Francesco Carrara
Francesco Carrara è considerato il più illustre rappresentante della cosiddetta scuola classica di diritto penale, per il suo fondamentale contributo all’elaborazione di ‘principi razionali’ destinati a porsi quali riferimenti sul piano deontologico rispetto all’intero sistema delle discipline criminali.
Francesco Carrara nacque a Lucca il 18 settembre 1805. Frequentò il liceo universitario della medesima città. Laureatosi il 1° novembre 1827, svolse la pratica di avvocato a Firenze, conseguendo l’abilitazione nel 1831. Esercitò quindi a Lucca un’intensa attività professionale, unendo all’impegno a livello strettamente tecnico una particolare sensibilità per i principi di civiltà giuridica (tra i quali, in primis, il ripudio della pena capitale) tramandati da celebri esponenti del pensiero illuministico.
Il suo spirito profondamente liberale e il suo afflato patriottico lo condussero a manifestare la propria adesione ai movimenti del 1848, dei quali non condivise, tuttavia, le espressioni più radicali. Nello stesso anno venne chiamato a ricoprire l’insegnamento di diritto penale presso il Liceo universitario lucchese. Il 9 novembre 1859 assunse la carica di professore ordinario di diritto e procedura penale nell’Università di Pisa.
Nel 1860 cominciò a dare alle stampe il suo Programma del corso di diritto criminale, che (nelle sue due parti, generale e speciale) conoscerà diverse edizioni e rappresenterà la più alta espressione di un insegnamento volto a comunicare la passione per tale disciplina e insieme il rigore metodologico che il relativo studio imponeva. All'opera maggiore Carrara non mancò peraltro di affiancare un ampio novero di scritti dedicati agli argomenti più vari, che andò raccogliendo a partire dal 1859 negli Opuscoli di diritto criminale, anch'essi poi ristampati in numerose edizioni. Particolarmente significative anche due altre pubblicazioni, i Lineamenti di pratica legislativa penale (1874, 18822) e le Reminiscenze di cattedra e foro (1883), al cui interno venne inclusa una serie di contributi sparsi in materia sia sostanziale sia processuale.
Una volta proclamata l’Unità d’Italia, Carrara ebbe a sperimentare direttamente la vita politica, dapprima come deputato (nel 1863, nel 1865 e nel 1867) e successivamente (nel 1876) come senatore. Nel 1866 entrò a far parte della commissione presieduta da Giuseppe Pisanelli per la redazione di un codice penale per il Regno d’Italia, ma non invece della commissione redattrice del cosiddetto progetto Vigliani del 1874, in merito al quale egli ebbe tuttavia modo di svolgere un’ampia serie di rilievi nell’opera dal titolo Pensieri sul progetto di codice penale italiano del 1874, stampato in varie edizioni a partire dal 1874. Nel 1876 fu accolto nuovamente tra i componenti della commissione incaricata di redigere il codice penale dall’allora ministro della Giustizia Pasquale Stanislao Mancini.
Il suo amore per la scienza lo aveva condotto, frattanto, a dotarsi di una biblioteca personale ricca di oltre novemila volumi, che il 10 giugno 1879, donò alla Biblioteca dell’Università di Pisa, al fine di colmare le lacune da tempo lamentate nel settore del diritto criminale.
Affetto da progressiva cecità, Carrara ebbe tuttavia ancora il tempo di esaminare il successivo progetto Zanardelli del 1887, poche settimane prima di morire, a Lucca, il 15 gennaio 1888.
Rispetto al giusnaturalismo illuministico, l’opera di Carrara segna un progresso e un arricchimento ulteriori sul piano scientifico e culturale, consistente nel dotare di un fondamento razionale non soltanto gli interessi tutelabili mediante la pena, ma anche la definizione, da lui operata in termini particolarmente approfonditi, delle componenti essenziali del reato.
Quest’ultimo, secondo Carrara, esige in ogni caso la presenza di due requisiti: da un lato, la «forza fisica», quale si esprime in un comportamento materiale offensivo dei diritti dei consociati, dall’altro la «forza morale», la quale si identifica (nella forma del dolo o della colpa) con il profilo soggettivo e personale della «libera volontà» di attuare il suddetto comportamento. Da tali requisiti la legge positiva non sarebbe mai autorizzata a prescindere, avendo questa il solo compito di imputare ‘politicamente’ (e cioè in forza di un precetto statale) il fatto lesivo caratterizzato dal concorso degli elementi in questione.
Approfondendo il contenuto dei requisiti costitutivi del reato, è possibile, inoltre, ricollegarvi un duplice, importante profilo assiologico che caratterizza l’impostazione del grande criminalista.
Quanto al primo, deve ricordarsi come l’offesa a un ‘diritto’ venga da Carrara invocata allo scopo di sottrarre lo jus puniendi a qualsiasi motivazione di tipo utilitaristico. Egli osserva, in particolare, come la cosiddetta società civile non potrebbe esprimere la radice del diritto di punire, risultando essa, al contrario, l’effetto derivante da un principio di tutela (dei diritti di ognuno) già ravvisabile come preesistente al suo sorgere. Ai singoli diritti, da Carrara ritenuti inseparabili – prima ancora del costituirsi della società – dal dovere di rispettarli nei confronti degli altri individui (ravvisandosi in tale dovere, più che un limite alla libertà, lo stesso contenuto ‘razionale’ proprio di quest’ultima) verrebbe dunque ad affiancarsi, in una correlazione inscindibile, lo stesso potere punitivo, essendo, per l’appunto, ruolo esclusivo di quest’ultimo quello di garantire quei medesimi diritti individuali posti all’origine del suo riconoscimento.
Allo stesso tempo, affinché la pena possa assurgere a strumento legittimo di tutela giuridica, occorre, secondo Carrara, la presenza di un profilo valutativo ulteriore rispetto alla constatata violazione dei diritti dei consociati. Una volta ammesso, come sosteneva Cesare Beccaria, che ogni delitto per essere tale deve arrecare offesa alla società, resta invero da spiegare il perché la lesione anche di un diritto strettamente privato e individuale (si pensi alla proprietà della cosa nel furto) dovrebbe essere punita, nonostante la possibilità di fare ricorso alla sanzione civile del risarcimento del danno.
La risposta, secondo Carrara, consiste nel rimarcare la necessità che al danno individuale debba aggiungersi un riflesso di carattere sociale – denominato «danno mediato» – connesso al fatto che la possibile ripetizione dell’illecito risulta idonea a suscitare timore e allarme presso i «cittadini onesti», e al contempo può costituire l’occasione, per i «male inclinati», per imitare l’autore dell’offesa.
Di qui, come logico corollario, anche la funzione primaria attribuita alla sanzione criminale: la quale, ad avviso di Carrara, lungi dal perseguire l’‘espiazione’ del colpevole o la sua ‘emenda’, deve proporsi il solo obiettivo del «ristabilimento dell’ordine esterno nella società», quale presupposto indispensabile per ridare la sicurezza ai cittadini osservanti della legge, e dissuadere i potenziali trasgressori dall’emulare il gesto riprovato.
Ebbene, proprio il rapporto tra il danno mediato e la funzione della pena giunge, secondo Carrara, a esaltare il ruolo del secondo elemento del reato, ossia la forza morale. Egli osserva che il timore in cui si esprime un simile danno non ha ragione di manifestarsi qualora l’offesa al diritto sia dovuta a fattori puramente accidentali, pur quando essi abbiano come loro causa la condotta propria di un uomo. Il timore che il gesto possa ripetersi può sussistere soltanto in presenza di un’intenzione criminosa o di un’imprudenza dell’agente, sì da giustificare il ricorso alla pena.
I cardini fondamentali dell’impostazione carrariana in materia di reato e di pena si diramano in una gamma vastissima di implicazioni inerenti problemi più specifici.
Di grande spessore si rivela, in primo luogo, l’indagine dedicata al requisito del dolo, dove Carrara s’impegna in una ricostruzione delle sue ‘forme’ volta a estenderle oltre i confini del dolo diretto o intenzionale, in modo da evitare sovrapposizioni con l’addebito a titolo di sola colpa (ovvero di preterintenzione, dove, similmente alla colpa, il nesso psicologico con l’evento più grave si atteggia come mera prevedibilità). Egli, tuttavia, torna a postulare la rilevanza del solo dolo diretto allorquando si versi in materia di tentativo, in base al presupposto che il dolo cosiddetto indeterminato (che oggi definiremmo ‘eventuale’) – dove l’evento è previsto come esito puramente accessorio della condotta – non possa giustificare la punizione dell’autore laddove quell’esito non si sia effettivamente verificato.
Proprio il tentativo rappresenta, del resto, una delle tematiche più ampiamente sviluppate da Carrara. In nome del rispetto dovuto alla libertà dell’individuo, il tentativo non potrà mai identificarsi con attività meramente preparatorie, dovendo esso attingere la fase esecutiva del reato, mediante una condotta obiettivamente univoca – e al contempo anche idonea – nei confronti del delitto rimasto incompiuto.
Densa di approfondite riflessioni è anche la tematica del concorso di persone nel reato, dove Carrara è ben fermo nel richiedere un nesso obiettivo di collegamento tra la condotta del partecipe e il reato commesso. Ma non meno esigente è la sua visione in ordine al profilo soggettivo del concorso, dove egli, respingendo con forza ogni forma di presunzione di colpevolezza, afferma che l’adesione psichica al fatto comune dev'essere puntualmente dimostrata in capo a ciascun compartecipe.
Per finire, non può dimenticarsi l’analisi svolta da Carrara a proposito delle cause di giustificazione. Quanto al loro fondamento generale, egli sottolinea la necessità di un confronto tra il valore dei contrapposti diritti implicati nella commissione del fatto, sì da ricondurli a quella logica di bilanciamento degli interessi in gioco che tiene ancor oggi banco nelle elaborazioni scientifiche della materia. Quanto ad aspetti più specifici, basti qui richiamare le soluzioni adottate a proposito della legittima difesa: dove, in contrasto con l’opinione (sostenuta, per es., da Gaetano Filangieri) volta ad assimilare quest’ultima alla funzione di tutela giuridica propria dello Stato, Carrara ne ricollega (in via eccezionale) l’ammissibilità alla «cessazione del diritto di punire», per essere a esso subentrata la legittimità di una reazione dovuta alla constatata impossibilità di far valere quel diritto.
Con riguardo alle singole pene, viene anzitutto in evidenza l’ostracismo nei confronti della pena capitale, a quel tempo non più vigente in territorio toscano. Di essa Carrara sottolinea il contrasto con la «legge di natura», dal momento che, in quanto essenzialmente «conservatrice», tale legge non potrebbe tollerare la potestà di uccidere «altri esseri uguali». D’altronde, nessuna considerazione di utilità, ivi compresa la prevenzione dei delitti, risulterebbe idonea a legittimare l’uccisione di un uomo: non soltanto perché quella utilità non è stata inequivocabilmente dimostrata, ma anche perché essa non potrebbe mai assurgere, proprio per il suo carattere meramente strumentale, a fondamento di diritto. E anzi, la pena di morte – come pure altre pene lesive della dignità dell’individuo (quali quelli corporali o infamanti) – sarebbero l’anticamera dell’educazione sociale alla «ferocia» o all’indifferenza verso il valore della persona umana.
Relativamente, poi, alla quantità delle pene, Carrara, tornando a ricollegarsi al criterio del danno mediato, individua nella «forza morale oggettiva» della pena – che quel danno, per l’appunto, mira a far cessare – un coefficiente essenziale per determinarne l’ammontare. Né gli sfugge la necessità di articolare, quanto al grado delle pene, una più matura riflessione circa la legittimità del ricorso alle cosiddette circostanze attenuanti generiche.
Una parola conclusiva merita infine l’attenzione dedicata all’istituto della recidiva, la cui previsione come aggravante del reato pone l’interrogativo se sia legittimo punire maggiormente il colpevole che abbia subito una precedente condanna, visto che a questa risulterà comunque applicata la pena corrispondente. In questa prospettiva, egli ravvisa come unica giustificazione della recidiva l’«insufficienza relativa» della pena ordinaria, avendo il recidivo mostrato di essere insensibile alla condanna anteriore, a tal punto da determinare la reviviscenza del cosiddetto danno mediato, e da indurre, pertanto, nella convinzione che soltanto un aumento di pena potrà rivelarsi in grado di 'tranquillizzare' i consociati.
Venendo ai contenuti della Parte speciale del citato Programma, essi mostrano la preoccupazione di Carrara di conferire a tutti reati una reale dimensione offensiva. Così, per es., prendendo spunto dal tema dell’incesto, egli, oltre a contestarne l’idoneità a offendere un diritto, ammonisce contro il rischio di assimilare il delitto al peccato, riesumando antichi pregiudizi razionalmente indifendibili. Ma soprattutto: giunto, alla fine del Programma, nel momento di affrontare la materia dei delitti politici, egli si rifiuta, addirittura, di dedicarvi un’apposita trattazione. È questo il ‘gran rifiuto’ di Carrara, del cui significato molto si è dibattuto fino a tempi recentissimi; se un simile atteggiamento è apparso talora come una colpevole rinuncia all’impegno politico del giurista nel contrastare gli arbitrii della ragion di Stato, una valutazione più consapevole di tale scelta di principio induce piuttosto a ravvisarvi la grande eredità del codice leopoldino del 1786, che aveva escluso l’incriminazione dei delitti di lesa maestà.
D’altronde, la scelta di Carrara viene ad armonizzarsi anche con i reati non strettamente collegati a offese di carattere ‘individuale’. Se, invero, anche alla base di queste egli ravvisa quel danno sociale ‘mediato’ di cui si è detto in precedenza, non può tuttavia dimenticarsi che il profilo sociale dell’illecito viene da lui direttamente postulato, sotto forma di «danno immediato» – per quanto «potenziale» – in una vasta categoria di reati di natura lato sensu collettiva: dalle offese alla «pubblica giustizia» a quelle alla «pubblica tranquillità», «alla pubblica fede», alla «pubblica salute».
Ebbene, proprio a tale riguardo si deve allora sottolineare come, in contrasto con l’opinione di Giovanni Carmignani, il quale aveva valorizzato, nei reati in esame, il momento ‘politico’ dell’offesa (sia pur indiretta) allo Stato, Carrara, mediante il richiamo a un profilo di ordine ‘sociale’, abbia di mira il dato, politicamente neutrale, della comunità degli individui. Ed è, in ultima analisi, proprio in tale prospettiva, che può e deve leggersi, ancora una volta, il contestuale ripudio della classe dei reati esclusivamente politici: reati sbilanciati inevitabilmente sulla difesa dell’autorità in quanto tale, in contrasto con quella dimensione ‘sociale’ dell’illecito presente invece negli altri delitti or ora menzionati.
L’ispirazione giusrazionalistica della dottrina di Carrara non gli impedì, tuttavia, di dedicare i propri studi anche ai modelli normativi nei quali tradurre le scelte suggerite dai principi di ragione alla base del suo programma.
Anzitutto, Carrara ebbe una chiara consapevolezza dell’importanza di un’opera di codificazione penale: a patto che questa fosse in grado di esprimere dei contenuti realmente conformi al livello di una civiltà giuridica definitivamente affrancatasi dagli arbitrii del potere punitivo e dagli eccessi di discrezionalità da parte del giudice. Ed è proprio alla luce di tali esigenze che Carrara s’impegnò nell’elaborazione delle linee portanti di una sorta di vademecum di tecnica della normazione, da lui designato Lineamenti di pratica legislativa penale.
In esso, come scelta di principio, Carrara si propone di evitare il duplice e opposto rischio di negare (sulle orme di Pellegrino Rossi) qualsiasi necessità di procedere a una definizione analitica delle fattispecie – e di devolvere in tal modo al giudice un potere discrezionale pressoché illimitato – , ovvero di appesantirle con minute descrizioni casistiche altrettanto insidiose, sia pure per ragioni diverse, nel momento della ricerca del significato della tutela.
Per Carrara, insomma, una corretta tecnica legislativa dovrebbe privilegiare l’idea sottostante alle singole scelte definitorie; di qui, tra l’altro, la sua convinta adesione alla scelta di ‘normazione sintetica’ operata dall’art. 34 del codice toscano del 1853, laddove questo, con il fare richiamo alla presenza nel colpevole della «coscienza de’ suoi atti, e libertà di elezione», veniva a esprimere, senza inutili aggiunte o artifizi linguistici, il nucleo essenziale dell’elemento soggettivo del reato.
Non meno importante è il contributo di Carrara alle tematiche del processo penale. Assolutamente centrale in proposito è l’affermazione del carattere irrinunciabile della presunzione d’innocenza. Corollari di tale premessa dovrebbero essere non soltanto il massimo rigore nella prova della colpevolezza, ma anche un’estrema cautela nell’uso della carcerazione preventiva. E qui Carrara, anticipando le moderne tendenze in materia, suggerisce, al fine di attenuarne il carattere «immorale», una serie di condizioni legittimanti il ricorso a un simile strumento: tra di esse, la sua utilizzazione nei soli casi di stretta necessità e l’assoluto divieto di servirsene per sollecitare la confessione dell’imputato.
Proseguendo l’excursus, si deve ricordare come Carrara, estendendo il proprio sguardo all’intero arco processuale, giunga a configurare la difesa dell’imputato non solo come un «diritto originario dell’uomo», ma anche come valore da garantire nell’interesse della comunità. Ne deriva, in buona sostanza, una visione volta a salvaguardare – come diremmo oggi – una sostanziale ‘parità delle armi’ rispetto alla pubblica accusa, sul presupposto che il contraddittorio tra i due attori del processo rappresenti il percorso privilegiato per giungere all’accertamento della verità. In questa prospettiva, ben si comprende, allora, la propensione di Carrara nei confronti di un processo di tipo accusatorio; più esattamente, se è vero che egli non esclude il ricorso a un processo di tipo misto (istruzione scritta, giudizio orale), non è men vero che avverte assai più i pericoli del sistema inquisitorio che non quelli del contrapposto modello processuale.
Carrara dedica una riflessione intensa e problematica anche all’istituto della giuria: un istituto perennemente in bilico tra il favore popolare che lo accompagna – e che si spiega, in effetti, in un modello in cui il criterio del ‘libero convincimento’ si sottrae al pericolo di divenire appannaggio di un giudice ‘inquisitore’ – e la constatazione, tuttavia, della mancanza nei giurati di cognizioni legali all’altezza dei tecnicismi giuridico-penali. Ebbene, il sentimento di reverenza nei confronti di Carmignani – del suo riconosciuto maestro Giovanni radicalmente avverso all’istituto della giuria – non impedisce tuttavia a Carrara di sviluppare una visione più aperta e lungimirante, la quale ha il merito di sottrarsi agli accanimenti ideologici della dottrina del tempo.
A conclusione di questa breve disamina dell’imponente monumento scientifico tramandatoci dal grande criminalista, non si può fare a meno di gettare uno sguardo sulle interpretazioni – soprattutto in chiave critica – che del suo pensiero si sono andate delineando in tempi a noi più vicini.
Secondo una prima tesi, Carrara verrebbe a esprimere in forma emblematica una visione del diritto penale ispirata a contenuti puramente ‘metafisici’, e come tali incapaci di misurarsi con le concrete scelte repressive degli ordinamenti costituiti. Una simile opinione, tuttavia, appare contraddetta, non soltanto dall’impegno di Carrara in direzione di riforme radicali della legislazione in vigore, ma anche – e soprattutto – dal suo intento di tracciare le linee essenziali di un disegno politico-giuridico di chiara impronta liberale (non privo di un felice connubio tra la laicità del magistero punitivo e i motivi spirituali di un cattolicesimo depurato da residui teocratici e denso di contenuti umanitari). Alla base della costruzione carrariana non si coglie, dunque, un postulato ‘idealistico’ sovrapposto alla dimensione socio-politica; semmai, vibra nelle sue corde, effondendosi nell’intero suo sistema, la cosciente sottomissione a un modello ‘idealtipico’ assunto come direttiva vincolante, vale a dire quello inteso a una radicale e incondizionata delegittimazione di qualsiasi forma di preminenza della ragion di stato sui diritti fondamentali di ciascun individuo.
Una seconda impostazione viene a contestare in Carrara la scelta di dar vita – mediante i due requisiti della «forza fisica» e della «forza morale» – a un ‘meccanicismo naturalistico’ inidoneo ad abbracciare la sostanza del reato. Sennonché, una simile obiezione trascura di considerare che, come abbiamo più volte sottolineato, le predette ‘forze’ risultano, all’opposto, strettamente funzionali all’intento di munire di una duplice base valutativa (ora in termini di ‘offesa’ a un diritto, ora in termini di ‘danno mediato’ all’integrità dei rapporti sociali) l’intero contenuto del reato.
Stando, infine, a una terza opinione, il pensiero di Carrara sarebbe caratterizzato da un dissidio irrisolto tra le premesse giusnaturalistiche e i dettami propri del positivismo giuridico: come dimostrerebbe, oltre all’ambigua qualificazione del reato come «ente giuridico», il costante riferimento a una «legge» che sanzioni il compimento dell’illecito. E tuttavia, è appena il caso di osservare come Carrara esalti l’importanza della legge proprio in quanto le attribuisce la funzione di rendere operante un vincolo cui essa stessa è tenuta a prestare obbedienza; e ciò, sia che si abbia riguardo alla struttura ed ai contenuti che il reato – e i singoli delitti – devono presentare, sia che si valutino i tipi di sanzione deontologicamente conformi al disvalore proprio di ciascuno: in entrambi i casi, allo scopo di garantire, senza alcuna deroga o limitazione, delle soluzioni pienamente compatibili un principio ‘razionale’ di giustizia quale misura e corrispettivo della libertà.
Opuscoli di diritto criminale, 2 voll., Lucca 1859-1867, 7 voll.; 1870-18772.
Programma del corso di diritto criminale, parte generale, Lucca 1860; 3 voll., Prato 18866.
Programma del corso di diritto criminale, parte speciale, ossia esposizione dei delitti in specie con note per uso della pratica forense, 7 voll., Lucca 1864-1870, 1881-18895.
Per le successive edizioni degli Opuscoli e del Programma si rimanda a V. Finzi, Bibliografia carrariana, «La Bibliofilia», 1917-1918, pp. 39-50 (dispensa 1-3), pp. 170-85 (dispensa 4-7), pp. 239-53 (dispensa 8-9), e a I manoscritti e le opere a stampa di Francesco Carrara nella biblioteca statale di Lucca, a cura di M.L. Moriconi, J. Manfredini, Lucca 1988.
Lineamenti di pratica legislativa penale esposti mediante svariate esemplificazioni, Roma-Torino-Firenze 1874, 18822.
Pensieri sul progetto del Codice penale italiano del 1874 (Il progetto e l’Italia), «Gazzetta livornese», 1874, n. 811; Firenze 18742, Lucca 18783.
Cardini della scuola penale italiana, a chi vuol intendere novellamente dichiarati, Lucca 1875.
Studi sul delitto perfetto, Lucca 1879.
Reminiscenze di cattedra e foro, Lucca 1883.
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