Forlì
Il «sanguinoso mucchio» di francesi citato anche da Dante (Inferno XXVII 44), la sortita che il 1° maggio 1282 portò alla sconfitta della cavalleria angioina, è uno degli episodi più celebri della storia di F. e trova eco nel cap. xxiv del primo libro delle machiavelliane Istorie fiorentine (d’ora in poi Ist. fior.), nel prosieguo delle quali le vicende della città vengono associate a quelle di tutta la Romagna. Biondo Flavio (Decades II 10) riferisce di un documento del 1342 (di autenticità incerta) in base al quale l’imperatore Ludovico IV il Bavaro avrebbe preso sotto la sua protezione i signori che occupavano i territori della Chiesa. M. utilizza le Decades come fonte ed elenca le famiglie romagnole, tra cui quella di Sinibaldo Ordelaffi di F. e Cesena (Vasina 1990, p. 172) attribuendo proprio a questa assegnazione di territori la debolezza della Chiesa fino ad Alessandro VI il quale, invece, ripristinò il potere centrale (Ist. fior. I xxx).
Alle vicende quattrocentesche sono dedicati i capp. v e vi del IV libro delle Ist. fior.: M. riferisce le iniziative di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, per acquistare il dominio di Forlì. Tutore di Tebaldo Ordelaffi, rimasto orfano a soli nove anni dopo la morte del padre Giorgio (1423), Filippo Maria ordinò a Niccolò III d’Este, duca di Ferrara, d’inviare a F. il condottiero visconteo Guido Torelli per assumerne il governo. M. riprende la vicenda da Giovanni Cavalcanti e ne fa occasione (v 5) per riflettere sull’alternativa tra guerra di offesa e guerra di difesa. La prima opzione si sostiene sull’idea che la fortuna è «più amica di chi assalta che di chi si difende» (v 6). Una guerra condotta in «casa» d’altri implica «minori danni» alla città, sia pure con «maggiore spesa»; la difesa comporta invece maggiori sacrifici da parte dei cittadini e richiede una generale solidarietà degli altri principi italiani. Quando Filippo Maria Visconti mosse contro Imola, i fiorentini risposero ponendo l’assedio a Forlì. L’esercito di stanza in città decise di spostarsi a Zagonara per frenare l’offensiva del nemico guidato da Angelo della Pergola (Annales forolivienses ab origine urbis usque ad annum MCCCCLXXII,a cura di G. Mazzatinti, in RIS, 22.2, 1903, pp. 8687). Il 28 luglio 1424 avvenne lo scontro e i fiorentini si trovarono a mal partito, sconfitti «non tanto dalla virtù degli avversarii, quanto dalla malignità del tempo» (Ist. fior. IV vi 7). Eppure «di tanta rotta, celebrata per tutta Italia, non morì altri che Lodovico degli Obizzi insieme con duoi altri suoi, i quali cascati da cavallo affogarono nel fango» (vi 8). Il sarcasmo di M. nei confronti degli eserciti mercenari si estende ai mormorii di piazza del popolo fiorentino, in dissenso nei confronti dell’oligarchia «nimica» della libertà: «Ora hanno creati costoro i Dieci per dare terrore al nimico? Ora hanno eglino soccorso Furlì e trattolo delle mani del duca?» (vii 2).
Nel 1434 Battista Canetoli cacciò da Bologna il governatore papale e la guerra in Romagna divenne inevitabile. Il 29 agosto l’esercito di Filippo Maria Visconti, capitanato da Niccolò Piccinino, riuscì ad avere la meglio presso Imola sull’esercito che faceva capo ai fiorentini e ai veneziani chiamati in difesa del papa. Visconti «non seguì altrimenti la fortuna» (V iii 4) e offrì alla lega papale il tempo di riorganizzarsi sotto la guida di Francesco Sforza. Quest’ultimo mosse immediatamente guerra a Niccolò Fortebracci che possedeva le terre della Chiesa e si era fortificato ad Assisi. Visconti ordinò a Piccinino di passare in Toscana attraverso la Romagna. Lasciato il campo al fratello Leone, Sforza si diresse verso F., dove si trovava Piccinino, ma contemporaneamente fu attaccato da Fortebracci, che riuscì a conquistare gran parte della Marca. Sforza allora lasciò una parte dell’esercito a combattere Piccinino e, ritornato sui suoi passi, sconfisse Fortebracci a Camerino. Questa vittoria portò alla richiesta di pace da parte del duca di Milano e alla restituzione delle terre della Romagna, nonché di quelle della Marca occupate da Fortebracci, al papato.
Le tensioni sulla Romagna, però, erano destinate a continuare e Piccinino (i cui legami con Visconti sono documentati da F. Cengarle, Feudi e feudatari del duca Filippo Maria Visconti. Repertorio, 2007, pp. 410-13), fingendo un’alleanza con il papa, attaccò e prese Ravenna (1438) e poi, di seguito, Bologna, Imola e F., tanto che di «venti rocche, le quali in quelli stati per il pontefice si guardavano, non ne rimase alcuna che nella potestà di Niccolò non venisse» (Ist. fior. V xvii 13). Qui la fonte (cfr. Istorie fiorentine, in Opere storiche, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, t. 2, 2010, p. 490 nota 22) è direttamente Biondo Flavio (Decades III 8): ex viginti quae illi insunt provinciae arcibus, quarum primae inter plurimas Italiae sunt munitissimae, nullam octavo ribellionis oppidorum die, fidem pontifici servavisse («[Apparirà strano che] delle venti rocche della provincia, le più fortificate di tutta Italia, all’ottavo giorno nessuna restasse fedele al papa»).
Le truppe papali, dopo la vittoria di Anghiari, tentarono la riconquista di F. e di Bologna, difese strenuamente da Piccinino (Ist. fior. VI iii 2). Tuttavia, le esose richieste di Piccinino e le difficoltà per Visconti di sostenere le spese portarono alla pace il 20 novembre 1441, preceduta dalle nozze della sedicenne Bianca Maria Visconti con Francesco Sforza (24 ott.).
Con l’elezione di Sisto IV, i nipoti di questo, Pietro e Girolamo Riario (ma secondo le voci riportate da M. erano «suoi figliuoli»: VII xxii 6), assunsero incarichi di primo rilievo. In particolare a Girolamo fu affidata, dopo Imola, la città di F. (ag. 1480), tolta ad Antonio Maria Ordelaffi. E «questo modo di procedere ambizioso» – sottolinea M. – «lo fece più dai principi di Italia stimare, e ciascuno cercò di farselo amico» (xxii 8), al punto che il duca di Milano concesse in sposa a Girolamo (Robertson 1971; trad. it. 2000, pp. 19-33) la figlia naturale Caterina assegnandole in dote la città di Imola.
A proposito di Caterina Sforza (→) le riflessioni di M. sono più acute e particolareggiate. Il forlivese Francesco Orsi, venuto in odio a Girolamo, organizzò una congiura per ucciderlo (Ist. fior. VIII xxxiv 7). Né Allegretto Allegretti (Diario delle cose senesi del suo tempo, in RIS, 23° vol., 1733, coll. 767-860) né Bernardino Corio (Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, 1978, p. 1472) indicano Orsi come protagonista della vicenda (Istorie fiorentine, in Opere storiche, cit., t. 2, 2010, p. 776 nota 8), ma M. poté utilizzare fonti medicee, come la lettera indirizzata al Magnifico da Ludovico e Francesco Orsi il 19 aprile 1488 (in A. Fabroni, Laurentii Medicis Magnifici vita, 2° vol., 1784, pp. 318-20, con il resoconto della vicenda alle pp. 320-25). Gli Orsi avevano il diritto di ‘chiave indorata’, cioè potevano presentarsi a palazzo senza farsi preannunciare (A. Bernardi detto il Novacula, Cronache forlivesi dal 1476 al 1517, 1° vol., t. 1, 1895, p. 231), e così sorpresero e uccisero il conte Girolamo in camera. Al grido «chiesa e libertà» (non erano mancati i contatti con gli emissari del papa: Pellegrini 1999, p. 42), i congiurati «feciono armare tutto il popolo, il quale aveva in odio la avarizia e crudeltà del conte, e saccheggiate le sue case, la contessa Caterina e tutti i suoi figliuoli presono» (Ist. fior. VIII xxxiv 13). Secondo il racconto machiavelliano la contessa, rientrata nella rocca e lasciati in pegno i figli ai congiurati, «minacciò di morte e d’ogni qualità di supplicio in vendetta del marito» questi ultimi; alla conseguente minaccia di ucciderle i figli se non avesse consegnato la fortezza, la donna replicò che «aveva seco il modo a rifarne delli altri» (xxxiv 18). Lo stesso episodio viene narrato nei Discorsi (III vi 156-58), ma con una variazione sensibile rispetto all’«atto sconcio» (P.D. Pasolini, Caterina Sforza, 1° vol., 1893, p. 235) della contessa, l’anàsyrma, che «per mostrare che de’ suoi figliuoli non si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo a rifarne» (III vi 158; sulle varie implicazioni della pagina machiavelliana, cfr. L.H. Hairston, Skirting the issue: Machiavelli’s Caterina Sforza, «Renaissance quarterly», 2000, 52, pp. 687-712; F. Verrier, Caterina Sforza et Machiavel ou l’origine d’un monde, 2010, p. 156; J. De Vries, Caterina Sforza and the art of appearances. Gender, art and culture in early modern Italy, 2010, pp. 236-37). Caterina sembra incarnare un modello femminile di virtù, un «alter ego féminin du Prince» (F. Verrier, Caterina Sforza..., cit., p. 156), opposto alla violenza del Valentino che «d’Imola e di Furlì si fe’ signore, / e cavonne una donna co’ suo’ figli» (Decennale I, vv. 242-43).
Del luglio del 1499 è la legazione di M. presso Caterina Sforza per riconfermare la condotta del figlio Ottaviano, che aveva militato per i fiorentini l’anno precedente, e per chiedere il sostegno politico e militare della contessa nella guerra contro Pisa. Il 17 luglio 1499 M. scrive: «Venni dipoi el dì medesimo qui a Forlì a buona ora, e per avere trovato questa Illustre Madonna occupata in alcuna sua spedizione, ebbi audienza circa ore XXII» (M. alla Signoria di Firenze, LCSG, 1° t., p. 277). Gli obiettivi del governo fiorentino furono raggiunti solo in parte ma, di sicuro, la missione fu considerata un successo di M. (cfr. la lettera di Biagio Buonaccorsi del 19 luglio 1499, Lettere, p. 15: «A mio iudicio voi avete esequito insino a ora con grande vostro onore la commissione iniuntavi»). La contrattazione per la condotta di Ottaviano si protrasse per qualche giorno soprattutto perché Caterina pretendeva che Firenze si impegnasse formalmente a proteggere il suo Stato.
Il 19 dicembre 1499 la rocca di F. cadde nelle mani del Valentino. Il commento nel cap. xx del Principe, dedicato alle fortezze, suggella negativamente il ritratto machiavelliano di Caterina: «ma dipoi valsono ancora poco a lei le fortezze, quando Cesare Borgia l’assaltò e che il populo, suo nimico, si coniunse co’ forestieri» (§ 31). Con la «ruina» dei Borgia, F. e Faenza si trovarono pericolosamente esposte alla pressione veneziana, tanto da indurre i fiorentini ad auspicare che tornassero nelle mani del Valentino (lettera ai Dieci, 21 nov. 1503, LCGS, 3° t., pp. 388-90; 2 dic. 1503, p. 435). Ma proprio dal rifiuto di consegnare F. e le altre fortezze romagnole il nuovo papa, Giulio II, prese occasione per l’arresto del duca (cfr. la lettera del 23 nov. 1503, LCGS, 3° t., p. 402).
Al seguito del papa, M. è di nuovo a F. il 10 ottobre 1506; da lì informa i Dieci sulla bolla di condanna a Giovanni Bentivoglio («son date le loro robe e facultà in preda a qualunque»: M. ai Dieci, 10 ott. 1506, LCSG, 5° t., p. 505). Il 12, sempre a F., il papa convoca M. e gli intima di sollecitare i fiorentini a fornirgli le milizie di Marcantonio Colonna per combattere quella che ritiene una vera e propria «cruciata» contro Bentivoglio. Il 17 ottobre il papa lascia F. per Imola e M. può rientrare a Firenze dove arriverà il 1° novembre.
M. ritorna a F. nello stato di incertezza politica provocata dalla tregua fra Clemente VII e gli imperiali e aggravata dall’avanzata nel 1527 di Carlo di Borbone (→) con le sue truppe di lanzichenecchi. Si leggano le ultime lettere, di natura sia privata sia ufficiale, inviate da M. rispettivamente all’amico Francesco Vettori (tre lettere: 5, 14 e 16 apr., Lettere, pp. 456-59) e agli Otto di pratica (quattro lettere: 8, 10, 11 e 13 apr., LCSG, 7° t., pp. 222-30). Il rischio che «ogni cosa andrà in rovina» (lettera agli Otto dell’11 apr. 1527) impone, secondo M., la necessità di «riabbracciare la guerra o conchiudere la pace», ma con azione risoluta, perché, se «uno accordo netto [è] salutifero, uno intrigato è al tutto pernizioso, e la rovina nostra» (M. a Vettori, 14 apr. 1527, Lettere, p. 458). E perché, d’altra parte, «questo esercito imperiale è gagliardo e grande; nondimeno, se non riscontra chi si abbandoni, e’ non piglierebbe un forno» (M. a Vettori, 5 apr. 1527, Lettere, p. 457), M. insiste sul presidio della Romagna, pur nella consapevolezza che in caso di necessità si dovranno abbandonare gli accampamenti e «salvare in qualunque modo Firenze e lo stato suo» (M. a Vettori, 5 apr. 1527, Lettere, p. 457). Proprio da F. il 16 aprile l’invocazione della virtus romana da parte di M. risuona come una sorta di testamento («amo la patria mia [più che l’anima]; e vi dico questo per quella esperienza che mi hanno data sessanta anni»: M. a Vettori, Lettere, p. 459), in un momento storico in cui «la pace è necessaria e la guerra non si puote abbandonare» e capita di «avere alle mani un principe, che con fatica può supplire o alla pace sola o alla guerra sola».
Bibliografia: G. Sasso, Machiavelli e Cesare Borgia: storia di un giudizio, Roma 1966; I. Robertson, The Signoria of Girolamo Riario in Imola, «Historical studies», 1971, 15 (trad. it. in Caterina Sforza, una donna del Cinquecento. Storia e arte tra Medioevo e Rinascimento, Imola 2000, pp. 19-46); A. Vasina, Il dominio degli Ordelaffi, e N. Graziani, Fra medioevo ed età moderna: la signoria dei Riario e di Caterina Sforza, in Storia di Forlì, 2° vol., Il medioevo, a cura di A. Vasina, Bologna 1990, rispettiv. pp. 155-83 e 239-61; F. Bausi, Machiavelli e Caterina Sforza, «Archivio storico italiano», 1991, 149, pp. 887-92; M. Pellegrini, Congiure di Romagna. Lorenzo de’ Medici e il duplice tirannicidio a Forlì e a Faenza nel 1488, Firenze 1999; U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario. Vita e opere, Roma 2003; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005.