CARRARA, Francesco
Nacque a Lucca il 18 sett. 1805 da Giambattista, ingegnere, e da Chiara Chelli. Figlio unico di una famiglia borghese piuttosto agiata, compì gli studi con maestri privati, tra le vigili cure materne e, tra gli altri, del noto commercialista genovese Gaetano Marrè. Frequentò in seguito il liceo universitario lucchese, dove l'avvocato Gaetano Pieri ("secondo padre", lo dice il C.: Alcune lettere, pp. 9 s.) lo guidò per primo agli studi penalistici sulle orme di Giovanni Carmignani.
Conseguita la laurea il 1º nov. 1827, il C. svolse a Firenze pratica di avvocatura nello studio di V. Giannini, ottenendo la abilitazione nel dicembre 1831. Si dedicò quindi a Lucca a un'intensa attività professionale, che si concentrò sempre più, salvo rare eccezioni, sulle materie criminalistiche e che gli guadagnò ben presto un'autorità indiscussa tra i penalisti. Nella seconda metà del secolo, quando numerose opere ne avevano ormai confermato la celebrità, diventò corrente un giudizio, che N. Gallo così sintetizzava: "F. C. oggigiorno governa, giudica ed insegna, compenetrato e trasfuso nella legislazione, nell'amministrazione della giustizia, nell'ateneo".
Lungi dall'esaurirsi nella minuta routine d'un pratico, l'avvocatura, infatti, si animò nel C., fin dai primi anni, degli ideali di una decisa battaglia civile per la riforma degli ordinamenti penali e processuali e per l'abolizione della pena di morte. Se già nel 1821 l'iniziativa di Byron per ottenere a Lucca la grazia di un condannato "eccitò le più calde simpatie della [sua] giovinezza fino al fanatismo" (Alcunelettere, pp. 55s.), per tutta la vita egli tenne fede alla "santa bandiera abolizionista" (ibid., p. 36), sostenendola nella prassi forense e con una folla d'interventi, di prolusioni e di scritti, confluiti negli Opuscoli di diritto criminale, pubblicati a partire dal 1859 e raccolti in due volumi una prima volta a Lucca nel 1867, ma giunti poi fino a sette nelle successive edizioni con nuove aggiunte e modifiche nella disposizione.
I toni ruvidi e schietti del suo carattere (amò sempre definirsi "cittadino lucchese e plebeo", accentuando fin nei tratti esteriori i modi rurali e paternalistici del suo liberalismo "toscano") impressero un pathos particolare alla campagna da lui condotta, che lo legò fin da giovane ai penalisti più noti in Italia e lo pose assai in vista nelle polemiche che si accesero dopo l'unificazione. Così nel 1845 fece scalpore la sua difesa a Lucca di cinque imputati, che non sfuggirono alla pena capitale, gettandolo per un momento nel più grande sconforto. L'episodio tuttavia valse a rafforzare i legami col Carmignani, cui si era rivolto per un appoggio, e dal quale ricevette una lunga lettera, pubblicata in seguito nel primo numero del Giornale per l'abolizione della pena di morte di P. Ellero (1861, pp. 265-267).
La campagna abolizionista, che il C. intensificò dopo l'Unità, influenzando anche un organo come La Nazione, segnò nettamente la sua attività nelle commissioni per il nuovo codice penale del Regno d'Italia.
Essa si nutriva certo di spiriti umanitari (il C., del resto, appoggiò ogni genere d'iniziative filantropiche a Lucca: cfr. per es. le due lettere al Fornaciari del 1841 e del 1844; Firenze, Bibl. naz., Cart. vari, cass. 39, nn. 84 e 85), largamente diffusi in un intero filone della penalistica italiana, legata ad una precisa lettura della tradizione beccariana e illuministica. Tuttavia, nel dibattito giuridico-politico che si svolgeva in Italia su questi temi, spesso in termini ormai più arretrati rispetto ad altri paesi europei, il C. portò il contributo di una visione più ampia, capace di allargare il confronto, e una chiarezza insolita negli obiettivi, che gli consentì sempre di cogliere o di suscitare tutte le alleanze possibili.
Così, a partire dal 1864, fece via via tradurre e stampare a Lucca i maggiori scritti stranieri sulla pena di morte, come quelli del Mittermaier, del Geyer, del Rolin, del Lucas, del Weber. Sollecitò a più riprese "l'aiuto dei nostri fratelli di Europa" (cfr. le lettere al Mittermaier del 26 ott. 1864 e del 12 marzo 1867: Heidelberg, Universitätsbibl., Heidelb. Hs.3468, cc. n. n.); incoraggiò le accademie scientifiche e i professori influenti delle università, come il Paoli, il Brusa, il Tolomei; appoggiò e orientò magistrati e parlamentari come Cesarini e Martini; mantenne relazioni assai strette con giuristi e politici in prima fila nell'azione riformatrice, come Pisanelli, Conforti, Mancini. Non condivise i principi della "scuola correzionalista", considerati espressione d'una "seduzione del cuore" e di un'"ansia del desiderio", che conduceva a confondere il "principio ascetico" e cristiano della redenzione del reo "col principio politico" della tutela giuridica.
Di tale indirizzo il C. temé particolarmente "le esagerazioni", e che "il mal frutto delle medesime [potesse] aiutarsi della paura per ricondurre il giure penale sotto la funesta dominazione del terrore" (cfr. Emenda del reo assunta come unico fondamento della pena, in Opuscoli cit., 2 ediz., I, Lucca 1870, pp. 180-217).Tuttavia riconobbe come in quegli anni "la scuola correzionalistica [avesse] il suo perriodo dominante" e, pur convinto che essa poggiasse "sul falso", utilizzando concetti più propriamente spettanti alla "economia sociale", raccomandava di "lasciarla operare, perché ci aiuta nella demolizione dei ruderi delle scuole sanguinarie" (lettera a E. Brusa del 24 ott. 1864;cfr. Alcune lettere, pp. 37-39; cfr. anche ibid., pp. 40 ss.).
La sua opposizione alla pena di morte aveva dunque radici sostanzialmente diverse da quelle tipiche dell'utilitarismo tardosettecentesco: in una lettera al Tolomei del 14 sett. 1866 il C. scriveva: "ella però le si mostra contrario per soli riguardi di convenienza, mentre io le sono radicalmente contrario per principio di diritto" (ibid., p. 32); ed alcuni anni dopo, nell'articolo Mezzo secolo di pensieri sulla pena di morte (cfr. Opuscoli, V, Lucca 1874, pp. 61-69), ribadiva come tale misura, oltre che inefficace, gli apparisse nefasta "per mere deduzioni logiche di principii speculativi, indipendentemente dalle osservazioni pratiche": "a mostrarmi illegittima l'opera del carnefice bastò quello che io tengo come unico fondamento della ragione di punire", e cioè il principio razionale della "tutela giuridica, voluta dalla suprema legge dell'ordine".
Simili affermazioni, ripetute del resto in quasi tutte le opere, rinviavano apertamente a una concezione di origine giusnaturalistica (di "giusnaturalismo cattolico", più che illuministico - va precisato con il Bettiol), per la quale "il giure penale ha la sua genesi e la sua norma in una legge che è assoluta", e le sue "dimostrazioni […] devono essere deduzioni logiche della eterna ragione", nel cui "Codice immutabile" hanno il loro criterio di verità (cfr. Programma del corso di diritto criminale, parte generale, 7 ediz., I, Lucca 1889, pp. 55 s.). Tuttavia occorre notare che in queste pagine si profilava un preciso rapporto tra il diritto di punire, filosoficamente fondato, e una idea definita di Stato, come organismo naturale garante dei diritti individuali di libertà, che distingueva l'autore dalla maggior parte dei penalisti contemporanei, compreso il Carmignani, da cui aveva attinto non pochi concetti, ma al quale rimase ignoto un tale orizzonte.
A questa concezione il C. era giunto attraverso un itinerario culturale e ideologico, non privo neppure di significative esperienze politiche. Nel 1831 frequentò a Lucca un circolo giovanile d'orientamento mazziniano. Nel 1847 prese parte ai moti che provocarono la partenza di Carlo Ludovico (per il quale però espresse in seguito apprezzamenti anche positivi) e l'annessione di Lucca al granducato toscano. Nel 1848 sentì con forza le passioni patriottiche e gli ideali unitari. Si collocò tuttavia nell'area dei liberali moderati, negando, davanti al Guerrazzi, di appartenere ad alcun partito (Paladini, p. 44); sicché, se lo stesso anno assumeva la carica di colonnello della Guardia nazionale di Capannori, e scriveva al campo di Brescia a B. Corsi, capitano del contingente toscano: "Te felice che fosti a Curtatone! Te felice che sei costà" (Livorno, Bibl. comun. Labronica F. D. Guerrazzi, Autogr. Bastogi, cass. 12, ins. 758), diffidò in genere delle punte più radicali del movimento e non esitò a denunciare le fratture che avevano introdotto nel processo riformatore i "moti incomposti" che erano avvenuti in quell'anno (cfr. G. Puccioni e la cattedra di giure penale, in Opuscoli, I, p. 33).
Comunque, furono proprio i rivolgimenti politici del biennio rivoluzionario ad aprirgli la strada dell'insegnamento, che iniziò sulla cattedra di diritto penale nel liceo universitario lucchese alla fine del 1848. Seguirono anni di intenso lavoro scientifico e di fervore patriottico e unitario, non privo peraltro, come in molti toscani, di accenti e orgogli regionalistici, di cui è traccia in numerosi scritti scientifici, prolusioni e discorsi celebrativi. Tale orientamento poté poi saldarsi, in modo ne provvisorio, né occasionale, con l'ispirazione più profonda che animava la sua concezione dei compiti del nuovo Stato unitario e di una moderna legislazione, in occasione delle polemiche sull'unificazione legislativa nel campo penale. Costantemente ostile alla "manía frenetica di una esagerata unificazione", propria di chi "vorrebbe regalare all'Italia tutta le […] coglionerie sardo-gotiche" (cfr. lettera del 7 apr. 1868: Livorno, Autogr. Bastogi, cit., ins. 759), polemizzò contro la "precipitazione di unificar tutto" e la "mania di copiare le pessime leggi di Francia" (Alcune lettere, p. 64).
Collegò pertanto le indagini sulle tradizioni giuridiche delle province toscane (cfr. in partic. G. Puccioni ed il giure penale, e La cessata procedura lucchese, in Opuscoli, rispett. I, pp. 3-86 e II, Lucca 1870, pp. 43-70), con considerazioni più ampie Sulla crisi legislativa in Italia, scritte nel 1863 in risposta a una circolare del Pisanelli sulla progettata estensione delle leggi penali piemontesi alla Toscana (cfr. Opuscoli, II, pp. 167-214), nelle quali riconosceva che la disparità del regime giuridico in uno Stato unitario era "un inconveniente: grave inconveniente. Ma quando dalla unificazione dovesse soffrirne o la sicurezza in alcune province, o la giustizia in altre, non potria negarsi che quello inconveniente fosse un male minore" (ibid., p. 171).
Due anni dopo affrontava il tema con maggior respiro teorico nella prolusione Se la unità sia condizione del giure penale (ibid., pp. 7-30), riaffermando la validità universale dei "principii assoluti del giure penale", ma sottolineando anche la necessità che, "scendendo alle applicazioni concrete", occorresse piegare il regime giuridico alle "difformi condizioni dei popoli", sia pure con la cautela che "i sommi principii del giure penale si rispettino". Concludeva quindi che "il fatto dell'annessione, dal quale si svolgono tanti fenomeni politici e tanti fenomeni economici", non dovesse necessariamente produrre anche un unico "fenomeno giuridico".
Frattanto, nel 1859, il governo provvisorio, costituito a Firenze dopo l'insurrezione antilorenese, aveva posto mano a una riorganizzazione delle università toscane, colpite dai provvedimenti repressivi del granduca nel 1851. Il C. fu chiamato a ricoprire la cattedra pisana di diritto penale (grazie anche all'appoggio di G. Puccioni e soprattutto del Salvagnoli, uno dei principali esponenti dell'ala annessionista del movimento liberale toscano), proprio l'anno accademico che avrebbe visto insegnare a Pisa studiosi ed esuli come l'Amari, il Villari, il Ferrara, il De Sanctis (Firenze, Bibl. naz., Cart. vari, cass. 53, n. 147).
Lo stesso anno diede inizio alla stampa dei suoi lavori, pubblicando a Lucca il primo volume del Programma del corso di diritto criminale, completato poi soltanto nel 1870 con il nono volume e destinato a continui ritocchi e ampliamenti nelle sette edizioni curate dallo stesso autore (a partire dalla sesta comprese dieci volumi, di cui tre dedicati alla parte generale e sette alla parte speciale).
L'opera costituì la sintesi e il coronamento di tutta l'elaborazione filosofica e giuridica del pensiero penalistico italiano, a partire dal Beccaria, compiuto in un serrato confronto con le dottrine dei giuristi stranieri. Inoltre, specie nella parte speciale, dedicata all'esame analitico "dei singoli fatti coi quali si viola la legge" (ediz. cit., I, p. 57), essa si giovò del contributo di un'esperienza forense vastissima e dell'eredità di una tradizione di giurisprudenza pratica, che in Toscana aveva radici robuste e gloriose. "Ugualmente incontaminata dal fascino delle visioni trascendentali e dal brutale materialismo del secolo decimottavo" (ibid., p. 59), la linea di sviluppo cui il C. si richiamava trovava i suoi pilastri fondamentali nell'opera del Carmignani, di cui il Programma riprendeva e svolgeva "l'ordine eminentemente logico", e nella "toscana magistratura". Occorreva infatti coordinare i "monumenti giurisprudenziali" con un sistema, esaminando i singoli casi "secondo principii di ragione con un criterio tutto ontologico, per definire i rispettivi caratteri, distinguerne le fisionomie, e misurarne i gradi". Tale era la via da percorrere, dal momento che "la cattedra non guarda il giure penale che sotto il punto di vista filosofico; perché insegna non la scienza dell'Italia, ma i principii comuni a tutta l'umanità" (ibid., pp. 57 s.).
La pretesa filosofica di cogliere una verità superiore ed indipendente dall'autorità della legge positiva costituiva così la premessa per la costruzione di un sistema teorico, che "è stato il primo grande edificio scientifico del diritto penale in Italia" (Baratta, p. 35). Al suo centro si poneva la nozione rigorosamente giuridica di reato, onde "tutta la immensa tela di regole che col definire la suprema ragione di vietare, di reprimere, e di giudicare le azioni dei cittadini, circoscrive entro i dovuti confini la potestà legislativa e giudiciaria deve (nel mio modo d'intendere) risalire, come alla radice maestra dell'albero, ad una verità fondamentale". Tale "verità regolatrice di tutta la scienza", contenente "in sé il germe della soluzione di tutti i problemi che il criminalista è chiamato a studiare", era riassunta nella formula: "il delitto non è un ente di fatto, ma un ente giuridico", la cui "essenzialità" consiste "impreteribilmente nella violazione di un diritto" (Programma…, I, pp. 24-28). Con ciò il sistema proposto dal C. nasceva attorno a una concezione formale di antigiuridicità e si sviluppava secondo cadenze logico-deduttive, in cui l'ordine stesso degli argomenti discendeva da un fondamento logico posto come assoluto: "Delitto - pena - giudizio. L'ordine delle materie nel giure penale discende dalla natura delle cose. è inalterabile" (ibid., p. 57).
L'opera acquistava così un suo ruolo preciso nella storia moderna del formalismo giuridico. L'attribuzione di un significato assoluto alla nozione di diritto consentiva anche di distinguere una parte "teorica" del Programma, fondata sulla "verità", da una parte "pratica", oggetto dei "corsi di perfezionamento" e fondata sull'autorità della legge positiva. La rigorosa delimitazione della sfera giuridica da quella morale costituiva poi il fondamento logico dell'individuazione dei compiti della pena, la cui funzione era riconosciuta essenzialmente nella "tutela giuridica" o, in altri termini, nella difesa sociale. "Fine della pena non è l'emenda, bensì l'eliminazione del pericolo sociale. L'emenda, la rieducazione, può essere un risultato accessorio e desiderabile della pena, ma non la sua funzione essenziale, né il criterio per la sua misura" (Baratta, p. 36).
Se l'aspetto fondamentale dell'opera del C. consisteva nella costruzione di un sistema penale basato sulla "oggettività" del reato, che doveva inevitabilmente condurlo ad opporsi recisamente alle impostazioni della scuola positiva, orientata a respingere ogni prevalenza della considerazione oggettiva del reato su quella soggettiva del reo, occorre tuttavia anche notare che la trama teorica e ideologica sottesa al Programma implicava costantemente una teoria dello Stato, delle sue funzioni, dei suoi limiti. "Il magistero penale è destinato a proteggere la libertà individuale", mentre "la scienza criminale è la ricerca dei limiti interni ed esterni entro i quali soltanto lo Stato può tutelare i diritti umani con lo spogliare di un suo diritto l'uomo che li abbia attaccati": "Il diritto è libertà" (Programma, I, pp. 26, 29, 33, 54, ecc.).
A partire da una simile impostazione, appare chiaro il netto rifiuto del C. a "esporre la classe dei delitti politici" e la sua distinzione, che costituì senza dubbio una rilevante acquisizione in dottrina, tra "l'ufficio di polizia" e il "giure punitivo", denunciando ogni confusione del "magistero penale colmagistero di buon governo" (pp. 48 ss.).
Così si comprende anche la centralità che nella sua riflessione rivestirono sempre i temi di procedura, affrontati con la costante intenzione di circondare delle maggiori garanzie "il sacro diritto della difesa". Essi costituiscono la trama continua di una produzione vastissima, che ebbe punte di granderilievo storico e teorico soprattutto nei numerosi scritti intorno al jury, mentre le lettere offrono sullo stesso argomento una documentazione dell'azione politica e dell'attività svolta come organizzatore e consulente delle varie forze impegnate in questo campo, sempre condotte nella convinzione che "vi è tanta ruggine da purgare nel procedimento penale che […] vi vorrebbe un Ercole che si chiamasse Leopoldo I. Altrimenti bisogna aspettare l'opera lenta del tempo" (Alcunelettere, p. 27).Parallelamente alla pubblicazione dei vari volumi del suo Programma, il C.venne allineando anche una serie di saggi scientifici, destinati a preparare o ad approfondire gli argomenti trattati nell'opera maggiore. Dei vari scritti, confluiti in massima parte negli Opuscoli, si segnalarono gli studi sul Dolo (I, pp. 289-314);sul Grado nella forza fisica del delitto (ibid., pp. 337-628), dedicato alla dottrina del conato e della complicità, la cui prima stesura risaliva ad anni precedenti l'assunzione della cattedra pisana; sullo Stato della dottrina sulla recidiva (II, pp. 125-214);su Cesarini e le riforme alla procedura penale (IV, Lucca 1874, pp. 1-265), in cui è notevole particolarmente il paragrafo sulla Istruzione segreta (pp. 119 ss.);sul Tentativo (V, pp. 177-322), ecc. Nel 1874, a Torino, pubblicò anche, per i tipi del Bocca, dei Lineamenti di pratica legislativa penale, che rappresentano un'efficace sintesi della maggior parte delle sue dottrine. Nel 1876 comparve a Lucca un volume Del delitto perfetto, piùampio della trattazione corrispondente compresa nel Programma, mentre altri scritti sparsi di diritto penale furono poi raccolti a Lucca nel 1883 col titolo Reminiscenze di cattedra e foro.
Proprio in quest'opera si legge una delle più esplicite dichiarazioni di fede politica del Carrara. Oltre alla polemica contro il dispotismo, frequente anche altrove e indirizzata in questo caso contro Luigi Filippo, egli scriveva: "L'Italia si rialza dalle sue ceneri mercè l'opera indefessa e leale della Casa di Savoia aiutata dai liberali di ogni colore che con forze riunite spezzano il giogo austriaco e la chiamano a libertà. Libertà è stata la parola magica che ha sorretto l'italico risorgimento. è impossibile che la Nazione si consolidi se non si scalda a questa santa fiamma". Richiamava quindi "tutti i principii cardinali del liberalismo", pietre angolari della risorta nazione e garanzia essenziale delle libertà civili riconquistate: "Inviolabilità delle persone, degli averi, dei domicili; indipendenza dell'autorità giudiciaria, sola arbitra dei diritti dei cittadini; inviolabilità del rito al quale l'autorità deve subordinare i suoi oracoli" (cfr. p. 54: lo scritto è del 1880).
Dopo l'Unità il C. fu per tre volte deputato al Parlamento: nel 1863 per il collegio di Capannori; nel 1865 per quello di Lucca, e poi di nuovo nel 1867 per Capannori. Afflitto da una cecità progressiva, che nel 1864 appariva già grave (Livorno, AutografiBastogi, cit., ins. 760), prese parte limitatamente ai lavori parlamentari. Entrò invece nel 1866 nella commissione presieduta dal Pisanelli per la redazione di un codice penale del Regno d'Italia e vi svolse funzioni di rilievo. Non fu soddisfatto però dal suo procedere: l'anno dopo, il 12 marzo, riferiva amareggiato al Mittermaier dei numerosi intralci succedutisi per ragioni politiche (Heidelberg, ms. cit., cc. n. n.). Non fece parte della commissione incaricata di redigere il "Progetto Vigliani", i cui membri appoggiò col suo incitamento (Alcune lettere, pp. 24 ss.), e che comunque l'indusse a scrivere i Pensieri sul progetto di codice penale italiano (Lucca 1874). Entrò di nuovo in quella del 1876, nominata dal ministro Mancini. I vari contributi ai lavori preparatori furono poi raccolti nel secondo volume degli Opuscoli.
Nonostante la sua sfiducia per "questa tela di Penelope dei progetti italiani intorno ai quali ho dovuto per 10 anni continui ripetutamente sudare, e ripetere sempre le stesse cose, senza che nessuno mi desse mai retta" (cfr. lettera a B. Paoli del 4 sett. 1878: Livorno, Autografi Bastogi, cit., ins. 757), le sue dottrine esercitarono un'influenza decisiva sulla redazione finale del codice, come documentò minuziosamente soprattutto il Paoli.
Frattanto, nel 1869 il C. era intervenuto sui progetti di codice penale del Canton Ticino (Opuscoli, II, pp. 513 ss.), che in effetti risultò fortemente orientato dalle sue posizioni. Nel 1872 preparò anche un Foglio di lavoro per la Commissione sulla riforma carceraria (Opuscoli, IV, pp. 307-356).
Nel 1874 il C. venne sconfitto alle elezioni dall'avvocato Puccini nel collegio di Borgo a Mozzano, alla fine di una viva campagna elettorale che ebbe vasta risonanza. Già da qualche anno, però, egli appariva consapevole del declino della sua autorità scientifica e delle sue stesse convinzioni politiche. Intravide l'ascesa dei nuovi orientamenti criminologici della scuola positiva, ai cui temi aveva dedicato alcuni scritti, complessivamente minori nel quadro della sua opera (cfr. Opuscoli, III, Lucca 1870, pp. 33 ss.; VII, Lucca 1877, pp. 137 ss.), e seguì con scetticismo, gli avvenimenti che si susseguirono dalla metà degli anni Settanta.
Fin dal 1869 il C. aveva indicato con fermezza i limiti del processo unitario, affidato a una generazione, "la quale con mano mal ferma e inesperta si è posta al governo della pubblica cosa", sicché pareva a lui che perdurasse "la consuetudine dell'arbitrio" e che "l'edifizio delle libertà civili [fosse] tuttora da costruire" (cfr. Libertà e giustizia, in Opuscoli, III, pp. 631-644). Nel 1874 aderì con convinzione alle posizioni di liberismo classico della Società Adamo Smith, fondata a Firenze e animata da F. Ferrara, sullo sfondo di una polemica ormai matura intorno al tema basilare delle funzioni dello Stato e dei limiti della sua ingerenza nella vita economica.
Nel 1876 fu nominato senatore per la XX categoria (illustrazioni della patria). Mostrò entusiasmo per le speranze di rigenerazione suscitate dalla rivoluzione parlamentare. Fu perciò presidente dell'associazione progressista lucchese, allora fondata, per la quale pronunciò nell'ottobre un vibrante discorso. Tuttavia agli amici scriveva confidenzialmente: "Mi vollero gettare tra i ferri vecchi quando era sempre atto a servire"; e ribadiva due anni dopo: "La salita del Ministero di Sinistra è stata fatale per me" (cfr. le lettere a B. Paoli del 15 apr. 1876 e del 4 sett. 1878: Livorno, Autografi Bastogi, cit., ins. 757).
Negli ultimi anni la cecità divenne praticamente totale, sicché il C. si allontanò di rado da Lucca e dalle sue case in campagna, recandosi alle lezioni pisane, divenute deserte, sostenuto da due uscieri. Con l'aiuto di un segretario e del figlio Giambattista, attese ancora al riordinamento e alla pubblicazione dei suoi scritti.
Il C. morì a Lucca il 15 genn. 1888.
Nel 1879 aveva donato alla università di Pisa la sua biblioteca. Alla morte seguirono numerose commemorazioni ufficiali nelle varie sedi istituzionali; tra gli altri, alla Camera, l'on. Mordini si diffuse in un lungo elogio, nel corso del quale ricordò come nel 1872 il C. avesse rifiutato l'offerta governativa di una cattedra a Roma.
Fonti e Bibl.: Numerosi documenti, cimeli e manoscritti si conservano a Lucca presso il Museo Carrara della Biblioteca comunale (su cui cfr. E. Boselli, Il Museo Carrara, Roma 1890). Nella stessa collezione si trovano gli autografi delle Poesie giovanili, pubbl. a Lucca nel 1887, per lo più di nessun interesse, ma oggetto ugualmente di un lavoro di E. Boselli, F. C.poeta, Lucca 1899. Presso i discendenti a Lucca si troverebbero ancora documenti e carteggi, che non mi sono stati accessibili. Alcune lettere del prof. F. C.furono pubbl. dal figlio, Lucca 1891. Altre si conservano ined. a Firenze, Bibl. naz., Cart. Cafiero, cass. 5, n. 15; Cart. vari, cass. 25, n. 101; cass. 39, nn. 84-87; cass. 53, n. 147; cass. 128, nn. 47-51; cass. 456, n. 29; Cart. De Gubernatis, cass. 23, n. 113; Cart. Martini, cass. 7, n. 45; a Livorno, Bibl. Labronica F. D. Guerrazzi, Autogr. Bastogi, cass. 12, inss. 755-765; infine a Heidelberg, Universitätsbibl., Heidelb. Hs.3468. Un elenco completo delle pubblicaz. del C. fu fornito da V. Finzi, Bibliogr. carrariana, Firenze 1917, registrata dal Pagliaini, ma rimastami irreperibile. Tra le recensioni coeve, da segnalare E. Brusa, Sugli scritti di F. C., in Arch. giur., VII(1871), pp. 186-198; e Ch. Brocher, Etudes sur les principes fondamentaux du droit de punir et spécialement sur l'exposition qui en a été faite par M. le prof. C., in Rev. de droit intern. et de législ. comparée, X (1878), pp. 121-140. Notizie bio-bibliograf. e valutazioni di vario peso e natura si leggono soprattutto in: B. Paoli, Esposizione stor. e scientif. dei lavori di preparazione del Codice penale ital. dal 1866al 1884, Firenze 1884-85, passim; Onoranze funebri rese al prof. F. C., Lucca 1888; O. Scalvanti, F. C. nella storia polit. del giure penale, Pisa 1888; F. Buonamici, F. C., in Annuario della R. Univ. di Pisa per l'anno accad. 1888-89, Pisa 1889, pp. 159-165; C. Petri, Commemoraz. del prof. F. C., in Atti dell'Accad. lucchese di scienze, lettere e arti, XXVI(1890), pp. 3-55; B. Brugi, Una pagina di F. Forti e l'opera di F. C., in Per le onoranze a F. C. Studi giuridici, Lucca 1899, pp. 277-285; E. Ferri, F. C., ibid., pp. 297-306; V. Finzi, F. C. e la campagna per l'abolizione della pena di morte, ibid., pp.533-542; N. Gallo, F. C. e la scuola positiva, in La Nuova Antologia, 16 ottobre 1899, pp. 3-27; C. Paladini, F. C. cittadino lucchese e plebeo, Firenze 1920; U. Spirito, Storia del diritto penale ital., 3 ediz., Firenze 1974, pp. 21-24, 107-115; A. Santoro. F. C. e l'odierna scienza del diritto criminale, in La Scuola positiva, n. s., XVI (1936), pp. 219-241; E. Michiel, Maestri e scolari dell'Univers. di Pisa, Firenze 1949, pp. 528, 616, 659, 670; B. Petrocelli, Saggi di diritto penale, serie 2, Padova 1965, pp. 207-213; G. Bettiol, Scritti giuridici, Padova 1966, I, p. 39; II, pp. 559, 641, 927; Id., Diritto penale, 9 ediz., Padova 1976, pp. 14-21; A. Aquarone, L'unificaz. legislativa e i codici del 1865, Milano 1960, pp. 26 s., 73 s.; A. Salvestrini, I moderati toscani e la classe dirigente ital. (1859-1876), Firenze 1965, pp. 133, 200 s., 230; A. Baratta, Filosofia e diritto penale. Note su alcuni aspetti dello sviluppo del pensiero penalistico in Italia da Beccaria ai nostri giorni, in Riv. int. di filos. del dir., s. 4, XLIX (1972), pp. 34-36; G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura 1870-1922, Bari 1973, pp. 8, 51; M. Sbriccoli, Dissenso polit. e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento, in Quad. fiorentini per la st. del pens. giur. moderno, II(1973), pp. 638-643; M. Nobili, La teoria delle prove penali e il principio della "difesa sociale", in Materiali per una storia della cultura giuridica, a cura di G. Tarello, IV, Bologna 1974, pp. 422-24, 426-430, 437; G. Roncoroni, La legislazione penale ticinese dal 1816 al 1873, Pisa 1975, pp. 207 ss.