FILOSOFIA (XV, p. 354)
La produzione filosofica dopo il 1945 ha senza dubbio risentito fortemente della seconda guerra mondiale, del trauma che essa aveva rappresentato nella vita delle nazioni soprattutto europee. La sua conclusione rese, infatti, sempre più chiara la coscienza, oltreché di profonde divisioni interne, della fine di un "primato" culturale. Non erano tramontati soltanto i grandi "imperi" coloniali; era venuta meno un'egemonia nel sapere. Va tuttavia soggiunto subito che non sarebbe esatto far coincidere senz'altro una periodizzazione valida per gli eventi politici con la delimitazione cronologica di vicende di idee. Le "svolte" medesime osservabili in indirizzi e pensatori singoli a livello di riflessione filosofica, erano in genere maturate in precedenza e si erano spesso già manifestate in tutta la loro evidenza drammatica nel periodo fra le due guerre, quando era veramente giunta al culmine la consapevolezza teorica delle scissioni che dividevano gli uomini nel tragico declino di un'epoca della civiltà. Der Untergang des Abendlandes (1918-22) di O. Spengler, che muore nel 1936, indipendentemente dal suo impianto teorico e dalle sue profezie, esprime con efficacia il travaglio dell'Europa dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. D'altra parte è proprio fra il secondo e il quarto decennio del secolo che le opere che hanno più profondamente segnato il Novecento videro la luce, o almeno furono composte. È in quegli anni tormentosi che stendono alcuni dei loro scritti decisivi E. Husserl, M. Heidegger, L. Wittgenstein, A. N. Whitehead, B. Russell, R. Carnap, M. Scheler, K. Jaspers, N. Hartmann, E. Cassirer, G. Lukács, J. P. Sartre e, in Italia, B. Croce, G. Gentile, A. Gramsci - per fare solo, e alla rinfusa, qualche nome importante. Cadono in quegli anni dibattiti aspri sulle teorie di A. Einstein e di S. Freud. Si rinnovano allora, nei metodi e nei fondamenti, discipline una volta incluse nell'ambito della f. e che ora si avviano a un momento di riorganizzazione, di distacco, di autonomia.
In realtà la svolta decisiva della coscienza europea, con tutti i suoi agganci mondiali, è connessa con la prima guerra mondiale, ossia con la prima tappa della tragedia del mondo. S'infranse allora l'illusione, durata fino al 1914, di una sicurezza raggiunta per sempre, di un progresso lineare indefinito: che la guerra fosse un relitto di età barbariche, concepibile al massimo come episodio periferico, facile a circoscriversi, oppure residuo di avventure coloniali. E fu illusione perdurante, all'inizio del conflitto 1914-18, nell'idea dell'ultima guerra, della guerra contro la guerra. Era ben altro: erano entrati in crisi gl'imperi; si sfasciavano gli antichi sistemi. L'uno dopo l'altro crollavano l'impero ottomano, l'impero absburgico, l'impero russo. Le rivoluzioni scuotevano il mondo. G. Simmel, scomparso nel 1918, in una delle sue ultime pagine aveva scritto che l'impeto della vita stava spezzando le forme in cui si era fino ad allora sistemato, e le travolgeva e le trascendeva tutte in una tragedia immane. B. Croce osservava che "qualcosa di malsicuro e di poco sano era venuto emergendo dovunque". Secondo quel sottile analizzatore dell'atmosfera catastrofica che avvolgeva la vecchia Europa che fu R. Musil, "qualcosa di selvaggio e di distruttivo, che era stato una volta addormentato da qualche ingegnosa operazione, adesso, d'un tratto, si era ridestato all'improvviso ed era ridivenuto attivo, vivo e minaccioso e sogghignante".
La vera svolta della f. europea si ebbe quindi, senza alcun dubbio, fra le due guerre, allorché nelle inquietudini dell'inizio del secolo s'individuarono i segni della tragedia incombente, e nei conflitti e nelle rivoluzioni si riconobbe la crisi di un'epoca. Sennonché, a rendere ancora più complessa la comprensione di quegli anni drammatici, sul piano della presa di coscienza filosofica devono essere sottolineate alcune caratteristiche significative, e che pongono non pochi problemi. Molte opere composte fra le due guerre vennero pubblicate solo dopo il 1945, e cominciarono a operare nel secondo dopoguerra, costituendone addirittura l'orizzonte teorico. Si pensi soltanto, per gli svolgimenti della fenomenologia, agli Husserliana, ossia all'imponente quantità di manoscritti lasciati da Husserl, che hanno gettato spesso luce nuova anche su opere già note, almeno parzialmente integrandole. Ne è venuta una stagione originale del pensiero di Husserl, e non, come in altri casi di "rinascita", per la semplice reinterpretazione del già conosciuto, ma per l'immissione di testi prima sconosciuti, veicoli di un pensiero non ancora operante perché ignoto e imprevedibile. Di qui un altro Husserl che è intervenuto in forma massiccia nel dibattito filosofico postbellico.
Analogamente, un testo decisivo per il "neomarxismo" non solo italiano, i Quaderni di A. Gramsci, e cioè un'opera composta in carcere prima del 1937, e quindi da collocare nel dibattito di quegli anni, è stata pubblicata dal 1948 in poi, e in forma critica e integrale solo nel 1975. Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft di G. Lukács era terminato nel 1938, ma vide la luce solo dopo la fine della guerra, mentre Geschichte und Klassenbewusstsein, che pure fu pubblicato nel 1923, e che influì su Sein und Zeit di M. Heidegger (1927), uscito presto dalla circolazione, ha avuto un'efficacia singolare soprattutto dopo la sua ricomparsa in anni a noi vicinissimi. The blue book e The brown book di L. Wittgenstein, che costituiscono i preliminari delle Philosophical investigations (1953) risalgono al 1933-35, anche se furono pubblicati nel 1958. Il che dimostra come il "secondo" Wittgenstein con la sua svolta non coincida col periodo postbellico. E per venire alla più nota delle "svolte", la Kehre di Heidegger, dichiarata dall'autore stesso nel 1947, essa risaliva in realtà agl'inediti degli anni Trenta, e in particolare all'Einjführung in die Metaphysik che esce nel 1953, ma è del 1935.
Ovviamente non è nuovo il caso di testi rimasti a lungo inediti e ignoti, e così pure di autori e di opere che hanno cominciato ad agire in ritardo. Sennonché il fenomeno verificatosi in forma macroscopica fra le due guerre è diverso per più aspetti: lo è, innanzitutto, per la sua ampiezza; lo è, soprattutto, perché connesso a censure politiche di vario tipo e intrecciato alla persecuzione e alla diaspora di folti gruppi di intellettuali, costretti a emigrare dai luoghi di origine per andare a innestarsi in culture diverse, con le quali stabiliscono rapporti originali, subendone l'influenza e reagendovi. Si pensi alla disseminazione del Wiener Kreis (il "Circolo di Vienna"), dopo l'assassinio (1936) di M. Schlick, che l'aveva costituito come una specie di suo "seminario privato" (l'espressione è di K. R. Popper). Si rifletta al passaggio, in seguito all'avanzata nazista, di alcuni dei suoi membri più significativi dall'Europa agli Stati Uniti; a R. Carnap (1891-1970), la cui fondamentale opera Logische Syntax der Sprache era uscita nell'originale tedesco a Vienna nel 1934, mentre la "svolta" da cui ebbe origine l'altro suo celebre libro, Logical foundations of probability (1950), risale al 1941, allorché cominciò a "riconsiderare l'intero problema della probabilità, vista come fulcro di tutte le esperienze induttive".
In qualsiasi direzione ci si volga, si ha la conferma che, per gran parte, dal 1945 in poi si abbia soprattutto l'emergere in piena luce di quanto era maturato, e spesso aveva trovato compiuta espressione, fra le due guerre. In altri termini ci troviamo davanti a un fenomeno singolare: prese di coscienza ed elaborazioni già chiare vengono differite nella "pubblicazione", ossia spostate rispetto alle proprie coordinate temporali, inserite in ritardo nel discorso comune, e quindi fatte interlocutrici in un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro. In tal modo la f. come consapevolezza di processi in atto fra le due guerre, ritardando la propria manifestazione pubblica, e quindi la discussione e il confronto al dopoguerra, è andata talora incontro a conseguenze paradossali per la non esatta corrispondenza fra la situazione d'origine e quella in cui veniva a emergere. In particolare è andato spesso perduto il senso delle polemiche, determinandosi così non pochi fraintendimenti, dato che ogni f. nasce sempre in un rapporto critico con altre tesi. Basti pensare alla battaglia di Husserl contro l'alienazione "scientista" e la disumanizzazione tecnologica, e al senso preciso che essa ebbe nelle conferenze del maggio 1935 a Vienna, e del novembre di quell'anno a Praga e, non molto dopo, allorché uscì alla vigilia dell'Anschluss, nel primo volume della rivista Philosophia di Belgrado, il testo parziale di Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Nell'agonia dell'Europa civile, quando le "Leggi di Norimberga" (15 settembre 1935) sancivano in nome della scienza le discriminazioni razziali, la parola del vecchio filosofo significò difesa dell'uomo contro la "razionalità" nazista, contro una concezione e un uso della scienza e della tecnica che sarebbero approdati ai campi di sterminio e alla guerra nucleare. Nel 1954, allorché l'opera tornò a circolare completa delle parti inedite, e inserita, non più nella rivolta contro la "scienza" hitleriana, ma nel complesso delle discussioni degli anni Cinquanta, e delle varie utilizzazioni della fenomenologia in un clima culturale tutto diverso, non solo andò perduto il senso originario delle pagine husserliane, ma fu possibile connetterle addirittura a un processo di distruzione della scienza e della ragione secondo la tesi generale sostenuta nel 1954 da Lukács in Die Zerstörung der Vernunft.
Analogamente la polemica di Gramsci contro Croce, con precisi valori teorici e pratici se ricollocata nel tempo suo, fra le due guerre, e allora "necessaria" in Italia per uno sviluppo del marxismo, e tanto "attuale" nell'evoluzione del marxismo europeo, negli anni Cinquanta, allorché fu conosciuta, doveva essere accortamente storicizzata da chi non volesse falsificarne il significato.
Considerazioni non diverse potrebbero farsi a proposito di non poche altre posizioni, e della loro emergenza differita, o del loro trapianto da un paese all'altro, ossia da un clima culturale all'altro e tutto questo per motivi di coercizione esterna o di censura. Si tratta di una serie di scarti nel tempo e nello spazio da cui non può prescindere chi voglia ricostruire il panorama del pensiero filosofico dal 1945 in poi. Se mai c'è stato momento in cui sarebbe assurdo limitarsi all'analisi di opere disposte secondo la data di edizione questo è il dopoguerra. In realtà il 1945, ossia la fine della seconda guerra mondiale, non è una data periodizzante: non ha segnato una cesura. La vera "svolta", se vogliamo servirci di questo termine, viene determinandosi nel periodo tra le due guerre. È allora che entrano in crisi le f. idealistiche e gli storicismi ottimistici; è allora che si sviluppa la fenomenologia e si affermano le f. dell'esistenza; è in quel periodo che urgono le esigenze di concreto; è di quegli anni l'approfondimento delle correnti neopositivistiche e della f. della scienza. Il dopoguerra non vede un netto e radicale mutamento di prospettive, o la rapida crescita di posizioni decisamente innovatrici. Col 1945, almeno nel campo propriamente filosofico, non si apre nessun nuovo corso. Voci prima soffocate si fanno chiare; teorie che in alcuni paesi vivevano una vita sotterranea escono alla luce; processi già in atto in qualche pensatore assumono un ritmo più rapido e deciso. Nel complesso, tuttavia, il giuoco si fa con le medesime carte, anche se diversamente mescolate; i grandi interlocutori non cambiano, e, dietro di loro, ancora e sempre Kant e Hegel, Marx e Nietzsche.
La "ripresa" di filosofie del passato. - Prima di passare a un esame analitico dello sviluppo delle discussioni filosofiche nelle varie aree linguistiche, è tuttavia necessario far cenno, sia pure rapidamente, di alcuni aspetti caratteristici del pensiero posteriore al 1945: a) le "rinascite" di pensatori di un passato anche recente, e le loro varie combinazioni, nei cui tentativi si è impegnato lo sforzo di non pochi studiosi; b) le variabili fortune di correnti e indirizzi affermatisi in particolare fra le due guerre, a cui s'intrecciano sviluppi nuovi e autonomi di discipline prima riabbracciate dalla f., o almeno prosperanti ai suoi margini.
Circa il primo punto, il caso più importante è forse quello di Hegel. Senza dubbio anche Kant ha avuto un peso grandissimo nella recente discussione teorica: basti pensare all'incidenza che in molti campi conservano le opere di E. Cassirer (1874-1945), storico e filosofo, costretto dal nazismo ad abbandonare la Germania per approdare alla fine negli Stati Uniti, e la cui maggiore opera, la Philosophie der symbolischen Formen, uscita fra il 1923 e il 1929, è venuta acquistando rilievo soprattutto in questi anni, nelle discussioni sul pensiero mitico e simbolico, sul linguaggio, sulle "strutture". Il suo saggio del 1946, Structuralism in Modern Linguistics, è sembrato singolarmente anticipatore, mentre di neokantismo si è parlato sempre di più a proposito degli "strutturalisti". M. Foucault (nato nel 1926) nel 1966 ha dichiarato: "noi siamo tutti neokantiani", mentre P. Ricoeur (nato nel 1913), nel 1963 ha definito C. Lévi-Strauss (nato nel 1908) "un kantiano senza soggetto trascendentale": anzi, il teorico di un inconscio "kantiano più che freudiano, un inconscio categoriale". Del resto la fenomenologia si è spesso richiamata a Kant, alla dottrina dello "schematismo trascendentale", così come a Kant, anche se a un altro Kant, si è appellato M. Heidegger, contrastando con Cassirer proprio su Kant fino dalla celebre disputa di Davos, del marzo 1929. Dalle parti più varie, e nei campi più diversi, l'eredità kantiana ha mostrato la sua fecondità, fino alla f. della scienza di K. Popper (nato nel 1902). E la mostra oggi in forma dichiarata proprio nel contrasto con lo storicismo e la dialettica, con Hegel e con la tesi del nesso Hegel-Marx. L'attuale dibattito fra strutturalismo e storicismo ha, certo, come grande interlocutore Kant, oltre a Hegel e a Marx; ma mentre il nome di Kant, nel dopoguerra, è sempre stato fatto in sordina (e talora non senza esitazioni), quello di Hegel ha avuto un peso determinante. Già tra le due guerre quegli scritti giovanili di Hegel che W. Dilthey, rilanciandoli, aveva chiamato "teologici" (Theologische Jugendschriften), avevano contribuito a una nuova lettura dell'opera del filosofo fino alla Fenomenologia dello spirito: una lettura che ne consentì una visione più aperta, meglio conciliabile con talune esigenze delle correnti esistenzialistiche allora emergenti. Aveva cominciato J. Wahl (1888-1975) col celebre libro su Le mameur de la conscience dans la philosophie de Hegel del 1929 (ma riedito nel 1951). In Francia avrebbero continuato in molti, da A. Koyré (1892-1964), fra i primi a introdurre Husserl, ad A. Kojève (1902-68), le cui lezioni sulla Fenomenologia, tenute alla Ècole des Hautes Études fra il 1933 e il 1939, di timbro esistenzialista, vennero pubblicate solo nel 1947 da R. Queneau come Introduction à la lecture de Hegel, con una risonanza larghissima. È del 1946 il maggior libro di J. Hyppolite (1907-68), Génèse et structure de la Phénoménologie de Hegel. Proprio in Francia si viene delineando un clima in cui Hegel per un verso è ripensato nell'ambito dell'esistenzialismo, mentre per un altro è collegato con Marx. Sarà, dopo quelli di Kojève e di Hyppolite, lo Hegel filosofo dello stato di E. Weil (1904-77), in corrispondenza con la ripresa di una nuova lettura di Marx. Il giovane Hegel e il giovane Marx; lo storicismo di Hegel e di Marx; il nesso Hegel-Marx; l'umanesimo di Hegel e di Marx: ecco alcuni dei nodi che il dibattito filosofico posteriore al 1945 eredita dai fermenti fra le due guerre. Né solamente in Francia: si pensi al Lukács del 1923 con le analisi di alienazione e reificazione; si pensi a K. Korsch (1886-1961), e poi a T. W. Adorno, a H. Marcuse, a E. Bloch. Nel 1948 esce, di Lukács, Der junge Hegel, ove, pur leggendosi Hegel attraverso Marx, Marx si salda a Hegel in una forte sottolineatura dialettica e storicistica. Hegel diventa anzi un punto discriminante in tutto il dibattito del marxismo occidentale. In Francia il nesso Hegel-Marx raggiunge il Sartre del 1960 e La critique de la raison dialectique; in Italia include i 'gramsciani'; in Germania tocca la Scuola di Francoforte. Di contro, invece, si colloca in forte polemica il Marx non storicista né umanista, ma 'scienziato', in Italia di G. Della Volpe (1895-1968), in Francia di L. Althusser (nato nel 1918) e dei suoi. E l'urto delle interpretazioni traduce non di rado urti politici profondi.
Non meno vistoso e massiccio, dopo la guerra, il riaffermarsi postumo di Husserl, e non soltanto in Europa. La pubblicazione, avviata appunto nel 1950, delle opere complete e dei manoscritti (circa 40.000 pagine inedite) da parte degli Archivi Husserl di Lovanio, sotto la direzione di H. Leo Van Breda (1911-74) e con la collaborazione degli assistenti di Husserl E. Fink (nato nel 1905) e L. Landgrebe (nato nel 1902), ha contribuito non poco a una ripresa fenomenologica che si è svolta lungo linee diverse: dalle interpretazioni neotomistiche alle discussioni con il marxismo, al fitto colloquio con Heidegger, alle connessioni con lo strutturalismo. Si tratta di una tematica che variamente tocca tutta la produzione filosofica contemporanea, anche se spesso con esiti contrastanti. Così, nei confronti del marxismo accentuano, sia pure diversamente, la divergenza, il vietnamita Tran-Duc-Tao, nel noto volume del 1951 Phénoménologie et matérialisme dialectique, e Adorno, nel 1956, in Zur Metakritik der Erkenntnistheorie, mentre E. Paci (1911-1976) tenta, in sostanza, una conciliazione e una combinazione, nel libro del 1963, Funzione delle scienze e significato dell'uomo. In Francia il dialogo fra fenomenologia, esistenzialismo e marxismo, e soprattutto il confronto delle varie posizioni di Husserl e Heidegger, vede interlocutori quali J.-P. Sartre, M. Merleau-Ponty (1908-61), P. Ricoeur. Né gli echi della ripresa fenomenologica si fermano qui; investono la riflessione mondiale nei campi più disparati, proprio per lo sforzo originario husserliano di dare alla f. contemporanea una struttura rigorosamente scientifica (als strenge Wissenschaft), capace, non più nel lavoro dei singoli, ma attraverso la collaborazione di una comunità di ricercatori, di estendere gli stessi procedimenti analitici a tutti i campi della conoscenza e della vita.
Se il fitto dibattito sulla fenomenologia si è intrecciato nella f. di questo dopoguerra al discorso sul marxismo, un altro interlocutore, già affacciatosi fra le due guerre, ha raggiunto un peso essenziale: S. Freud (1856-1939) con la psicoanalisi (e con i suoi eretici, quali, specialmente, C. G. Jung, 1875-1961). Una f. che oggi ignorasse Freud non è nemmeno pensabile: le sue tesi sull'uomo, la società, la cultura, i suoi metodi, possono essere criticati, non passati sotto silenzio. Sartre come Merleau-Ponty, Adorno come Marcuse, per fare solo qualche nome, hanno tutti affrontato la psicoanalisi che, d'altra parte, ha una posizione di grande rilievo nella querelle sullo strutturalismo, anche per l'incidenza, fra i filosofi, degli scritti di un medico come J. Lacan (nato nel 1901). Di fatto, il pensiero del dopoguerra, nel suo sforzo costante di ridefinire il compito, il senso, il metodo della f., si è trovato di continuo di fronte a discipline dotate di "statuti" precisi e tendenti all'autonomia. E spesso, invece di mantenersi fedele al proprio compito critico e alla propria autonomia, e cioè alle sue funzioni unificanti, e al suo antico sforzo di critica del conoscere e di ricerca di un significato totale, la f. ha subìto ora questa e ora quella disciplina: 'scienze' storiche e sociali, logica matematica, linguistica e antropologia, hanno via via avanzato - e spesso con successo - la loro candidatura all'egemonia. Dietro il contrastarsi, e il succedersi, degli ismi (esistenzialismo e neopositivismo, storicismo e strutturalismo) in questo trentennio non è difficile individuare una sorta di moderna "battaglia delle arti" nei confronti delle quali una discussione filosofica non passiva si è sforzata di ridefinirsi come esercizio critico della ragione. In un testo del 1976 K. Popper ha ribadito: "io penso che il compito principale della filosofia sia di speculare criticamente intorno all'universo e al nostro posto in esso, comprese le nostre facoltà conoscitive e le nostre capacità per il bene e per il male".
La filosofia nella Germania postbellica. - Com'era naturale, nel 1945, al concludersi della guerra, il primo problema che si pose alla riflessione fu quello della guerra: di "quella" guerra, con le sue colpe orribili, le responsabilità, il senso delle sofferenze. E il contraccolpo fu sentito in modo più profondo nei paesi che ne avevano vissuto le esperienze più tragiche, ed erano stati coinvolti nelle decisioni più gravi. I campi di sterminio come i bombardamenti nucleari dettero il senso di un'umanità giunta al limite: nelle colpe come nel dolore. Una certa inflessione, comune a tanta produzione filosofica, dell'immediato dopoguerra, e che si suole connettere con l'esistenzialismo, non fu il frutto di una moda; fu l'eco di un'immane tragedia.
In Germania, dove la persecuzione degl'intellettuali aveva prodotto lacerazioni insanabili, la f. sembrò avviare un processo di ripensamento, e un amaro esame di coscienza. Uno dei maggiori rappresentanti della f. dell'esistenza, K. Jaspers (1883-1969), riprendendo nel 1945 quell'insegnamento da cui era stato allontanato nel 1937 per ragioni politiche, pose il problema di una colpa collettiva, di una responsabilità totale (Die Schuldfrage, 1946). L'atto di accusa di Jaspers si estende a tutta la politica di potenza, fatale non solo a un popolo, ma all'umanità intera. È un atto d'accusa che si esprimerà a pieno nel volume del 1958 Die Atombombe und die Zukunft des Menschen, dove ogni uomo, il singolo uomo, è chiamato a una scelta radicale. In quei medesimi anni Jaspers approfondiva in toni nuovi i temi del rapporto fra esistenza e ragione, e della pluralità del vero. La grande opera Die grossen Philosophen, avviata nel 1957 e rimasta incompiuta, è fondata proprio sulla tesi che "non esiste una verità unica, totale", mentre s'incontrano "molte verità in forma storica". Per questo la comunità umana "non è possibile attraverso l'universale professione di un'unica verità, bensì soltanto attraverso il mezzo comune della comunicazione". Si ritrova così il nesso fra ragione ed esistenza (Von der Wahrheit, 1947): arrivare alla ragione mediante la ragione "che trova l'oggettivazione nell'esistenza di una realtà storica e nel pensiero dei suoi ordinamenti". Al quale proposito, tuttavia, più che di un nuovo Jaspers, si dovrà parlare di una rinnovata sensibilità alla presenza dell'uomo nel mondo: quel mondo che "non è un processo fatale accessibile a qualche forma di pensiero", ma "dipende da ogni singolo uomo", e non sta là, ma è qui, come si legge nell'Autobiografia filosofica (Philosophische Autobiographie), finita nel settembre del 1953.
Anche per M. Heidegger (1889-1976), la cui presenza è stata a lungo determinante nel pensiero filosofico contemporaneo, ed è tuttora sensibile ovunque, si è parlato di una "svolta". Sulla base di quanto affermò lui stesso nel Brief über den Humanismus del 1947, in polemica con Sartre, si è distinto un primo e un secondo Heidegger, separati da una Kehre, espressa adeguatamente già nella conferenza del 1930 (ma pubblicata nel 1943) Vom Wesen der Wahrheit, ma sviluppata a pieno solo dopo la guerra. In realtà si dovrà parlare solo di uno svolgimento ("ist nicht eine Änderung" - ha avvertito Heidegger medesimo): e di uno svolgimento della prospettiva di Sein und Zeit (1927) e del Kant und das Problem der Metaphysik (1929). Si tratta infatti di un processo interno alla tematica di Sein und Zeit, e determinatosi molto prima della lettera a J. Beaufret contro la riduzione sartriana di esistenzialismo e umanesimo. Sartre nella sua celebre conferenza del 1946, L'existentialisme est un humanisme, aveva affermato la precedenza dell'existentia sull'essentia, e quindi l'assoluta libertà della scelta, per cui l'uomo decide della propria natura medesima. Heidegger, al contrario, vede proprio qui l'inizio della crisi della civiltà occidentale, che ha portato l'umanità allo smarrimento fatale e alla catastrofe presente. La storia dell'Occidente, dalla Grecia in poi, è il progressivo "oblio dell'essere", la perdita della patria, il distacco dell'uomo dall'essere. La stessa metafisica che riduce l'essere a un ente, e scambia l'ente per l'essere, non ha fatto che allontanare l'uomo dalla patria. La Kenre sta proprio nel chiarimento di questo punto, e quindi nel rifiuto, oltre che di ogni posizione "umanistica", anche della metafisica tradizionale. Mentre Sein und Zeit, con l'"analitica esistenziale", si apriva al problema dell'essere attraverso la messa in questione dell'uomo (che è l'unico che si pone il problema dell'essere), dopo la "svolta", Heidegger ha approfondito la tesi dello smarrimento e dell'oblio dell'essere ossia del fallimento del linguaggio filosofico e del sistema concettuale dell'età moderna e di tutto un "mondo entrato in decrepitezza". Egli ha ripreso così, esasperandola, la tesi di Husserl, della "crisi " della scienza moderna, e si è incontrato con un'ala importante della cultura tedesca contemporanea, con i suoi teologi, i suoi poeti e i suoi profeti, e con gli eredi di quel Nietzsche che, liberato dalle falsificazioni naziste, non a caso ha conosciuto una ripresa eccezionale. Finalmente, attraverso la critica della metafisica, l'ultimo Heidegger, per fondare una nuova ontologia, ha tentato il "cammino verso il linguaggio" (Unterwegs zur Sprache, 1959), che nella Lettera sull'umanesimo aveva indicato come "dimora dell'essere".
K. Löwith (1897-1973), allievo di Heidegger e poi suo critico acerbo, ha in proposito messo in evidenza il ritmo di un pensiero che, dopo avere "distrutto" la cultura occidentale come "decadimento del pensiero nella scienza e nella credenza", per salvare gli uomini dallo smarrimento e dall'oblio dell'essere, li aveva, nell'ultima fase, ricondotti alle origini per "i sentieri del bosco" (Holzwege) verso l'integro Essere originario, in una mistica che ricorda Eckhart. D'altra parte lo stesso Löwith, mentre sottolinea il rapporto di Heidegger con S. George (1868-1933), e richiama Spengler, denuncia anch'egli il fallimento del pensiero moderno dell'Occidente, "da Hegel a Nietzsche", indicando in Kierkegaard e Marx, messi in parallelo, i testimoni della crisi. Ed è sempre Löwith che richiama, a proposito di Heidegger, "il peccato originale della reificazione (Marx) e il destino della razionalizzazione (M. Weber)" e, a proposito di Husserl, la teoria della crisi del mondo moderno da collocarsi nella rivoluzione scientifica e nell'oggettivismo.
Non può non colpire, denominatore comune della riflessione postbellica, la condanna convergente, anche se con motivazioni diverse, di tutta la civiltà moderna, colpevole di avere "alienato" l'uomo, di averlo reificato, di avere preso una via senza uscita giunta ormai alla conclusione catastrofica. Alla luce degli ultimi bagliori della seconda guerra mondiale sembra che i filosofi d'ogni parte s'incontrino, in commovente concordia, a celebrare il rito funebre di un'epoca della civiltà: liberale, borghese, cristiana, alienata e reificata, in ogni caso esaurita e perduta. C'è in tutti, variamente atteggiato, il complesso di colpa per l'oblio dell'essere, per l'abbandono dei sentieri del bosco, per la ribellione contro il padre, e così via: e c'è in tutti la nostalgia della casa del padre, della naturalità originaria, contro una civiltà alienante e disumana. Le convergenze sotterranee sono molteplici, e spesso impensate e conturbanti. L. Goldmann (1913-1970) più volte ha posto in relazione Heidegger con Lukács, e non solo documentando in Sein und Zeit (1927) gli echi della tematica della "reificazione" di Geschichte und Klassenbewusstsein (1923). Ovviamente premesse e sviluppi sono diversi; non diversa la sfiducia in ogni idea di progresso provvidenziale della storia, e comune il denominatore di sconforto, e quasi di attesa di una catastrofe finale, che è alla radice di tanti odierni "ritorni" filosofici: da Schopenhauer a Nietzsche.
Resta, comunque, in primo piano l'influsso di Heidegger (e di Husserl) anche in campi non strettamente filosofici: da M. Müller (nato nel 1906), impegnato a chiarire la funzione della "filosofia dell'esistenza nella vita spirituale contemporanea" (Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart, 1949), ai fenomenologi Fink e Landgrebe, per non dire di un teologo come R. Bultmann (nato nel 1884), la cui critica al mito, il cui concetto di "immagine mitica del mondo" (Weltbild) costituisce al tempo stesso una critica del pensiero oggettivante. Ancora a Heidegger si collega H.G. Gadamer (nato nel 1900), con evidenti agganci a Dilthey e alle discussioni sullo storicismo. Il problema centrale all'inizio del secolo era stato quello del rapporto fra scienze della natura (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geistwissenschaften), fra lo spiegare delle prime e il comprendere delle altre. Attraverso la tematica heideggeriana, per un verso della temporalità, e per l'altro del linguaggio, la questione sembra approdare alla teoria dell'ermeneutica come strumento e metodo universale della comprensione del mondo in tutte le forme in cui si presenta nell'esperienza umana. Se la temporalità è la dimensione intrinseca, costitutiva e fondamentale dell'esistenza; se il linguaggio è l'"orizzonte del mondo" e ne è la mediazione totale; se è "il linguaggio che dischiude l'intero ambito dei nostri rapporti col mondo"; se "nel linguaggio si fa visibile tutto ciò che è reale oltre la coscienza del singolo"; se "l'esperienza linguistica del mondo è 'assoluta'"; l'ermeneutica, da Gadamer a pieno teorizzata nel 1960 in Wahrheit und Methode, diventa una metodica universale. Nella trama fitta di rapporti, di interrelazioni, di domande e risposte, dove il comprendere modifica interrogante e interrogato, il problema reagisce sul fatto, il futuro sul passato, si attua "quel gioco di specchi in cui il presente si riflette direttamente sul passato e il passato sul presente", quel dialogo universale che è la forma più autentica di comprensione.
Non la nostalgia delle origini, ma la speranza della conciliazione è al centro della meditazione di E. Bloch (nato nel 1885) che studiò con Simmel, e frequentò, insieme con Lukács e Jaspers, M. Weber. Lukács aveva pubblicato nel 1948 Der junge Hegel; Bloch pubblica nel 1949 il suo Subject-Object. Erläuterungen zu Hegel. Sono entrambe risposte alla condanna nei confronti di Hegel pronunciata da Stalin nel 1941. In Bloch c'è anche la risposta a Heidegger (e a Sartre), e al nichilismo esistenzialistico della "disperazione borghese", attraverso il socialismo come "scienza della speranza". Hegel, e Marx ricollegato a Hegel, avviano alla conciliazione intesa come "fine dell'oggetto nel soggetto liberato - fine del soggetto nell'oggetto non estraniato". E c'è anche, in Bloch, la risposta ai neopositivisti che (" credono che ogni pensiero sia un'illecita aggiunta al dato sensibile", laddove "i fatti non sono se non le creste delle onde che scorrono sulla superficie sensibile di un mare di connessioni dialettiche". Nei confronti di Heidegger, Bloch opera un vero e proprio capovolgimento, fondando su un'ontologia del Noch-Nicht-Sein (non-essere-ancora) la grande utopia del Principio Speranza (Das Prinzip Hoffnung), l'opera ben nota uscita in tre volumi fra il 1954 e il 1959. È la prassi di Marx che rovescia l'angoscia in speranza. "La redenzione dal male, dal vuoto, dalla morte e dall'enigma", avverrà attraverso la costruzione di un altro mondo, "trascendendo senza trascendenza" il "cattivo" presente verso un "mondo migliore" in cui convergano uomo e natura, sfruttandone le possibilità profonde. Bloch, che J. Habermas nel 1960 ha definito ein marxistischen Schelling, afferma che "il marxismo, come ha scoperto nell'uomo lavoratore il soggetto della storia, così è verosimile che progredisca anche nella tecnica fino allo sconosciuto soggetto dei processi naturali", verso ("un'identità in cui si operi l'umanizzazione della natura e la naturalizzazione dell'uomo, in cui siano tolte tutte le alienazioni con un uomo senza contraddizioni in conflitto".
Connessione con Hegel, ripresa dell'elaborazione di Marx compiuta da Korsch e Lukács giovani (negli anni Venti), ambiguo rapporto con l'esistenzialismo e con Heidegger, polemica con la sociologia e la scienza dei neopositivisti e con Popper, complessa collocazione nei confronti dell'escatologia di Bloch: ecco alcuni dei problemi sollevati dalla cosiddetta Scuola di Francoforte, e dalla "teoria critica", di T. Wiesengrund Adorno (1903-1969), di M. Horkheimer (1895-1973) e, con loro, di H. Marcuse (nato nel 1898) e, ancora, fra i più giovani, di J. Habermas (nato nel 1929), resi noti soprattutto dalla rivolta giovanile degli anni Sessanta.
In realtà la Scuola di Francoforte ha un'origine lontana: nell'Institut für Sozialforschung fondato nel 1923, costretto a emigrare nel 1933 La sua rivista degli anni Trenta fu la ben nota Zeitschrift für Sozialforschung. La dispersione, e poi la nuova attività nel dopoguerra, mostrano una continuità di esigenze e di temi, dal confronto con la critica della scienza del pur criticato Husserl ai motivi heideggeriani e nietzschiani. La Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, scritta da Adorno e Horkheimer negli Stati Uniti fra il 1942 e il 1944, ma pubblicata nel 1947, si conclude già con una condanna radicale della società tecnologica contemporanea, della scienza come dominio, della "reificazione", del soggetto che si perde nell'oggetto. Il positivismo tecnocratico, scaturito dalle scienze della natura e dalle nuove logiche, dissolve, alla fine, ogni possibilità di distinguere fra apparenza razionale e realtà irrazionale. Il razionalismo illuministico della società borghese finisce in un'autodistruzione dell'illuminismo, ossia della ragione borghese. Ed è contro un'intera società, è contro i suoi esiti contraddittori, che una negazione così radicale sbocca alla fine nella distruzione di sé. Nella Negative Dialektik del 1966 Adorno identificherà "la forza che viene liberata dal movimento dialettico nella conoscenza" con "la rivolta contro il sistema". La costruzione dell'utopia, che in Bloch era operoso e concreto impegno mondano della prassi, assume qui i colori dell'evasione ideale. Dei cui caratteri, del resto, fu in qualche modo una verifica la famosa discussione che mise a confronto, fra gli altri, Adorno e Popper, ossia, come forse non esattamente si disse, dialettica e positivismo in sociologia (Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, 1969).
La filosofia in Francia. - Nel 1947, in un momento di punta delle discussioni sull'esistenzialismo, E. Mounier (1905-1950), teorico di un personalismo comunitario ove la persona si realizza come tensione fra esistenza e valore, aprì una Introduction aux existentialismes disegnando un albero con molte radici antiche e molte ramificazioni contemporaneee. Definito l'esistenzialismo in genere come "una reazione della f. dell'uomo contro l'eccesso della f. delle idee e della f. delle cose", v'incluse, in Francia, insieme J. Paul Sartre e G. Marcel, che erano su posizioni fra loro lontanissime. La tesi di Mounier rispecchiava il suo ardito programma pratico di un cristianesimo "proletario" capace di novità radicali e fondato sulla conciliazione di Kierkegaard e Marx. Non meno ardito l'avvicinamento teorico a Sartre di G. Marcel (1889-1973), convertitosi dall'ebraismo al cristianesimo nel 1929 e vicino, a un certo momento, pur con notevoli differenze, al gruppo della Philosophie de l'esprit animato da R. Le Senne (1882-1954) e L. Lavelle (1883-1951), che fra le due guerre aveva alimentato una reazione antipositivistica e antiscientista di sapore "biraniano", tesa a integrare psicologia e metafisica. Particolarmente R. Le Senne, sensibile ai problemi di caratterologia e di morale, espresse ancora nei primi anni del dopoguerra opere assai complesse quali il Traité de caractérologie del 1946. Quanto a Marcel, egli è venuto spesso sottolineando l'originario carattere sensibile dell'esistenza. Il corpo, che "è simpatia con le cose", può da me essere posseduto come un mio avere; ma io posso anche essere il mio corpo, ossia un'esistenza incarnata, che si radica nell'"essere" e, attraverso il corpo, si libera e comunica.
Comunque la Philosophie de l'esprit, e G. Marcel, e l'esistenzialismo "religioso", e L. Chestov (1866-1948) e N. A. Berdiaev (1874-1948), appartengono al clima culturale fra le due guerre e vi rimangono chiusi. Con J. Paul Sartre (nato nel 1905) ci troviamo invece, nel 1945, a una "svolta" reale. È superata la tematica delle opere precedenti, soprattutto de L'être et le néant, essai d'ontologie phénoménologique, del 1943; "il secondo Sartre" si delinea chiaramente nella conferenza L'existentialisme est un humanisme del 1946, nella presentazione del 1945 della rivista Les temps modernes fondata insieme con M. Merleau-Ponty (1908-61), nel saggio Matérialisme et révolution sempre del 1946. L'esistenzialismo è visto, e vissuto, come una "morale dell'azione e dell'impegno". L'uomo è un punto di assoluta libertà che è chiamato a operare per la trasformazione della società. Les temps modernes, a cui in origine collabora, oltre a Merleau-Ponty, anche R. Aron (nato nel 1905) vogliono essere lo strumento di una cultura militante. "Nostra intenzione - precisa Sartre - è concorrere a produrre certi mutamenti nella società che ci circonda. Con ciò non intendiamo un mutamento delle anime". Si tratta di "mutare al tempo stesso la condizione sociale dell'uomo e la concezione che egli ha di sé stesso". Contemporaneamente Sartre affronta il marxismo, prima ignorato ("anticapitalisti, ma non marxisti, esaltavamo - scrive S. De Beauvoir - i poteri della scienza e della libertà"), e concentra i suoi sforzi sul problema del rapporto esistenzialismo-marxismo, a suo parere male impostato dal Lukács nel suo Existentialisme ou marxisme? del 1948. Nella Critique de la raison dialectique del 1960 saranno incluse le Questions de méthode uscite nel 1957 su Les temps modernes, in cui Sartre, alla critica al determinismo proprio del marxismo dogmatico unisce il tentativo di un marxismo umanistico, fondato sulle opere giovanili di Marx e capace di accogliere le istanze dell'esistenzialismo. Appunto la Critique de la raison dialectique, di cui nel 1960 uscì il primo, e unico, volume rappresentò l'avvio della nuova sintesi. Sennonché, dopo il distacco degli antichi collaboratori, negli anni Sessanta Sartre si trovò ormai davanti alla requisitoria dell'"antiumanesimo" marxista, dello strutturalismo, della "scienza": una reazione che ha trovato in L. Althusser (nato nel 1918) l'esponente più caratteristico. D'altra parte l'opera e l'influenza di Sartre sono andate ben al di là dell'ambito della filosofia in senso stretto: hanno investito, non solo la letteratura e lo spettacolo, ma la vita culturale nei suoi rapporti con la politica, e questo oltre i confini del suo paese.
Quanto a M. Merleau-Ponty (1908-1961), la sua Phénoménologie de la perception comparve proprio nel 1945, mentre Le visible et l'invisible è uscito postumo nel 1964. Anch'egli impegnato nella politica, si distaccò dalle posizioni originarie nel 1955 con Les aventures de la dialectique, che suscitarono reazioni vivacissime da parte dei comunisti francesi. Partito da Husserl, al quale in qualche misura è rimasto sempre fedele, non fu sordo, in origine, alla Gestalttheorie. Diversamente da Sartre, non crede che l'analisi della struttura dell'uomo come essere-nel-mondo possa avvenire in termini di coscienza. Egli insiste con forza sul soggetto incarnato nel corpo, "veicolo" e "ancoraggio", "mediatore" e "vincolo". "Lo spirito non utilizza il corpo, si fa attraverso di lui", e il corpo tende verso il mondo; è il nostro legame "carnale" col mondo. Di qui l'avvio a un'indagine sempre più sottile che, partendo dalla "carne" (il Leib di Husserl), ossia dalla percezione in cui s'incontrano senziente e sensibile, tende all'Essere. E vi tende attraverso una preminenza della vista, in un universo di visibilità, per fondare un'ontologia del visibile. "Il visibile si realizza attraverso l'uomo", attraverso il corpo che è insieme "vedente" e "visibile", mentre "la Natura è l'altro lato dell'uomo (come carne...)". Il visibile insieme manifesta e nasconde l'intelaiatura, l'ossatura interiore, "il legame della carne e dell'idea". E in questa direzione ontologica che si muovono o mai le ultime pagine, affascinanti benché incomplete, di Le visible et l'invisible.
Se Sartre, e il suo gruppo, eretici e no, sono i protagonisti del dibattito filosofico francese fino a tutti gli anni Cinquanta, e lo dominano, la scena cambia radicalmente negli anni Sessanta. Non più "umanesimo" e "storicismo"; non Hegel giovane e Marx giovane; nessun privilegio della f. contro la scienza. Gli stessi studi su Hegel e Marx, già così densi di opere interpretative, nella misura in cui continuano, cambiano carattere. Con gli anni Sessanta si afferma, sulla scia del rinnovamento delle ricerche linguistiche, la grande ondata dello strutturalismo, che alla considerazione del divenire storico-temporale ("diacronia") oppone come scopo unico della "vera" scienza l'individuazione di leggi formali, valide per classi di fenomeni. Alla comprensione del divenire degli eventi si oppone così la definizione di strutture profonde, o sistemi, logicamente determinati e permanenti, che organizzano e comandano il complesso dei fenomeni ( "la nozione di struttura si sovrappone, o addirittura si fonde con la nozione di sistema"). È l'invariabilità della struttura come fondamento della scienza che si oppone alla retorica (filosofia), nel cui ambito sono relegati gli umanismi, gli storicismi, le concezioni del mondo, e tutta la f. tradizionale. È "un'ontologia della struttura come infrastruttura incosciente delle relazioni percepite" e, "contemporaneamente, il rifiuto della concezione storicistica della storia come progresso continuo e omogeneo dell'umanità (L. Sève).
In Francia l'offensiva è stata guidata da C. Lévi-Strauss (nato nel 1908), J. Lacan, M. Foucault (nato nel 1926), L. Althusser. In certo senso sia Lévi-Strauss che Lacan si muovono in zone a sé, e fanno parte per sé, l'uno rinnovatore degli studi di antropologia, l'altro originale studioso di psicoanalisi. Eppure le loro indagini sono divenute delle guide, non solo come modelli di metodo, ma anche come espressioni di un'ideologia lontana così da Hegel come da Marx, non dialettica, ma di sapore tra kantiano e husserliano: fondata su una logica "delle configurazioni interne, delle forme costituite, dei sistemi chiusi e dei funzionamenti stabili". Di Lévi-Strauss la prima grande opera uscì nel 1949: Les structures élémentaires de la parenté, seguita nel 1955 da Tristes tropiques, nel 1958 dall'Anthropologie structurale, nel 1962 da La pensée sauvage. Approfondendo i temi mutuati dai linguisti, Lévi-Strauss è venuto a sostenere che "strutture mentali incoscienti" produrrebbero schemi mentali costanti, "condizioni di tutte le vite mentali di tutti gli uomini e di tutti i tempi".
Di L. Althusser, della sua battaglia per la distinzione fra scienza e ideologia, per una lettura "scientifica" di Marx, contro umanismo e storicismo, è necessario tenere ben fermo l'intento politico. Althusser, non va dimenticato, fa opera - com'è stato detto - di "pedagogista politico" e di "stratega teorico"; e fa tutto questo nel clima determinatosi in Francia, non senza il contributo di Sartre, di un marxismo come 'f. del nostro tempo', ossia generico, di tutti. Le sue due opere di maggior risonanza, Pour Marx del 1965, e Lire le Capital del 1968 (con contributi di Balibar, Establet, Machery-Rancière), si distinsero appunto per un'accentuazione "teoricistica", che Althusser stesso, nel 1972, ha chiamato "deviazione teoricista", volutamente esasperata per dimostrare il carattere di "novità rivoluzionaria" e di rottura radicale del marxismo nei confronti dell'ideologia borghese. Che Althusser presentasse la sua opera come "scienza" rigorosa, anzi come "verità" contro l'errore, non è dubbio, come è costante il suo richiamo alla "teoria". Altrettanto chiari l'intento polemico e l'emergere di una "ideologia strutturalista", non aliena, nell'ambito francese, da tentativi di combinazioni con la dialettica e la storia attraverso formulazioni di "strutturalismo genetico", o di teorie strutturalistiche della "diacronia".
La volontà polemica antiumanista si manifesta con asprezza anche nelle opere di M. Foucault, il quale ha efficacemente mostrato l'importanza della correlazione, a un'epoca data e in un'area definita, di tutti gli aspetti di una cultura in un complesso "epistemico" che regola le varie manifestazioni del sapere, agendo a livelli inconsci o subconsci. Les mots et les choses del 1966, e L'Archéologie du savoir del 1969, sono stati appunto dei notevoli saggi in questa direzione. Ma vi si è sostenuto anche, non senza accentuazioni paradossali, che l'uomo è un'invenzione recente, che ogni posizione antropocentrica è falsa, come avrebbero dimostrato il marxismo, la psicoanalisi, la linguistica. L'essere umano nel suo esistere non è che un fenomeno di strutture immutabili; l'azione e l'impegno perdono senso e si rivelano illusioni; resta, in realtà, soltanto l'analisi concettuale.
In questa evidente reazione della "scienza" alla "filosofia", frequente è il richiamo, oltre che ai linguisti, agli epistemologi, ai logici, agli storici della scienza. Althusser sottolinea come il tema della coupure (rottura) epistemologica gli sia venuto da G. Bachelard (1884-1962), i cui scritti hanno inciso non poco nel dopoguerra; e col suo va fatto il nome di G. Canguilhem (nato nel 1904). Le discussioni epistemologiche, e in genere le ricerche di storia della scienza, sono venute recando contributi sempre più rilevanti. Né può dimenticarsi, di uno psicologo come lo svizzero J. Piaget (nato nel 1896), l'epistemologia genetica, che ha trovato nel 1970 una limpida sistemazione.
Sempre nell'ambito della produzione filosofica in lingua francese, andrà tenuta presente l'opera di Ch. Perelman (1912) che, pur mantenendo ferma una prospettiva razionalistica e positiva, accanto alla logica della scienza ha posto le tecniche dell'argomentazione, ossia il discorso "retorico" in funzione pratica. Soprattutto il Traíté de l'argumentation del 1958, ma anche i contributi più recenti, mostrano il rilievo di questi studi intorno a una "nuova retorica" ai fini di una più articolata, e non "retorica" indagine sui procedimenti e sul significato della "scienza".
La filosofia nei paesi anglosassoni. - Chi, nel tentativo di fare il punto di questi ultimi decenni di riflessione filosofica, attraversi prima la Manica, e poi l'Atlantico, non può non rimanere colpito da un clima diverso, da metodi e "autori" differenti. Un'antica tradizione ha facilitato una ricerca puntuale, analitica e critica, un richiamo all'esperienza, una connessione stretta con le scienze, una sensibilità costante per i problemi morali. Vanno inoltre sottolineati i nessi profondi, e gli scambi molteplici, con le posizioni neopositivistiche del Circolo di Vienna, sia per l'influenza che ebbe sulle sue origini B. Russell, sia, in seguito, per l'incidenza decisiva dell'insegnamento di Wittgenstein in Inghilterra. E se R. Carnap, dal 1936 in poi, operò negli Stati Uniti, dove dal 1938 al 1953, anno della sua morte, insegnò anche H. Reichenbach, W. van Orman Quine aveva studiato a Vienna, Praga e Varsavia, mentre il viennese Popper, dopo essere andato nel 1936 in Nuova Zelanda, dal 1946 in poi è stato professore a Londra. Né può dimenticarsi che A. Tarski (nato a Varsavia nel 1902), tra i più illustri rappresentanti della scuola polacca di logica con J. Lukasiewicz e K. Ajdukiewicz, passò anch'egli negli Stati Uniti agl'inizi della seconda guerra mondiale. In breve, la tradizione filosofica anglosassone rimasta fedele all'empirismo, e per lo più aliena dall'idealismo, trasse contributi non trascurabili dall'eredità neopositivistica approdata alla f. analitica, e fu ferma nella valutazione positiva delle scienze, nelle ricerche logiche, nella diffidenza per la metafisica, e nel rifiuto delle speculazioni astratte, anche se venne via via attenuando certe impostazioni più radicali che avevano caratterizzato in partenza il neopositivismo del Circolo di Vienna e il primo Carnap.
Si è trattato, comunque, di un orientamento che ha cercato di attuare una "svolta" o, per usare il linguaggio di N. Goodman, una "riforma" della f.: una nuova concezione della sua natura e dei suoi scopi, dei suoi metodi e dei suoi resultati. Non a caso, nel 1956, G. Ryle (1900-1976), uno dei maggiori esponenti del pensiero inglese contemporaneo, ne presentò un panorama a più voci sotto il titolo The revolution in philosophy. Dopo Russell, Moore e Wittgenstein, dopo il Circolo di Vienna e la disseminazione mondiale delle sue posizioni, la f. sarebbe divenuta un'altra cosa rispetto alla tradizione. Di qui i termini di "rivoluzione", di "rottura". Nel 1976 K. R. Popper, definendo a sua volta i caratteri e i compiti della f., ha ribadito, al contrario, il suo dissenso di sempre dall'atteggiamento "non solo antimetafisico, ma antifilosofico", del Circolo di Vienna, a cui pure era stato così vicino da esserne considerato talora un esponente. Rifiutando l'immagine della f. come soluzione di enigmi linguistici; come tentativo di chiarire, o analizzare, concetti, o parole e linguaggi; come terapia intellettuale; come ricerca di esprimere le cose con maggior precisione o esattezza, Popper, a sua volta radicato nel dibattito teorico odierno, e specificamente del mondo anglosassone, respinge non piccola parte della f. analitica, pur dichiarando la propria ammirazione per i "prodigiosi progressi" della logica e della f. matematica. Nella discussione con Carnap del 1963 Popper aveva già sostenuto con forza che il tentativo dei neopositivisti di far coincidere "la linea di demarcazione fra scienza e metafisica con quella fra scienza e non senso" è fallito, perché il concetto neopositivistico di "significato", o di "senso", o di "verificabilità", o di "confermabilità induttiva", è insufficiente. E aveva soggiunto che "non è necessario che la metafisica sia priva di significato, anche se non è scienza".
Il confronto tra Carnap e Popper caratterizza bene, nella sostanziale unità di orientamento, la concordia discorde della f. dei paesi di lingua inglese, svoltasi in genere lungo linee autonome, anche se non ignare, rispetto alle diverse aree culturali europee. Entrambi, infatti, spesso aspramente polemici nei confronti delle principali correnti filosofiche dell'Europa contemporanea, vennero a convergere nell'esigenza di fondo, di un razionalismo critico. Entrambi legati al neopositivismo del Circolo di Vienna, alla sua diaspora, e all'affermazione della f. analitica, riconoscevano in B. Russell (1872-1970) e in G. E. Moore (1873-1958) gl'iniziatori di un nuovo corso del pensiero, di un nuovo modo e di un nuovo metodo di fare filosofia. Russell, nella sua lunga vita, è stato tra gl'ispiratori dei dibattiti più fecondi, non solo fra le due guerre, ma già all'inizio del secolo, reagendo alle correnti idealistiche che in F. H. Bradley avevano trovato un geniale assertore. Parlando, oltre che di sé stesso anche di Moore, Russell diceva: "con la sensazione di evadere da una prigione, permettemmo a noi stessi di pensare, che l'erba è verde, e che il sole e le stelle esisterebbero anche se nessuno se ne rendesse conto". Alla fine della seconda guerra mondiale Russell e Moore operavano ancora, ma appartenevano già a una storia lontana; era ben chiusa ormai anche la prima stagione di Wittgenstein. Tuttavia nell'ambito inglese continuava, nella pluralità delle discussioni, un orientamento fondamentalmente univoco: un modo di filosofare che, in direzioni diverse, e con sondaggi molteplici, tentava le vie dell'analisi critica dei concetti, o meglio, della concretezza del linguaggio. Com'è stato detto con precisione, nel periodo 1946-70 il pensiero filosofico del mondo anglosassone, piuttosto che un'unità fedele alla tradizione, presenta h una serie di imprese parallele, animate dallo stesso spirito, ma molto diverse negli oggetti, e, a volte, nel metodo".
Non troviamo traccia della scolastica esistenzialista, hegeliana o marxista, o delle altre "mode" che hanno dominato nel resto d'Europa. Troviamo un lavoro costante di analisi e di chiarificazione nel campo della logica e della metodologia delle scienze; e, insieme, lo sforzo di definire i confini fra scienza e metafisica. Esercita una forte influenza il secondo Wittgenstein, del magistero di Cambridge e delle Philosophical Investigations (Philosophische Untersuchungen), uscite, si è visto, nel 1953, e nelle quali l'analisi linguistica prende come oggetto, non più un linguaggio ideale considerato unitariamente e formalizzato o simbolico, ma la lingua comune nelle sue articolazioni: diventa l'interpretazione delle strutture della lingua secondo il modello dei "giuochi linguistici" (Sprachspiele, language games), e cioè dei molteplici contesti espressivi semplificati e analizzati nelle regole proprie a ciascuna delle unità di linguaggio, diverse per complessità, funzione e uso. Abbandonata la tesi del Tractatus, le Ricerche puntano sulla pluralità di strutture specifiche, sui vari complessi di regole che definiscono i vari "giuochi". Contemporaneamente il lavoro filosofico realizza una sua funzione "terapeutica", liberando dagli equivoci e dai dubbi originati dalla metafisica tradizionale: "noi riconduciamo le parole dal loro uso metafisico al loro uso quotidiano... La chiarezza alla quale aspiriamo è assoluta. Ma ciò significa che i problemi filosofici sono destinati a dissolversi interamente". D'altra parte in Wittgenstein non è venuta mai meno la consapevolezza del limite di una ricerca come quella che stava conducendo: l'esplorazione di una piccola isola circondata dall'oceano, dove quello che importa davvero, ma di cui non si deve parlare, è l'oceano; l'edificazione di un edificio di emergenza da usare temporaneamente come abitazione umana, in attesa di un solido edificio duraturo.
Comunque, lo spostamento dall'analisi del linguaggio scientifico, e da una f. come metodologia della scienza, all'analisi dell'esperienza in generale, se conserva intatto l'interesse primario per il linguaggio, arricchisce la ricerca riportandola da questioni esclusivamente epistemologiche all'ampiezza della problematica tradizionale dell'empirismo inglese, con una forte accentuazione di interessi morali. Così A. J. Ayer (nato nel 1910), dopo aver conquistato al neopositivismo la gioventù inglese con il fortunato quanto brillante libro del 1936 Language, truth and logic, è venuto rimettendo in discussione i suoi punti di partenza, non esitando ad affrontare "l'analisi dello stesso metodo analitico". Così risultano degni di attenzione gl'itinerari e gli approfondimenti di pensatori quali F. Waismann (1896-1959), G. Ryle, J. Wisdom (nato nel 1904), P. F. Strawson (nato nel 1919), J. Austin (1911-1960), R. Hare (nato nel 1919), per fare solo qualche nome. Finezze di analisi ed esigenze di pensiero mettono alla prova un orientamento che per vie diverse si ritrova di fronte tutti i grandi temi della f. tradizionale e si sforza di liberarli da equivoci e falsi problemi. È una strada che, dopo tante negazioni, sembra avviarsi verso non poche autocritiche. Quando nel 1946 Ayer ripropose una nuova edizione del suo volume Language, truth and logic, confessò due cose: che "le questioni di cui [l'opera] si occupa non sono sotto ogni aspetto così semplici come essa le fa apparire"; che le proposizioni filosofiche non si riducono a chiarificazioni di altre proposizioni, perché esistono delle proposizioni filosofiche vere e proprie. L'illusione di liquidare la metafisica, e di salvare la "pura" scienza, è venuta meno a tal punto che nel 1957 J. A. Passmore (nato nel 1914), nel suo A hundred years of philosophy, ha osservato: "se gettate nel fuoco la metafisica, la scienza la raggiungerà nelle fiamme; se salvate la scienza dalle fiamme, surrettiziamente vedrete riemergere la metafisica". Che è poi una convinzione sempre più sottolineata da K. Popper (nato nel 1902), che fin dall'edizione del 1935 di Logik der Forschung criticava le impostazioni del neopositivismo, contrapponendo alla "verificazione" la "falsificazione" ( "un sistema empirico deve poter essere confutato dall'esperienza"), sostenendo le funzioni della "metafisica" per il progresso della scienza, e in sede storica illuminando in forme originali le sue proposte epistemologiche. Il dibattito recente, che ha messo a confronto le sue posizioni con quelle di T. Kuhn, S. Toulmin, P. Feyerabend e L. Lakatos, ha mostrato tutta la complessità della sua problematica.
Come si è visto, la diaspora del neopositivismo dei membri del Circolo di Vienna ha contribuito alla trasformazione di metodi e dottrine, lasciando tuttavia dovunque tracce profonde di lavoro concreto. Basti pensare alle azioni e reazioni determinate da figure come R. Carnap nel pensiero degli Stati Uniti, dove l'eccezionale personalità di J. Dewey (1859-1952), se ha raggiunto il dopoguerra, ha mostrato tuttavia di appartenere per intero alla prima metà del secolo. Appunto negli Stati Uniti fascismo e guerre, determinando un notevole afflusso di pensatori specialmente di paesi di lingua tedesca, o sopraffatti dal nazismo, hanno contribuito a un notevole mutamento di toni, anche dove sono rimasti sostanzialmente gli stessi gli orientamenti di fondo. Così una certa fortuna ha avuto abbastanza presto la fenomenologia, introdotta da M. Farber (nato nel 1901), fondatore dal 1940 della rivista Philosophy and phenomenological research, ma senza mai raggiungere neppur l'ombra del successo ottenuto in Germania, Francia, Italia. Lo stesso Cassirer non sembra aver inciso a fondo, mentre Carnap non a caso ha confessato di essersi trovato più a suo agio negli Stati Uniti che nel paese d'origine ("trovai in questo paese un'atmosfera filosofica, che in sorprendente contrasto con quella tedesca, mi era molto congeniale"). La presenza di Dewey per un verso, l'influenza di Russell per un altro, avevano preparato negli Stati Uniti un terreno adatto alla diffusione della f. analitica. I progressi della scienza e della tecnica in una società industriale avanzata quale quella nordamericana, lo stesso impulso derivante dalla guerra e da un imperialismo alla conquista del mondo, aiutavano a riconoscere, quale degno successore di un pragmatismo della "volontà" di credere alla James, un positivismo raffinato, e un pensiero filosofico che superasse - come predicava Carnap - ogni "ritardo rispetto alla scienza" e si sviluppasse in connessione con essa. Per converso, contro una solidarietà del genere fra una "filosofia" e una società, non erano possibili che i rifiuti totali alla Adorno e Horkheimer, o alla Marcuse, non a caso nati da esperienze americane e nel clima degli Stati Uniti. E tuttavia, se i risultati delle "grandi" discussioni sono in genere deludenti, resta la massa di lavoro di chiarificazione e di analisi, compiuto nel campo della logica e delle scienze empiriche; restano le ricerche precise in campi specifici, dalla logica all'etica, dalla psicologia all'estetica, dall'antropologia alla sociologia. Ed è in questa direzione che conviene volgere lo sguardo nei paesi di lingua inglese, se si vogliono cogliere i frutti di una ricerca, erede degna di quella che gli scrittori del Settecento chiamavano "filosofia casalinga".
La filosofia in Italia. - Neppure in Italia il 1945 è data di cesure nette, che consenta di periodizzare con chiarezza. Anche in Italia i processi di trasformazione si erano accentuati fra le due guerre, soprattutto negli anni Trenta, dopo quell'autentica rottura che fu, nel 1925, l'affermazione conclusiva della dittatura fascista, seguita nel 1929 dall'accordo con la Chiesa Romana. Se il primo dopoguerra aveva visto il successo dell'"attualismo" di G. Gentile, il 1925 vide il passaggio di B. Croce a un'opposizione decisa al fascismo e la sua rottura con Gentile, mentre il 1929 segnò la crisi dell'egemonia gentiliana, con la ripresa delle posizioni cattoliche e la "conversione" di non pochi idealisti. Scomparso dalla scena il marxismo, con il suo maggior teorico, A. Gramsci (1891-1937), in carcere; costretto a occuparsi di storia della f. greca (e poi all'esilio) il più efficace studioso "cattedratico" di Marx ed Engels, R. Mondolfo (1877-1976), negli anni Trenta cominciano a diffondersi anche in Italia, in un clima di crisi, le correnti esistenzialiste, sia nella direzione religiosa, in combinazioni varie con lo spiritualismo cattolico, sia nella direzione mondana e umana, come presa di coscienza di una crisi in atto che travolgeva il provvidenzialismo così cattolico come idealistico. Nella tensione che accompagnò il periodo più travagliato della vicenda italiana, dalla guerra di Etiopia all'intervento in Spagna, e poi alla partecipazione al conflitto mondiale a fianco dei nazisti, l'esistenzialismo in forme varie, con interpretazioni e toni molto diversi, costituì una sorta di esperienza a cui pochi si sottrassero, e attraverso la quale vennero delineandosi e definendosi le linee di sviluppo del dopoguerra. Per comprenderle, quindi, è necessario rifarsi alla svolta degli anni Trenta, e alla situazione della f. sotto una dittatura, che di alcune dottrine censurava l'accesso, altre soffocava, e che comunque impediva la libera discussione e la circolazione delle idee. Non si capisce, o si fraintende, l'atteggiamento della cultura filosofica italiana dopo il 1945, tutta tesa a tradurre, ad assimilare, a discutere, superando un lungo ritardo, se non si tiene ben fermo lo sguardo alla segregazione "mentale" e alla pressione ideologica del periodo della dittatura. La fenomenologia, l'epistemologia, la logica, la f. delle scienze, la psicoanalisi - per fare solo qualche esempio - erano rimaste tagliate fuori dalla cultura nazionale. Marx come Freud, Russell come Dewey, Husserl come Heidegger, Lukács come Sartre, troveranno solo in ritardo un'eco adeguata in prospettive non deformanti. Il che non significa, ben inteso, che fossero ignoti, soprattutto a un livello assai alto; non erano interlocutori di un dibattito vivo e diffuso. Di Husserl si era occupato assai presto A. Banfi (1886-1957), che da un ripensamento di Simmel e dal neokantismo approdò nel dopoguerra a una sua visione molto aperta del marxismo. F. Enriques (1871-1946) aveva dato contributi importanti alla f. della scienza, ed era in contatto con le posizioni neopositivistiche più avanzate, e così pure L. Geymonat (nato nel 1908). A. Pastore (1868-1956) aveva coltivato anch'egli f. della scienza e logica, con interessi anche per l'esistenzialismo. N. Abbagnano (nato nel 1901) aveva lucidamente distinto, discusso e oltrepassato le varie posizioni dell'esistenzialismo (Le strutture dell'esistenza, 1939) in vista di quell'Esistenzialismo positivo (1948) che contrapporrà nel dopoguerra a Heidegger e Jaspers, respingendo a un tempo ogni equivoco spiritualistico o idealistico. Eppure prima del 1945 si tratta sempre di voci isolate, senza seguito.
Di qui, nel dopoguerra, una vistosa reazione all'isolamento, e il gusto del diffondere e imitare o combinare, in modi più o meno originali, posizioni diverse non sempre conciliabili. Così G. Preti (1971-1972), uscito dalla scuola di Banfi, e con precoci tendenze neopositivistiche, cominciò nel 1945 a combinare Dewey e Marx, ossia pragmatismo e f. della praxis. Nel 1957, in un'opera molto discussa, Praxis e empirismo, mise a confronto empirismo logico, pragmatismo e marxismo. Analogamente E. Paci, anch'egli della scuola di Banfi, dopo un'esperienza esistenzialista, elaborò una f. della relazione, accentuando il suo interesse per quella che Husserl chiamava la "costituzione dell'intersoggettività". Venne così reinterpretando la teoria di Marx dell'alienazione alla luce della critica dell'oggettivazione scientifica di Husserl. La reazione all'autarchia culturale imposta dal fascismo, e insieme la stanchezza per le sistemazioni astratte degl'idealisti, hanno contribuito a determinare alcune caratteristiche della f. italiana dopo il 1945: a) orrore del "provinciale", con i due eccessi del rifiuto indiscriminato della tradizione nazionale e dell'adesione passiva alle "mode" dominanti; b) sfiducia nelle concezioni generali del mondo e invito, spesso solo retorico, all'indagine specifica; c) reazione al privilegio concesso dall'idealismo alla "storia", ed esaltazione della "scienza", col rischio di rovesciare lo "storicismo" in "scientismo", e con l'esasperazione del contrasto fra "le due culture"; d) consapevolezza esasperata di quanto facilmente il potere politico condizioni l'attività filosofica degradandola a ideologia. Di qui l'insistenza sul problema delle ideologie, degl'intellettuali, del rapporto teoria-prassi, politica e filosofia. Di qui, maggiore che in altri paesi, il legame fra dibattiti filosofici e divisioni politico-sociali: filosofi laici contro filosofi "cattolici"; neoilluministi e razionalisti contro metafisici teologizzanti. Perfino il secolare contrasto fra Nord e Sud si è ripercosso nella contrapposizione fra un'Italia settentrionale industrializzata, e quindi di tradizioni illuministiche, positivistiche e "scientifiche", e un mondo meridionale contadino, e perciò di cultura idealistica, umanistica e retorica.
Con tutto ciò l'influenza di Croce e di Gentile non cessò d'un tratto nel 1945. Croce, fra l'altro, continuò nel suo lavoro fino al 1952, rimettendo egli stesso in discussione il proprio rapporto con Hegel (Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1952). A Croce continuò a rifarsi C. Antoni (1896-1959); analizzando e difendendo lo storicismo crociano (Commento a Croce, 1955), da cui, viceversa, si allontanò sempre di più G. De Ruggiero (1888-1948), rimproverandogli il relativismo dei valori in nome di una ragione capace di fondarli oltre ogni divenire storico (Il ritorno della ragione, 1946). All'"attualismo" gentiliano G. Calogero (nato nel 1904) opponeva già da tempo lo svolgimento autonomo di una filosofia "morale" in grado di ritrovare il proprio compito umano, contro ogni astratto logicismo e gnoseologismo, nella volontà consapevole di un "dialogo" capace di costituirci come persone, insieme con gli altri ("gli altri non sono, perché sono io che li debbo far essere"). La "regola del dialogo" è la regola di ogni regola: "esprime la volontà morale di capire gli altri, e di rendersi comprensibili agli altri". Suo fondamento non è la conoscenza di una realtà policentrica già esistente; è una decisione della volontà e un imperativo etico supremo (Logo e dialogo, 1950; Filosofia del dialogo, 1960).
Enfant terrible dell't [attualismo", U. Spirito (nato nel 1896) è venuto via via radicalizzando l'antiintellettualismo di Gentile, definendo la f. come vita, come ricerca, come amore, come arte, come riconoscimento della propria contraddittorietà, come problema (Il problematicismo, 1948), come sempre rinnovata vittoria della scienza sul mito (Dal mito alla scienza, 1966; Storia della mia ricerca, 1971). Così F. Lombardi (nato nel 1906) ha lungamente discusso per vie autonome le posizioni di Croce e di Gentile, orientandosi verso un umanesimo capace di valorizzare tutta la concretezza del dialogo umano.
Come si vede, nota comune di tutti i pensatori italiani che nel dopoguerra hanno discusso, criticato, superato e integrato le correnti idealistiche della prima metà del secolo, è stata una sorta di primato della ragione pratica: una profonda esigenza di moralità e di socialità, di libertà e di giustizia, che nel riconoscimento del divenire storico non travolga i valori, e non anneghi nell'unità i diritti della pluralità. Ove non sarà difficile individuare preoccupazioni maturate nell'esperienza della dittatura. Ed è questo un accento che ha spesso avvicinato ai pensatori ora ricordati anche filosofi orientati in forme autonome di spiritualismo cristiano. Tale A. Guzzo (nato nel 1894), che ha organizzato in modo indipendente il sistema più complesso e architettonicamente articolato della letteratura filosofica italiana contemporanea, traversato da una profonda esigenza morale culminante nella religione. Lo stesso G. Bontadini (nato nel 1903), difensore della neoscolastica e strenuo sostenitore della metafisica classica, ha costantemente sentito l'esigenza di misurarsi con le istanze dell'idealismo quale si era sviluppato in Italia, inserendo le proprie istanze speculative nella sua problematica, mentre M. F. Sciacca (1908-1974) ha sempre riconosciuto il suo debito verso Gentile.
È, questo, tutto uno schieramento di pensatori, talora vivamente partecipi della "svolta" del 1945, che però, oltre la cesura, hanno riannodato, magari attraverso una polemica anche acerba, la loro ricerca a quella tradizione di cultura in cui si erano formati, fatta più libera e ricca da un contatto più aperto col resto del mondo e con nuovi problemi. Il riconoscimento critico dei limiti non ha significato per loro un rifiuto totale, bensì un'integrazione, un oltrepassamento. La novità, anche radicale, non ha escluso la continuità. La stessa così larga fortuna del marxismo "aperto" di A. Gramsci, e di quel peculiare "storicismo integrale" da lui tanto spesso rivendicato, è da collocarsi per non piccola parte in questa prospettiva. Non a caso i Quaderni, stesi prima del 1937, maturarono in un fitto colloquio con Croce (e con lo stesso Gentile), ossia con la cultura egemone in Italia.
Di contro, invece, altri hanno accentuato una rottura netta col passato, con la tradizione nazionale respinta come "provinciale", "umanistica", "retorica", a parte qualche ipotesi di recuperi "illuministici" e "positivistici". Studiosi di varia provenienza, che avevano spesso sperimentato l'esistenzialismo come crisi radicale, e ne erano usciti ponendo in discussione il significato medesimo e la funzione della f., si domandavano ora quale spazio ormai le restasse, se non forse di metodologia, o di critica storica comparata, dopo gli sviluppi autonomi della logica, delle scienze umane, della f.. delle scienze. Non a caso molti dei più attivi pensatori delle nuove generazioni, che non hanno voluto ridursi a fare i propagandisti dell'ultima moda, o gli alchimisti di elaborate combinazioni, si sono dati o a ricerche specifiche di storia del pensiero filosofico e scientifico, o a studi di logica, di linguistica, di estetica, di antropologia, di sociologia, di psicologia. L'esistenzialismo positivo di N. Abbagnano, non meno delle istanze empiristiche illuministiche avanzate da lui e da N. Bobbio (nato nel 1909), hanno promosso indagini particolari, soprattutto nella direzione della f. della cultura. La diffusione della fenomenologia, avviata da A. Banfi e poi sostenuta da E. Paci con la rivista Aut Aut, ha avuto anch'essa qualche efficacia in settori specifici, così come lo strutturalismo ha trovato il suo terreno nella linguistica.
Nelle manifestazioni più appariscenti, invece, l'attività di molti "giovani filosofi" italiani è sembrata scandirsi, dal 1945 in poi, secondo il ritmo dei nomi via via dominanti: Lukács, Sartre, Husserl, Adorno, Lévi-Strauss, Althusser, ecc. Prima esaltati, poi respinti, il maggiore impegno è stato messo nel combinarli, e soprattutto nel confrontarli col marxismo, a sua volta interpretato variamente, o variamente scolasticizzato. La discussione su Marx e il marxismo, peraltro, ha costituito forse la novità più vivace e originale della f. italiana del dopoguerra, e ha impegnato tutti, dagl'idealisti ai neoscolastici. Avviato da A. Labriola, l'approfondimento filosofico di Marx aveva visto nel Novecento i contributi di Croce, di Gentile e di Mondolfo. A. Gramsci, con i Quaderni stesi in carcere negli anni Trenta, ma operanti dagli anni Cinquanta, ha inserito nel dibattito italiano fermenti originali vigorosi. Dal 1945 in poi vari studiosi, di origine diversa, vi hanno portato interessi ed esperienze molteplici, da Banfi che vide nel marxismo la conclusione liberatrice del suo razionalismo, a quanti a Marx sono giunti attraverso l'attualismo e l'esistenzialismo. Così, per es., C. Luporini (nato nel 1909), dopo aver sperimentato idealismo ed esistenzialismo, è giunto a un rifiuto dello storicismo accogliendo taluni stimoli di Althusser, mentre G. Della Volpe (1895-1968), anch'egli di ascendenza attualistica, dopo avere rifiutato il nesso Hegel-Marx, ha accentuato, nella sua polemica antiidealistica, una metodologia di sapore empiristico e neopositivistico. A lui, tra i più giovani, si è collegato nelle origini, ma in modo molto autonomo, L. Colletti (nato nel 1924), laddove l'influenza di Gramsci si è fatta invece sentire in N. Badaloni (nato nel 1924). Il carattere peculiare dell'opera di Gramsci, formatasi attraverso una revisione critica dell'intera tradizione della cultura nazionale, in una polemica serrata con la f. della prima metà del secolo, ne ha fatto, e ne fa tuttora, un punto di riferimento fecondo.
Osservazioni conclusive. - Per una visione d'insieme del lavoro filosofico e dei maggiori dibattiti di questo dopoguerra sarebbe necessario far conto del contributo di molti altri paesi, dall'Unione Sovietica all'America latina, dalla Polonia al mondo orientale. Basterebbe pensare ai contributi di valore particolarmente alto che alla logica come alla storia del pensiero sono venuti dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e dall'Ungheria, o alla produzione speculativa dell'India, ai contributi in più campi della Cina e del Giappone. I nomi di T. Kotarbinski, di A. Schaff, di L. Kolakowski, di K. Kosik, per fare solo qualche esempio, indicano una ricerca molto avanzata, e collegata col dibattito mondiale. Discorsi analoghi potrebbero essere fatti per altre aree linguistiche. In un'opera del 1971, Europe in the twentieth century, G. Lichtheim ha concluso osservando che, se l'epoca che si è chiusa nel 1945 può essere chiamata ancora "europea", dopo d'allora l'eurocentrismo è finito, anche se le divisioni non sono davvero scomparse nel mondo. Ciò non toglie che certe linee generali di orientamento del pensiero offrano indicazioni largamente valide per tutti i paesi, specialmente se integrate dalla considerazione delle discipline specifiche, nell'ambito delle quali la riflessione filosofica viene spesso facendo oggi i suoi maggiori progressi. Risuona tuttavia quasi esemplare l'avvertimento di Popper, del 1976: che ancor oggi appaiono decisivi per la f. gli antichi problemi: "l'indagine critica delle scienze, delle loro scoperte, dei loro metodi", così come "l'indagine della struttura dell'universo e del nostro posto nell'universo, incluso il problema della conoscenza di questo universo".
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Nel corso dell'articolo sono stati ricoradti i seguenti volumi: O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, voll. I-II, Vienna-Lipsia 1918-23 (trad. it. Il tramonto dell'Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Milano 1957); G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik, Berlino 1923 (trad. it. Storia e coscienza di classe, con una prefazione di Lukács del 1967, Milano 1967); E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, 4 voll. ivi 1925-1931 (trad. it. Filosofia delle forme simboliche, 4 voll. Firenze 1961-1966); M. Heidegger, Sein und Zeit, Halle 1927 (trad. it. Essere e tempo. L'essenza del fondamento, Torino 1969); M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn 1929 (trad. it. Kant e il problema della metafisica, dalla 2ª ed. del 1951, Milano 1962); J. Wahl, Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, Parigi 1929 (trad. it. 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