governo, forme di
Nel pensiero greco antico troviamo una classificazione delle forme di g. nel libro terzo delle Storie di Erodoto. Qui lo storico riferisce i discorsi di tre nobili persiani. Otane, difensore della democrazia, polemizza contro il governo di uno solo, insolente, arrogante, invidioso, che può fare quello che vuole, senza renderne conto a nessuno. Nel governo del popolo, invece, le magistrature sono estratte a sorte, tutti i decreti vengono approvati dall’assemblea e regna l’isonomìa, l’eguaglianza giuridica dei cittadini. Megabizo condivide la polemica di Otane contro il governo di uno solo, ma nel contempo attacca duramente la moltitudine, priva di intelligenza, insolente, buona a nulla. Dario approva la polemica di Megabizo contro la democrazia, ma critica anche il governo dei pochi, l’oligarchia, perché anch’essa è fonte di inimicizie come la democrazia, ed esalta invece il re come vera guida del popolo. Da questi tre discorsi emergono altresì i pregi propri della forma di g. preferita da ciascuno degli interlocutori: la democrazia permette il consenso e la partecipazione dei cittadini, l’aristocrazia favorisce che nelle deliberazioni contino soltanto i migliori, la monarchia consente l’unità e la segretezza del comando soprattutto in politica estera. Platone, nel Politico distingue fra tre forme di g. rette e le loro degenerazioni: la monarchia (basiléia) e la tirannide (tyrannìs); l’aristocrazia (aristokratìa) e l’oligarchia (oligarchia); la democrazia (demokratìa) e la democrazia corrotta. Il fondamento di questa classificazione platonica è chiaro: le forme di g. rette sono quelle in cui si governa secondo le leggi, nelle forme degenerate si governa contro le leggi. Ma è Aristotele a darci, nella Politica, il più completo e sistematico esame comparato delle forme di g. del suo tempo. Egli parte da una ricognizione empirica, l’esame di 158 costituzioni. Ma questa analisi descrittiva è sempre congiunta al problema della giustizia: il fine ultimo della polis è «la vita migliore», il «vivere bene» (Pol. VII, 1), e la vera polis è «una comunità di uomini liberi» (III, 6). Anche Aristotele distingue fra forme di g. rette e forme deviate: le prime sono il regno, l’aristocrazia e la politìa (dove chi governa ha di mira il vantaggio della comunità); le seconde sono la tirannide, l’oligarchia e la democrazia (dove chi governa ha di mira il proprio interesse personale). La miglior forma di g. è per Aristotele la politìa (politéia), che ha alla sua base il ceto medio. Questa forma di g. realizza la vera giustizia, la quale armonizza l’eguaglianza aritmetica, in base alla quale tutti sono trattati come eguali, con l’eguaglianza geometrica, in base alla quale gli uomini, di fatto disuguali, vengono trattati in modo disuguale secondo i loro meriti. Sulle forme di g. realizzate a Roma, ci ha lasciato una importante analisi lo storico greco Polibio. Egli è affascinato dalla durata del governo di Roma. Per interpretare la sua costituzione, che ha consentito questa durata, Polibio parte dalla classica distinzione fra forme di g. rette (regno, aristocrazia, democrazia) e forme di g. degenerate (tirannide, oligarchia, oclocrazia). Le forme di g. rette sono destinate a corrompersi nel volgere di pochi anni. Roma si è salvata da questa rapida corruzione e ha avuto una lunga durata perché ha realizzato un governo misto, cioè un equilibrio di poteri e di organi: i consoli sono stati l’elemento monarchico adeguato al potere esecutivo, il senato l’elemento aristocratico, che controllava l’erario e la politica estera, il popolo l’elemento democratico, che dava il consenso ultimo sulle scelte più importanti. Cicerone riprende l’analisi di Polibio e la sua esaltazione del governo misto, in funzione però del princeps che stava emergendo. Le forme semplici si corrompono, mentre il governo misto garantisce stabilità (De re publica, I, 45). L’ideale di Cicerone è una situazione di equilibrio fra diritti, doveri e funzioni, in modo che possano coesistere la potestas (dell’uno), l’auctoritas (dei pochi), e la libertas dei molti. Nell’Età moderna la vecchia tipologia greca viene innovata radicalmente da Machiavelli. Machiavelli distingue fra repubblica e principato (o regno), come forme di g. espressiva la prima, repressiva la seconda. Inoltre egli contempla un’altra forma di g. di cui avevano parlato gli antichi: il dispotismo. Hobbes ripropone invece (nel De cive, 1642, e nel Leviathan, 1651) la tripartizione di monarchia, aristocrazia e democrazia, ma trasformando profondamente il significato della classificazione aristotelica. In primo luogo, egli abolisce la distinzione fra forme rette e forme degenerate di g.: infatti, il potere del sovrano (sia esso monarchico, aristocratico o democratico) è assoluto e insindacabile, e come tale deve essere sempre accettato dai sudditi (la differenza fra monarchia e tirannide è puramente psicologica, per come viene avvertita dal suddito, ma non può essere una differenza di sostanza). In secondo luogo, la forma migliore di g. è per Hobbes la monarchia, la peggiore la democrazia. Quest’ultima, infatti, è caratterizzata da una vastissima assemblea che detiene il potere; ma in una vasta assemblea c’è sempre una divisione in gruppi e fazioni, quanti sono i demagoghi che aspirano al potere: costoro si circondano di affiliati, sostenitori, clienti, ai quali dovranno concedere mille prebende. Dunque, la democrazia è la forma di governo più dispendiosa, ma è anche votata alla rovina a causa delle divisioni interne e dei conflitti tra i demagoghi e i loro seguiti; inconveniente che la monarchia non ha; e per di più essa assicura rapidità nelle decisioni e risolutezza nell’applicarle. Nel Settecento Montesquieu ripropone la classificazione machiavelliana di monarchia, repubblica e dispotismo, ma ne cambia profondamente il significato. La sua caratterizzazione delle tre forme di g. è semplice: «il governo repubblicano è quello in cui il popolo tutto, o una parte di esso, ha il potere sovrano; il monarchico quello in cui uno solo governa, ma con leggi fisse e stabili; mentre nel governo dispotico uno solo, senza regola e senza legge, impone a tutti la sua volontà e i suoi capricci» (Esprit des lois, II, 11). Ma Montesquieu vuole individuare anche il principio che fa «agire» queste forme di g.: nella repubblica democratica è la virtù, intesa come totale dedizione alla cosa pubblica; nella monarchia è l’onore; nel dispotismo è la paura. Con ciò Montesquieu ha dato tanto una «statica» quanto una «dinamica» delle forme di governo.