fortuna
Nutrita di letture classiche, misurata nell’ambiente sociopolitico fiorentino dei primi anni di segretariato e verificata nell’esperienza diplomatica, la riflessione intorno alla potenza della f. è al centro del pensiero politico e antropologico machiavelliano. Essa trova nell’abbozzo di lettera noto come Ghiribizzi al Soderino e nel capitolo “Di Fortuna” (1506) – accomunati da vistose affinità formali e tematiche – la sua prima espressione, insieme polemica e poetica. La prepotenza della natura nel condizionare l’intendimento e l’avvedutezza dell’uomo, la sua capacità di adeguarsi all’occasione – «la scapigliata e semplice fanciulla» (“Di Fortuna”, v. 81) –, la varietà dei tempi e il dominio della f. vengono esaminati con piglio amaro e polemico nei Ghiribizzi – scritti tra il 13 e il 21 settembre 1506 e indirizzati a Giovan Battista Soderini, nipote del gonfaloniere Piero –, che sono la remota premessa ai capitoli xxv del Principe (Quantum fortuna in rebus humanis possit et quomodo illi sit occurrendum) e III ix dei Discorsi (Come conviene variare co’ tempi, volendo sempre avere buona fortuna):
Io credo che come la natura ha fatto a l’uomo diverso volto, così li abbi fatto diverso ingegno e diversa fantasia. Da questo nasce che ciascuno secondo lo ingegno e fantasia sua si governa. E perché da l’altro canto e tempi sono varii e li ordini delle cose sono diversi, a colui succedono ad votum e suoi desiderii, e quello è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo, e quello, per opposito, è infelice che si diversifica con le sua azioni da el tempo e da l’ordine delle cose. Donde può molto bene essere che dua, diversamente operando, abbino uno medesimo fine, perché ciascuno di loro può conformarsi con el riscontro suo, perché e’ sono tanti ordini di cose quanti sono province e stati. Ma perché e tempi e le cose universalmente e particularmente si mutano spesso, e li uomini non mutono le loro fantasie né e loro modi di procedere, accade che uno ha un tempo buona fortuna et uno tempo trista. E veramente chi fussi tanto savio, che conoscessi e’ tempi e l’ordine delle cose et accomodassisi a quelle, arebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista, e verrebbe ad essere vero che ’l savio comandassi alle stelle et a’ fati. Ma perché di questi savi non si truova, avendo li uomini prima la vista corta e non potendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la fortuna varia e comanda a li uomini, e tiegli sotto el giogo suo (Lettere, pp. 137-38).
Precedenti classici e reminiscenze petrarchesche aprono il “Di Fortuna”: «Con che rime già mai, o con che versi, / canterò io del regno di Fortuna / e de’ suo’ casi prosperi et avversi, / E come iniuriosa et importuna, / secondo iudicata è qui da noi, / sotto ’l suo seggio tutto el mondo aduna?» (vv. 1-6). Pur intriso di pessimismo, il poemetto in terza rima incita il gonfaloniere perpetuo a creare una milizia propria, in grado di sottrarre la politica estera di Firenze agli artigli della f., la quale «se mai ti promette / cosa veruna, mai te la mantiene» (vv. 29-30) e «nel mezzo del cammin la t’abbandona» (v. 114). Sulla falsariga di altri ‘regni’ letterari – quello di Venere nelle Stanze del Poliziano e quello di Morgana nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo –, sulle mura del palazzo della F. si trova «istoriato […] e dipinto» l’elenco dei suoi «trionfi» (vv. 128-29), dal tempo degli Egizi a quello dei «Persi», da Menfi a Roma passando per Tebe, Babilonia, Troia, Cartagine, Gerusalemme, Atene e Sparta. Tra i suoi servitori si distinguono due famiglie, una composta da «Potenzia, Onor, Ricchezza e Sanitate» (v. 94) e l’altra da «Servitù, Infamia, Morbo e Povertate» (v. 96); e la F., mentre la prima «porge a chi le’ porta amore» (v. 99), mediante la seconda «el rabbioso suo furore / dimonstra» (v. 98). Eppure, sebbene «da molti è ditta onnipotente» (v. 25) ed «el tempo a suo modo dispone» (v. 37), l’uomo può imparare a resisterle adeguandosi al suo variare e opponendovi la propria virtù: «Suo natural potenzia ogni uomo sforza; / el regno suo è sempre violento / se virtù eccessiva non l’ammorza» (vv. 13-15); «Però si vuol lei prender per suo stella / e quanto a noi è possibile, ogni ora / accomodarsi al variar di quella» (vv. 124-26). Fuor di metafora, M. polemizza in questi versi contro il proprio governo, denunciandone la mancanza di vigore e di decisione. Simili accuse trapelano anche dai discorsi dei partecipanti alle consulte (→ Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina), ai quali spettava di elaborare strategie per combattere quella che i «giusti priva / del ben che alli ingiusti larga dette» (vv. 3233) e che «ci disface / sanza pietà, sanza legge o ragione» (vv. 38-39). Per es., rinviando a Marco Tullio Cicerone (Tusculanae disputationes, II 11), il cittadino Ridolfo Ridolfi «in nome suo» «tornò a dire che si seguitassi gagliardamente, perché fortes fortuna adiuvat» (Consulte e Pratiche [...] 1495-1497, a cura di D. Fachard, 1° vol., 1993, p. 207); anticipando la condanna dell’ozio contenuta nel “Di Fortuna” («perché ’l Ciel vuole – a cui non si contrasta – / ch’Ozio e Necessità le volti intorno: / l’una racconcia el mondo e l’altro ’l guasta»; vv. 83-85) e nel Principe (dove M. esorta i principi italiani che persero il loro principato a non accusare «la fortuna, ma la ignavia loro»; xxiv 8), Giovanni di Matteo Benizi asseriva il 13 maggio 1503 che «la fortuna buona non sta con i pigri» (Consulte [...], 2° vol., 1993, cit., p. 936). E con l’affermare che «chi non tenta la fortuna, la fortuna lo lascia dove si truova» (Consulte [...], a cura di D. Fachard, 1988, p. 225), Bernardo Nasi precorre il Fabrizio Colonna dell’Arte della guerra, il quale, nonostante il monito rivoltogli da Luigi Alamanni a non fidarsi della mutevole f. dopo aver «vinto una giornata sì onorevolmente» («io penso che sia bene che io non tenti più la fortuna, sappiendo quanto quella è varia e instabile»), sostiene che «è assai meglio tentare la fortuna dov’ella ti possa favorire, che non la tentando vedere la tua certa rovina» (IV 98).
Il filo conduttore che dall’ironia amara dei Ghiribizzi e dal pessimismo del “Di Fortuna” conduce alle pagine cruciali delle grandi opere, si dipana in realtà sin dai primissimi scritti di governo. Appena assunto in cancelleria, già il 4 agosto 1498 M. denunciava al condottiero Rinuccio da Marciano, assoldato da Firenze con il titolo di governatore generale, «la nostra inimica fortuna» associandola al concetto di necessità:
E veramente, poi che per la nostra inimica fortuna e’ seguì quello accidente dove e’ convenne, e a noi el campo nostro con tanto disagio e dispendio instaurare, e alla Signoria vostra della propria salute provedere, noi non abbian mai pensato se non come potessino e le perdute forze e lo onore nostro e vostro recuperare; e tutti e’ partiti che si sono presi, come appieno vostra prudentissima Signoria conosce, non sono proceduti se non da estrema necessità, pel disordine nel quale era la nostra Repubblica incorsa (LCSG, 1° t., p. 27).
E in una missiva del 2 settembre 1498 si serve dell’immagine del vergognarsi della f. – «la Fortuna si abbi col tempo a vergognare per lo averci immeritamente tanto perseguitati» (LCSG, 1° t., p. 43) –, ripresa poi nella celebre lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori (all’epoca ambasciatore fiorentino presso la corte del papa Leone X): «Così, rinvolto entra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via per vedere se la se ne vergognassi» (Lettere, p. 295). In una prospettiva non dissimile, l’azione nociva della «mala nostra fortuna» la quale «non ci potrebbe essere stata più avversa» (LCSG, 1° t., p. 309) nel corso della campagna pisana, verrà denunciata anche nel primo Decennale: «a’ princìpi forti / s’oppose crudelmente la Fortuna» (vv. 221-22). Quando non impera da sola, la f. (o un suo equivalente: i cieli, la sorte, il caso o gli accidenti) si congiunge con la natura, richiamata nell’Asino («A quante infermità vi sottomette / natura, prima, e poi fortuna quanto / ben senz’alcuno effetto vi promette!», viii, vv. 133-35), in bocca a Callimaco nella Mandragola («Ed è vero che la fortuna e la natura tiene el conto per bilancio: la non ti fa mai un bene, che all’incontro non surga un male», IV i), e nei Discorsi («quello viene a errare meno e avere la fortuna prospera che riscontra, come ho detto, con il suo modo il tempo e sempre mai si procede secondo ti sforza la natura», III ix 4). Con l’industria, in particolare negli Stati nuovamente acquistati, ma diversi per ordini, costumi e lingue dallo Stato antico di chi li acquista, dove «bisogna avere gran fortuna e grande industria a tenerli» (Principe iii 11). Con la forza: «si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se’ aiutato in modo che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente» (Discorsi III xxxvii 4); «tanto che tu vieni ad arristiare tutte le forze e non tutta la fortuna, e discostandoti arrischi tutta la fortuna e non tutte le forze» (Discorsi II xii 16). Con la potenza militare – «dove è buona milizia conviene che sia buono ordine, e rade volte anco occorre che non vi sia buona fortuna» (Discorsi I iv 3) – o ancora con l’«educazione»: «Perché questo diventare insolente nella buona fortuna e abietto nella cattiva, nasce dal modo del procedere tuo e dalla educazione nella quale ti se’ nutrito» (Discorsi III xxxi 20).
Non riconducibile a influssi astrologici e intesa come urgenza ineluttabile, la necessità non è altro che una situazione avversa in grado di produrre – nella vita dell’uomo, di un popolo o delle istituzioni politiche di uno Stato – l’ostinazione e la determinazione necessarie per «secondare la fortuna e non opporsegli […], tessere gli orditi suoi e non rompergli» (Discorsi II xxix 24):
Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la necessità e a quale gloria siano sute condutte da quella; e, come da alcuni morali filosofi è stato scritto, le mani e la lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti a nobilitarlo, non arebbero operato perfettamente né condotte le opere umane a quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non fussoro spinte (Discorsi III xii 2).
In ambito polemologico, si legge nell’Arte della guerra che le necessità «possono essere molte, ma quella è più forte che ti constringe o vincere o morire» (IV 152); e nei Discorsi M. scrive che in caso di scontro frontale tra due eserciti altrettanto disordinati e sottoposti a necessità uguali, «quello resti poi vincitore che è il primo a intendere le necessità dello altro» (III xviii 13). In ambito spiccatamente politico, il saper atteggiarsi di fronte alla necessità assume agli occhi dell’autore un valore del tutto particolare, evidenziato dal titolo stesso dei Discorsi I xxxviii: «Le republiche deboli sono male risolute e non si sanno diliberare; e se le pigliano mai alcun partito, nasce più da necessità che da elezione». A riscontro della sagacia e della determinazione del senato romano, il quale non «si vergognò mai diliberare una cosa che fusse contraria al suo modo di vivere o ad altre diliberazioni fatte da lui, quando la necessità gliene comandava» (Discorsi I xxxviii 3), M. adduce alcuni clamorosi insuccessi della politica fiorentina: la mancata previsione della conquista di Milano da parte del re di Francia Luigi XII nel 1500; il fallito assalto di Pisa sotto il comando del capitano francese Jean de Beaumont nello stesso anno; la scarsa capacità diplomatica mostrata durante la ribellione di Arezzo nel 1502, quando Imbault Rivoire, capitano del re di Francia, entrò nella città «faccendo intendere ai fiorentini come egli erano matti e non s’intendevano delle cose del mondo» (Discorsi I xxxviii 18). L’irresolutezza dei responsabili fiorentini e la loro incapacità di affrontare la «necessità», nei mesi precedenti il sacco di Prato nel 1512, trovano il loro fatale compimento nell’assenza di perpicacia e nell’eccessiva cautela di Piero Soderini, il quale
si credeva superare con la pazienza e bontà sua quello appetito, che era ne’ figliuoli di Bruto, di ritornare sotto un altro governo, e se ne ingannò. E benché quello per la sua prudenza conoscesse questa necessità, e che la sorte e l’ambizione di quelli che lo urtavano gli dessi occasione a spegnerli, nondimeno non volse mai l’animo a farlo (Discorsi III iii 6-7).
Prendendo di mira il modo di pensare dei suoi concittadini, come attestano le lettere a Vettori del 29 aprile e del 26 agosto 1513 – «li uomini savi non si rimettono mai, se non per necessità, a discrezione d’altri»; «gli uomini si inducono per necessità a fare quello che non era loro animo di fare, et il costume delle populazioni è ire adagio» (Lettere, pp. 252, 289) –, M. sembra echeggiare le discussioni udite durante le assemblee consultive a Palazzo Vecchio. Martellata da postulati – «la necessità adunque strigne dovere farsi compromesso» (Consulte e Pratiche, cit., 1° vol., 1993, p. 141); «la necessità mostra quello si debba fare» (1° vol., p. 172); «la ragione vorrebbe una cosa ma la necessità ne detta un’altra» (2° vol., p. 999); «tutti sono in sentenzia che dove necessità caccia non bisogna consiglio» (2° vol., p. 841); «la necessità non ha legge» (1° vol., p. 38) – l’impellenza della necessità veniva anche evocata tramite espressioni figurate. Parlando «per comparazione», Francesco Gualterotti si dolse «della mala sorte della città in risolversi, e che sempre si ha ad andare colla acqua alla gola; e che una volta è necessario risolversi se noi voliamo essere in amicizia col Re di Francia o non, e che noi non abiamo sempre ad andare per necessità» (2° vol., pp. 622-23); per Antonio Malegonnelle, «dove la necessità restrigne, la disputazione è vana, e che s’intende quello si doverrebbe fare per assicurarsi; ma non ci essendo panno da cavarne la vesta come doverebbe essere, curarla e darle migliore garbo che si può» (2° vol., p. 909).
La riflessione sulla necessità e quella sulla libertà d’azione dell’uomo convergono verso gli ammaestramenti prodigati nel Principe: «Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità» (xv 6); «e debbe soprattutto uno principe vivere in modo, con e’ suoi sudditi, che veruno accidente o di male o di bene lo abbia a fare variare: perché, venendo per li tempi avversi le necessità, tu non se’ a tempo al male, e il bene che tu fai non ti giova perché è iudicato forzato, e non te n’è saputo grado alcuno» (viii 30). Attento all’influenza della f. sull’azione dei principi, M. incita il principe nuovo a «salire più alto» (xx 15), a possedere armi proprie, senza le quali «è tutto obligato alla fortuna, non avendo virtù che nelle avversità con fede lo difenda» (xiii 26), a riscontrare «il modo del procedere suo con la qualità de’ tempi» (xxv 11), a sapere sfruttare il fatto che, seppure «arbitra della metà delle azioni nostre [la f.] ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi» (xxv 4).
Se la concomitanza tra f. e necessità sembra retta da un principio di causa ed effetto, quella tra f. e virtù si esprime spesso in termini antinomici e costrutto dilemmatico. Osserva Giorgio Inglese a proposito del Valentino machiavelliano: «Se la ‘fortuna’, il puro caso, può travolgere anche una virtù perfetta, la perfezione della virtù si eserciterà solo nello spazio che il puro caso, autentico signore del gioco, le consentirà di occupare» (Introduzione al Principe, 1995, p. XIX ). Donde il pluriprospettico rapporto di forza tra f. e virtù rilevato dallo studioso nel libro II dei Discorsi: in II i, la f. nasce dalla virtù, in II xxix è essa a causare o ‘eleggere’ la virtù, mentre in II xxx appare come una forza che la virtù può domare. Per questi passaggi si giunge alla conclusione che
perché la [f.] è varia, variano le republiche e gli stati spesso, e varieranno sempre infino che non surga qualcuno che sia della antichità tanto amatore che la regoli in modo che la non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto ella puote (II xxx 32).
È quindi all’uomo, con la sua audacia e la sua capacità di afferrare l’occasione, che spetta frenare il corso della f.: «se si mutassi natura con e’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna» (Principe xxv 17). Sfidati dalla f.-fiume (già «torrente rapido» nel “Di Fortuna”, v. 151), dalla f.-amica «più di chi assalta che di chi si difende» (Istorie fiorentine IV v 6) e dalla f.-donna amica dei giovani (nonostante il lamento di Cleandro nella Clizia: «O Fortuna, tu suòi pure, sendo donna, essere amica de’ giovani: a questa volta tu se’ stata amica de’ vecchi», IV i) – gli uomini grandi si distinguono dagli uomini deboli, i quali «invaniscono e inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli hanno a quella virtù che non conobbono mai» (Discorsi III xxxi 4). Con conseguenze simili a livello istituzionale: «Questa virtù e questo vizio che io dico trovarsi in un uomo solo, si truova ancora in una republica» (xxxi 8). Per tali motivi non fallirono i Romani affidandosi alla loro virtù e alla loro prudenza e non alla f.; fallirono, invece, i veneziani «i quali nella buona fortuna, parendo loro aversela guadagnata con quella virtù che non avevano […], eronsi presupposti nello animo di avere a fare una monarchia simile alla romana» (xxxi 14). Non diversamente succede ai principi, i quali
per avere perduto lo stato, non sono più a tempo, e quegli che lo tengono non sanno e non vogliono; perché vogliono sanza alcuno disagio stare con la fortuna e non con la virtù loro, perché veggono che per esserci poca virtù, la fortuna governa ogni cosa, e vogliono che quella gli signoreggi, non essi signoreggiare quella (Arte della guerra II 313).
Il binomio antitetico f./virtù non è estraneo nemmeno al destino dei principati ecclesiastici, i quali «s’acquistano o per virtù o per fortuna, e sanza l’una e l’altra si mantengono» (Principe xi 1). Presente anche in ambito polemologico nei Discorsi – «si è veduto che, mancando a uno esercito le vettovaglie ed essendo necessitati o a morire di fame o azzuffarsi, si piglia il partito sempre di azzuffarsi, per essere più onorevole e dove la fortuna ti può in qualche modo favorire» (II x 21) –, esso assurge a regola nel libro conclusivo dell’Arte della guerra: «Meglio è vincere il nimico con la fame che col ferro, nella vittoria del quale può molto più la fortuna che la virtù» (VII 157). Il 10 dicembre 1514 M. scrive a Vettori che quando «uno principe vuole conoscere quale fortuna debbino avere dua che combattino insieme, conviene prima misuri le forze e le virtù dell’uno e dell’altro» (Lettere, p. 332).
A proposito della f., a veicolare le idee dell’autore, nonché a echeggiare la vox populi udita durante le consulte, sono, nelle Istorie fiorentine, i discorsi di alcuni cittadini. «Amica alle discordie nostre» (IV xxviii 6), responsabile delle divisioni politiche dell’Italia – «Non è ben la Fortuna ancor contenta, / né posto ha fin all’italiche lite, / né la cagion di tanti mali è spenta» (Decennale I, vv. 523-25) – nonché, insieme ai «non buoni ordini suoi» (Istorie fiorentine III ii 2), della disunione di Firenze, la f. viene incolpata da un oratore anonimo durante un raduno nella chiesa di S. Piero Scheraggio:
E imputate i disordini antichi non alla natura degli uomini, ma ai tempi, i quali sendo variati, potete sperare alla nostra città, mediante i migliori ordini, migliore fortuna. La malignità della quale si può con la prudenzia vincere, ponendo freno alla ambizione di costoro e annullando quelli ordini che sono delle sette nutritori, e prendendo quelli che al vero vivere libero e civile sono conformi (III v 25-26).
Rinaldo degli Albizzi e Agnolo Acciaiuoli pretendono di potere disprezzare i suoi giochi: «io ne ho assai buona esperienza; e come io ho poco confidato nella prosperità, così le avversità meno mi offendono, e so che, quando le piacerà, la mi si potrà mostrare più lieta; ma quando mai non le piaccia, io stimerò sempre poco vivere in una città dove possino meno le leggi che gli uomini» (IV xxxiii 5); «io mi rido de’ giuochi della fortuna, e come a sua posta ella fa gli amici diventare nimici, e gli inimici amici» (VII xviii 3). Ma chi, in tale prospettiva, seppe «usare la fortuna modestamente, e che bastasse loro più tosto godersi una mezzana vittoria con salute della città, che, per volerla intera, rovinare quella» (III xxv 18) fu la famiglia Medici: Cosimo, la cui «virtù e fortuna [...] spense tutti i suoi nimici e gli amici esaltò» (VII v 18); e Lorenzo il Magnifico, «da la fortuna e da Dio sommamente amato» (VIII xxxvi 15).
Molte sono le figure storiche la cui audacia o prudenza, confrontate al variare dei tempi e alle necessità, illustrano i capricci di «questa antica strega» (“Di Fortuna”, v. 55). La Roma repubblicana poté contare, nel corso della sua storia, sulle opposte virtù di un cauto Fabio Massimo o, al contrario, di un impetuoso Scipione per tentare o meno la fortuna. In epoca moderna, vanno ricordati i personaggi incontrati da M. durante le sue legazioni. Luigi XII era un alleato inaffidabile:
Non ostante che ’l re di Francia appetisca la pace per le ragione sopraddette, nasce piutosto da non volere tentare la fortuna, dove egli è per giucare quasi lo stato suo, che da essere disposto a non la tentare ad alcun modo quando la necessità lo forzassi (Discursus de pace inter imperatorem et regem, § 7).
Avendo per altro rilevato nel De natura Gallorum (§ 4) che i francesi sono «umilissimi nella cattiva fortuna; nella buona, insolenti», M. valuterà con i Dieci durante la terza legazione presso quel re se sia «bene arrisicare la fortuna con Francia» (LCSG, 6° t., p. 478). Esempio dei vari effetti dell’incontro tra f., tempi e necessità è anche il papa Giulio II, paradigma a un tempo di fortunata temerità nell’entrare in Perugia, nonché di audacia e impeto durante l’impresa di Bologna: «Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto» (Principe xxv 22). In verità, il pontefice non conobbe la rovina solo perché i tempi in cui regnò erano favorevoli agli impetuosi, e morì prima che essi mutassero e la f. ne approfittasse per colpirlo; nei Discorsi verrà precisato: «fossero venuti altri tempi che avessono ricerco altro consiglio, di necessità rovinava» (III ix 16). A incarnare meglio di chiunque altro il binomio virtù/f. è invece Cesare Borgia, detto il duca Valentino. Opposto al duca di Milano Francesco Sforza, il quale «per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano», il Valentino, nonostante l’altissima sua virtù, «acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé» (Principe vii 7). Egli appare così, nella visione machiavelliana, dipendente dell’«inconstante dea e mobil diva» (“Di Fortuna”, v. 34), vittima per eccellenza di «una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna» (Principe vii 9). All’inizio della sua prima legazione, il 26 giugno 1502, M. gli assegna intuitivamente «una perpetua fortuna» (LCSG, 2° t., p. 247); poi, il 2 dicembre dello stesso anno, scrive ai Dieci che «questo Duca si cominci avvezzare a tenersi delle voglie e che conosca come la fortuna non liene dà tutte vinte; il che lo farà più facile ad ogni proposito che lo volessino tirare vostre Signorie» (p. 477); ma l’8 gennaio 1503 torna ad attribuirgli «una fortuna inaudita, uno animo e una speranza più che umana di potere conseguire ogni suo desiderio» (p. 540). Altro personaggio sconfitto da una f. che «vuole essere arbitra di tutte le cose umane» è la figura storica di Castruccio Castracani: la f. «quando era tempo di dargli vita, gliene tolse, e interruppe quegli disegni che quello molto tempo innanzi avea pensato di mandare ad effetto, né gliele potea altro che la morte impedire» (Vita di Castruccio Castracani, §§ 132, 127).
Esposto ai venti della f. risulta lo stesso Machiavelli. Se nella dedica del Principe egli dichiara quanto «indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna» (§ 7), nella celeberrima lettera a Vettori del 9 aprile 1513 la f. è tenuta responsabile dell’assoluta dedizione di M. alle cose dello Stato:
La Fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, e mi bisogna o botarmi di stare cheto, o ragionare di questo (Lettere, p. 241).
La f., «volubil creatura» (“Di Fortuna”, v. 10), viene incriminata anche nella lettera del 19 novembre 1515 al nipote Giovanni Vernacci:
La fortuna non mi ha lasciato altro che i parenti e gli amici, et io ne fo capitale, e massime di quelli che più mi attengono, come sei tu, dal quale io spero, quando la fortuna ti inviasse a qualche faccenda onorevole, che tu renderesti il cambio a’ miei figliuoli de’ portamenti miei verso di te (Lettere, p. 352).
Un concetto analogo M. lo esprime nelle linee conclusive dell’Arte della guerra (VII 249):
E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo adietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei in brevissimo tempo avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.
Dalle raccomandazioni inviate a Vettori il 10 dicembre 1513 («E poiché la Fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, et aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl’uomini; et allora starà bene a voi durare più fatica, veghiare più le cose, et a me partirmi di villa e dire: eccomi», Lettere, p. 294) e il 4 febbraio 1514 («Sì che, padron mio, vivete lieto: non vi sbigottite, mostrate il viso alla fortuna, e seguite quelle cose che le volte de’ cieli, le condizioni de’ tempi e degli uomini vi recano innanzi, e non dubitate che voi romperete ogni laccio e supererete ogni difficultà», Lettere, p. 310) sembra trapelare un sentimento di fiducia e di speranza nei riguardi della fortuna. Ma la lettera del 20 dicembre 1514 allo stesso Vettori evidenzia invece non solo la profonda frustrazione di un cittadino impegnato («E se la fortuna avessi voluto ch’e’ Medici, o in cose di Firenze o di fuora, o in cose loro particulari o publiche, mi avessino una volta comandato, io sarei contento», Lettere, p. 345), ma anche l’amaro risentimento che già aveva echeggiato nei Ghiribizzi («e quando la fortuna ci vuole caciare, la ci mette innanti o presente utilità o presente timore, o l’uno e l’altro insieme; le quali dua cose credo che sieno le maggiori nimiche abbi quella opinione che nelle mie lettere io ho difesa», Lettere, p. 345).
Bibliografia: Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1505-1512, a cura di D. Fachard, Genève 1988; Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1498-1505, 2 voll., a cura di D. Fachard, pref. di G. Sasso, Genève 1993; Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1495-1497, a cura di D. Fachard, pref. di G. Cadoni, Genève 2002.
Per gli studi critici si vedano: M. Martelli, I Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini, «Rinascimento», 1969 [ma 1972], pp. 147-80; R. Ridolfi, P. Ghiglieri, I Ghiribizzi al Soderini, «La bibliofilia», 1970, pp. 53-74; C. Dionisotti, I Capitoli di Machiavelli (1971), in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 61-99; R. Ridolfi, Ancora sui Ghiribizzi al Soderini, «La bibliofilia», 1972, pp. 3-4; G. Sasso, Qualche osservazione sui Ghiribizzi al Soderino di Machiavelli, «La cultura», 1973, pp. 129-67, poi in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 3-56; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 1988, pp. 50-57; G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma 2003; M.C. Figorilli, Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico e fortuna, Napoli 2006; G. Inglese, Per Machiavelli, Roma 2006; G.M. Barbuto, Antinomia della politica. Saggio su Machiavelli, Napoli 2007; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013.