Francesco Calasso fu un innovatore e un grande organizzatore di cultura. Di lui e della sua opera molto è stato scritto sia durante la sua vita, sia dopo la morte prematura «turbato ordine mortalitatis» (Betti 1965, p. 3). I necrologi ne misero in luce il «fascino» personale (Gabrieli 1969, p. 117), la vocazione per l’università e l’inclinazione alla «sintesi» (Jemolo 1966, pp. 342-43), la «fantasia creativa» (Cesarini Sforza 1965, p. 356), la volontà decisa di restituire al diritto la sua «storicità» nel rifiuto del positivismo e della Dogmengeschichte (Biscardi, in Grandezza e umanità di Calasso, 1968, pp. 126, 129), la «fede nella storia, che è fede nella civiltà e nel diritto che ne è un’espressione» (Ghisalberti 1965, p. 201), l’aver speso «una vita per il diritto» (Bellomo 1967, p. 9) e complessivamente la «grandezza e umanità» (Grandezza e umanità di Calasso, cit., pp. 133-144). Si è anche insistito sul rinnovamento metodologico (Feenstra 1966) e «della disciplina» (Cesarini Sforza 1965, p. 356). Ricevette inoltre l’elogio di avere ricostruito nella storia del pensiero giuridico «il quadro di un’epoca, l’organizzazione e la vita di una società, le linee fondamentali di una civiltà» (Nicolò, in Grandezza e umanità di Calasso, cit., p. 134).
Calasso nacque a Lecce il 19 luglio 1904. Si laureò in giurisprudenza nel 1927 a Roma con Francesco Brandileone; nel 1928 diventò assistente; nel 1929 ebbe la libera docenza e nel 1930, dopo avere studiato in Germania, ricevette l’incarico di storia del diritto italiano nell’Università di Urbino.
Nel 1932 vinse la cattedra a Catania; fu poi a Modena (1933), a Pisa (1934) e a Firenze (1935-45). Nella primavera del 1944, dopo l'uccisione di Giovanni Gentile, fu detenuto per venti giorni alle Murate – il carcere fiorentino – insieme ad altri intellettuali antifascisti, prova da parte sua «d’amare poco i padroni di quel tempo e di esserne poco amato» (Fiorelli 1967-1968, p. 7). Finita la guerra fu chiamato a Roma (1945), dove insegnò fino alla morte e dove dal 1955 fu preside della facoltà giuridica.
Fu socio, prima corrispondente (1947) e poi nazionale (1958), dell’Accademia dei Lincei, oltre che socio di altre accademie; nel 1954 vinse il premio dei Lincei.
Con Filippo Vassalli e poi con Pietro de Francisci diresse la «Rivista italiana per le scienze giuridiche»; nel 1957 fondò gli «Annali di storia del diritto», e dal 1958 diresse l'Enciclopedia del diritto. Morì a Roma il 10 febbraio 1965.
La sua biografia intellettuale è stata tracciata, con la sobrietà che è loro propria, dai due primi allievi, in un lungo ‘ricordo’ (Fiorelli 1967-1968) e in una levigatissima voce biografica (Cortese 1973). Egli ebbe l’omaggio, più unico che raro, di un volume di scritti di suoi studenti degli ultimi anni (Gli allievi romani in memoria di Francesco Calasso: studi giuridici raccolti a cura del Gruppo studentesco europeo, 1967), mentre rimase incompiuta un’iniziativa in memoria da parte della sua facoltà; nel 1978 gli allievi della sua ‘scuola’ raccolsero per lui un libro di studi (Per Francesco Calasso: studi degli allievi).
Le prime polemiche
La novità delle posizioni di Calasso non fu accolta da tutti, e questo innescò una querelle molto vivace, che si svolse su vari fronti.
In primo luogo, la polemica di Calasso si svolse sul fronte del diritto comune, contro Emilio Bussi (v. la recensione al libro di quest'ultimo, Intorno al concetto di diritto comune, 1935, pubblicata nella «Rivista di storia del diritto italiano», 1936, 9, pp. 331 e segg., poi negli «Annali di storia del diritto», 1965, 9, pp. 569-73), contro Teobaldo Checchini (in Elogio della polemica, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 1950, 1-4, pp. 394-414, poi in Storicità del diritto, 1966, pp. 93-124), contro Francesco Carnelutti (nei saggi Metodo e poesia: conversazione con Francesco Carnelutti, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 1952-1953, 6, pp. 388-96; Colloquio con i giuristi, in Scritti giuridici in onore di Mario Cavalieri, 1960, pp. 134-45; Storicità del diritto e scienza del diritto, in Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, 1963, 4° vol., pp. 662-84; tutti poi in Storicità del diritto, cit., pp. 125-40, 155-71, 173-99), contro altri, fino alle critiche che gli vennero dopo la morte da chi espresse riserve «sulla riduzione del diritto italiano a storia del diritto comune, della quale [...] essa fu solo un elemento» (Marongiu 1965, pp. 380-81).
Calasso condusse la sua polemica anche su singoli temi specifici, come quello delle origini italiane o francesi della formula rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator («il re che non riconosce un superiore nel proprio regno è imperatore»), che si estese al problema della sovranità e che lo contrappose a Francesco Ercole (in I glossatori e la teoria della sovranità, 1945, pp. 22-30, 110-12, 126-62), o quello sulla rilevanza del pensiero canonistico, che lo rese ‘antagonista’ al pensiero di Sergio Mochi Onory (I glossatori e la teoria della sovranità, cit., p. XVIII e passim).
Della sua opera complessiva si discusse e si scrisse molto, in quanto subito emerse con forza la verve battagliera che segnò quasi tutta la sua attività, e che talvolta è evidente nei titoli stessi (come quello del citato Elogio della polemica).
Le discussioni furono alimentate dal coraggio, dalla decisione e dall’autorevolezza con i quali egli pose il tema del diritto comune al centro della storia del diritto italiano ed europeo nel Medioevo: come scrisse Ennio Cortese (1982), citando Bruno Paradisi, egli
rivelò subito, con immediatezza, l’intenzione non soltanto di rivedere le opinioni correnti su quel fatto storico, ma anche di scrivere la storia del diversamente da quanto si era fatto sino a quel momento (p. 798).
Allora era ancora forte la tradizione che considerava il diritto medievale come un’appendice del diritto romano, sotto la suggestione di Friedrich Carl von Savigny e di altri con lui, come Paul Koschaker (v. F. Calasso, Tradizione e critica metodologica, in Introduzione al diritto comune, 1951, pp. 3-32, in partic. pp. 25-26); ed era altrettanto forte, sotto l’influenza del positivismo, la tradizione storiografica che, al più, si era spinta a concepire il diritto medievale come l’incontro di tre elementi, o ‘fattori storici’, quello romano, quello germanico, quello canonico.
Tra coloro che erano legati a questa visione delle cose c’era anche Enrico Besta, che quando Calasso cominciò, nemmeno trentenne, a scrivere di queste vicende, aveva il doppio dei suoi anni ed era, soprattutto e a ragione, lo storico giurista più autorevole e più rispettato di tutti. Eppure il giovane Calasso entrò decisamente, e a più riprese, in polemica con lui (v. Il problema storico del diritto comune, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta per il XL anno del suo insegnamento, 2° vol., Storia e diritto, 1939, poi in Introduzione al diritto comune, cit., pp. 80-136, 215-16; Medio evo del diritto, 1° vol., Le fonti, 1954, pp. 59-66), anche se gli riconobbe il merito di essersi posto «apertamente» il problema del diritto comune (Tradizione e critica metodologica, cit., p. 14 nota 13).
Il diritto comune fu il tema sul quale Calasso si arrovellò sempre, fin dall’inizio del suo lavoro. Questo merito gli fu riconosciuto da Paradisi: già nel 1946, tracciando un bilancio della storiografia giuridica, questi indicò in Calasso chi aprì «la nuova pagina nella storia della nostra disciplina» (Paradisi 1946-1947, poi in Id., Apologia della storia giuridica, 1973, pp. 168-70 ).
Più tardi, lo stesso Paradisi si distaccò apertamente dalla posizione di Calasso e formulò proposte diverse (v. Il problema del diritto comune nella dottrina di Francesco Calasso, in Il diritto comune e la tradizione giuridica europea, Atti del Convegno di studi in onore di Giuseppe Ermini, 30-31 ottobre 1976, a cura di D. Segoloni, 1980, poi in Id., Studi sul Medioevo giuridico, 2° vol., 1987, pp. 1010-12), ma il confronto e lo scontro delle idee fanno parte della dinamica degli studi, e quello che Calasso prospettò sin da giovane a sé e agli altri fu, soprattutto, un problema vissuto sempre come tale: «posi, dunque, in termini cauti un problema, vale a dire un’ipotesi di lavoro, e non un dogma di fede, che si accetta o si respinge» (Elogio della polemica, cit., p. 119).
La sua soluzione fu semplice, solo che l’approccio al diritto medievale non fosse dogmatico o positivistico, ma esclusivamente storico.
In fondo, ponendosi il problema del diritto comune Calasso si pose il problema del metodo attraverso il quale studiare i fenomeni storico-giuridici: «io ho sempre creduto che il metodo di una scienza non è che il problema di quella scienza» (Metodo e poesia, cit., p. 138).
Certo, si poteva studiare la circolazione dei testi normativi – le fonti – secondo una tradizione e una metodologia erudita che poi fu detta ‘filologica’.
Aveva fatto così Federico Patetta, un altro tra i maggiori, che si rifaceva anche lui all’impostazione data da von Savigny e da chi, in Germania e in Italia, ne aveva seguito le tracce.
Così si scoprì una quantità di scritti perduti e si recuperarono strumenti fondamentali di lavoro: è un metodo che è stato praticato moltissimo, e con profitto, anche dopo Calasso – si potrebbe dire addirittura nonostante Calasso – in Europa come in Italia, trovando la sua espressione più alta in Domenico Maffei e in Cortese, quest'ultimo allievo di Calasso.
Così, inoltre, si ricostruì la storia positiva delle fonti del diritto, se ne studiarono datazione e paternità, si affrontarono questioni di critica del testo, sulla strada di una ‘storia esterna’ delle fonti, secondo un’espressione di Antonio Pertile (v. Elogio della polemica, cit., p. 106).
Per Calasso, questo fu il metodo di Guido Astuti, uno dei migliori allievi di Patetta, al quale riservò due recensioni (a Lezioni di storia del diritto italiano: le fonti: età romano-barbarica, 1953, e a I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, 1952, 1° vol., Parte generale, pubblicate in «Annali di storia del diritto», 1965, 9, pp. 581-85, 585-93), sulle fonti del diritto e sui contratti obbligatori, due argomenti che furono entrambi grandi temi calassiani.
Questa per Calasso non era ancora storia, poiché la storia cominciava solo dopo la ricerca erudita. Nella citata prima recensione ad Astuti, egli affermò che in quel caso si sarebbe dovuto fare in Germania, «lasciando da parte quella parola Geschichte ch’era stata tradizionale, ma fuori di posto, in altre classiche opere» (p. 583).
Scrivendo queste pagine, Calasso era ben diversamente maturo rispetto agli anni dell'invettiva durissima del 1936 contro Bussi, o della critica severa a chi aveva affrontato i suoi stessi temi, come quella del 1950 contro Checchini. Ma anche gli interlocutori erano diversi, e ciò gli consentì di confrontarsi di nuovo, e con grande chiarezza, con la storiografia giuridica italiana e di contestare a fondo la tradizione positivistica che la ispirava.
Incidentalmente, è il caso di ricordare, nella prima recensione ad Astuti, certe sue considerazioni contro il degrado della cultura universitaria chiamata a trasmettere un pensiero qualitativamente superiore: «per la solidarietà infrangibile del linguaggio della scienza pura e di quello destinato alla scuola» (p. 581).
Allora era impensabile la scissione, registrata più tardi (Irti 20052, pp. 68-69), tra cultura del ‘sapere’ del modello di università concepito da Wilhelm von Humboldt, e cultura del ‘saper fare’, ma se ne avvertivano le avvisaglie, scriveva Calasso ancora nella prima recensione ad Astuti, in «volumi raffazzonati e provvisori, con premessa la scusa [...] che sono tali appunto perché dedicati alla scuola e non a chi sa [...]» (p. 581).
Su questo andazzo Calasso fu irremovibile, sia per il suo crocianesimo, in base al quale egli affermava che la cultura, come lo spirito, era ‘una’, sia per l’impegno civile – di uomo, di insegnante, di studioso –, che lo indusse a credere, sempre, che insegnare e studiare fossero necessariamente tutt’uno, secondo la frase di Odofredo su Irnerio, che avrebbe cominciato a insegnare studiando.
La convinzione dei «compiti e doveri della scuola universitaria, come scuola di alta cultura ed essenzialmente formativa» (p. 582) rimarca un aspetto di una personalità molteplice, che si spese anche nella saggistica politica e che preparò un progetto di riforma degli studi della facoltà di Giurisprudenza (articolato su un biennio comune e un secondo di specializzazione) che, se avesse trovato attenzione, forse avrebbe evitato tanti scempi successivi.
Il confronto con Astuti è emblematico: da un lato l’allievo di Patetta, anche grande giurista, che proclama la propria fedeltà alla tradizione metodologica «comune alla dottrina storico-giuridica italiana e straniera», dall’altro l’allievo di Brandileone, soprattutto grande storico, che afferma una propria
storia delle fonti del diritto come vita del diritto, colto, quest’ultimo, nelle sue scaturigini più profonde, nel cui ripensamento dunque debbono essere rappresentate in primo piano le forze storiche che hanno confluito e circolato nel sistema giuridico, organismo vivente, del quale le fonti rappresentano come la sostanza protoplasmatica (p. 582).
Le rispettive posizioni non sono incompatibili, ma tendono a fini diversi, come nel confronto politico tendono (o dovrebbero tendere: Calasso fece riferimento al mondo anglosassone) a fini diversi la maggioranza e l’opposizione: quello della conoscenza erudita e fattuale, quello della conoscenza storica, che ruota intorno a un asse che è il suo centro di interessi e che le attribuisce un senso più profondo.
In realtà, e così si torna alla questione del metodo, per lo storicismo romantico, dichiaratamente humboldtiano, e per l’idealismo di Calasso non era concepibile fermarsi alla selezione dei dati, ma si doveva procedere oltre e utilizzare strumenti diversi, che gli fecero accostare lo storico al poeta come autori di un atto creativo:
È ovvio che la constatazione del certo, cioè il dato, è il primo momento del processo mentale dello storico: l’ultimo è la reviviscenza del dato, che è atto individuale dello storico, cioè creativo (Metodo e poesia, cit., p. 129).
Però la creatività non si risolve, irrazionalisticamente, nell’intuizione di una linea evolutiva, ma procede attraverso le fonti verso «il problema che è alla base di tutti i possibili elenchi ragionatissimi e criticissimi» (così nella prima recensione ad Astuti, cit., p. 585), per comprendere il senso di un fenomeno giuridico: il problema è quello del valore storico e quindi quello «degl’istituti come organi viventi», dove Calasso fa proprio l’insegnamento di Bonfante, che «la funzione e l’efficacia degli elementi di un sistema si possa alterare, mentre rimane inalterata la sua struttura fondamentale» (pp. 590-91).
Dietro il problema del metodo prende corpo un’altra esigenza di fondo del lavoro complessivo di Calasso, l’attenzione congiunta ai problemi delle fonti e ai problemi degli ordinamenti, come attenzione congiunta ai fenomeni e agli istituti del diritto privato e a quelli del diritto pubblico, in una sorta di «inconsutile tunica che non era lecito dividere e affidare alle sorti» (Equità: premessa storica, in Enciclopedia del diritto, 15° vol., 1965, ad vocem, poi in Storicità del diritto, cit., p. 376).
Il grande ruolo avuto nella storiografia giuridica è stato riconosciuto a Calasso anche da chi lo ha criticato per il primato riconosciuto allo Stato di fronte agli altri ordinamenti:
A Calasso la storiografia giuridica deve [...] molto. La sua presenza [...] è stata incisiva e liberatoria [...] egli ha contribuito non poco a liberare la storia del diritto dalle secche delle storie locali [...] a recuperarla al piano arioso e fertile della storia di civiltà, a sottolineare la posizione della scienza giuridica al centro delle fonti e a concepire la storia giuridica anche come storia del pensiero (Grossi 1995, pp. 32-33).
Forse, il rapporto di Calasso con il mito dello Stato fu più complesso, se egli scrisse che «quel concetto di Stato che noi oggi diciamo di adoperare come dogma – ma che, teoricamente, è dei più controversi – il medio evo lo conobbe come problema, anzi lo pose» (Elogio della polemica, cit., p. 110).
In ogni caso, Calasso riscattò il mondo giuridico medievale dal mito, peggiore e ancora diffuso, di un diritto dei secoli bui, di un diritto di una decadenza che, partita dalla fine della civiltà giuridica romana, si sarebbe affrancata dalla barbarie solo con il ritorno alla civiltà giuridica, e che avrebbe trovato espressione nel fenomeno della codificazione del diritto in Europa sulle basi di una non meglio identificata ‘tradizione romanistica’, contro la quale egli polemizzò sempre (v. Colloquio con i giuristi, cit., pp. 163-65, e Tradizione critica metodologica, cit., p. 21).
Egli ebbe, inoltre, il merito di convincere anche gli storici del diritto che non esisteva un modello unico di civiltà, ma che esistevano anche le civiltà dei barbari, le quali, quando si esprimevano nelle loro prassi, nelle loro fonti semplificate e nei loro assetti istituzionali elementari, esprimevano di sé quanto potevano esprimere, per come e per quello che erano.
Ed ebbe, ancora, il merito di ordinare quel mondo medievale intorno a un concetto – il diritto comune: ordinamenti, istituti, fonti – che si poneva come centro di gravità di un sistema nel quale le parti si coordinavano con il tutto non come espressione di un ordine ‘dato’ che ai giuristi spettava solo di rilevare, ma come espressione di un’attività umana che, per lui, trovava espressione «nella grande intuizione vichiana, che il mondo è fatto dall’uomo» (Elogio della polemica, cit., p. 104).
Questa attività umana si era realizzata in forme giuridiche intorno a un gruppo di valori che, per lui, erano stati fondamentali: l’unità, certamente, ma anche l’equità che governava il tutto, tanto da fargli citare ripetutamente, con quel tanto di enfasi che usava per imprimere il suo pensiero in chi lo leggeva o lo ascoltava, che «aequitas est effectus unitatis» come «fondamentale armonia logica di tutto il diritto umano» (Il negozio giuridico, 19592, p. 260).
È difficile dire se Calasso abbia lasciato veramente una scuola. Egli fu, indubbiamente, come già rilevato, un grande organizzatore di cultura, con l’impresa dell’Enciclopedia del diritto, ideata con l’editore Giuffrè, e con la nascita di una rivista – gli «Annali di storia del diritto» – che nacque e morì con lui.
Ebbe molti allievi, perché fu un trascinatore, dotato di un forte senso di sé, che gli fece scrivere, a proposito delle proprie idee sul diritto comune, di «passaggio obbligato» (Elogio della polemica, cit., p. 119), e altrove – ma è un ricordo – anche di «colonne d’Ercole» che si dovevano passare.
Otto suoi allievi avevano già conseguito la libera docenza, e altri l’avrebbero conseguita più tardi; quasi tutti diventarono professori, e a loro se ne aggiunse qualche altro più giovane.
Ciascuno di coloro che gli furono allievi cercò la propria strada, che non coincise sempre con la sua: qualcuno fu, come lui, medievalista, qualche altro modernista; qualcuno costruì, con intelligenza sicura e cultura sterminata, modelli storiografici diversi dai suoi; qualcuno fu studioso pacato, qualche altro non fu alieno dalla polemica. Ma anche questa diaspora è significativa dell’importanza di Calasso nella storiografia giuridica, perché – come si è insistito più volte – egli pose una serie di problemi e lasciò agli altri tanto spazio per risolverli, ciascuno a modo proprio.
La legislazione statutaria dell'Italia meridionale, 1° vol., Le basi storiche: le libertà cittadine dalla fondazione del regno all’epoca degli statuti, Roma 1929 (rist. anast. Bari 1971).
La 'convenientia': contributo alla storia del contratto in Italia durante l’alto Medio Evo, Bologna 1932 (poi rifuso in Il negozio giuridico, Milano 1957).
Storia e sistema delle fonti del diritto comune, 1° vol., Le origini, Milano 1938 (poi rifuso in Medio evo del diritto, 1° vol., Le fonti, Milano 1954).
I glossatori e la teoria della sovranità. Studio di diritto comune pubblico, Firenze 1945, 19573 (con in appendice il Proemio di Marino da Caramanico al Liber Constitutionum).
Lezioni di storia del diritto italiano. Le fonti del diritto (sec. V-XV), Milano 1946 (poi rifuso in Medio evo del diritto, 1° vol., Le fonti, Milano 1954). Lezioni di storia del diritto italiano. Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento, Milano 1947 (poi rielaborato in Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, Milano 1949, 19532).
Introduzione al diritto comune, Milano 1951.
Medio Evo del diritto, 1° vol., Le fonti, Milano 1954.
Il negozio giuridico. Lezioni di storia del diritto italiano, Milano 1957, 19592, rist. 1967 (con una lezione inedita).
Scritti di Francesco Calasso, «Annali di storia del diritto», 1965, 9.
Storicità del diritto, a cura di P. Fiorelli, Milano 1966.
Cronache politiche di uno storico (1944-1948), a cura di R. Abbondanza, M. Caprioli Piccialuti, Firenze 1975.
L’unità giuridica dell’Europa, Soveria Mannelli 1985.
Per un elenco completo degli scritti di Calasso si veda:
Bibliografia degli scritti di Francesco Calasso (1928-1965), a cura di R. Abbondanza, «Annali di storia del diritto», 1965, 9, pp. XX-XLIII.
B. Paradisi, Gli studi di storia del diritto italiano dal 1896 al 1946, «Studi senesi», 1946-1947, 60, poi in Id., Cinquant'anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946, Napoli 1950, 2° vol., pp. 401-64, e in Id., Apologia della storia giuridica, Bologna 1973, pp. 105-72.
B. Paradisi, Indirizzi e problemi della più recente storiografia giuridica italiana , in Id., La storiografia italiana negli ultimi venti anni, 2° vol., Milano s.d. (ma 1970), pp. 1095-1160, poi in Id., Apologia della storia giuridica, Bologna 1973, pp. 173-258.
E. Cortese, Calasso Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 16° vol., Roma 1973, ad vocem.
B. Paradisi, Il problema del diritto comune nella dottrina di Francesco Calasso, in Il diritto comune e la tradizione giuridica europea, Atti del Convegno di studi in onore di Giuseppe Ermini, Perugia (30-31 ottobre 1976), a cura di D. Segoloni, Perugia 1980, pp. 169-300, poi in Id., Studi sul medioevo giuridico, Roma 1987, 2º vol., pp. 1010-12.
E. Cortese, Storia del diritto italiano, in Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Atti del Congresso nazionale, Messina-Taormina (3-8 novembre 1981), Milano 1982, pp. 785-858.
P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Bari 1995.
Per i necrologi, si vedano:
G. Astuti, «Annali di storia del diritto», 1965, 9, pp. VII-XVIII.
E. Betti, «Rivista giuridica umbro-abruzzese», 1965, 41, p. 3.
W. Cesarini Sforza, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1965, 2, pp. 356-57.
E. Cortese, «Bullettino dell’Istituto di diritto romano», 1965, 48, pp. 365-79.
C. Ghisalberti, «Clio», 1965, 1, pp. 185-207.
A. Marongiu, «Nuova rivista storica», 1965, 49, pp. 371-84.
E. Cortese, «La rassegna pugliese», 1966, 4, pp. 324-41.
R. Feenstra, «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis/Revue d'histoire du droit/The legal history review», 1966, 2, pp. 317-18.
A.C. Jemolo, C«Rendiconti della Accademia nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche», 1966, 21, pp. 72-813.
A.C. Jemolo, «La rassegna pugliese», 1966, 4, pp. 342-49.
C.G. Mor, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'alto Medioevo, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, Spoleto (22-28 aprile 1965), Spoleto 1966, pp. 47-53.
M. Bellomo, in Gli allievi romani in memoria di Francesco Calasso: scritti giuridici raccolti a cura del Gruppo studentesco europeo, Roma 1967, pp. 9-18.
P. Fiorelli, «Rivista di storia del diritto italiano», 1967-1968, 40-41, pp. 5-12.
Grandezza e umanità di Calasso, dossier di «La rassegna pugliese», 1968, 3 (in partic. A. Biscardi, Calasso o della storicità del diritto, pp. 126-32; i discorsi di R. Nicolò, P. Fiorelli}}, C.A. Graziani con la nota di R. Vaccarella, pp. 133-58).
F. Gabrieli, «La rassegna pugliese», 1969, 4, pp. 117 e segg.