fotografia
L'arte di scrivere con la luce
La fotografia è una tecnica che permette di registrare un'immagine sfruttando le proprietà della luce. La parola, che fu usata per la prima volta dall'astronomo John Herschel nel 1839, deriva dalla combinazione di due termini greci che indicano "luce" e "scrivere". E in effetti tutte le tecniche fotografiche, da quelle tradizionali a quelle digitali più moderne, sono un modo per scrivere con la luce. La fotografia è stata una delle grandi invenzioni del 19° secolo e uno strumento di comunicazione fondamentale nel corso del 20°. Come molte forme di comunicazione vive oggi un periodo di grandissima trasformazione grazie alle tecniche di digitalizzazione
Alle origini della fotografia c'è la scoperta, avvenuta già in tempi molto antichi, di uno dei più elementari fenomeni ottici: quello della 'camera oscura', tuttora un componente fondamentale degli apparecchi fotografici. Quando la luce filtra da un piccolo foro o fessura all'interno di uno spazio chiuso, l'immagine esterna viene proiettata capovolta sul lato opposto a quello del foro. Sembra che già Aristotele avesse pensato a usare questo sistema per osservare una eclissi di Sole senza rischi per la vista. Ma la camera oscura venne utilizzata soprattutto dagli artisti del Rinascimento per proiettare su una parete o su una tela l'immagine di un paesaggio, in modo da usarlo come schema per realizzare un disegno o un dipinto. Nel 1685 il tedesco Johann Zahn realizzò una camera oscura che anticipava la struttura di una macchina fotografica. Aveva nell'interno uno specchio ‒ collocato a 45° rispetto alla lente dell'apertura ‒ che rifletteva l'immagine su un vetro opaco. Ponendo un foglio sul vetro era possibile disegnare l'immagine così proiettata, ricalcandone i contorni visibili in trasparenza.
Anche all'interno di una macchina fotografica si trova un sistema ottico di questo tipo, quindi metà del lavoro per l'invenzione della fotografia era fatto. Ma mancava la parte più difficile: un sistema per fissare l'immagine in modo permanente su un supporto. Per riuscirci servivano i progressi delle scienze chimiche del 19° secolo. L'invenzione della fotografia si basa sulla scoperta di alcuni materiali fotosensibili ‒ ossia sostanze che cambiano le loro proprietà quando vengono colpite dalla luce ‒ in particolare di alcuni composti dell'argento. Già all'inizio dell'Ottocento diversi ricercatori, tra cui l'inglese Thomas Wedgwood, riuscirono a imprimere immagini, proiettate per mezzo di una camera oscura, su superfici ricoperte di nitrato d'argento. Il problema era che mancava un modo per fissare queste immagini e renderle permanenti. Bastava esporre la lastra alla luce perché l'immagine svanisse, e si poteva vederla solo per pochi secondi alla luce di una candela. Il primo a risolvere il problema fu il francese Joseph-Nicéphore Niepce, che inventò un procedimento chiamato eliografia. Niepce utilizzava una lastra di rame argentato ricoperta da un sottile strato di bitume e la collocava in una camera oscura (una cassetta di legno) di fronte a una tavola disegnata o dipinta. Dopo una giornata di esposizione, le parti dello strato di bitume che erano rimaste impressionate ‒ ossia esposte all'azione della luce riflessa dalle zone più chiare del dipinto ‒ erano diventate bianche, mentre le altre restavano nere. La lastra veniva quindi immersa in un bagno d'essenza di lavanda, che scioglieva il bitume non impressionato e lasciava intatto quello reso bianco dalla luce. Sulla lastra di rame argentato restava così soltanto il bitume che riproduceva l'immagine in negativo. Con questo sistema, nel 1826, Niepce ottenne quella che può essere considerata la prima vera fotografia: un'immagine dell'edificio di fronte al suo studio.
Otto ore di esposizione (tanto aveva richiesto quell'immagine) erano però decisamente troppe.
Fu Louis Daguerre, un collaboratore di Niepce che continuò poi a lavorare sulla fotografia dopo la morte di quest'ultimo, a mettere a punto un procedimento fotografico più pratico e rapido, e soprattutto il primo vero apparecchio fotografico, che battezzò appunto dagherrotipo. In questa macchina, su una lastra di bronzo era steso un foglio di argento che veniva trasformato in un sale (ioduro) fotosensibile. Le immagini erano ottenute con una lunga esposizione (anche 20 minuti) della lastra: sulle zone colpite dalla luce lo ioduro si trasformava in argento cristallino. Quindi, la lastra era esposta, a caldo, a vapori di mercurio che formavano un amalgama biancastro con l'argento (sviluppo); infine, l'immagine veniva fissata rimuovendo lo ioduro d'argento che era rimasto in corrispondenza delle zone d'ombra tramite un bagno in una soluzione salina. A partire dal 1837, quando Daguerre perfezionò la sua invenzione, il dagherrotipo divenne molto popolare in Europa e negli Stati Uniti, soprattutto perché dava la possibilità di effettuare dei ritratti a costi accessibili usando la fotografia al posto della pittura. Il dagherrotipo aveva però un problema: non permetteva di fare più copie della stessa immagine, ogni stampa era un pezzo unico. Per poter ottenere più copie occorreva un procedimento diverso, che producesse un negativo, ossia un'immagine in cui i colori sono invertiti ‒ il bianco diventa nero e viceversa ‒ e che si può usare come 'stampo'. L'inventore del negativo, nel 1841, fu l'inglese William Henry Fox Talbot, che per ottenerlo utilizzò una carta imbevuta di una soluzione di sodio e nitrato d'argento da cui, per semplice contatto, si possono ricavare innumerevoli positivi.
A questo punto la fotografia era ormai stata inventata, ma era ancora lontana dall'essere un fenomeno di massa, perché le macchine fotografiche erano apparecchi grandi e pesanti che dovevano contenere le lastre utilizzate per imprimere le immagini. Tutto cambiò grazie all'inglese George Eastman, che nel 1888 inventò una pellicola flessibile e molto resistente che poteva essere avvolta in rotoli e così inserita in una macchina di piccole dimensioni. Eastman scelse di chiamare le sue macchine fotografiche con un nome che restasse impresso e suonasse allo stesso modo in tutte le lingue: Kodak. Le prime macchine fotografiche prodotte da Eastman con il marchio Kodak erano scatole di legno di piccole dimensioni con una lente e un otturatore e si acquistavano con la pellicola già inserita. Una volta finito il rullino, si doveva inviare alla Kodak la macchina. Il cliente riceveva indietro per posta le foto sviluppate e stampate e la macchina dotata di un nuovo rullino. Ma ben presto, per nostra fortuna, fu possibile sostituire da sé il rullino. E iniziò la fotografia di massa.
Tutte le fotografie di cui abbiamo finora parlato erano in bianco e nero. La fotografia a colori era un altro paio di maniche, perché occorrevano materiali sensibili non solo alla presenza o assenza di luce, ma alle sue diverse lunghezze d'onda, che determinano appunto i colori. Nel 1861 il fisico scozzese James Clerk Maxwell ottenne la prima immagine a colori combinando tre negativi ottenuti attraverso filtri rosso, verde e blu. Le tre fotografie andavano proiettate una sull'altra per ricostruire l'immagine a colori completa. Qualche anno dopo, nel 1869, il francese Louis Ducos du Hauron ottenne la prima stampa fotografica a colori con la tecnica della tricromia; per la ripresa usava filtri come quelli di Maxwell, stampando poi su carta al carbone con pigmenti dei tre colori primari (rosso, giallo e blu). Si trattava però ancora di procedimenti complicati, visto che nella fase di ripresa richiedevano l'impiego dei tre filtri cromatici. Solo molto tempo dopo, a partire dagli anni Quaranta del 20° secolo, sarebbero state disponibili sul mercato pellicole in grado di 'vedere' i diversi colori.
Da quando sono nate le prime tecnologie che permettevano ai giornali di pubblicare insieme ai testi le fotografie queste sono diventate un ingrediente fondamentale di tutti i giornali. Le fotografie sono importanti quanto gli articoli, in alcuni casi di più. Una fotografia può raccontare un'intera storia, a volte in modo più incisivo di un lungo articolo, e restare impressa nella memoria delle persone per anni. Basta pensare ad alcune celebri immagini scattate dai reporter di guerra durante la Seconda guerra mondiale o in Vietnam. E il fotoreporter è un giornalista a tutti gli effetti, tanto che esiste un premio Pulitzer (il più celebre riconoscimento giornalistico del mondo) per questa categoria.
Tra i fotogiornalisti vi è poi una categoria molto particolare, nata negli anni Sessanta del secolo scorso. Sono fotografi che inseguono i personaggi famosi (attori, cantanti, politici, sportivi) per fotografarli in momenti della loro vita privata, spesso invadendo la loro privacy. Questi fotografi vengono chiamati paparazzi perché in un celebre film di Federico Fellini, La dolce vita, che ritraeva l'ambiente dello spettacolo romano nei primi anni Sessanta, il personaggio del fotografo si chiamava di cognome Paparazzo.
Il lavoro dei fotoreporter, insieme a quello di tutti gli altri fotografi professionisti, ha creato negli anni gli immensi archivi di immagini gestiti dalle agenzie fotografiche (tra le più famose vi sono la Magnum, la Contrasto, l'italiana Alinari). Queste agenzie detengono e gestiscono i diritti di riproduzione sulle loro fotografie e li cedono a chiunque ‒ in particolare nel settore editoriale ‒ ne faccia richiesta. Da alcuni anni questi archivi sono stati per lo più digitalizzati (digitalizzazione) e sono accessibili on-line, consentendo di scegliere e acquistare le immagini desiderate in tempi rapidissimi.
La fotografia non è solo un mezzo tecnico per riprodurre la realtà. Almeno dalla seconda metà del 19° secolo è considerata anche un'arte figurativa vera e propria, al pari della pittura e della scultura. Lo sviluppo dell'arte fotografica ha seguito da vicino le tendenze della pittura. Nell'Ottocento i fotografi sceglievano soprattutto soggetti come ritratti e paesaggi, proprio come avveniva per i pittori, ma a partire dagli anni Venti del Novecento la fotografia divenne uno dei mezzi preferiti per gli artisti surrealisti, quali Marcel Duchamp e lo statunitense Man Ray. Questi artisti in particolare fecero un grande uso della tecnica del fotomontaggio, che consiste nell'assemblare ritagli di fotografie diverse creando immagini che hanno apparenza reale ma che rappresentano spesso scene impossibili, con un effetto straniante non ottenibile con la pittura.
Negli ultimi anni la fotografia si è molto trasformata a causa dell'uso sempre più diffuso della digitalizzazione. Come ogni altra informazione, infatti, anche un'immagine può essere trasformata in linguaggio digitale per essere memorizzata e modificata su un computer. Le macchine fotografiche digitali non utilizzano pellicola, ma trasformano per mezzo di appositi sensori l'immagine in informazione digitale.
Alla base di una macchina fotografica digitale c'è un dispositivo chiamato CCD (Couple charged device "dispositivo ad accoppiamento di carica"). Si tratta di un chip di silicio, composto da una serie di elementi fotosensibili chiamati photosite. Quando un photosite viene colpito dalla luce si carica elettricamente, ossia gli elettroni si raggruppano sulla sua superficie. La quantità di elettroni presenti sul photosite indica da quanta luce è stato colpito quell'elemento. Un complesso sistema di filtri elettronici per i tre colori fondamentali rosso, verde e blu permette di definire anche le qualità cromatiche dell'immagine.
I segnali vengono inviati a un convertitore analogico-digitale che li trasforma in numeri, che vengono poi passati a un computer interno per l'elaborazione. Una volta che esso ha calcolato l'immagine finale, i dati di quest'ultima sono archiviati in una memory card, una memoria magnetica che sfrutta la stessa tecnologia su cui si basano gli hard disk dei computer. La macchina fotografica digitale può facilmente essere collegata a un computer, dove con appositi programmi (detti di fotoritocco) si possono modificare le caratteristiche dell'immagine, quali dimensioni, luminosità, bilanciamento dei colori, fino a 'falsificare' alcuni elementi, per esempio alterando il taglio degli occhi in un ritratto. I vantaggi della macchina digitale sono notevoli in termini di praticità: è possibile vedere la foto appena scattata, decidere se conservarla o cancellarla, oppure scaricare le foto dalla memory card all'hard disk del proprio computer e in questo modo liberare spazio.
Le foto digitali si possono inviare per posta elettronica, oppure stampare in casa utilizzando la stampante del proprio computer. Questo ha fatto sì che le macchine fotografiche digitali si siano diffuse molto rapidamente, avvicinando alla fotografia anche persone per cui la macchina tradizionale appariva troppo complicata da usare. Tuttavia, per le fotografie artistiche o destinate a usi editoriali la fotografia tradizionale rimane insuperabile, perché permette di regolare luci e colori come quella digitale non può fare.
Un tipo particolare di fotografia è quella a raggi X, utilizzata soprattutto in medicina (diagnostica per immagini). I raggi X, a differenza della luce visibile, hanno la proprietà di attraversare in modo diverso i corpi a seconda della loro densità. Per questo superano la pelle e possono evidenziare gli organi interni e le ossa. Per le radiografie si utilizzano apposite lastre sensibili, e il soggetto da riprendere viene posto tra la sorgente di raggi X e la lastra. La radiografia è utilizzata anche nei restauri di dipinti o sculture per evidenziare lo stato di degrado dei diversi materiali.
Una macchina fotografica deve svolgere alcune funzioni fondamentali: deve mantenere la pellicola al suo interno completamente al riparo dalla luce, ma avere un sistema per lasciare entrare la luce al momento desiderato e poi richiudersi. Nella sua forma più semplice e più antica, una macchina fotografica non è quindi altro che una scatola con un foro, ma la macchina fotografica moderna è naturalmente molto più complessa. Ogni apparecchio è dotato di un obiettivo - strumento ottico da cui passa la luce - ed è costituito da una serie di lenti, oppure di lenti e specchi, che permettono un certo grado di ingrandimento dell'immagine originale. Si possono utilizzare teleobiettivi, ossia obiettivi simili a cannocchiali che permettono di mettere a fuoco anche oggetti molto lontani. Dietro all'obiettivo si trova il diaframma, un sistema di lamelle che determina la larghezza del foro da cui passa la luce. Accoppiato al diaframma c'è l'otturatore, un dispositivo che si apre e si richiude a comando (nelle macchine fotografiche moderne è controllato elettronicamente) e per un tempo prefissato, che per la maggior parte delle fotografie è di una qualche frazione di secondo. Insieme, diaframma e otturatore determinano quanta luce raggiunge la pellicola. All'interno della macchina fotografica si trova l'alloggiamento per la pellicola, con un apposito meccanismo di trascinamento (motorizzato nella maggior parte degli apparecchi) che fa avanzare la pellicola di un fotogramma dopo ogni scatto e che permette di riavvolgere completamente il rullino quando esso arriva al termine. Nella parte alta della macchine è posto un mirino che permette al fotografo di inquadrare il soggetto da riprendere. La maggior parte delle macchine fotografiche dispone di un flash, che produce un fascio di luce intensa e di breve durata per scattare fotografie in condizioni di scarsa luminosità.