FOTOGRAFIA.
– L’era digitale. Autori, tendenze, contesti. La virtualizzazione, i libri, la postproduzione. Il fotogiornalismo. La musealizzazione e lo studio della fotografia. Bibliografia
L’era digitale. – Se il 21° sec. sarà certamente ricordato come l’era della f. digitale, gli ultimi anni hanno dimostrato che quella tra analogico e digitale, in campo fotografico ma non solo, è, più che una battaglia o un passaggio di consegne, una dialettica complessa. E questo vale sia per i suoi usi e la sua fruizione, sia per gli studi e le teorie che la riguardano. È indubbio che se la f. digitale ha conquistato il mercato dei consumatori e si sta assestando in quello professionale, quella analogica non ha del tutto perduto l’interesse del pubblico e degli stessi professionisti (la Leica ha proposto nel 2014 un nuovo modello analogico). Come in altri settori convertiti al digitale, tra cui quello musicale, a parte una fascia significativa di consumatori/produttori esigenti cui si rivolge ora un mercato di fotocamere semiprofessionali, la gran parte dei consumatori ha accettato una significativa diminuzione della qualità fotografica in cambio dell’immediata disponibilità dei dispositivi (come gli smartphone) e delle immagini da condividere. Questa tendenza inoltre, relativamente recente, sta già prendendo una nuova direzione: ora non è più lo smartphone ad avvicinarsi alla fotocamera, ma il contrario. Le società di produzione di fotocamere insidiano il mercato cellulare, proponendo macchine con sensori e obiettivi di qualità dotate di wi-fi per condividere immediatamente le immagini, display ruotanti per i selfies, effetti di ritocco in macchina stile Instagram.
Ma al di là delle tecnologie, gli usi di massa della f. (una storia iniziata da molto più di un secolo con la Kodak) si sono certamente moltiplicati, ma non sono cambiati nello spirito e nelle esigenze rispetto all’analogico. Si tratta infatti da un lato di un’autorappresentazione privata e ‘familiare’ in cui si selezionano ancora e soprattutto le immagini autopromozionali, dall’altro di quell’uso creativo e ‘artistico’ del medium che la f. permette ancora oggi più di altri strumenti di comunicazione e la cui ambizione, ormai generalizzata, Pierre Bourdieu attribuiva un tempo solo alla classe media. Da quest’ultimo punto di vista, del resto, anche le promesse del mercato fotografico non sembra siano state modificate dal digitale: nell’edizione 2014 del Photokina, la fiera biennale di f. che si tiene a Colonia, una delle più affascinanti proposte, la NX1 della Samsung, permette di scattare 15 foto al secondo a 28 megapixel, tra le quali si può sperare di trovare uno scatto da professionista: è quindi, nelle assicurazioni della pubblicità, così come avveniva un secolo fa, la macchina che fa il professionista.
E i professionisti in nuce crescono soprattutto grazie ai social network: mentre smartphone e fotocamere si fanno un’accanita concorrenza, anche i rispettivi luoghi virtuali di condivisione hanno subito una trasformazione negli ultimi anni, e a trainare è sempre il mercato popolare: Instagram, l’applicazione nata nel 2010 per condividere foto realizzate con smartphone e tablet, è appunto un luogo essenzialmente di condivisione, mentre le funzioni di ‘ritocco’ che il programma fornisce sono piuttosto elementari; il suo successo presso fotoamatori e non, ha portato alla sua acquisizione nel 2012 da parte di Facebook e oggi attrae anche i professionisti. Flickr invece era nata come una community di appassionati che intendevano condividere i propri lavori esponendoli in una sorta di galleria virtuale; dai 2 miliardi di immagini del 2007 è cresciuta fino a oggi a un ritmo di un miliardo l’anno, ha aumentato la capienza degli album on-line e si è aperta alle immagini realizzate con i dispositivi mobili.
Analoghe tendenze, ma con sviluppi più articolati e cesure più ambigue, si possono riscontrare anche al di fuori dell’universo mainstream della f. (ma per molti versi – ancora con Bourdieu – oggi nel campo fotografico è spesso proprio la classica ‘distinzione’ tra massa ed élite a vacillare). Lo scenario tecnologico e mediale della ricerca fotografica si è in effetti connotato nell’ultimo decennio per una profonda mutazione delle proprie modalità produttive. Mutazione non sempre orientata all’insegna del progresso molti autori, attivi sia nei circuiti tradizionali della f. (festival, premi internazionali, editoria di settore ecc.), sia nell’ambito dell’arte contemporanea – un territorio del resto sempre più colonizzato dalla f. – hanno espresso posizioni critiche di fronte ai nuovi scenari tecnologici e alle loro implicazioni sociali e culturali. Altri, naturalmente, ne hanno sposato la causa. A prescindere dalla loro età anagrafica, comunque, un buon numero di fotografi, anche nativi digitali, lavorano oggi indifferentemente sia con tecnologie analogiche sia con tecnologie digitali, sperimentandone con taminazioni di diverso genere. È qui possibile renderne conto solo con esempi sommari, indicativi di tendenze assai generali e diversificate al loro interno.
Autori, tendenze, contesti. – Sul versante tecnico, si va dai lavori prodotti secondo i più tradizionali standard fotografici negativo/ positivo (ma ormai si tende a postprodurre e stampare in digitale: è il caso, per es., di un autore molto influente sulle nuove generazioni, come Gregory Crewdson, che in fase di ripresa lavora ancora con banco ottico e pellicola piana, ma poi interviene digitalmente sulle immagini prima della stampa finale) a quelli basati sul processo Polaroid, congedato nel 2008 dall’omonima azienda, mentre alcuni storici esponenti della f. analogica ne celebravano ancora le potenzialità (è il caso delle ultime serie fotografiche di Paolo Gioli, prodotte in grande formato tra il 2007 e il 2010 con i rari materiali sensibili ancora reperibili sul mercato, o della monumentale raccolta, Polaroids, pubblicata da Julian Schnabel nel 2010). Negli anni a seguire la tecnica del positivo diretto su carta sarà ancora esplorata senza soluzione di continuità da schiere di neofiti, grazie all’immediata ripresa della produzione, con significative differenze nelle emulsioni sensibili, da parte dell’azienda austriaca The impossible project, impegnata con notevole successo commerciale nel rilancio a livello di massa del sistema Polaroid. Altri procedimenti storici sono stati ripresi e scandagliati: una mostra curata nel 2014 da Eric Renner e Nancy Spencer presso il Museum of New Mexico di Santa Fe, Poetics of light. Pinhole photography, fa il punto sulle nuove tendenze della f. stenopeica, mentre non mancano autori, più o meno giovani e più o meno impegnati (per es., Adam Fuss e Ian Ruhter), che recuperano e attualizzano tecniche arcaiche come il dagherrotipo o il collodio.
Un’altra mostra, assai più ambiziosa, (Mis)Understanding photography. Works and manifestos, curata nel 2014 da Florian Ebner al Museum Folkwang a Essen, si enuncia con una dichiarazione dell’artista statunitense Zoe Leonard, e pone questioni che sempre più attraversano anche gli studi visuali e le teorie fotografiche: «Cos’è la fotografia? Una stampa, un oggetto o una jpg sul tuo schermo? Esiste solo se la stampi? [...] In breve, la fotografia è un oggetto, un’immagine o un modo di vedere?». Tra i lavori esposti, presentati come interrogazioni sull’annoso problema della «natura della fotografia», compaiono sia opere fotografiche (unici italiani presenti, Ugo Mulas e Franco Vaccari) sia Manifesti, ossia testi critici scritti dai «più radicali scrittori sulla fotografia, essi stessi fotografi» (qui troviamo Luigi Ghirri, accanto a numerosi autori storici e contemporanei, e anche alla tedesca Lomographische Gesellschaft).
Come si è accennato, più che le tecniche fotografiche il discorso riguarda le idee, i processi e i contesti produttivi. Un imponente numero di progetti – secondo linee di lettura che spaziano dal remake postmodernista all’arte di appropriazione, dall’impianto documentario a quello concettuale – si basano ormai sull’uso di materiali di archivio e fonti non fotografiche. Si vedano, per es., tra i tanti, i casi di Joachim Schmid che da oltre un ventennio, con metodo warburghiano (Joachim Schmid e le fotografie degli altri, 2012), lavora esclusivamente con immagini trovate, o di Eric Rondepierre che realizza le sue opere fotografiche a partire da anonimi film deteriorati, consunti, esplorandone le suggestioni narrative e la materialità. O quello più recente di Cristina De Middel che nel 2012 ha riscosso grande successo e visibilità con un libro autoprodotto, The Afronauts, che affronta tematiche postcoloniali intersecando fotografie originali, perlopiù allestite, immagini vintage, testi e materiali grafici. O ancora, i molti progetti innovativi di impianto documentario (per es. Love me, il libro di Zed Nelson del 2009 dedicato al tema della «globalizzazione della bellezza») basati non tanto – o non più – su una ricerca di coerenza stilistica, su un’esigenza di originalità dello sguardo, ma sull’articolazione critica di immagini spurie e linguaggi diversi, attraverso il montaggio di fotografie originali, immagini trovate in rete e altri materiali visivi.
Da almeno due decenni, poi, tutta un’area della ricerca visuale contemporanea, artistica e fotografica, si basa direttamente sulla rielaborazione di immagini, più o meno conosciute, dell’era analogica. E di immagini attuali di dominio pubblico. Gli artisti operano sia a livello di (ri)allestimento della rappresentazione (per es. Vik Muniz, Adi Nes, Jemima Stehli), sia a livello di postproduzione, intervenendo digitalmente su icone storiche (Joan Fontcuberta, v., in Landscapes without memory, rielabora fotografie e dipinti del 19° e del 20° sec., Michael Somoroff, con la serie Absence of subject, rielabora alcuni celebri ritratti di August Sander).
La contaminazione tra vecchi e nuovi immaginari, e vecchie e nuove tecnologie, interviene diffusamente e profondamente anche al livello delle pratiche professionali. È ormai frequente, per es., l’abitudine di compiere i sopralluoghi preliminari di un lavoro, specie in ambiti come il paesaggio o il reportage, utilizzando strumenti quali Google maps e Street view. La f. di ricerca si è rapidamente e voracemente appropriata dei nuovi oggetti (smartphone, webcam ecc.) e regimi tecnologici (database e strumenti di ricerca su Internet, sistemi di mappatura satellitare ecc.), piegandoli sia a utilizzi che si sviluppano nel solco di generi fotografici tradizionali come il paesaggio, la street photography o il reportage (tra gli esempi possibili, la serie Post cards from Google Earth, del 2010, dell’artista statunitense Clement Valla, che sfrutta gli errori di calcolo dell’omonimo programma per ricavarne scenari innaturali e fantascientifici; la ricerca Street view di Michael Wolf, che isola invece dal web figure misteriose e situazioni inquietanti; il progetto The Arab revolt, iniziato nel 2011 da Giorgio Di Noto, che riproduce in Polaroid, e poi con altre tecniche analogiche, fotogrammi di video della Primavera araba realizzati con smartphone e webcam e diffusi in rete da utenti anonimi), sia ai regimi discorsivi e agli spazi espositivi dell’arte contemporanea: sempre nel 2011 gli artisti inglesi Adam Broom berg e Oliver Chanarin, con il libro War primer 2, hanno realizzato un remake della Kriegsfibel di Bertolt Brecht, appropriandosi dell’opera – un libro del 1955 a sua volta ricavato da immagini della Seconda guerra mondiale prese da «Life» e da altre riviste illustrate – e sovrapponendo alle fotografie storiche nuove immagini – ma le didascalie restano quelle originarie – relative alla cosiddetta war on terror scatenatasi dopo l’11 settembre 2001. Pubblicato a tiratura limitata, il progetto, tra i vincitori del Deutsche Börse Photography Prize del 2013, è stato poi riproposto in forma di installazione nella mostra New photography 2013 presso il Museum of modern art di New York.
La virtualizzazione, i libri, la postproduzione. – In apparente controtendenza rispetto alla grande diffusione della tecnologia digitale e alla generale ‘virtualizzazione’ – ossia migrazione in rete – dei contesti di fruizione della f. (la stragrande maggioranza dei fotografi ha ormai un blog o un sito Internet che illustra la propria opera e, sempre più spesso, rende conto anche dei progetti in corso di elaborazione), negli ultimi anni si è assistito anche a un notevole sviluppo della forma-libro. Si è già fatto riferimento ad alcuni episodi. Un altro caso recente e interessante è quello del libro di Nicolò Degiorgis, Hidden islam, vincitore al Festival di Arles del 2014 e imperniato su una doppia lettura, ‘interna’ ed ‘esterna’ del fenomeno islamico nel mondo occidentale: una duplice interpretazione cui corrispondono due stili visivi, dove coesistono colore e bianco e nero, e un progetto grafico finalizzato a porre in rilievo la contrapposizione alla base del progetto. Ma anche in questo ambito, più che di una battaglia conviene parlare di una dialettica complessa. Di impostazione assai più classica, e ciò nonostante ampiamente premiati dal mercato, sono altri libri realizzati da autori molto noti, la cui produzione evidenzia una più decisa linea di continuità con la tradizione del libro fotografico novecentesco, ormai assurto al rango di feticcio culturale di massa. Tra i molti esempi possibili, il fortunato libro di Sebastião Salgado, Genesi, del 2013; quello di Nan Goldin, Eden and after, del 2014; e il volume di Roger Ballen, Asylum of the birds (2014).
Non si tratta dunque solo di tecnologie, che pure hanno un’influenza importante nelle scelte legate alla f. (si pensi alla moltiplicazione del punto di vista consentito dai droni, ormai anche amatoriali), le cui direttrici negli ultimi anni hanno seguito in linea generale quelle degli anni precedenti. Merita tuttavia sottolineare la tendenza, promossa dal digitale e diffusa a livello sia professionale sia amatoriale, a dare la priorità alla ‘postproduzione’ piuttosto che alla produzione fotografica: mentre le fotocamere consumer perdono il mirino (che nei cellulari, per es., non è previsto), una parte significativa della realizzazione dell’immagine si svolge ora dopo lo scatto, attraverso strumenti di modifica manuale professionali (Photoshop) o anche automatici (diffusi nelle applicazioni più popolari). Una delle conseguenze di questo è una diversa percezione del realismo fotografico: sia il cinema sia la f. dei settimanali popolari (e, per influenza di questa, quella autoprodotta) propongono modelli, in particolare di ‘bellezza’, del tutto estranei a quel realismo che la stessa f. aveva accreditato dalla sua nascita, eliminando ‘difetti’ più apparenti che reali e confondendo, per es., le rughe di espressione con quelle di invecchiamento.
Il fotogiornalismo. – Quella della postproduzione è una pratica che diventa problematica in un settore strategico come il fotogiornalismo. Qui l’avvento del digitale si è inserito in una crisi avviata da qualche decennio e ha accelerato cambiamenti già in corso per altri motivi nella produzione, nella diffusione e nella ricezione delle immagini dei reporter. Accanto a una difficoltà del mestiere (minacciato da reporter amatoriali che si autopromuovono attraverso i social network) e delle agenzie (ma soprattutto delle piccole e medie rispetto alle maggiori, anche queste del resto minacciate da colossi on-line come Corbis e Getty, che occupano il 60% del mercato definendo i costi delle immagini), bisogna infatti aggiungere la diffusa pubblicazione delle immagini, più che sulla stampa, sulla rete, che peraltro permette una ibridazione della f. con prodotti video o multimediali che ne modifica parzialmente la funzione orginaria. Questo ha posto con maggiore frequenza problemi riguardo alla credibilità (decisiva per le immagini di reportage) delle fotografie proposte, in cui gli interventi successivi del fotografo a volte risultano difficili da verificare. In Italia questi cambiamenti e la crisi del mercato editoriale e pubblicitario hanno portato nel 2009 alla chiusura dell’agenzia Grazia Neri, attiva dagli anni Sessanta: dei 10 milioni di immagini dell’archivio, una parte è stata restituita ai proprietari, mentre alcuni fondi sono stati depositati presso il Museo della fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo (anche questo alle prese con una crisi che in Italia non è mai solo economica).
In ogni caso il fotogiornalismo come genere presenta una sua vitalità, come ha dimostrato anche la celebrazione nel 2007, attraverso mostre ed eventi, del 60° anniversario della storica agenzia Magnum, mentre il lavoro dei grandi reporter è tuttora apprezzato sia nei principali canali di distribuzione (o nei premi internazionali come il World press photo, che però nel 2011 ha introdotto la sezione Multimedia, riservata a documentari e media interattivi), ma anche – così come quello degli artisti – nelle gallerie d’arte, nelle mostre e nei festival. Reporter di formazione come il francese Luc Delahaye e il belga Carl De Keyzer, per es., per lunga parte della loro carriera referenti di punta dell’agenzia Magnum, operano ormai in ambiti discorsivi a metà strada tra documentazione e ricerca estetica, pubblicando reportage di guerra su riviste ed esponendo in musei e gallerie, mentre un altro fotografo francese, il più giovane Antoine D’Agata, anch’egli rappresentato dalla storica agenzia, ha subito esordito con lavori fortemente sperimentali, onirici e introspettivi, decisamente spostati sul versante della f. di ricerca.
Entrata ormai a tutti gli effetti nel mondo dell’arte, la f. di reportage ha anche riaffermato con forza la sua vocazione etica e politica. Mentre si susseguono notizie e immagini sempre più preoccupanti dai molti scenari di guerra e miseria disseminati nel pianeta, i reporter da un lato continuano a perseguire la strada della testimonianza diretta sul campo (sempre più spesso a rischio della vita: Tim Hetherington è morto in Libia nel 2011 durante le insurrezioni contro il regime di Muammar Gheddafi; nel solo 2014: Anja Niedringhaus in Afghānistān, Luke Somers nello Yemen, Camille Lepage nella Repubblica Centrafricana, Andrey Stenin e Andrea Rocchelli in Ucraina, e l’elenco potrebbe continuare a lungo), dall’altro tentano di sperimentare approcci più allusivi, aperti a temi di rilevanza generale: John Stanmeyer, nel 2014, ha vinto la sezione Contemporary issues del World press photo con un’immagine notturna e misteriosa scattata a Gibuti, dove alcuni migranti in transito alzano al cielo i loro smartphone cercando di captare un segnale dalla vicina Somalia; Paul Hansen, l’anno precedente, aveva vinto con un’immagine molto più classica, che mostra un gruppo di uomini che trasportano i corpi di due bambini morti in una strada di Gaza.
La musealizzazione e lo studio della fotografia. – Se la f. ha da tempo trovato spazio nelle esposizioni d’arte, un discorso a parte merita la sua musealizzazione, che in molti Paesi assume ancora forme espositive tradizionali, ma che comunque è un segno dell’accoglimento della f. nel patrimonio storico e culturale nazionale: un modello fortunato è stato quello di museo di storia della f., quindi della sua tecnica e degli aspetti culturali e sociali legati all’immagine ottica (George Eastman House di Rochester negli Stati Uniti, Foto Museum di Anversa, Fotomuseum di Monaco); a questo si è accostato un modello più concentrato sull’arte e sulla cultura fotografica (Musée de l’Elysée di Losanna, Museo metropolitano della fotografia di Tokyo, Maison européenne de la photographie di Parigi). In aggiunta ad altri musei più impegnati sulle tecniche e sulle attrezzature fotografiche o su singole collezioni, numerose sono anche le esperienze di inclusione della f. in istituzioni museali più tradizionali, che conservano opere pittoriche o altri generi iconografici (MoMA di New York, Victoria & Albert Museum a Londra, Musée d’Orsay a Parigi). Le esperienze più recenti sono nate generalmente da raccolte fotografiche ereditate da altri istituti (Museum für Fotografie di Berlino, Nederlands Fotomuseum di Rotterdam), e si dedicano attivamente non solo alle esposizioni, ma a iniziative educative e culturali trasversali, organizzano festival e pubblicano riviste. Alcuni, e non solo per mancanza di collezioni storiche, danno la prevalenza alla f. contemporanea, mentre altri, come il Fotomuseum di Winterthur, fondato nel 1993, hanno scelto di accogliere l’accezione più ampia di cultura fotografica proponendo ogni genere di f., artistica, documentaria, antropologica, medica, familiare ecc., dal 19° al 21° sec., divenendo in questo un punto di riferimento in Europa e aprendo prospettive importanti per il futuro.
Le risorse comunicative e linguistiche della f. ne fanno un oggetto duttile e ricco di potenzialità anche educative soprattutto nell’era digitale, in cui anche la f. d’archivio può costituire un veicolo di conoscenza storica ed estetica per le nuove generazioni. Nonostante il moltiplicarsi di scuole specializzate ed eventi fotografici, l’Italia ancora non si è dotata di un luogo di conoscenza fotografica di livello nazionale. Un problema che riguarda anche la sua conservazione (in Italia la f. è stata accolta tra i beni culturali solo nel 1999) e quindi le risorse economiche da destinare al suo restauro, alla digitalizzazione e alla catalogazione, e alla conseguente disponibilità delle informazioni in sistemi di consultazione on-line e condivisi. Infatti, nonostante la riduzione significativa dei costi negli ultimi anni, il recupero di un patrimonio, che nel nostro Paese consiste in diverse decine di milioni di documenti, richiede a tutt’oggi un impegno molto oneroso.
Gli studi sulla f., infine, hanno subito in ambito accademico alcune trasformazioni dovute a un parziale riordinamento disciplinare e a suggestioni che derivano dai Cultural studies e dai Visual studies. In Italia la f., accolta nelle nostre università in tempi relativamente recenti, si studia in diverse aree accademiche: cinema e televisione, arte, antropologia, beni culturali. Solo da alcuni anni però si è cominciato a superare un approccio prevalentemente storico-artistico e si sono iniziati a esplorare campi come le relazioni tra f., cinema e gli altri media, il suo rapporto con il mondo digitale e i social network, e a sperimentare categorie concettuali nuove come ‘regime scopico’ o ‘cultura visuale’.
Bibliografia: M. Poivert, La photographie contemporaine, Paris 2002 (trad. it. Torino 2011); Ch. Cotton, The photograph as contemporary art, London-NewYork 2004 (trad. it. Torino2010); F. Ritchin, After photography, New York 2009 (trad. it.Torino 2012); Q. Bajac, Après la photographie? De l’argentique à larévolution numérique, Paris 2010 (trad. it. Roma 2011); J. Fontcuberta, La cámara de Pandora. La fotografi@ después de la fotografía, Barcelona 2010 (trad. it. Roma 2012); G. D’Autilia, Storia della fotografia in Italia, dal 1839 a oggi, Torino 2012; G.D. Fragapane, Realtà della fotografia. Il visibile fotografico e i suoi processi storici, Milano 2012; Joachim Schmid e le fotografie degli altri, a cura di R. Valtorta, Monza 2012.