui si prova la verità dell'ipotesi. La sua realtà naturale è materia, in particelle, ma non atomi bensì minimi aventi uno schema interiore di moti proprî, onde unità e trasformabilità della materia. Come tutta la natura è perpetuo movimento, così anche la realtà dello spirito è perpetuo progredire. Il noto è nulla a paragone di ciò che dev'esser reso noto. La sua enciclopedia non è sintesi di tutte le soluzioni, ma schema di tutti i problemi ch'è possibile porre. Egli mostra così l'interiorità del reale come problema.
Per Renato Descartes (1596-1650) non esiste un astratto sapere, esiste il sapere dell'uomo, il mio, il tuo sapere. In questa intimità è il suo valore. Occorre quindi cancellare tutto quello che può esser considerato come sapere acquisito, per ritrovarlo come propria intimità, se sarà possibile. Ed ecco il suo dubitare di proposito. Agostino è passato di fatto attraverso il dubbio. Cartesio ha voluto dubitare per sentire la certezza del suo sapere. Ma una volta entrati nel dubbio non c'è che una via, quella di Agostino e di Campanella, per uscirne: la certezza che l'essere dubitante ha, insita nel dubbio stesso, di essere: cogito ergo sum. L'essere che è in questo cogitare non è l'essere della natura ma l'essere stesso del cogitare: non c'è la natura che si fenomenizza al soggetto, ma il soggetto che si fenomenizza a sé stesso. Certo analizzando questa proposizione noi ci troviamo: il pensiero, l'essere, l'esistenza, la certezza, "ma sono nozioni così semplici che da sé stesse non ci fanno avere alcuna conoscenza di ciò che esiste". Allora per passare dall'essere della coscienza alla natura c'è bisogno d'una mediazione. Questa mediazione si trova nella stessa esperienza interna. Cartesio esamina tutte le idee delle cose corporali, nessuna delle quali gli pare tale che non possa venire da noi stessi. Ma l'idea di Dio non può trarsi da noi: essa trascende la nostra limitatezza. Allora ha in sé stessa il suo fondamento: Dio esiste. Una volta posta l'esistenza dell'Assoluto, da lui e in lui si fonda l'esistenza di tutto. Dio dunque è il termine medio attraverso il quale dalla soggettività dell'esse si passa alla sua oggettività. Il Dio di Cartesio è un Dio illuminante la coscienza ab intra, cioè secondo la natura stessa della coscienza, ch'è attività conoscitiva e non come oggetto informantela dal difuori. E poiché le idee che noi abbiamo più chiaramente e più distintamente in noi sono le idee geometriche dell'estensione e la coscienza di noi stessi, la realtà ha due forme sole: pensiero ed estensione. Ciò permette di costruire da un lato una scienza della natura tutta matematica; dall'altro di pensare a un regno degli spiriti. La scienza della natura viene quindi fondata sulle idee che la mente trova in sé medesima (innate) almeno allo stato virtuale; ma l'essere oggettivo del contenuto di questa scienza, venendo sempre confuso l'oggettivo con l'extra-soggettivo, viene fondato sulla sostanzialità dell'esteso. La scienza del soggetto viene fondata sulla sua autocoscienza, ma anche questa ha bisogno d'un suo fondamento extra-soggettivo (cioè altro dall'attività pensante) e questo è la sostanza pensante. L'unità dell'io condizione del pensiero è ipostatizzata nella sostanza spirituale. Quest'anima sostanziale è oggetto d'una psicologia che spiegherà l'errore mediante l'intervento della volontà nell'opera del giudizio (stoici), che porrà il problema del rapporto tra l'anima e il corpo, che giustificherà l'immortalità individuale con la sostanzialità stessa. Il rapporto delle due sostanze sarà il problema immediato del cartesianesimo. Due sostanze significa due esseri per sé, ciascuno per sé concepibile. Non è allora possibile porre neanche un rapporto tra la mia anima e il mio corpo. La mia volontà non è la causa efficiente del mio movimento, né l'impressione degli oggetti esterni quella delle mie sensazioni. La vera causa della corrispondenza tra i due ordini di fenomeni non può essere che la causa che ha creato l'una e l'altra sostanza, Dio. Ogni azione, ogni conoscenza è un miracolo (A. Geulinx 1625-1669). Quest'unificazione della causa efficiente prelude l'unificazione della sostanza. Il carattere puramente occasionale della nostra volontà e dell'impressione dei corpi (donde il nome di occasionalismo) prepara il concetto del particolare come modo della sostanza. N. Malebranche (1638-1715) spinse oltre questa concezione. Abbiamo notato che la conoscenza dei corpi è fondata sull'idea dell'estensione intelligibile, questa non è creata da noi, non ci può venire dagli oggetti, dunque esiste in Dio. Tutti i corpi allora sono in Dio e in Lui noi vediamo tutte quante le cose. L'esistenza di un mondo reale corporeo è un'illusione la cui prima radice è nel peccato. L'ultimo passo verso il ritorno alla posizione mistica dal cartesianismo fu fatto da Biagio Pascal (1623-1662): dalla visione in Dio si passò al rifugiarsi dell'anima in Dio.
Per altra via invece B. Spinoza (1632-1677) spingeva il cartesianismo. La verità in Cartesio era atto volontario di Dio, non però arbitrario come nell'occamismo. Arbitraria era invece la comunicazione del vero da parte di Dio all'uomo, arbitraria la creazione del mondo reale, tanto che si poteva negarla rimanendo nello spirito del cartesianismo. Spinoza, che rifiuta il concetto di arbitrio, elimina questa arbitrarietà. La sostanzialità dell'anima era stata asserita da Cartesio per salvare l'immortalità. Ma si può parlare di sostanza, d'essere per sé, rispetto a colui in cui l'esistenza e l'essenza non coincidano? E allora di sostanza non ce n'è che una, la sostanza infinita, quella che è per sé, si concepisce per sé, e, qualunque altro modo di essere si possa porre, lo ha per sé. Questo è Dio, l'ente assolutamente infinito, sostanza d'infiniti attributi, ognuno dei quali esprime tutto Dio, l'eterna e infinita essenza. Noi lo ignoriamo nella sua infinita essenza; ma nello stesso tempo, ciascun attributo essendo infinito, se possiamo conoscere un attributo infinito conosceremo sotto quell'aspetto Dio; ma noi conosciamo il nostro pensiero e conosciamo ciò che al nostro pensiero si oppone, l'esteso, e sebbene li conosciamo come questo o quel pensiero, come questo o quell'esteso, sappiamo che un pensiero si limita solo con un pensiero, e un esteso solo con un esteso, che dunque tanto il pensiero che l'estensione sono infiniti; quindi conosciamo Dio in due attributi, pensiero ed estensione; ciascuno dei quali è tutto Dio. Questa totalità importa l'unità dei due attributi. E Spinoza la trova nella proposizione VII della parte seconda dell'Etica: ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. Può esserci una distinzione tra idea e res prese nella loro particolarità, ma questa differenza si risolve in una coincidenza, se guardiamo alla totalità. Da ciò segue che il pensiero e l'azione in Dio sono identici e qualunque cosa derivi idealmente dall'essenza di Dio questo stesso ne deriva obiettivamente. Essere e pensiero non coincidono nel particolare ma nell'universale; non c'è cioè una logica del pensare e una legge dell'essere, c'è un unico ordine e connessione delle cose e del pensiero, perché altrimenti ci sarebbero due realtà, due sostanze, due divinità. Attributo e sostanza sono lo stesso, l'attributo è la sostanza espressa, e poiché la sostanza è identità degli attributi e gli attributi si palesano identici come ordo, la sostanza è l'ordo. Perciò la sostanza è causa sui, in quanto nell'ordine è la ragion d'essere di tutte quelli cose che costituiscono l'ordine stesso. Tutto il molteplice che è uscito da Dio non se n'è distaccato e perciò ciascun elemento del molteplice non si può chiudere in sé; come ciascuno è limitato dall'altro simile a sé, ciascuno è congiunto all'altro in un procedere infinito. Ma il dato dell'esperienza richiede il suo riconoscimento. La nostra immaginazione ci presenta enti particolari, ci presenta fenomeni che si collegano l'uno all'altro in una serie che per noi non è mai compiuta; e poiché ogni idea è un modo del pensiero cui corrisponde un modo dell'essere, c'è in noi un modo di essere corrispondente al modo di conoscere per immaginazione. Questo grado di essere e di conoscenza è il più imperfetto. Ma come progredisce per gradi la conoscenza, così progredisce per gradi il nostro essere. Il conoscere progredisce dalla percezione sensoriale prima alle "nozioni comuni", grado razionale, poi all'intuizione delle nature universali nel loro ordine, cioè di Dio. Il nostro essere progredisce dal servaggio delle passioni alla libertà dell'azione razionale, alla beatitudine dell'immedesimarsi in Dio che è la vera immortalità. Lo sviluppo della conoscenza e della moralità è quindi la via del ritorno del finito all'infinito, del temporale all'eterno. Ma questo ritorno non avviene nel tempo infinito, esso può essere attinto in ogni momento con la virtù infinita ch'è propria d'ogni finito. Perché non è dato a tutti gli esseri di compiere questo ritorno? Spinoza ha giustificato l'universale in tutta la sua realtà, ma non ha giustificato il particolare in quel po' di realtà che gli spetta. Il suo sforzo di dedurre il particolare è fallito perché il particolare o non è, o s'identifica con l'universale. È colpa della deduzione? Quasi contemporaneamente, in Inghilterra, Th. Hobbes (1588-1679) aveva cercato di costruire un sistema del reale nel quale esisteva esclusivamente il particolare. Principio di tutta questa costruzione è il movimento; con questo deve costruirsi la realtà fisica, psichica, morale e politica. Le conclusioni che più ebbero fortuna furono quelle con le quali egli giustificava l'assolutismo, mediante il contratto sociale rivolto a superare lo stato di natura in cui homo homini lupus. Anche Spinoza concepisce lo stato come stato assoluto ma dandogli un compito: la limitazione delle passioni con le passioni, come avviamento alla libertà etica. Anche le religioni per Spinoza sono giustificate come valori pratici, mentre la "vera religione" s'identifica con la filosofia. La tendenza a costituire, mediante una critica delle religioni positive, una "religione naturale", tendenza manifesta in varie correnti, è principalmente rappresentata dal deismo inglese (J. Toland, 1670-1722; A. Collins, 1676-1729; M. Tindal, 1656-1733). Questo spirito d'indipendenza si manifesta anche nelle ricerche intorno al fondamento della morale, intese a liberarla contemporaneamente dalla tradizionale dipendenza dalla religione e dal meccanicismo di Hobbes (Shaftesbury 1671-1713; S. Clarke 1675-1729; W. Wollaston 1659-1724; F. Hutcheson 1694-1747). Contro il meccanicismo di Hobbes sta anche la scuola neoplatonica di Cambridge (R. Cudworth, 1617-1688; E. More, 1614-1687) che torna nella dottrina della conoscenza alle idee innate. A questo innatismo reagisce J. Locke (1632-1704), ripigliando l'esigenza cartesiana d'una conoscenza che sia nostra: nostra sotto forma d'esperienza. Anche spoglia dall'elemento mitico platonico, vicino piuttosto alla forma neoplatonica, la scuola di Cambridge, ponendo nell'anima una conoscenza anteriore al conoscere, toglieva personalità all'attività spirituale. Il fatto finché rimane tale è incomprensibile. Bisogna rifarlo. Locke non esclude completamente il fatto ma si propone di rifarlo. Procede dunque prima analizzando il fatto, poi rifacendo la sintesi con gli elementi trovati. Questo secondo momento è guardato nella sua libertà: lo spirito costruisce una realtà dipendente da lui, solo che questa realtà è astratta. E per darle oggettività Locke non vede altro mezzo che quello di ricostituire una extra-soggettività. L'elemento semplice è l'immagine sensibile. Si afferma la soggettività della rappresentazione sensibile e il suo rapporto con la nostra natura adatta a questa rappresentazione del mondo. Ma non soggettività assoluta. L'idea è un prodotto della cosa. Con la distinzione delle qualità in primarie (estensione, ecc.) e secondarie (calore, colore, ecc.) ripresa da Democrito, Galileo e Cudworth, la soggettività viene limitata a queste ultime. Le qualità primarie costituiscono la cosa. Da esse provengono le idee. Tutte le relazioni invece non hanno un archetipo nella realtà di cui siano copia. Le relazioni sono invece archetipi che lo spirito dà alla realtà e poiché "in tutti i nostri pensieri... ci proponiamo solo di considerare le cose in quanto sono conformi alle nostre idee" "non possiamo mancare di attingere su questo punto una realtà certa e indubitabile". Ma in che consistano poi le cose non possiamo dirlo. Le qualità primarie infatti ci dànno la costituzione generica dei corpi ma non la loro esistenza particolare. Per giustificare questa Cartesio aveva adoperato il concetto di sostanza. Ma Locke rifiuta il concetto di sostanza che ripugna a una realtà che sia totalmente esperienza. Neanche è a noi possibile stabilire in qual modo dalle qualità primarie derivino le secondarie. Il mondo reale quindi (quale esso è realmente) è tutto al di là della nostra conoscenza, la quale deve, per quanto a esso si riferisce, contentarsi della sensazione attuale. Resta perciò tutto l'insieme della nostra conoscenza così distinto: da una parte la conoscenza veramente scientifica che determina rigorosamente le idee e procede per mezzo di rapporti evidenti, dall'altra la conoscenza sperimentale che, con il tramandarsi delle esperienze di generazione in generazione, accresce il suo patrimonio ma non potrà dare mai ad esso un carattere scientifico, perché non potrà mai andare al di là della semplice constatazione dei fatti. L'evidente punto debole di questa filosofia, in quanto vuol essere un sistema. è quello d'ammettere un mondo esterno, togliendogli tutta la possibilità d'essere come tale. Se ne accorse G. Berkeley (1685-1753) che tolse di mezzo quest'ombra. Berkeley per prima cosa eliminò la distinzione di Locke tra senso esterno e riflessione e la differenza tra le idee dell'uno e dell'altra. Non ci sono che idee particolari e le idee astratte sono un inganno tesoci dalle parole con le quali pare a noi di significare gruppi di cose, laddove esse esprimono solo rappresentazioni particolari. S'intende che ciò non può attingere la categoria. Questa verrà dapprima riconosciuta nella sua distinzione dalle rappresentazioni solo per esser negata (Hume). Ridotte le cose a gruppi d'idee, per spiegare come esse possano provocare nel soggetto la loro percezione, occorre riflettere che tutto il gruppo delle nostre sensazioni è prodotto in noi dall'attività di Dio, che suscita direttamente le idee. Ciò non basta: le connessioni evidenti tra fenomeno e fenomeno, la maniera pressoché costante di comportarsi di alcuni gruppi di fenomeni, quelle insomma che si chiamano le leggi di natura, sono idee suscitate da Dio per guidare la nostra attività pratica. La causazione, inesplicabile in Cartesio, tra sostanza estesa e sostanza pensante, che aveva dato luogo alla soluzione dell'occasionalismo, è risolta meglio che in Malebranche. C'è un'azione tra la fonte delle nostre conoscenze e le nostre idee perché esse sono parimenti spirito. E l'inutile duplicato delle cose estese è eliminato. Questa dottrina costituisce il reale come un regno di spiriti e la natura come un intermediario tra lo spirito e gli spiriti, intesi questi come principî attivi e pensanti, capaci di percepire, conoscere, volere e operare intorno alle idee. Come Berkeley anche W. Leibniż (1646-1716) perviene a costituire, ma con maggiore larghezza di vedute, un regno degli spiriti, nel suo sistema monadologico. Da Berkeley la concezione meccanica della natura è senz'altro trasformata in una concezione finalistica. Leibniz invece si propone di conciliare le due concezioni. Giudica impossibile spiegare i fenomeni della natura con il concetto di estensione e vi sostituisce il concetto di forza. Il mondo è una molteplicità. Ma non c'è molteplicità senza unità che la costituiscano. Queste non possono essere atomi materiali, poiché nessuna materia può essere concepita come indivisibile; non possono essere passive, poiché l'essere puramente passivo è niente. Sono dunque entelechie, cioè atti in ciascuno dei quali dev'essere concentrato il tutto in modo che ciascuno sia per sé e si concepisca per sé. Questi centri spirituali, ciascuno dei quali è dal suo punto di vista la totalità dell'universo, sono chiamati, brunianamente, monadi. "Per il numero infinito delle sostanze semplici (monadi) vi sono tanti e varî universi che non sono che le prospettive d'un solo universo guardato dai diversi punti di vista, che costituiscono ciascuna monade". Così l'azione tra le sostanze viene eliminata e l'autonomia d'ogni sostanza è assicurata; le sostanze sono nello stesso tempo infinite e una sola. Tutto l'universo esiste in ciascuna monade sotto forma di percezione. Le ragioni delle differenze tra le monadi, senza di cui le monadi si confonderebbero, debbono essere cercate in un principio interno. Tornano i concetti di implicato ed esplicato. Ciascuna monade è l'universo implicato, ma, perché l'universo costituisce un sistema, ciascuno deve tendere a esplicarsi, cioè a essere tutto. Questa tendenza (simile al conatus spinoziano) è l'appetizione per cui la monade passa dallo stato di percezione a quello di appercezione: l'appercezione essendo universo esplicato. Per il grado di sviluppo raggiunto ogni monade differisce dall'altra e deve differirne perché due enti perfettamente uguali non possono sussistere: se spirituali si confonderebbero, se materiali dovrebbero almeno differire nel posto occupato nello spazio. Non solo, ma queste differenze, poiché debbono riempire (idealmente) l'universo (natura non facit saltus), fanno sì che le monadi costituiscano una scala ascendente dalla materia (in cui tutte le percezioni sono confuse-implicate) allo spirito (dove sono assolutamente distinte). La monade dove tutto il reale raggiunge la pienezza della distinzione è la monade delle monadi: Dio. Ma se così è risoluto il problema per ciascuno in sé, non è risoluto il problema dei rapporti tra essere ed essere, tra monade e monade. L'indipendenza di ciascuna monade importa che essa non possa subire l'influsso di alcun'altra. Non è possibile neanche accettare la soluzione dell'occasionalismo che importa l'azione diretta continua di Dio. Leibniz la modifica col concetto dell'armonia prestabilita fin dall'inizio "tra il sistema delle cause efficienti (la natura) e il sistema delle cause finali (lo spirito)". L'apparenza meccanica dei fenomeni della natura è salva, ma essa si risolve in ultimo nello svolgimento teleologico di sostanze spirituali. La considerazione fisica (meccanica) e quella metafisica della natura (teleologica) non si contraddicono. Ma una tendenza sia pure spirituale che non può svolgersi se non in un senso dato non dovendo contraddire alle leggi del meccanismo non finisce col diventare essa stessa meccanismo? E intanto il meccanismo non può spiegare la percezione, ch'è l'essenza della monade. Costituito il suo sistema Leibniz s'incontra con la nuova impostazione del problema filosofico data da Locke. Il centro è spostato più esplicitamente dall'essere alla conoscenza. Leibniz ripiglia il problema dell'innatismo. Contro l'innatismo platonizzante Leibniz trova l'argomento definitivo: se per conoscere è necessario possedere le idee da un'esperienza oltremondana, per conoscerle in quell'oltremondo sarebbe parimenti necessaria un'esperienza antecedente, e così all'infinito. D'altro canto i sensi non potranno mai darci una conoscenza necessaria. L'empirismo non può quindi soddisfare il problema. Bisogna conciliare l'empirismo con l'innatismo nel senso di presupporre innata la "conoscenza virtuale". Ma in tal senso non solo sono innati i principî, ma ogni conoscenza; poiché non sono i sensi che determinano in noi le idee se l'anima le trae dal fondo del suo essere. Leibniz così respingeva la critica di Locke, non restando sullo stesso campo della critica della conoscenza, ma trasferendosi nel campo della sua metafisica. Nello stesso ordine di idee del Locke invece si poneva D. Hume (1711-1776). Il problema da risolvere è il problema dell'esperienza. La vera conoscenza si deve ricercare nell'atto della percezione e non in ciò che possiamo ricavarne e il cui valore starà sempre nel poter essere ricondotto a quello. Per distinguere l'idea (Locke e Berkeley) dall'impressione (atto percettivo), Hume adopera due criterî: prima si contenta di una psicologica e grossa differenza: la maggiore vivacità dell'impressione di fronte all'idea; più tardi parla di un sentimento (che egli chiama credenza) che accompagna l'atto del sentire simile all'odio e all'amore. L'idea è una riflessione sul contenuto dell'atto e quindi opera della ragione astratta che perde negli schemi la concretezza dell'essere. In che cosa consista questa concretezza, quando la percezione sia ridotta a semplici minimi di rappresentazione (cioè atomi di conoscenza), Hume non può dirlo, ma egli fa valere lo stesso quella concretezza della percezione di cui ignora tutta la ricchezza. I suoi atomi di conoscenza sono d'un colpo soggetto e oggetto, essi non hanno bisogno di altro per esistere, sono il primo assoluto; quindi Hume non ha bisogno né di qualità primarie che costituiscano l'oggetto, né di presupposti teologici (Berkeley). Il corpo da cui dovrebbero provenire le sensazioni è un posterius riguardo alle sensazioni stesse. Esso si forma mediante quelle associazioni (per somiglianza, contiguità, causalità), forze differenziate che spontaneamente l'immaginazione adopera a riunire le idee che sarebbero per sé atomisticamente distaccate. Esse sono quindi relazioni naturali, al contrario delle relazioni filosofiche, frutto di riflessione posteriore e arbitrarie. Dalla riflessione Locke traeva tre ordini di idee: le sostanze (fondamento), i modi (modificazioni delle sostanze), le relazioni. Ora di sostanze non si può parlare perché noi non abbiamo alcuna impressione che corrisponda a una sostanza; mancando le sostanze non sí può neanche parlare di modi. Restano le relazioni: solo queste possono fondarsi sull'associazione. Ad esse si riduce la generalità (universalità) delle idee. Noi abbiamo avuto percezioni che abbiamo trovato somiglianti, noi ci attendiamo di vederle ricomparire: l'esperienza passata costituisce come una forza tesa ad assorbire l'esperienza futura. Relazioni sono lo spazio e il tempo; relazione è quel rapporto di causalità che pretende riunire necessariamente ciò che la contiguità spaziale e temporale riunisce in modo contingente. La certezza di queste associazioni è maggiore o minore secondo che il numero delle concordanze è maggiore o minore. La riflessione critica (ragione) viene perciò a mostrarci che un oggetto permanente, con relazioni necessarie e universali, è una nostra finzione. Ma è una finzione di cui non possiamo fare a meno: la filosofia antica (da Aristotele alla scolastica) ha soddisfatto questa esigenza supponendo un oggetto ideale, la moderna supponendo una differenza tra le qualità primarie e le secondarie. Bisognerebbe ora vedere come è possibile che lo spirito si fermi in questa incertezza. A fondamento di essa sta la maniera psicologica d'intendere lo spirito che da Cartesio a Hume non è mai superata. Infatti l'identità dell'io, o è data come qualità della sostanza creata (Cartesio) o è fondata sulla memoria. Questa ha il vantaggio d'eliminare l'astrattezza della prima identità (l'io vuoto sempre uguale a sé stesso), ma ha lo svantaggio di considerare come fondamento ciò che è risultato: poiché il riconoscere come nostra l'esperienza passata richiede l'identità di quest'io che la riconosce. Hume cercò di determinare quali parti del sapere potessero salvarsi da questa scepsi e la sua conclusione fu che solo la matematica e la fisica sperimentale, che diverranno il punto di partenza delle ricerche di Kant, si salvano dall'essere sofisma e illusione e diventano l'oggetto proprio di una critica che passa così dal campo psicologico a quello gnoseologico: la nostra conoscenza resta dunque tutta chiusa nel particolare. Quando Hume volle trarre riguardo alla religione le conseguenze di questa sua concezione, non gli restò che criticare ed eliminare il concetto di una religione universale tipo e dell'esistenza storica di essa. Gli riuscì altrettanto facile ridurre a un puro fatto di sentimento il mondo etico.
La natura affacciatasi alla fine del Medioevo, dominante per tutto il Rinascimento mostrava ormai il suo nuovo aspetto: criticata la sostanza, criticata l'idea, essa si risolveva nell'infinita molteplicità dei fenomeni sensibili al di là dei quali rimaneva "un certo qualcosa sconosciuto" così vuoto che la critica non poteva esercitarsi su di esso. Lo spirito compreso nella natura si dissolveva anch'esso nella serie dei fenomeni psicologici. Questo processo di dissoluzione conteneva però in sé il germe della sua risoluzione, perché si veniva compiendo attraverso a quell'esame della conoscenza da cui doveva sorgere la filosofia kantiana. Frattanto l'altro germe della filosofia del Rinascimento, lo storicismo, aveva dato in Italia un suo frutto isolato in G. B. Vico (1668-1744) che compie per suo conto una critica delle scienze della natura che lo porta a concludere per l'impossibilità di andare in questo campo oltre i limiti della constatazione dei fatti e lo fa convergere verso lo scetticismo di Hume. Ma quando egli medita i fatti della storia sente che la mente che li medita è la medesima mente che li fa e la sua certezza si fa perciò verità. Invertendo quindi la posizione di tutta la filosofia contemporanea, egli considera come vera scienza la storia, non quella dei filologi (com'egli dice), ma quella che deve essere inverata dalla meditazione del filosofo, come il vero del filosofo ha bisogno d'essere accertato dai fatti del filologo. Questa sintesi di filologia e filosofia è la Scienza nuova. Nella continuità della vita storica, il punto di vista naturalistico, e perciò psicologistico, di considerare il soggetto è risoluto. E quell'attività dell'immaginazione che al naturalismo dà semplici frutti d'astrazione (le idee comuni) a Vico mostra il suo tesoro: l'universale fantastico ch'è poesia, linguaggio, mito. E in quest'universale fantastico egli trova la base per costruire il soggetto della storia: l'uomo che crea il suo mondo, la sua religione, le sue repubbliche. A un simile concetto tenderà in Germania prima G. E. Lessing (1729-1781) col suo concetto di storia, e dopo di lui J. G. Herder (1744-1803). Frattanto la forma di cultura che s'era diffusa per l'Europa e che legava gli spiriti come a una nuova scuola comune era l'illuminismo. Questo, mentre in Inghilterra s'era sviluppato nelle concezioni filosofiche di Locke e di Hume, in Francia e in Italia restò un semplice movimento di cultura filosofica. Voltaire (1694-1778) volgarizzò in Francia la nuova concezione del mondo naturale. I. Newton e Locke sono i suoi autori. Il progresso (idea formatasi durante l'umanesimo, rappresentata da Bruno prima, poi da Bacone) si fissa in due momenti: lo stato iniziale di natura, cioè l'uomo puro, e il punto d'arrivo, la natura restaurata mediante la critica con la quale la ragione ha eliminato tutte le soprastrutture della storia. Tutta la storia intermedia non ha valore. Raccogliere tutto il sapere col fine di divulgarlo in una grande Enciclopedia (v.) fu il compito di quest'indirizzo. Quest'opera fu pubblicata tra il 1751 e il 1772 per le cure di J.-B. D'Alembert (1717-1783) e di D. Diderot (1713-1784). Appartennero all'Enciclopedia A. R. Turgot, F. M. Grimm, P. H. d' Holbach. Se ne staccano per fisionomia propria Ch. de Montesquieu (1689-1755), che razionalizza quella formazione storim ch'è la costituzione inglese; E. Condillac (1715-1780) che collega Locke al sensismo di P. Gassendi (1592-1655) liberandolo dall'epicureismo. Punto di partenza della conoscenza è perciò la sensazione che proviene dalla natura fisio-psichica dell'uomo e in genere dell'animale. Ma l'uomo supera la sensazione, come stato passivo, mediante l'attenzione. L'attenzione collega ed estende le percezioni, ci dà la memoria; dalla memoria nasce la riflessione. Questa condizione dell'attività dell'attenzione, costituisce l'originalità di Condillac rispetto al Locke. Questa ricostruzione dello sviluppo della coscienza, rifatta con maggiore senso d'umanità, dà la filosofia di J. J. Rousseau (1712-1778). In Italia rappresentanti della cultura illuministica furono A. Genovesi (1712-1769), G. D. Romagnosi (1761-1835), Melchiorre Gioia (1767-1828). In Germania C. Wolf (1679-1754) diffuse in forma scolastica il leibnizianismo ponendo come fine della filosofia la dimostrazione della pensabilità dell'essere. Contro la pedanteria dei suoi trattati reagì la filosofia asistematica, popolare, rappresentata principalmente da Moses Mendelsohn (1729-1786), che tanto contribuì a diffondere la cultura filosofica.
Nella scuola wolfiana-leibniziana si educa E. Kant (1724-1804), ma la conoscenza dell'empirismo inglese, specie in D. Hume, e del Rousseau lo spinsero a una revisione dei principî razionalisti. Tra Leibniz, Locke, Hume e Kant, è il Kant precritico che da solo costituisce già un momento della storia: questi scopre che tempo e spazio sono forme della sensibilità, trova che nell'esperienza sono contenuti principî e concetti puri, presenta l'idea d'una ragione dialettica, limita il valore degli argomenti adoperati per la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Ma la scoperta della sintesi a priori produsse tale rivoluzione nella maniera di porre i problemi filosofici che il Kant precritico fu quasi dimenticato. Pure senza di esso non s'intende tutto il travaglio del pensiero kantiano: il quale appare solo in parte nelle tre Critiche. La Critica della ragion pura consta di tre parti principali: l'estetica trascendentale, l'analitica trascendentale, la dialettica trascendentale, quest'ultime due riunite in una logica trascendentale. In corrispondenza di questa divisione noi abbiamo la distinzione d'intuito, intelletto e ragione, non come tre facoltà (in quanto è eliminato il concetto di anima), ma come tre momenti del processo della conoscenza. Kant distingue senso e intelletto come due aspetti della vita psichica: recettività e spontaneità. Ma la recettività e la spontaneità non hanno un'esistenza differenziata temporalmente e realmente. Per distinguere l'intelletto dalla ragione dirà poi che "se l'intelletto può essere una facoltà dell'unità dei fenomeni secondo le regole, la ragione è la facoltà dell'unità delle regole dell'intelletto sottoposte a principî". Si tratta quindi di distinzione di momenti della generale attività unificatrice che vengono contrassegnati sotto il nome di facoltà diverse, perché la natura dell'oggetto che viene fuori da queste unificazioni è essenzialmente diversa. Intanto è da notare che l'uso dei termini intelletto e ragione è invertito riguardo all'uso che se ne faceva nel Rinascimento e che la triplice distinzione deve farsi risalire al neoplatonismo, mentre s'è spogliata, attraverso tutto il processo da Locke a Hume, del suo valore mistico. Inoltre con la distinzione d'intuito e intelletto Kant si è allontanato dal razionalismo leibniziano che faceva dei sensi un intelletto oscurato, cioè negava la natura peculiare della conoscenza intuitiva. Ammessa la distinzione, si deve ammettere l'unità di questi monenti: non c'è una conoscenza in cui i tre momenti non siano in funzione. La distinzione, pur non trascendendo l'esperienza, fuori della quale non avrebbe nessun significato, non è empirica in quanto non è mediante l'esperienza che essa può nascere. Trascendentale è perciò ogni conoscenza che si occupa in genere non di oggetti, ma del nostro modo di conoscerli: questa conoscenza c'è (cogito ergo cogito) e dev'essere possibile avere di essa una conoscenza necessaria (a priori), e questa non può aversi se non conoscendo ciò che c'è di necessario nella conoscenza. Kant cercherà perciò il trascendentale dell'esperienza, cioè le condizioni di essa, e costruirà la filosofia trascendentale, cioè il sistema delle condizioni della conoscenza. Questa filosofia non è quindi né empirica, perché non esamina i dati dell'esperienza; né razionalista, perché non determina altri principî se non quelli che necessariamente si ritrovano nel concreto dell'esperienza; limitandosi a distinguere dalla materia di essa la forma, senza distaccarnela per servirsene arbitrariamente. Poiché l'analisi è trascendentale, il suo punto di partenza e di riferimento perpetuo è l'esperienza, ma non l'esperienza considerata esclusivamente per il suo contenuto, bensì l'esperienza come contenuto e forma, cioè l'esperienza in atto. Come esperienza in atto Hume aveva indicato nel Trattato (che Kant non conobbe) l'attualità sensibile. Ma Kant non si ferma lì; sono esperienze in atto la matematica, la fisica; anche la metafisica, se guardata come esigenza a cui la mente umana non può sottrarsi. Questa distinzione trova riscontro nelle distinzioni empiriche di Hume e di Locke. Ma con ben altro significato: poiché non si guarda, in una pretesa analisi introspettiva individuale, come la coscienza astragga e tratti le astrazioni o riunisca soggiacendo alla dolce forza attrattiva di esse, le rappresentazioni; ma si guarda a questi rapporti astratti e concreti nella matematica e nella fisica pure. Non si guarda quindi più il soggetto particolare ma il soggetto universale; si esce dallo psicologismo (quindi dal naturalismo) e si crea il trascendentalismo. Certo un non trascurabile antecedente è la dottrina berkeleyana della mente di Dio posta a fondamento di tutto il reale, ma questa mente, data la sua trascendenza, non è il soggetto universale, bensì l'oggetto universale pensato come soggetto. Il soggetto universale di Kant è invece immanente: esso è "una coscienza in generale". E questa non è neanche un ente, è "l'unire in modo necessario". Cioè, passando dalla psicologia di Hume al trascendentalismo di Kant, non si esce dall'attualità della coscienza, perché la coscienza universale è nella coscienza particolare; ne la distingue l'analisi trascendentale. Ma questa attualità della coscienza è un concetto che Kant non pose mai bene in chiaro: il suo sforzo è sempre quello di trovare il concreto come totalità, ma la natura dell'analisi stessa lo porta a presentare i momenti dell'analisi, come se ciascuno fosse un concreto. Inoltre il suo pensiero si esprime in una continua serie di distinzioni, in cui talvolta l'architettura crea difficoltà al sistema. In corrispondenza di questo procedimento diventa oscura anche un'altra questione: quella del noumeno. Kant distingue fenomeni e noumeni: fenomeno è per Kant il reale in quanto è nella nostra conoscenza. Ma il senso di noumeno varia col procedere dell'analisi kantiana. Nel periodo precritico egli pensa a un noumeno conoscibile con l'intelletto; nell'estetica trascendentale (cioè cominciato il periodo critico) il noumeno diviene, come per Hume, inconoscibile, ma resta come un ipotetico oggetto che affetta la nostra recettività (donde il termine recettività). Ma procedendo per la dialettica trascendentale, esso diventa il concetto limite dell'unità assolutamente raggiunta nel processo del conoscere (per sé infinito) e a mano a mano si trasforma nel principio stesso che ci fa insoddisfatti d'ogni unificazione data, quindi in una forma di dovere morale insito alla conoscenza, e finalmente si presenta come la libertà e il carattere intelligibile nella Critica della ragion pratica. Un'altra conseguenza della maniera di esposizione kantiana è l'apparenza formalistica del kantismo. Kant ha presentato la forma del conoscere e la forma dell'agire etico. Ma era questo ch'egli si proponeva? Kant stesso cade nell'equivoco di considerare la sua ricerca come una preparazione a una metafisica di là da venire. Ma è possibile fare un'analisi trascendentale della conoscenza senza una metafisica? Così nella dimostrazione kantiana della funzione unificatrice dello spazio e del tempo, è implicita un'intuizione pluralistica del mondo fenomenico. Nel porre il giudizio come unificatore del teoretico e del pratico, Kant determina un concetto del reale avente necessariamente un valore metafisico.
Premessi questi principî, vediamo come Kant costruisce il suo sistema. La conoscenza è giudizio: unione di rappresentazioni in una coscienza; i giudizî si possono distinguere in analitici, quelli nei quali il predicato è già contenuto nel concetto del soggetto, e sintetici, quelli in cui il predicato aggiunge una determinazione nuova al soggetto. Poiché i primi, lungi dal formare la conoscenza, la presuppongono, per la conoscenza non ci sono che giudizî sintetici: questi sono il risultato dell'esperienza: l'esperienza però non può darci nulla di necessario e universale (Locke-Hume); se dunque noi troviamo giudizî sintetici necessarî, questi non saranno sperimentali (a posteriori) ma a priori. Ma nessuna conoscenza materiale si può avere fuori dell'esperienza sensibile, e allora i giudizi sintetici a priori costituiranno la "forma" dei giudizî sintetici. Noi possiamo dubitare del valore di ognuno dei nostri giudizî per la sua materia, ma non possiamo percepire alcuna sensazione fuori della forma dello spazio e del tempo; né possiamo concepire alcun oggetto fuori delle categorie. Quali queste siano si vedrà non dall'esame del contenuto della scienza, ma dalla forma di tutti i giudizî che in essa si fanno. Da questo esame risulta che i fenomeni sono da noi quantificati, qualificati, posti in rapporto tra loro, posti in rapporto con noi, cioè col nostro modo di concepirli, mediante le specificazioni d'ognuna di queste funzioni. L'aver cercato nella matematica e nella fisica pure le funzioni dello spirito ha permesso a Kant, da un lato, di evitare lo psicologismo, dall'altro di poter elencare nelle categorie tutte le specificazioni di quell'unica categoria vera ch'è l'Io penso. Il carattere di funzione delle categorie esclude che di esse possa farsi un uso diverso da quello empirico. Pertanto l'uso delle categorie è legato alla sintesi dell'intuizione, cioè alla sintesi temporale. Il tempo è un indefinito: la nostra sensibilità è un perpetuo divenire. Ne consegue che anche l'unificazione categorica (la sintesi a priori) è un perpetuo divenire. L'intuizione ci dà una sinopsi delle sensazioni, il giudizio riunisce le rappresentazioni in oggetti, gli oggetti nel sistema meccanico della natura. Ma le intuizioni pure sono la condizione del sentire: vuol dire che ciascun termine di quel molteplice può esser dato, quale è, esclusivamente nella sintesi. Le categorie sono condizione della conoscenza: vuol dire che nessuna rappresentazione sarebbe quale è fuori della sintesi in cui entra. Conclusione: perché ci possa essere una conoscenza pienamente soddisfacente, tutto deve essere unificato. Interviene allora la ragione con l'esigenza metafisica. Questa si manifesta richiedendo una unificazione definitiva la quale non può essere rappresentata se non da un concetto totalitario dell'oggetto: e cioè dal derivare ogni possibile conoscenza particolare da un principio unico; cioè dal trasformare i giudizi in sillogismi. Anche questo procede per gradi: "il sillogismo categorico dà luogo all'idea del soggetto assoluto; l'ipotetico all'idea della serie assoluta delle condizioni; il disgiuntivo all'idea della determinazione di tutti i concetti nell'idea d'una totalità assoluta del possibile". Ci sarebbe quindi già un contrasto insanabile tra l'intelletto, che non può unificare se non in un processo continuato, e la ragione che vuole unificare chiudendo il processo (processo assoluto = processo compiuto). Ma tutte le idee della ragione così dimostrate (l'anima, il mondo come universo, Dio) non sono concetti, non ci dànno della realtà la determinazione "è", ma la determinazione "deve essere": l'illusione di tutta la metafisica è stata appunto quella di presentare come essere il dover essere, cioè di considerare come un oggetto la legge di produzione degli oggetti. Il risultato della dialettica trascendentale è quindi: non si può dimostrare che c'è un'anima; ma non si può dimostrare che non c'è; si può procedere perennemente a costituire quell'unità del soggetto che il metafisico dava come un oggetto di conoscenza (l'anima); si può parimenti dimostrare che il mondo ha un cominciamento e che non l'ha, ch'è divisibile all'infinito e che ci deve essere un indivisibile, che tutto è necessario e che esiste la libertà, ciò perché il suo processo d'unificazione è chiuso e riaperto in ciascun momento; non si può dimostrare che Dio c'è, ma non si può dimostrare che non c'è, perché esso non è un oggetto d'esperienza. La ragione così, dimostrando d'avere in sé un dover essere che non è soddisfatto nella contemplazione del reale, si dimostra ragion pratica; il suo dover essere "è" in quanto legge incondizionata d'ogni agire. L'analisi della ragione in quanto pratica è dapprima condotta come se essa fosse solo pratica. Si distinguono gl'imperativi che reggono l'azione in ipotetici e categorici: noi possiamo cioè fare qualche cosa in vista d'un fine, o per sé stessa. I primi non hanno necessità, i secondi legano invece la volontà incondizionatamente. Ogni imperativo morale ha questo carattere; e questa incondizionalità propria d'ogni legge morale è la vera legge morale. Essa può essere formulata così: "opera in modo che il principio della tua azione possa elevarsi a norma univetsale". In tale formulazione è indicato quello che fa legge morale ogni legge, qualunque essa poi sia in rapporto alla civiltà di ciascun popolo. Ma questa formula è suscettibile di trasformazioni che mostrano come il suo formalismo non sia un'astrazione, ma contenga in sé la concretezza. È fine ciò che è voluto per sé, mezzo ciò che vale per un fine. L'universalità della norma, fine a sé stessa, ci rivela come fine la ragione universale, quindi: opera in modo da trattare l'umanità (cioè la ragione, anche tua) come fine e non come mezzo. Da questo si passa alla terza formula: sii autonomo; cioè agisci come ragione (essere universale). La libertà non è un presupposto psicologico della legge morale, ma è il contenuto della stessa legge: devo assolutamente, dunque sono libero, posso. Anche la ragion pratica ha la sua antinomia. Per il concetto stesso di giustizia non si può disgiungere la felicità dalla virtù, il loro legame non è analitico ma sintetico; intanto non si può far dipendere la virtù dalla felicità (perché non sarebbe più virtù), né la felicità dalla virtù perché il successo dell'azione non si conforma alle intenzioni della volontà ma alla cognizione delle leggi naturali e al potere fisico di usarle. Questo successo potrebbe essere pieno solo se fosse compiuto il processo, che abbiamo visto infinito, della ragione teoretica. La ragion pratica allora postula questo processo infinito, quindi: l'immortalità e personalità dell'anima, l'esistenza del sommo bene, cioè di Dio. Questa necessità è però un bisogno, non un dovere; un dover essere e non un essere. La ragione quindi si mostra una come teoretica e pratica. Quale delle sue funzioni è la privilegiata? Se la ragione non potesse ammettere e pensare altro che ciò che la speculativa per sé le potesse presentare per propria cognizione, allora la speculativa terrebbe il primato. Ma se la ragion pratica ha principî originali a priori, legati a posizioni teoretiche di quelle che si sottraggono alla conoscenza teoretica (senza essere in contraddizione con essa) la ragione speculativa deve accettare queste proposizioni e conciliarle coi suoi concetti. Ma la ragione ha questi principî perché è pratica per sé (autonomia della legge morale): allora è chiaro che essa ha il primato sulla ragion teoretica. La conciliazione fu cercata da Kant (Critica del giudizio) in un terzo carattere del soggetto (anche questo da lui chiamato facoltà), il sentimento (che è l'inclinazione che accompagna la rappresentazione d'un oggetto e che si differenzia sia dal piacere dei sensi sia dal piacere pratico); cioè nel sentimento estetico in virtù del quale il mondo della ragion teoretica e il mondo della ragion pratica si uniscono a formare l'unico mondo dello spirito. Il sentimento estetico si soddisfa per il fatto che una molteplicità concorre armonicamente a costituire un'unità. Questa rispondenza delle parti al tutto è la finalità interna, da distinguere da quella esterna che subordina un oggetto a un altro, come mezzo al fine. Questa finalità interna non è una rivelazione dell'oggetto al soggetto; ma una libera creazione del soggetto che contempla l'oggetto senza la preoccupazione di conoscerlo concettualmente (cioè nell'ordine della natura che è), o di utilizzarlo praticamente. In essa quindi il soggetto celebra nel campo della natura la sua libertà. Esistono però nella natura (cioè sono tali che non possono non esser concepiti così) esseri i quali mostrano la medesima disposizione di parti concorrenti al tutto in modo che questo non può pensarsi come il risultato delle parti, ma come la loro condizione: finalità oggettiva. Esse svelano nella natura l'azione d'un principio soprasensibile. Ammesso questo principio, si devono supporre conciliabili meccanismo e finalismo: cioè si deve supporre esistente l'unità assoluta della natura: che era ciò che postulava la ragione, fin da quando come teoretica doveva concludere di non poter fare altro che postularlo. Ma poiché nulla c'è nella natura, presa per sé, che non sia condizionato, quest'unità del reale non si può trovare che nell'essere morale. L'essere morale diviene quindi il centro della realtà e la natura con la sua necessità deve procedere d'accordo con la legge morale. I motivi che vengono a sboccare nella filosofia kantiana sono dunque tutti quelli che abbiamo visto muoversi fino a questo momento parzialmente col fine di mostrare o la costituzione del mondo della natura con la sua necessità, o la costituzione del mondo degli spiriti con la sua libertà, col suo sommo bene.
Da questo momento la filosofia o tenta di sviluppare questa grande sintesi o ne sviluppa vedute parziali che mostreranno il loro valore solo ricondotte alla grande sintesi. A mettere in evidenza il principio kantiano dello spirito creatore del suo mondo concorse subito il Romanticismo. La dottrina della Critica del Giudizio in specie diede impulso al concetto dell'"anima bella", della personalità compiuta (Goethe e Schiller). Le esaltazioni di questi concetti diedero luogo invece a quel romanticismo del genio senza vincoli, che fu rappresentato da Schlegel e Novalis. Ma uno sviluppo propriamente filosofico Kant l'ebbe nell'idealismo tedesco rappresentato da Fichte, Schelling, Hegel.
Il punto in cui Kant s'era decisamente distaccato dallo scetticismo di Hume era il concetto dell'unità originaria del soggetto, concepita non come l'unità d'indifferenza (da respingere) ma come attività unificatrice. J. G. Fichte (1762-1814) osserva che l'unità originaria non può esser veramente originaria se aspetta a manifestarsi che il contenuto suo le sia dato, se cioè l'unità di a priori (categoria) e a posteriori (senso) non è prodotta dalla stessa unità originaria. Se il soggetto è la condizione prima dell'esistenza dell'esperienza, questa deve potersi dedurre dal soggetto: il quale perciò deve esser preso nella sua attualità di autocoscienza come produzione assoluta di sé, l'ultima produzione assoluta di sé. L'ultima ombra della "cosa in sé", la concezione del noumeno dell'estetica trascendentale, è così eliminata, e il noumeno resta solo nel senso della Critica della ragion pratica come l'Io. L'Io pone il suo oggetto ponendo sé stesso e perciò è sintesi di Io e non-Io. Il non-Io è il limite che l'Io pone a sé stesso. L'attività viene quindi posta esplicitamente come l'antecedente logico dell'essere e la causa e la sostanza vengono veramente racchiuse nel mondo fenomenico come invano s'era fino allora tentato. Il movimento progressivo della coscienza, che per Kant è provocato da un dato (sensazione), per Fichte è provocato dalla stessa coscienza che si oppone il suo contenuto o prodotto. I momenti di questo processo si atteggiano quindi fin d'ora col ritmo dialettico: l'attività dell'Io (tesi), il suo prodotto che le si oppone come limite (antitesi), il superamento di questa opposizione (sintesi), che costituisce la tesi del nuovo processo, che è determinato ab intra dall'insoddisfazione del soggetto infinito per ogni determinazione parziale in cui si ritrovi. Il fine del processo è quindi l'assoluta consapevolezza di sé che il soggetto tende ad acquistare. Questa non è d'ordine teoretico ma d'ordine morale. Tutto questo mondo che il soggetto crea non è se non il materiale per l'attività della ragione pratica. il materiale sensibile del dovere. Con questo il formalismo della morale kantiana viene in parte indirizzato verso la pienezza storica del Vico: la ragione per costruire il mondo morale non deve respingere fatalmente da sé la sensibilità. Così Fichte dà il sistema del primato della ragion pratica.
F. W. Schelling (1775-1854) invece prende come punto di partenza del suo sviluppo la finalità interna della natura, secondo la quale il concetto è presente nella natura stessa. Il conoscere attinge il reale perché il reale è già in sé unione di natura e spirito. L'intelligenza senza coscienza produce la natura, con la coscienza produce il mondo dello spirito. L'intelligenza senza coscienza è lo spirito nella sua immediatezza, dove non si distingue il soggettivo e l'oggettivo, è l'unità originaria di essi, presupposto assoluto non dimostrabile. Noi apprendiamo quest'identità per intuizione. Schelling volle rifare il processo kantiano di sviluppo dello spirito partendo da questa prima indifferenza. L'azione dello spirito nell'interno della natura si mostra organizzando la materia in forme viventi. Schelling si propone di investigare i principî che regolano questo autocostruirsi della natura cominciando dalla genesi delle tre dimensionī spaziali. La scienza contemporanea con i suoi sviluppi (magnetismo, elettricità, teoria dei colori, ecc.) viene adoperata in questo grande sistema a costruire una natura come storia che va potenziandosi a mano a mano fino a raggiungere lo spirito cosciente. La filosofia della natura di Schelling dev'essere perciò considerata come il primo sforzo di ricondurre lo stesso concetto di natura sotto il concetto di storia. L'io manifestatosi deve risolvere in sé, per potenziarsene, questo processo compiuto come natura: egli appare quindi come la coscienza che si determina per mezzo dell'inconscio (oggetto). Potenziatosi di questo, l'io si manifesta come pratico: tende cioè a costruire una realtà oggettiva mediante la coscienza. Ma sia nell'uno che nell'altro processo (conclusione tratta dalle due prime critiche kantiane viste col nuovo occhio) non può pienamente raggiungere il fine dell'identità. Questa si raggiunge solo nell'attività estetica: il prodotto dell'opera d'arte esiste obiettivamente come il prodotto della natura, ma noi abbiamo contemporaneamente coscienza ch'esso è un prodotto della nostra libertà. L'artista pone nel finito dell'opera d'arte una infinita significazione, così che in esso la necessità si unisce alla libertà (v. estetica). La funzione storica di Schelling resta quella d'aver portato a compimento l'idealismo estetico, contenuto in Kant, come Fichte aveva fatto per l'idealismo etico.
F. Schleiermacher (1768-1831) sviluppò invece i germi religiosi del kantismo: la religione non appartiene né alla sfera del teoretico, né a quella del pratico, ché tutte e due presuppongono una scissione del particolare dall'universale, del finito dall'infinito; ma alla sfera del sentimento, dove finito e infinito si toccano.
La sintesi viene invece ricostituita da G. F. Hegel (1770-1831). Egli parte dal concetto che l'unità di natura e spirito non può essere un dato, un'indifferenza, perché allora diventa un presupposto quel che dev'essere invece il punto d'arrivo della ricerca filosofica. Bisogna quindi provare quest'unità: la prova è il generarla dinanzi a noi. Non si può altrimenti mostrare che tutta la natura è spirito, cioè pensabile, se non pensandola, in modo che nulla resti senza giustificazione nel processo. Il movimento diventa impensabile quando si vuole spiegarlo mediante il concetto dell'essere, che esclude completamente da sé il non-essere, dell'uno che esclude il molteplice. Bisogna quindi trovare la nuova logica della ragione. Kant ne ha indicato la strada senza percorrerla tutta: ha posto lo spirito pratico e il teoretico come due opposti da conciliare nel giudizio. Ha mostrato la dialettica immanente alla ragione; ma come un difetto. Bisognava fare un passo oltre, dimostrare che questa dialettica non era il difetto, ma l'essenza della ragione. Ed ecco formulata la nuova logica speculativa, che si serve della contraddizione per la produzione dei concetti superiori, finché non raggiunge la pienezza dell'autocoscienza. L'esigenza di questa logica è dimostrata dal processo storico del pensiero, che si riproduce in certo modo nel processo di formazione della coscienza individuale stessa. Lo spirito parte dall'esperienza volgare: unione del molteplice in una coscienza, ma non sistema. Esaminando questo molteplice ne scopre le contraddizioni e le vuol superare eliminando uno dei termini della contraddizione. Nasce la filosofia astratta che contrappone all'esperienza la ragione. L'esperienza disconosciuta dal pensiero reagisce dandosi sistemazioni sue particolari che contrastano con l'unità assoluta sistematica del pensiero. Ma ognuna di queste sistemazioni particolari tende a farsi valere come l'universale. Queste usurpazioni risvegliano il pensiero e lo spingono a svolgersi movendo dalla sua stessa forma. Questo svolgimento dimostrerà che è il pensiero stesso a costituire l'esperienza (kantismo). Ma ciò non sarà possibile finché non si sia costruita la logica del concreto. Questa non può porre come suo principio l'esclusione che i contrarî fanno l'uno dell'altro quando siano considerati ognuno per sé fuori della realtà vivente, ma l'unità di essi nel mondo vivente. Quest'unità è il positivo-razionale, perché è lo stesso fatto identificato con la razionalità: "ciò che è reale è razionale". Ma questo verrebbe alla giustificazione d'ogni deficienza, se a "reale" non si desse il senso ben determinato di ciò in cui l'essenza coincide con l'esistenza: quindi di ciò che riesce a esistere perché è come dev'essere. Il resto è apparenza. Così la natura presenta delle "impotenze a realizzare l'idea", e lo spirito presenta una storia immanente con significato eterno e una serie di "esteriorità storiche" da cui si deve spogliare la storia immanente. Questa inconseguenza al principio libera Hegel dal dover provare troppo, cadendo in un'altra astrattezza; ma mostra ancora in lui un'incomprensione dell'individualità. Il suo sistema infatti, mentre da una parte è una grande storia che abbraccia in uno Dio, il mondo e lo spirito, dall'altro si presenta spesso come un disconoscimento della storicità, ch'egli stesso aristotelicamente finisce col concepire come compiuta. Il metodo hegeliano è lo speculativo-dialettico. Hegel distingue nel fatto logico tre aspetti: astratto-intellettuale (distinzione degli opposti che li fissa togliendo loro il movimento), dialettico-sofistico (che si serve di ciascuno degli opposti per negare l'altro) e dialettico-speculativo, che si serve dei contrarî per costruire il concetto superiore. La logica che ne risulta contiene tutte le determinazioni della logica intellettualistica e tutte le determinazioni dell'esperienza, non giustapposte ma risolte in un concetto ch'è l'universale concreto, mentre divise esse dànno l'universale senza concretezza, e il concreto senza universale, che diviene un'accozzaglia di fatti. Il punto di partenza di questa logica deve essere perciò il più semplice degli universali e la più semplice delle apparenze: l'essere e il non essere. Ma per intendere Hegel bisogna tener presente che quest'essere è l'essere che è immanente al pensare. Da quest'essere del pensiero, mostrando come una categoria nasca dall'altra, Hegel perviene al concetto del pensiero eome Idea, unità del soggetto e dell'oggetto. Quest'unità si è fatta ma non si conosce. Per conoscersi deve alienarsi da sé (natura = oggetto della filosofia della natura) e tornare in sé (spirito = oggetto della filosofia dello spirito). La logica è quindi lo sviluppo essenziale di quelle categorie che la storia della filosofia, per la prima volta presa esplicitamente a oggetto della conoscenza filosofica, ci presenta nelle accidentalità degl'individui finiti nei quali ognuna delle categorie è stata portata in luce. La filosofia della natura, svolgendo un più ricco materiale di quello di Schelling, è un grande tentativo di ricostruzione filosofica della scienza della natura, il quale parte dalla fede d'avere scoperto il concetto di natura. Ma Hegel è ben lontano dal cadere nel misticismo di Schelling. La natura è non ens, contraddizione insoluta, perciò molteplicità ed esteriorità. E cioè il punto di vista kantiano di una natura non assolutamente unificabile come tale vi è mantenuto. La filosofia dello spirito parte dalla coscienza, la natura che si ripiega su dì sé e riconosce a mano a mano sé stessa si soggettiva per poi oggettivarsi in quelle espressioni che realizzano in pieno il logos: la moralità, il diritto, l'arte, la religione, la filosofia.
Il processo analitico del kantismo anche con Hegel rimane tutt'altro che compiuto. La dottrina kantiana serbava delle tracce dello psicologismo di Hume da cui era partita e in senso psicologista credettero di poterla sviluppare J. F. Fries (1773-1843) e F. E. Beneke (1798-1854) in Germania e meglio in Inghilterra W. Hamilton (1788-1856). In Francia F. P. Maine de Biran (1766-1824) si appella a uno "sforzo volontario" come unico fondamento dello sviluppo dell'esperienza. Con maggior metodo J. F. Herbart (1776-1841), rifacendosi alla posizione di Hume, ricostruisce lo sviluppo della coscienza valendosi di "reali", che corrispondono al minimo sensibile, e facendo agire questi con un meccanismo fondato sulla similitudine, differenza e contrarietà. A. Schopenhauer (1788-1860) partendo dal formalismo kantiano mette in evidenza che nessuna delle leggi di natura può spiegare perché ci siano quei fenomeni che debbono conformarsi alla legge. E se noi li guardiamo in sé stessi non possiamo scorgervi (come il romanticismo aveva visto) che un irrazionale capriccio. La vera natura dell'autocoscienza kantiana, cioè dell'unità trascendentale del mondo, non deve ricercarsi nella ragione ma nella volontà. L'unica e comune volontà del mondo si esprime ugualmente in ciascuno di noi, creando un mondo di rappresentazioni senza legge. Schopenhauer così dà veste filosofica alla dottrina romantica del genio che crea il suo mondo capricciosamente, universalizzando questo capriccio in una volontà universale. Il primato della ragion pratica si risolve in questa volontà, spogliandosi da quella legge morale in cui Kant aveva trovato la sua essenza. Mentre il problema di Kant era di spiegare la regolarità della natura e il bene, il problema di Schopenhauer è di giustificare il male e l'irrazionale della realtà. E certamente per questa parte il kantismo era difettoso. Ma questo sviluppo parziale non poteva colmare il difetto.
Uno sviluppo analogo a quello dell'idealismo tedesco ebbe la filosofia italiana. P. Galluppi (1770-1846) procede all'analisi psicologica sotto l'influsso degl'ideologi, ma, sebbene neghi la sintesi a priori teoretica, parte proprio da questa. La sensazione attuale è per lui infatti unità di soggetto e oggetto: sente immediatamente la sostanzialità del me e del fuor di me. L'identità di natura e spirito è da lui posta quindi immediatamente, ma nell'attualità della sensazione. A. Rosmini (1797-1855) parte come Galluppi dalla sensazione come modificazione del sentimento di sé, e attribuisce alla ragione la funzione categorica, ponendo però un'unica categoria, quella dell'essere; ma volendo sfuggire al soggettivismo kantiano ammette l'intuizione intellettuale. L'intelletto intuendo l'essere universale (possibile) diviene la ragione unificatrice del reale. Ogni idea è la limitazione-determinazione dell'idea dell'essere. Questa determinazione, che per l'intelletto è solo possibile, diventa cognizione attuale quando mediante la sensazione noi affermiamo la sussistenza dell'idea possibile, ogni cognizione (giudizio) è perciò sintesi dell'idea col fatto della sensazione. La conoscenza quindi non è prodotto dell'oggetto: da questo proviene solo la persuasione della sussistenza. Questa sintesi è possibile perché il "sentimento fondamentale dell'io" è l'unità originaria in cui risiedono la potenza del senso e la potenza dell'intelletto. L'universale è un meramente possibile perché esso fa solo conoscere la natura degl'innumerevoli individui in cui si fa reale. Esso solo è necessano, perché non ammette contraddizione. Da ciò deriva che le idee sono, in quanto possibili, necessarie, universali, eterne, quindi in Dio, e in Dio non possono essere altrimenti che come l'essere di Dio stesso. Dio è l'autocoscienza stessa. Noi non possiamo conoscerlo che determinatamente in noi e negli altri esseri che come noi aspirano a congiungersi con lui (divenire autocoscienti). Ma perciò le idee in noi non hanno lo stesso potere creativo che in Dio. Noi possiamo solo dalle idee essere indotti a riconoscere praticamente l'ente per quel tanto di entità ch'è in lui. L'uomo è un sentimento fondamentale che ha due modi, l'uno esteso e l'altro semplice. L'esteso è il soggetto sensibile (molteplicità dei desiderî e delle tendenze), il semplice è la ragion pratica (che è la stessa speculativa). L'unità e l'opposizione di questi due termini (logica speculativa) costituisce la vita morale. In questa dialettica, Rosmini supera il formalismo dell'etica kantiana. V. Gioberti (1801-1852) s'oppose al Rosmini negando che la base dell'intendere potesse essere l'ente possibile. Essa deve cercarsi nell'ente reale e determinatissimo, l'idea nella sua assoluta concretezza, l'atto creativo di Dio che l'uomo itera e compie con la sua attività. In questo concetto del ricreare si riconosce facilmente la mediazione hegeliana. Gli sviluppi sono però diversi. Nell'ultima forma del pensiero del Gioberti si oppongono mimesi e metessi. La mimesi è la realtà fenomenica che nel suo fondo è quella stessa che si rivelerà nella metessi, ma allo stato implicito. Esplicarla è l'atto creatore. "L'universo mimetico è un tutto, un aggregato di sostanze distinte e connesse da semplici relazioni astratte"; "l'universo metessico è una unità versante in una relazione universale e concreta, che è la base e il principio delle sostanze e relazioni particolari". Tutto vive in tutto ma non privo d'individualità; "la vita non è un'astrazione e generalità mera e possiede il sommo grado della concretezza". "Abbiamo dunque nella vita l'unione dell'universalità e dell'individualità che sarà propria della metessi finale". L'individuo-idea è la cima della creazione: esso si presenta nell'individuazione estetica fatta dalla natura e dall'arte (Critica del giudizio), negli uomini grandi per ingegno o per virtù. Creazione è pensiero e tutto il mondo è il mezzo ordinato allo svolgimento del pensiero.
La crisi della rivoluzione italiana trovò la sua espressione nello scetticismo di G. Ferrari (1821-1895). Frattanto B. Spaventa (1817-I873) introduceva nuovi germi nel pensiero italiano con una più diretta e profonda conoscenza del kantismo e dell'hegelismo.
La filosofia contemporanea. - Uno sguardo alla filosofia contemporanea basta a mostrare come essa non sia ancora uscita dall'ambito della posizione kantiana dei problemi, anzi vi si addentri sempre più. La seconda metà dell'Ottocento fu dominata dalle grandi costruzioni scientifiche, frutto di quella critica che aveva sgombrato i fantasmi della vecchia metafisica. Superficialmente la filosofia si attaccò al grido "niente metafisica" e credendo di raccogliere soltanto i risultati delle scienze, cioè dell'esperienza, diede a essi formulazioni sistematiche in una nuova metafisica. Questo periodo si suole chiamare positivismo, perché della sintesi "positivo-razionale" credette di prendere in considerazione il solo positivo. Il positivismo ha sviluppi differenti in Francia, Inghilterra e Italia. In Francia, dove il cartesianismo e l'illuminismo tuttavia formavano il fondo degli spiriti, creò con A. Comte (1798-1857) un concetto del progresso, naturalisticamente considerato in tre periodi che tutto lo chiudono: il teologico, il metafisico, il positivo. Per questi tre stadî passano l'umanità e la scienza. Noi vivremmo ormai nello stato positivo. In Inghilterra fu ripreso l'empirismo sotto la forma di gnoseologia e J. S. Mill (1806-1873) sviluppò l'associazionismo. Il ragionamento è inferenza dal particolare al particolare. L'universale non è che una formula abbreviata, la realtà è un complesso di sensazioni, le cose esterne gruppi permanenti di sensazioni possibili, l'io un gruppo di sentimenti possibili. Nell'etica J. Bentham (1748-1832) aveva cercato di fondare la morale sull'egoismo stesso, Mill per superare questa dottrina deduce un concetto di virtù disinteressata nascente dall'egoismo stesso. Anche qua si fece l'esperimento di considerare naturalisticamente il progresso trasformando la visione storica della natura in una visione naturalistica della storia. Ciò accadde dapprima nella scienza stessa con la teoria dell'evoluzione di Darvin, poi in un complesso sistema, che godé a suo tempo molta fortuna, il sistema evoluzionistico di H. Spencer (1820-1903). Riproducendo l'errore platonico dell'innato, Spencer cercò di dimostrare che l'a priori kantiano era il risultato d'una esperienza accumulata, nel passato, come se per questo non si potesse ripetere la critica kantiana. Il noumeno kantiano diviene l'inconoscibile, quel mistero di fronte a cui si trova la stessa scienza quando cerca il fondo della realtà. Più complesso è in Italia il sistema di R. Ardigò (1828-1920) che parte dalla sensazione come originaria unità psico-fisica dalla quale soggetto e oggetto nascono come sintesi contrapposte di differenti elementi sensoriali. L'Ardigò però non si lascia dominare completamente dal concetto scientifico della causalità e necessità e ammette qualcosa che sfugge a ogni previsione (contingenza). Inoltre egli esclude l'inconoscibile.
Ben presto questa subordinazione della filosofia alle scienze positive non soddisfece più gli spiriti, e la reazione s'iniziò con un ritorno a Kant. In realtà il Kant a cui si tornava era un Kant diminuito, perché non si teneva conto della terza delle sue critiche e ci si fermava all'opposizione tra mondo della libertà e mondo della natura. Qualcuno poi vi aggiunse il tentativo di spiegare l'a priori col metodo genetico. Rappresentanti del neo-kantismo furono F. A. Lange (1828-1875), H. Cohen (1842-1918), P. Natorp (nato nel 1854), E. Cassirer (nato nel 1874) in Germania; F. Fiorentino (1834-1884), C. Cantoni (1840-1906), F. Tocco (1845-1911), F. Masci (1844-1922), A. Chiappelli (1857-1931) in Italia. Questa stessa opposizione fece ritrovare a R. H. Lotze (1817-1881) un certo concetto della soggettività che pare ripristini la monade leibniziana, ma conserva di Kant il concetto d'un'attività sintetica del soggetto e d'una finalità che domina l'universo nel quale esiste solo ciò che ha una funzione da compiervi. Un indirizzo più psicologista impresse alla filosofia W. Wundt, per tanti rispetti vicino al Lotze. L'introduzione del metodo sperimentale in psicologia è dovuta a G. T. Fechner (1801-1887); ma il Wundt inclinò maggiormente verso una fusione della psicologia con la fisiologia. Ne risultò, col costituirsi della psicologia a scienza autonoma, un allontanamento di essa dalla filosofia e dai suoi problemi.
Più da vicino tornano a Kant i filosofi dell'immanenza i quali, rifiutando come prodotto d'analisi l'elemento trascendentale di Kant, vogliono rifugiarsi in quell'atto immediato dell'esperienza sensitiva da cui secondo essi sarebbe partito lo stesso Kant, ma più veramente partì invece lo Hume del Trattato. Rappresentanti di questo indirizzo furono W. Schuppe (1836-1913) e M. Kaufmann (morto nel 1896). Per essi Io e non-Io non sono due entità trascendenti l'una all'altra; il non-Io è il momento astratto della molteplicità, l'Io il momento astratto dell'unità: la coscienza è il concreto di questi due astratti. Lo Schuppe cercò di superare il particolarismo dei suoi soggetti col concetto d'una coscienza generale, ma questa non si vede come fondarla sull'immediatezza dell'atto originario. A creare maggiori difficoltà ha contribuito nello Schuppe il cercare la coscienza comune nella totalità del suo contenuto quasi che questa non appartenga per principio a ogni atto di coscienza. Vicino allo Schuppe furono R. Avenarius (1843-1896) e E. Mach (1838-1916). L'Avenarius si propose il problema del riconoscimento dell'altro come soggetto, ch'egli spiegò come un interiorizzamento dell'uno nell'altro, il cui risultato è l'esteriorizzazione dell'esperienza comune. Il Mach è più noto per la sua teoria della scienza, la quale ha il merito d'aver combattuto alcuni pregiudizî metafisici della scienza positivista. Un carattere speculativo, grazie allo studio d'Aristotele, diede F. Brentano (1838-1917) alla psicologia. Usciti dalla sua scuola si posero però contro lo psicologismo A. Meinong (nato nel 1853) e E. Husserl (nato nel 1859). In altro modo tornarono a Kant W. Windelband (1848-1915) e H. Rickert (nato nel 1863) con la teoria dei valori: il germe della quale è nella Critica del giudizio. Il Windelband infatti distingue giudizî teoretici, in cui noi connettiamo semplicemente l'esperienza, e giudizî di valore, in cui misuriamo il nostro giudizio con una norma ideale. Norme ideali diventarono così il Vero, il Bene e il Bello, dando luogo alla Logica, all'Etica, all'Estetica. Questo dover essere dello spirito si va a mano a mano attuando nel suo processo. Il Rickert presenta nella storia il vero regno dei valori. La realtà può essere guardata sotto due punti di vista dell'essere, e diventa tutta natura, o del dover essere, e diventa tutta spirito, storia. A questo indirizzo si possono ravvicinare W. Dilthey (1833-1912), G. Simmel (1858-1918), R. Eucken (nato nel 1846). Una posizione a sé ebbe F. Nietzsche (1844-1900) che, mescolando gl'indirizzi idealistico, volontaristico ed evoluzionistico, creò la teoria del superuomo. Accanto a lui vanno ricordati E. Hartmann (1842-1906) nell'indirizzo schopenhaueriano, J. M. Guyau (1854-1888) con la sua morale senza obbligazione e sanzione. Tutti hanno un'impronta estetizzante.
Un ritorno a Hegel s'ebbe invece in Inghilterra per opera di H. Stirling (1820-1909) che vide nel Hegel un Kant esplicito. Servendosi della fenomenologia hegeliana Th. H. Green (1836-1882) confutò l'empirismo persistente in Inghilterra, ma non in modo da esserne del tutto esente. Un altro problema hegeliano sviluppò F. H. Bradley (1846-1924): la distinzione d'apparenza e realtà. L'apparenza è il mondo delle contraddizioni, perché il rapporto tra le qualità e la cosa e le altre relazioni tutte sono inintelligibili. La realtà quindi giace al di là dell'apparenza. L'hegelismo qui inclina allo scetticismo. Questi accenni verso la trascendenza sono più vivi in E. Caird (1835-1908) e in J. Mac Taggart (1866-1925). Più vicino alla giusta interpretazione di Hegel è J. B. Baillie quando si pone a dimostrare la necessità di conciliare l'idealismo assoluto con l'empirismo, non dichiarando illusoria l'esperienza ma mostrando in che consiste la sua unilateralità e assegnandole il suo posto nella totalità. Ma l'empirismo non ha ceduto in Inghilterra e ha cercato altre vie con S. H. Hodgson (1832-1913), J. Ward (1843-1925), B. Bosanquet (1848-1923) e S. Alexander. Una posizione a sé ebbe J. Royce (1855-1916), il cui problema principale fu quello del rapporto dell'Io particolare ad altro Io e all'Io assoluto. Il Royce ha dato alle sue ricerche un commosso senso d'umanità che le porta al di là del loro valore immediato. Questa tendenza propria del pensiero americano si manifesta nel pragmatismo di W. James (1842-1910), di Ch. Peirce (1839-1914), di F. C. S. Schiller (inglese, vivente). Questa corrente lotta contro l'astrattismo con un richiamo al valore pratico della verità fino a interpretare tutta la filosofia come la creazione di concetti il cui valore è determinato solo dal successo.
La filosofia francese fu rinnovata da F. Ravaisson (1813-1900) in senso spiritualistico, contemporaneamente alla rinascita del positivismo con H. Taine (1807-1893) e E. Renan (1823-1892) in forma meno grosolana, ma più superficiale. Tendenza a riunire questi due indirizzi mostrarono il Guyau e A. Fouillée (1838-1912). All'influsso del Ravaisson non si sottrasse C. Renouvier (1815-1903), fondatore del neo-criticismo col quale s'iniziava una critica interna del positivismo mostrando la presenza della libertà nel regno del meccanismo. Il primato della volontà viene riaffermato col dimostrare la presenza di essa in ogni atto di conoscenza. La scelta che la volontà compie nella costituzione del mondo della conoscenza è retta da un dovere: il dovere di credere nella libertà: e perciò noi dobbiamo tra materialismo e personalismo scegliere quest'ultimo. Ma il colpo decisivo al positivismo francese lo doveva dare J. Lachelier (1834-1918) con un ritorno deciso alla critica kantiana, e facendo intervenire il concetto della finalità interna nella costruzione della natura. Ma l'esclusione della moralità da questa costruzione ci fa trovare nella natura non la libertà ma la contingenza. Per arrivare alla sua libertà il soggetto con la percezione riflessa deve liberare prima l'oggetto da quella soggettività che gli è propria nella percezione diretta. Per oggettivare il mondo della coscienza è necessario che ci sia in noi prima d'ogni esperienza un'idea di ciò che deve essere, il tipo e la misura dell'essere reale, ma quest'idea non è un oggetto, bensì l'autocoscienza. Questa, ch'è la radice della distinzione, in un terzo momento si afferma per sé, come l'atto creatore del soggetto che risolve in sé ogni presupposto. Così da Kant il Lachelier arriva a Hegel. Ma egli dinnanzi all'idea resta perplesso se concepirla come trascendenza o immanenza: religione o filosofia.
Più decisamente si orienta verso la religione E. Boutroux (1845-1921), il cui contingentismo è il risultato d'una critica per la quale tutte le scienze si mostrano ciascuna per sé come vedute unilateraìi del reale, solo l'etica che ha il suo fondamento in una religione immanente può soddisfare lo spirito. La critica delle scienze, punto di partenza di questa filosofia, diventa per altri filosofi, come G. Milhaud (1858-1918) e H. Poincaré (1854-1912), fine a sé stessa. Più profonda è invece questa critica in H. Bergson (nato nel 1859), che mira attraverso la psicologia alla metafisica: riproducendo l'antitesi tra pensiero discorsivo (Aristotele) e intuizione (Plotino), mostra come il primo sia solamente rivolto a rendere possibile la vita pratica, ma solo il secondo ci sveli l'intima natura dello spirito che è "slancio vitale". Il Bergson contribuisce così a togliere ogni valore a quegli schemi dell'intelletto nei quali si irrigidiva la filosofia positivistica. Un esempio di questo irrigidimento è la sociologia della scuola di E. Durkheim (1858-1917), dalla quale si allontana in virtù del suo senso della vita Giorgio Sorel (1847-1922), per il quale le teorie politiche e sociali valgono come miti. Anti-intellettualista del pari è la corrente di pensiero cattolico che in Francia ha tratto da motivi religiosi lo slancio verso profonde intuizioni filosofiche. Essa è rappresentata da L. Ollé-Laprune (1839-1898), L. Laberthonnière (nato nel 1860), e meglio da M. Blondel (nato nel 1861), che nell'azione si è sforzato di mostrare l'unità di trascendenza e immanenza, dando al problema dei rapporti tra religione e filosofia la più alta impostazione filosofica. Già in questa filosofia si trova quel senso dialettico del pensiero che sarà il punto di partenza della filosofia di O. Hamelin (1856-1907) e troverà la sua espressione più adeguata in A. Weber, con il quale la filosofia francese raggiunge il possesso del principio animatore della filosofia hegeliana.
Dalla filosofia hegeliana nacque la riscossa contro il positivismo in Italia, soprattutto per merito di B. Spaventa, il quale, discutendo il concetto d'evoluzione, mise in evidenza quanto contenesse di falsa metafisica. A lui si deve, oltre a una profonda critica del meccanicismo, attraverso una coscienza storica che nessun altro pensatore di quei tempi ebbe, uno sforzo continuo per mantenere ai problemi filosofici il loro carattere di problemi speculativi. Non pari capacità speculativa ebbero i suoi immediati scolari S. Maturi (1843-1917) e D. Jaja (1839-1914), che tuttavia seppero trasmettere alla seguente generazione la fiamma di questa filosofia. L'opposizione al positivismo fu anche condotta dalla corrente spiritualista rappresentata da F. Bonatelli (1830-1911) platonico, A. Conti (1822-1905), G. Allievo (1830-1913), B. Labanca (1829-1913), F. Acri (1836-1913), con tendenze al misticismo. Al Bonatelli si collega F. De Sarlo (nato nel 1864) mediante lo psicologismo. A parte da questi movimenti si sviluppò la filosofia di C. Guastella (1854-1922), che attraverso una sistematica critica di tutta la filosofia cercò di instaurare un rigoroso fenomenismo. Frattanto la cultura italiana riceveva un nuovo indirizzo dall'opera di B. Croce (nato nel 1866) che riusciva a sollevare alcuni problemi, come quelli dell'arte e della storia, dalla posizione empirica in cui erano dibattuti alla posizione filosofica. La sua filosofia si collega attraverso De Sanctis e Spaventa a Hegel, ma il Croce tenta una riforma dell'hegelismo introducendo una dialettica dei distinti accanto a quella degli opposti. Lo spirito ha due forme, teoretica e pratica, e in ciascuna due gradi, estetico, logico, economico, etico. La più importante delle sue dottrine è l'estetica ov'egli ha sviluppato il concetto dell'arte come intuizione pura o liricità. Più tardi, sotto l'influsso di G. Gentile, il Croce, che aveva dapprima identificato la storia con l'arte, accolse il concetto dell'identità di storia e filosofia, introducendo nel suo sistema un nuovo fermento. Accanto al Croce, nell'opera esercitata dalla rivista La Critica, è stato per lunghi anni il Gentile (nato nel 1875), il quale più vicino allo Spaventa ne trasse l'esigenza della concretezza del pensiero, che gli permise di ridare al kantismo e all'hegelismo tutto il loro valore riportando, attraverso una riforma della dialettica hegeliana, Hegel alla sua base kantiana e riuscendo a dare definitiva chiarezza a quella attualità del pensiero che lo stesso Kant aveva cercato di raggiungere attraverso le tre Critiche. Il suo sistema, l'attualismo, ha dato grande impulso agli studî storici e alla pedagogia, risolvendo questa scienza nella stessa filosofia dello spirito come eterna autoctisi. Frattanto altre correnti idealistiche si affacciavano nella cultura italiana: P. Martinetti (nato nel 1872), che attraverso una revisione del criticismo, profonda nei particolari, perviene al concetto d'una ragione infinita trascendente che pone al culmine della filosofia la religione, e B. Varisco (nato nel 1850) che dal positivismo, attraverso un'autocritica sempre più acuta, è pervenuto a una forma d'idealismo nella quale ha concepito l'universale come oggetto assoluto e ora si va accostando al concetto dell'universale come soggetto assoluto. Egli svolge quindi un tentativo di conciliazione della trascendenza con l'immanenza. Simile processo di conversione dal positivismo all'idealismo può vedersi in C. Ranzoli (1876-1926). Nell'idealismo attuale alcune correnti inclinano verso una valutazione assoluta dell'empirico, altre verso una rivalutazione del trascendente. Fedeli alla tradizione tomistica restano i neo-scolastici, mentre nuove correnti empiristiche e oggettivistiche cercano di affermarsi. La filosofia contemporanea appare quindi, ricongiungendosi alle sue origini kantiane, rivolta a costruire quella sintesi di natura e spirito che soddisfi insieme le esigenze della filosofia del cristianesimo e della filosofia moderna. Dopo il semikantismo di gran parte dei pensatori del sec. XIX, si scorge in alcuni degli ultimi pensatori, che abbiamo presentati, un nuovo profondo carattere sistematico.
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