Filosofia
Nella cronaca attribuita a Niccolò Jamsilla, Federico II è presentato come studioso di filosofia e promotore degli studi filosofici: "giacché era studioso di filosofia, ch'egli stesso coltivò personalmente e ordinò che fosse propagata nel suo regno" (1726, col. 495D). La documentazione esistente mostra l'imperatore circondato da personaggi di grande rilievo, versati in astrologia, matematica, medicina, mentre egli stesso appare interessato alla discussione di problemi dottrinali di varia natura, da quelli metafisici a quelli che toccano la cosmologia, fino alla zoologia; l'imperatore è anche presentato come esperto delle arti meccaniche ("artefice perito […] di tutte le arti meccaniche", secondo Riccobaldo da Ferrara, 1726, col. 132B). Tale varietà di interessi caratterizzò il genio multiforme di colui che fu detto 'stupore del mondo', che si fece promotore di traduzioni di opere filosofico-scientifiche da varie lingue, fondò l'Università di Napoli aperta all'insegnamento di tutte le discipline e progettò un'indagine sistematica sulla caccia mediante gli uccelli che mise per iscritto nel suo De arte venandi cum avibus: dato che la caccia tradizionalmente è considerata un'arte meccanica, l'opera va caratterizzata come un manuale di istruzioni per i falconieri; in realtà essa rappresenta soprattutto un contributo notevole alle conoscenze di zoologia e di veterinaria del tempo.
Ci si può chiedere se la molteplicità di temi affrontati da Federico, personalmente o tramite i suoi collaboratori, si possa ricondurre a unità sotto la comune designazione di filosofia. Per rispondere al quesito bisogna considerare le concezioni della filosofia del XII sec. e vedere se esse offrano spunti per una simile operazione. A tal fine sono da tenere presenti due modelli di divisione o articolazione della filosofia, entrambi apportatori di importanti novità e che hanno esercitato una grande influenza: quello proposto da Ugo di San Vittore nel suo Didascalicon de studio legendi e quello illustrato da Gundisalvo (o Gundissalino) nell'opuscolo De divisione philosophiae.
Il Vittorino parte dall'antropologia cristiana e dalla dottrina del peccato originale, in seguito al quale il primo uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, ha perso il dono dell'immortalità ed è stato sottoposto alla dura necessità del lavoro per guadagnare il suo pane; ma con il peccato originale egli ha soprattutto compromesso la sua nobiltà smarrendo la coscienza d'essere stato fatto a immagine e somiglianza del Creatore. Secondo Ugo, compito dell'uomo che viva secondo la propria natura razionale è quello di rientrare in se stesso e cercare la sapienza che può aiutarlo a restaurare in lui l'immagine di Dio; la ricerca della sapienza è la filosofia, definita come "amore, studio e amicizia della sapienza" (1939, I, 2); e poiché solo l'uomo ha il privilegio di cercare la sapienza, ne segue che questa deve essere la guida di tutte le attività umane. L'uomo guidato dalla sapienza, dunque, restaura in se stesso l'immagine di Dio con la ricerca della verità delle cose attuata mediante l'esercizio delle discipline teoretiche o speculative (fisica, matematica suddivisa nelle arti del quadrivio, e metafisica); persegue la somiglianza con Dio grazie all'amore delle virtù secondo gli insegnamenti delle discipline pratiche o attive (etica, economica e politica); sovviene alle necessità del proprio corpo con le sette arti meccaniche (vesti, costruzioni e armature, navigazione e commercio, agricoltura, caccia, medicina, teatro); e infine trova le regole per agevolare la comunicazione con gli altri e per condurre correttamente i propri pensieri (grammatica, dialettica, retorica).
La filosofia si articola in quattro parti e in molteplici scienze o discipline (nel libro VI, capitolo 15 del Didascalicon, l'autore aggiunge una breve trattazione della magia). Secondo Ugo di San Vittore tutto il sistema delle scienze trae origine dal peccato originale: tale sistema infatti rappresenta la risposta dell'uomo, assistito dalla sapienza divina, alle conseguenze del peccato originale. Con il Vittorino le arti meccaniche costituiscono una parte della filosofia, e ciò è stato ritenuto una sorta di presa d'atto dei progressi compiuti dalle tecniche al tempo dell'autore; ma non bisogna dimenticare che all'origine della concezione vittorina c'è una pagina agostiniana (De civitate Dei, XXII, 24; cf. Alessio, 1965, pp. 114-115).
Se invece si considera la proposta di Gundisalvo, si ha un altro orizzonte ideologico: non è l'antropologia della caduta originale e della restaurazione a determinare l'articolazione della filosofia, bensì la ricognizione dei bisogni corporali e spirituali che muovono l'uomo alla ricerca di ciò che gli giova. Gundisalvo condivide la concezione naturalistica di matrice aristotelica trasmessa da al-Fārābī, Avicenna e al-Ghazālī. Le scienze sono state inventate per rispondere ai desideri e ai bisogni umani. Tra le cose che riguardano il corpo sono incluse quelle necessarie al sostentamento della vita; tra le cose che riguardano lo spirito l'autore ricorda quelle nocive (i vizi), quelle vane (come le arti magiche) e quelle utili, come le virtù e le scienze oneste, nell'esercizio delle quali consiste la perfezione dell'uomo. Le scienze oneste sono distinte in base alla loro origine: è divina quella rivelata da Dio, mentre sono umane quelle trovate dalla ragione; di queste, alcune afferiscono all'eloquenza (grammatica, retorica, poetica e leggi), altre alla sapienza, e sono "le scienze dalla filosofia" (Gundisalvo, 1903, p. 5) che guidano alla conoscenza del vero e all'amore del bene (mentre la logica è collocata tra eloquenza e sapienza); per l'autore (ibid.) "non c'è alcuna scienza che non sia una qualche parte della filosofia". L'articolazione delle scienze della filosofia prende le mosse dalla divisione della filosofia in teoretica e pratica. Nella parte riservata all'articolazione delle scienze pratiche (politica, amministrazione della famiglia, etica) bisogna ricordare che grammatica, poetica, retorica e giurisprudenza sono ricondotte alla politica, mentre le arti meccaniche ‒ distinte secondo la materia lavorata ‒ sono richiamate nella scienza dell'amministrazione della famiglia. Più interessante risulta l'articolazione delle scienze teoretiche per quanto riguarda non la metafisica, o 'teologia', ma la matematica e la fisica. Per la matematica, Gundisalvo mutua da al-Fārābī (19532, cap. III) la collocazione dell'ottica, della statica e delle tecniche (gli 'ingegni') accanto alle tradizionali discipline del quadrivio, ottenendo complessivamente sette scienze; di aritmetica, musica, geometria e astrologia con astronomia l'autore distingue parte teorica e parte pratica e i relativi 'artefici' e 'strumenti'.
Per quel che concerne la fisica o scienza naturale, invece, l'autore adotta la divisione della disciplina in otto parti, anch'essa mutuata da al-Fārābī (ibid., cap. IV): si tratta delle varie opere di filosofia naturale d'Aristotele (Fisica, De coelo, De generatione, Meteorologica I-III, Meteorologica IV, la trattazione dei minerali e quella delle piante ‒ entrambe forse di Teofrasto, non conosciute dai latini ‒, e infine l'insieme dei libri d'Aristotele sugli esseri animati: De animalibus, De anima, i cosiddetti Parva naturalia). Alle otto parti della fisica, poi, Gundisalvo aggiunge quelle che egli chiama le otto 'specie' di essa, e cioè otto scienze o discipline a essa subordinate: medicina, scienza dei giudizi astrologici, negromanzia naturale, scienza delle immagini, agricoltura, navigazione, scienza degli specchi, alchimia. L'elenco di queste discipline non è nel catalogo di al-Fārābī, ma è presente in un'opera a lui attribuita (v. Baeumker, 1916, p. 20), nella quale però le otto discipline sono esposte come 'parti' e non come 'specie' della scienza naturale. Un altro testo invece (Daniele di Morley, 1979, § 158, p. 239) riporta queste stesse discipline come 'parti' dell'astrologia (tali sono, a ben guardare, le scienze dei giudizi astrologici, delle immagini e della negromanzia, e in stretto rapporto con l'astrologia sono anche le altre, dalla medicina all'alchimia, all'agricoltura e alla navigazione). C'è da aggiungere che la giustapposizione di tradizioni diverse operata da Gundisalvo nella costruzione del suo sistema delle scienze fa sì che i minerali restino fuori dalla competenza dell'alchimia (Halleux, 1994, pp. 159-160).
Se si esaminano i testi attribuiti a Federico II, si trova che l'antropologia cristiana della caduta originaria che sta alla base del sistema di Ugo di San Vittore non è ignota all'imperatore. Egli anzi, seguendo la tradizione, la utilizza a fondo nel prologo delle Costituzioni di Melfi per giustificare l'origine del potere civile: l'uomo, creato a 'immagine ed effigie' di Dio, è la più degna delle creature ed è preposto a esse; in seguito al peccato originale, affinché ciò che era stato formato non fosse deformato e alla distruzione della forma dell'uomo non seguisse quella del resto, 'per necessità cogente delle cose e per ispirazione della divina previdenza' sono stati creati i 'principi delle genti', che governassero gli uomini nella loro vita associata come esecutori della sentenza divina; e perché essi possano perfettamente rendere ragione dell'amministrazione loro affidata, Dio richiede da essi soprattutto che siano difensori della Chiesa e conservino la pace e la giustizia tra i popoli. Secondo questa prospettiva, dunque, il potere civile non ha un'origine naturale, come è invece in Aristotele (la Politica dello Stagirita non è però ancora disponibile in latino), ma è una conseguenza del peccato originale (anche per Dante, Monarchia, III, iv, 14, oltre la Chiesa, anche il potere civile è rimedio contro l'infermità del peccato). Una lunga tradizione ha contribuito a elaborare queste idee: Federico si muove in continuità con esse, ma non ne ricava ‒ per quanto ne sappiamo ‒ una spiegazione circa l'origine e l'articolazione della filosofia.
Per trovare un'assonanza tra le idee del sovrano svevo (e della sua corte) e una sistematica della filosofia è opportuno guardare all'orizzonte culturale prospettato da Gundisalvo: a esso infatti sembrano indirizzare i frammenti (inclusi da Vincenzo di Beauvais nel suo Speculum doctrinale) di una divisione della filosofia attribuita a Michele Scoto. Anche per Michele la filosofia si occupa di tutte le cose ("Secondo Aristotele la filosofia è scienza di tutte le cose. Dice infatti che la scienza di qualsiasi cosa che sia soggetta a indagine è contenuta sotto la filosofia, che è scienza di tutte le cose"; Vincenzo di Beauvais, 1624, I, 13); anche per Michele l'articolazione fondamentale della filosofia è in teoretica e pratica. La teoretica, a sua volta, si divide in naturale, matematica e divina (cioè la metafisica), mentre la pratica è distinta in due modi diversi, illustrati uno di seguito all'altro. Innanzi tutto è data la distinzione di essa in civile e volgare; la parte civile comprende le scienze "che riguardano gli uomini civili e onesti", come "la scienza della lingua, la morale, la meditazione" e simili; la parte volgare comprende "l'arte del calzolaio, quella del fabbro e le altre arti che riguardano il volgo e gli uomini vili" (ibid., I, 16). Accostata questa distinzione all'articolazione della teoretica, si ottengono tre diversi gradi delle scienze: nobili (le teoretiche), civili e volgari. La seconda distinzione della pratica è articolata in tre, e ciascuna parte è presentata come rispondente a una delle discipline teoretiche. Alla filosofia naturale corrispondono le scienze che Gundisalvo propone come specie della fisica: "La prima è stata inventata a somiglianza delle cose naturali e spetta a esse, come medicina, agricoltura, alchimia, scienza delle proprietà delle cose detta negromanzia, scienza delle 'significazioni' delle cose detta scienza dei giudizi [indiciis, leggi iudiciis], e inoltre scienza degli specchi, della navigazione e molte altre, che hanno rapporto alla parte teorica detta naturale e spettano a essa come sua pratica" (ibid.; queste stesse discipline sono menzionate anche nel Liber Introductorius di Michele Scoto: cf. Caroti, 1994, p. 71 n. 2). In corrispondenza della matematica sono ricordate molte delle arti meccaniche: "La seconda è stata inventata a somiglianza delle cose dottrinali, come il commercio, la carpenteria, l'arte del fabbro, del tessitore, del calzolaio e molte altre che riguardano la meccanica [matematica?] e ne sono in certo modo la pratica". Alla teologia (metafisica) corrispondono la morale, la scienza della legge divina e "tutte quelle, civili o volgari, che riguardano la scienza divina e ne costituiscono in certo senso la pratica"; a proposito della morale, l'autore precisa che essa ha quattro parti, la prima delle quali riguarda il governo (qualiter ciuitas debeat regi), cui seguono la vita sociale (qualiter homo cum ciuibus debeat conuersari), la famiglia, la vita del singolo (Vincenzo di Beauvais, 1624, I, 16; i passi citati sono raccolti in Gundisalvo, 1903, pp. 398-399). Nella prospettiva di Michele Scoto paiono importanti l'esplorazione delle varie discipline subordinate alla filosofia della natura e quella delle arti meccaniche, in modo da ricondurre ciascuna scienza o arte alla disciplina teoretica di cui rappresenta la pratica; a differenza di Gundisalvo, però, Michele fa spazio anche a quelle discipline che rappresentano la 'pratica' della scienza divina.
Il confronto tra il sistema di Gundisalvo e quello che conosciamo della divisione di Michele Scoto rafforza l'idea che il sapere filosofico cui guarda la corte federiciana vada nella direzione indicata dall'arcidiacono spagnolo: una concezione della filosofia che abbracci tutte le scienze, aperta agli apporti della cultura araba (e di quella ebraica) sia per quanto riguarda la proposta del recupero della filosofia naturale di Aristotele, sia per l'acquisizione delle scienze riconducibili alla fisica (o all'astrologia), sia per quel che attiene all'integrazione di altre discipline matematiche accanto al tradizionale quadrivio.
Il recupero della filosofia di Aristotele è istituzionalizzato in Occidente dalla facoltà delle arti di Parigi nel 1255 (Chartularium Universitatis Parisiensis, 1889, I, nr. 246, p. 278), quando si decide di richiedere ai candidati al magistero la conoscenza di tutte le opere dello Stagirita allora note: essendo la conoscenza dell'Etica e delle opere logiche già richiesta dalla facoltà, le opere aristoteliche accolte nel canone dei libri di testo con questo provvedimento sono quelle di più recente traduzione: la Fisica e la Metafisica più alcune altre pseudo-aristoteliche come il Liber de causis (che va ad affiancare la Metafisica) o l'opuscolo De plantis (che va invece a completare il programma di filosofia naturale; manca nel provvedimento la menzione di un libro sui minerali, per cui era disponibile un testo tradotto da Alfredo di Sareshel). Al recupero della filosofia naturale di Aristotele avevano contribuito dapprima la corte normanna con la traduzione dal greco del libro IV dei Meteorologica, dovuta ad Enrico Aristippo (i libri I-III furono invece tradotti dall'arabo da Gerardo da Cremona), e poi Michele Scoto con la traduzione dall'arabo (prima del suo incontro con l'imperatore) di tre delle cinque opere aristoteliche sugli animali (e cioè Historia animalium, De partibus animalium e De generatione animalium, le sole opere sugli animali note agli arabi); Michele tradusse anche per l'imperatore il De animalibus di Avicenna, certamente il De coelo, dedicandolo a Stefano de Provins, e molto probabilmente il De anima, la Fisica e la Metafisica (testo noto come Metaphysica nova), tutte e quattro le opere accompagnate dal gran commento di Averroè.
Si può aggiungere che Federico stesso contribuisce ad allargare e perfezionare le conoscenze sugli animali fornite da Aristotele con la sua opera sulla caccia per mezzo del falcone, mentre l'interesse della corte per la fisiognomica (cui è riservata la terza parte del Liber Introductorius di Michele Scoto, dedicato a Federico) favorisce il recupero del testo attribuito ad Aristotele (la traduzione si deve a Bartolomeo da Messina), dando impulso allo sviluppo degli studi in questo ambito, d'origine aristotelica anche se non esplicitato in una delle otto parti della filosofia naturale di Aristotele; in seguito, lo sviluppo degli studi (specie a opera di Alberto Magno e di Pietro d'Abano) porta alla istituzionalizzazione dell'insegnamento della fisiognomica nella facoltà delle arti di Parigi nella prima metà del XIV sec. (con i corsi tenuti da Giovanni di Jandun e Giovanni Buridano). Naturalmente, la corte aveva accesso anche a testi di Aristotele non ancora tradotti. Nel Liber Phisionomiae di Michele Scoto (terza parte del Liber Introductorius), il primo vero trattato di fisiognomica prodotto dall'Occidente medievale, l'autore sembra far uso del trattato pseudo-aristotelico impiegando termini molto vicini a quelli che ricorrono nella traduzione di Bartolomeo da Messina (Jacquart, 1994, pp. 20-25). Inoltre, nel più lungo dei due prologhi al testo di falconeria noto come Moamin, tradotto dall'arabo da Teodoro di Antiochia e corretto da Federico durante l'assedio di Faenza (1240-1241), sono citati il De anima, il libro X dell'Etica Nicomachea e la Retorica; orbene, tutte e tre le citazioni costituiscono un problema o perché i relativi testi, per quel che sappiamo, non erano stati ancora tradotti (così pare essere per gli ultimi due), o perché Teodoro (che dev'essere il principale responsabile del testo) non pare fare uso delle traduzioni già realizzate (Burnett, 1995, pp. 239-247). Infine, Charles H. Haskins (1924, pp. 316-317) segnala nel De arte venandi cum avibus l'utilizzazione della pseudo-aristotelica Mechanica, opera non conosciuta dal Medioevo arabo o latino.
Se si considerano ora i quesiti posti da Federico ai vari sapienti, si può tentare di dare un quadro dei suoi interessi filosofici. È opportuno cominciare con le cinque 'questioni siciliane' conservate con le risposte date da Ibn Sab῾īn (intorno al 1240), usandole come griglia per l'esposizione dei temi filosofici cui si è rivolto l'interesse del sovrano. La prima questione riguarda la tesi aristotelica dell'eternità del mondo: Federico chiede di sapere se il Filosofo l'abbia dimostrata e con quali argomenti o, se non l'avesse dimostrata, quali ragionamenti abbia addotto in questa materia. La seconda riguarda il fine della scienza divina e quali siano le conoscenze presupposte da essa, posto che ne presupponga. La terza concerne le dieci categorie (di Aristotele): cosa siano, quale ne sia l'impiego nelle varie scienze, se sia possibile aumentarne o diminuirne il numero. La quarta riguarda l'anima e la sua immortalità e il contrasto di opinioni tra Aristotele e Alessandro d'Afrodisia. Ibn Sab῾īn rimprovera all'interlocutore di non aver distinto di quale anima intendesse chiedere (vegetativa, sensitiva, razionale) e di non aver formulato il quesito con correttezza (avendo Federico chiesto "quale argomento abbiamo che provi l'immortalità dell'anima" e poi aggiunto "e se essa sia immortale") e in modo completo, indicando i luoghi e il motivo del contrasto di opinioni. Infine, sembra attribuibile a Federico una quinta questione non filosofica, ma esegetica, concentrata sull'interpretazione del detto del Profeta "il cuore del credente sta tra due dita del Misericordioso".
Come si vede, le quattro questioni filosofiche fanno preciso riferimento a posizioni di Aristotele. Ma si può cominciare con il quesito esegetico per sottolineare l'interesse che l'imperatore ha sempre nutrito per le tre religioni del libro. Jacob Anatoli, ebreo provenzale che faceva parte della corte e si era legato d'amicizia con Michele Scoto, nel suo Pungolo dei discepoli riferisce molti episodi riguardanti le discussioni che lo hanno coinvolto insieme all'imperatore e a Michele Scoto sull'interpretazione di passi biblici e nelle quali si usava la Guida dei Perplessi di Mosè Maimonide. Per l'interesse filosofico che riveste, si può riferire l'episodio relativo alla posizione di Maimonide sulla materia prima (2003, I, 28; II, 26; III, 4) che tocca l'interpretazione della "neve" di Giobbe, 37, 6, che viene intesa come materia prima. L'imperatore sosteneva che da una materia prima fossero stati creati i cieli e la terra, ma questa posizione era stata esplicitamente respinta da Maimonide (2003, II, 26); anche Michele Scoto e Anatoli si opponevano alla posizione dell'imperatore, che evocava la platonica materia unica preesistente all'intervento del demiurgo (Sirat, 1994, pp. 187-188; cf. la "primordialis materia" del prologo alle Costituzioni: Kantorowicz, 19814, pp. 230-231). I termini della discussione mostrano anche come, sull'esempio di Maimonide, i partecipanti adottassero un'interpretazione aristotelica del testo biblico. Essi citavano pure posizioni di Avicenna, come mostra un altro episodio, che però non registra la partecipazione dell'imperatore, dedicato alla discussione sul nome di Dio (Esodo, 3, 13-14): secondo l'interpretazione di Maimonide (2003, I, 63, pp. 229-230), la domanda "qual è il suo nome" chiede propriamente la prova dell'esistenza necessaria di Dio; il nome di Dio "Io sono colui che sono" è interpretato come "l'esistente che è l'esistente", oppure "l'esistenza necessaria", che è formula avicenniana; Anatoli aggiunge: "Ma Michele Scoto ha detto che con quell'espressione il versetto indica l'Intelletto, Colui che intende e la Cosa intelletta", che peraltro è formula accolta nella Guida dei Perplessi (2003, I, 68, p. 238), dov'è attribuita ai 'filosofi', e che esprime la posizione di Aristotele e di Averroè (pensiero che pensa se stesso: Sermoneta, 1980, p. 192).
Le questioni che però hanno maggiormente attirato l'attenzione degli interpreti sono state la prima e la quarta perché chiamano in causa temi che la storiografia ha connesso con la 'corrente' filosofica del-l''averroismo latino': a essa infatti sono attribuite, fra l'altro, sia la tesi dell'eternità del mondo sia quella dell'unicità dell'intelletto possibile per tutta la specie umana, con la conseguente negazione dell'immortalità dell'anima (vegetativo-sensitiva) del singolo uomo. Ma in entrambi i casi l'interesse dei quesiti di Federico riguarda un problema epistemologico: in quali ambiti si danno dimostrazioni e, se non si possono dare dimostrazioni, quali tipi di argomenti sono stati (e possono essere) di volta in volta introdotti. L'imperatore ha certamente interesse per le opere di Averroè: se, come si è visto, il ruolo di Michele Scoto nelle traduzioni delle singole opere del Commentatore non è sempre ben definibile, si sa però che Federico promuove la traduzione in latino di Averroè tramite lo spagnolo Guglielmo di Luna e in ebraico tramite Jacob Anatoli: a entrambi ‒ Guglielmo e Jacob ‒ è attribuita la traduzione delle stesse opere, e cioè il commento medio di Averroè a gran parte dei manuali di logica (Isagoge di Porfirio, e Categorie, De interpretatione, AnaliticiPrimi e Secondi di Aristotele) ed entrambi sono dati come operanti a Napoli (ma i primi confronti tra le traduzioni latina ed ebraica non hanno messo in luce influenze reciproche: Hissette, 1990, p. 151). L'iniziativa della traduzione di Averroè anche in ebraico, oltre che in latino, ha fatto pensare a una direttiva della corte intesa a promuovere un'ideologia concordistica per la quale sarebbe stato possibile leggere Aristotele non in contrasto con la fede; e poiché la lettura razionalizzante della Bibbia era già nella Guida dei Perplessi di Maimonide, l'imperatore avrebbe promosso anche la traduzione di quest'opera in latino tra il 1230 e il 1240; l'apporto di Averroè è considerato positivo in questa stessa direzione (Sermoneta, 1980, pp. 186-191). Del resto, è stato anche ipotizzato che l'introduzione nel mondo latino dei commenti di Averroè abbia contribuito a far maturare la decisione di Gregorio IX (1231) di alleggerire la proibizione parigina del 1210 della lettura delle opere di Aristotele, togliendo la scomunica allora comminata e aprendo alla possibilità di un'autorizzazione dell'uso di esse come libri di testo previa censura, affidata a una commissione di nomina pontificia (Thorndike, 1965, pp. 27-28).
Nella prima metà del XIII sec. Averroè è dunque accolto con favore dalla cultura latina; l'atteggiamento nei suoi confronti cambiò intorno alla metà del secolo, quando i teologi mostrarono le implicazioni negative, per la fede cristiana, della sua posizione. Non v'è luogo perciò per attribuire all'imperatore una posizione eretica in senso averroistico. È stato notato che la tesi della creazione del mondo ab aeterno è incompatibile con i postulati della sua concezione politica che presuppone il peccato commesso dal primo uomo (De Stefano, 1938, p. 101).
Si può ricordare inoltre che nel Liber Introductorius Michele Scoto respinge la tesi dell'eternità del mondo (Haskins, 1924, p. 285), mentre la lettura averroistica dell'intelletto unico è ritenuta 'sofistica' da Pietro d'Irlanda nel suo commento al De interpretatione: maestro Pietro dev'essere stato chiamato all'Università di Napoli sotto Federico, se ha avuto come studente Tommaso d'Aquino ma, in base a questo riferimento all'interpretazione averroistica dell'intelletto in un testo di logica, il corso da lui tenuto va datato intorno al 1260 (Gauthier, 1989, pp. 67*-68*). Quanto alla negazione dell'immortalità dell'anima, di cui Salimbene (1999, p. 537) fa carico a Federico definendolo epicureo, negatore della vita ultraterrena, c'è da registrare un'importante testimonianza sull'orientamento della corte: Manfredi, nell'introduzione allo pseudo-aristotelico De pomo da lui tradotto, racconta come in una grave malattia egli traesse giovamento dall'aver conservato nella mente i "documenti teologici e filosofici" che nella corte imperiale di suo padre i dottori gli avevano insegnato "sulla natura del mondo, il flusso dei corpi, la creazione delle anime e la loro eternità e perfezione, l'instabilità della materia e la stabilità delle forme" (Prologus Manfredi, 1964, pp. 38-39, e cf. Imbach, 2003, p. 115); inoltre, Michele Scoto nel Liber Phisionomiae afferma che le anime sono create direttamente da Dio al costituirsi di ciascun corpo nuovo: "Dio dà un'anima nuova e libera al corpo nuovo" (1477, p. C1r).
Le altre questioni filosofiche siciliane (seconda e terza) chiedono il parere del competente circa la natura della metafisica (o teologia) e lo statuto delle categorie. A proposito della seconda, la risposta di Ibn Sab῾īn assume che la questione riguardi sia la metafisica, cui serve da preparazione l'insieme delle altre scienze filosofiche, da lui illustrate in modo sistematico, sia la scienza fondata sulla rivelazione ("Ma tu hai chiesto sulle premesse della scienza divina, e se intendevi con essa ciò che era conosciuto presso gli antichi, te l'ho spiegato e chiarito. Se intendevi con scienza divina ciò che intende la šarī'a, [sappi che] le sue premesse prime sono la teoresi e la prassi, il suo soggetto sono il Libro elevato e la Sunna tradizionale, e le sue premesse necessarie sono la fede e l'assenso": trad. in Ibn Sab῾īn, 2002, p. 117), giustapponendo così alla teologia filosofica la teologia fondata sulla rivelazione. Quanto alla terza, Ibn Sab῾īn commenta con ironia l'imperizia manifestata dalla formulazione di Federico. Queste due questioni mostrano l'imperatore impegnato nella ricerca di informazioni atte a far progredire le proprie riflessioni sui testi aristotelici. Come risulta dal prologo dell'Ars venandi (Federico II di Svevia, 1942, p. 1, linee 24-32), Federico ha un atteggiamento critico nei riguardi dei testi dello Stagirita: egli afferma di seguire Aristotele dove è opportuno, ma non in tutto; l'esperienza gli mostra infatti che il Filosofo si allontana dalla verità nella trattazione della natura degli uccelli e attribuisce molto di ciò che dice nel libro degli animali a racconti fatti da altri; Aristotele perciò non ne ebbe esperienza, e forse neppure gli altri ne ebbero, e infatti il racconto non produce conoscenza certa (fedes [...] certa non provenit ex auditu). Federico, dunque, ritiene che vada seguita l'esperienza piuttosto che le opinioni tràdite (oralmente o per iscritto), echeggiando il tema, a lui familiare, dei due modi di acquisizione della scienza, per invenzione e per dottrina, con il primato assegnato alla vista (invenzione) rispetto all'udito (trasmissione della dottrina; cf. anche l'Encyclica del 1245: Federico II di Svevia, 1896, p. 361, per aurem / oculis nella citazione di Orazio, Epistolae, II, 3, 180). Il tema è presente nella cultura filosofica del XIII sec. (Kilwardby, 1976, p. 158; Sigieri di Brabante, 1981, p. 197). Primato dell'esperienza controllata criticamente, quindi: l'imperatore insiste sulla lunga indagine svolta in preparazione dell'opera e sui molti contatti avuti con gente esperta; poiché si trattava anche di raccogliere ciò che era conosciuto solo per esperienza diretta e trasmesso senza le regole dell'arte (per solum usum scite… et inartificialiter tradite), egli ha indagato a lungo "esercitando la mente e operando in quest'arte" finché non si è ritenuto capace di mettere per iscritto tutto ciò che gli aveva insegnato la propria esperienza, messa a confronto con quella altrui (Federico II di Svevia, 1942, p. 1, linee 13-21). In questo libro Federico si propone di "manifestare le cose che sono, come sono [ea, quae sunt, sicut sunt], delle quali finora nessuno ha avuto scienza né arte, e di ricondurle alla 'certezza dell'arte'"; l'esecuzione dell'opera segue i metodi in uso nella scolastica del tempo, dei quali sono ricordati la divisione, la descrizione, l'assegnazione della convenienza o della differenza tra più cose, l'indagine sulle cause (ibid., p. 2, linee 19-25).
Gli interessi filosofici di Federico sono ulteriormente illustrati dalle questioni rivolte a Michele Scoto e da questi riportate nel Liber Particularis (citato in Has-kins, 1924, pp. 292-294). L'imperatore comincia ricordando allo Scoto che spesso si è discusso dei corpi celesti, degli elementi, dell'anima del mondo, delle genti pagane e cristiane e delle altre creature, come le piante e i metalli, e affermando che mai ha sentito parlare di temi come paradiso, purgatorio e inferno e del fondamento della terra. Prega perciò Michele di spiegargli in che modo la terra stia sopra l'abisso e se essa, a sua volta, regga altro oltre all'aria e all'acqua e se stia sopra o sotto i cieli; oltre a ciò, dei cieli desidera sapere numero, motori, grandezza e rapporti reciproci; cosa ci sia oltre l'ultimo cielo e in quale Dio stia 'sostanzialmente', cioè nella sua divina maestà e in che modo segga sul trono celeste; in che modo Dio è circondato da angeli e santi, e che cosa questi facciano ininterrottamente al cospetto di Dio. L'imperatore, inoltre, associa al tema degli abissi quello dell'ubicazione dei tre regni dell'oltretomba, mentre desidera conoscere le dimensioni della terra. Passa quindi a chiedere delle acque del mare e di quelle dolci e delle relative cause, nonché di fenomeni come le acque termali. Infine, sollecita informazioni circa i venti e i vulcani. Un manoscritto aggiunge alcune altre questioni riguardanti soprattutto le anime e il loro destino: quale sia la differenza tra le anime che passano all'oltretomba e gli spiriti caduti dal cielo; se nell'altro mondo l'anima conosca le altre anime e se possa tornare quaggiù parlando e apparendo; quante siano le pene dell'inferno; e anche: com'è che un'anima passata all'altro mondo non è indotta a ritornare dall'amore o dall'odio, come se nulla fosse stato, e ‒ salva o dannata ‒ non si cura più di ciò che ha lasciato? La curiosità di Federico è onnivora, ma i temi affrontati ‒ che talora derivano da tradizionali problemi esegetici, talaltra sono sollecitati da osservazioni personali ‒ sono in gran parte quelli della cosmologia del tempo o riguardano il destino ultimo dell'uomo e si ritroveranno anche in Dante (Kantorowicz, 19814, pp. 314-317).
Nel complesso, le questioni finora ricordate, oltre a quella esegetica, sono riconducibili a due discipline teoretiche, cioè metafisica e filosofia della natura. Ma Federico si è occupato anche della terza parte della teoretica e cioè delle discipline matematiche: basti richiamare i suoi rapporti diretti (l'incontro del 1226) e indiretti (tramite Giovanni da Palermo, Teodoro di Antiochia e Michele Scoto) con Leonardo Fibonacci, i problemi geometrici e quelli astrologici inviati da Michele Scoto a Toledo al giovane Judah b. Salomone ha-Cohen, le cui risposte sono apprezzate dall'imperatore (negli anni 1245-1247 Judah raggiunge la corte: cf. Sirat, 1994, pp. 186-188), e i tre problemi di ottica ritrovati con le risposte nelle Osservazioni attente sopra le percezioni visive di Šihāb-al-Dīn: perché gli oggetti nell'acqua appaiano spezzati; perché la stella Canopo appaia maggiore vicina all'orizzonte; perché chi soffre di cataratta veda macchie davanti agli occhi (Wiedemann, 1914, p. 484). Federico si interessa perciò anche delle nuove scienze matematiche trasmesse dagli arabi, che al-Fārābī aveva inserito nel suo Catalogo a mo' di integrazione del quadrivio e la cui trattazione Gundisalvo aveva ripreso nella sua divisione della filosofia.
Gundisalvo aveva ripreso anche dalla tradizione araba le discipline subordinate alla filosofia naturale (e considerate parti dell'astrologia da Daniele di Morley, come si è detto). L'interesse dell'imperatore va soprattutto all'astronomia, e alle arti divinatorie collegate, e alla medicina. A Michele Scoto, astronomo di corte e cultore di alchimia e di discipline affini, il 'maestro' cui lo Svevo si rivolge regolarmente, coinvolgendolo nelle sue osservazioni e anche saggiandone le competenze, Federico richiede la composizione del Liber Introductorius, che è un'opera di astrologia, scritta in modo da facilitare l'accesso dei principianti alla disciplina (che la richiesta di Federico sia all'origine dell'impresa di Michele risulta dal prologo all'opera ed è ribadito dal prologo alla seconda parte di essa, che è il Liber Particularis). Ciò che interessa all'autore, e al committente, è l'aspetto pratico-operativo dell'astrologia, quello che ha più direttamente a che fare con i problemi della vita quotidiana: ad esempio, i quesiti astrologici, o interrogazioni, e le elezioni, quale la scelta del momento propizio per un salasso (Caroti, 1994, pp. 59-61). Quanto alla medicina, la competenza dell'imperatore è attestata dalla sua opera di ornitologia, mentre il suo interesse per l'utilità del sapere medico risulta dal fatto che i medici di cui si circonda dispongono per lui la dieta di volta in volta più opportuna (sono ricordate tre diete destinate a Federico: quella di Adamo da Cremona, preparata prima della partenza dell'imperatore per la Terrasanta, 1227-1228, quella di un Pietro Ispano e quella di Teodoro di Antiochia).
Sono attestati anche gli interessi del sovrano per la logica e il linguaggio: sappiamo che Ǧamāl-al-Dīn compose per lui un trattato di logica intitolato L'imperiale. Salimbene (1999, p. 535) racconta invece un esperimento organizzato dall'imperatore per scoprire quale fosse la lingua originaria: alcuni bambini furono allevati per suo ordine da balie cui fu proibito di parlare con loro, ma i bambini morirono e l'esperimento fallì; nel XIII sec. il tema degli "uomini allevati nel deserto" in modo da non sentire gli altri che parlano né essere istruiti sul modo di parlare, i quali parlerebbero tutti allo stesso modo, è presente in un autore come Boezio di Dacia (1969, questio XVI, p. 61).
Il contributo maggiore dell'imperatore all'elaborazione delle 'scienze della filosofia' si colloca nell'ambito della filosofia pratica o attiva, che, come si è visto, comprende la politica ‒ che Michele Scoto distingue in arte del governo e dottrina della vita sociale ‒, l'economia, la morale individuale. L'esercizio del potere nell'azione di governo, la promulgazione delle Costituzioni di Melfi e la riorganizzazione amministrativa del Regno sono il frutto dell'operazione propria dell'imperatore che, come tutti i 'principi delle genti', deve tendere alla realizzazione insieme della giustizia e della pace, "che si abbracciano come sorelle": così nel prologo delle Costituzioni, dove Federico stesso descrive la propria opera come quella di colui che coltiva la giustizia e fonda il diritto (colendo iustitiam et iura condendo). La riflessione sull'ideale morale cui deve ispirarsi chi ha responsabilità di governo e l'individuazione delle virtù a lui proprie accompagna costantemente l'attività dello Svevo, e contribuisce anche a chiarire la sua posizione sulla questione della nobiltà (poi discussa da Dante), questione giunta alla corte con l'anonima Contentio de nobilitate generis et animi probitate, indirizzata a Pier della Vigna e a Taddeo da Sessa. Federico non opta per la nobiltà personale, ma ritiene che la nobiltà di nascita da sola non sia sufficiente se non è illustrata dalla virtù del singolo. Nella lettera al figlio Corrado, del 1238, egli afferma che al re non basta la discendenza da illustre progenie se non è aiutata dalla generosità e dall'impegno personale: "non tanto sedere più in alto distingue re e imperatori, quanto vedere più a fondo e operare in modo più virtuoso". Egli esorta il figlio a coltivare la sapienza e la prudenza; in particolare, la prudenza è presentata come virtù regale per eccellenza, senza la quale non si è re, cioè non si è capaci di governare i sudditi; per conseguire la prudenza bisogna seguire studio e disciplina, facendosi scolaro di fronte a maestri e precettori (Historia diplomatica, pp. 274-275).
Come si vede, seguendo i molteplici interessi di Federico è possibile percorrere l'articolazione di una complessa divisione della filosofia, prossima a quella proposta da Gundisalvo e rielaborata, per quel che possiamo giudicare, da Michele Scoto.
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