CORNER, Francesco (Franceschino)
Nacque a Venezia, probabilmente nell'anno 1356, dal procuratore e futuro doge Marco e dalla sua seconda moglie, Caterina, che era una dalmata di ignoto ma facoltoso casato, provvisto di considerevoli beni a Scardona. La data di nascita del C., indicata dal Barbaro sulla base della presentazione alla Balla d'oro, può dar adito a qualche dubbio, giacché egli sarebbe nato quando il padre aveva superato la settantina; ancora, avrebbe testato assai giovane (ventiseienne appena) e sarebbe morto prima di compiere sessant'anni. Purtroppo però non esistono altre fonti.
Aveva, dunque, dodici anni quando il padre morì, senza lasciare ai numerosi figli grandi ricchezze, ché non ne aveva, ma l'eredità di un nome conosciuto e stimato in patria, e all'estero per la dottrina, l'eloquenza, la capacità dispiegate in tanti incarichi (nel testamento, citato dal da Mosto, il doge ordinava di vendere la biblioteca, eccettuati quei libri che "Franceschino" avesse desiderato conservare per la propria cultura). Ai beni materiali, dunque, dovette provvedere la madre, giacché il C., testando a sua volta il 19 ott. 1382 (qualche mese prima di recarsi in Istria con una delegazione di dodici nobili, incontro al doge Venier, che era stato eletto al dogado mentre si trovava capitano a Candia), risulta disporre di una discreta fortuna, di cui istituì commissaria la madre ed eredi i nipoti ex fratre Marco, Benedetto e Giorgio. In base a tale documento, il C. appare sposato, ma senza figli; più tardi la moglie, Cristina Soranzo di Remigio (dottissimo giurista, assai apprezzato dal Petrarca), con la quale si trasferì dalla nativa casa di SS. Apostoli in contrada S. Felice, gli diede Giovanni e Andrea.
Intrapresa con successo la carriera politica nelle magistrature interne della Repubblica, nel giro di qualche anno divenne senatore (1397) e fu chiamato a far parte del Consiglio dei dieci (1388), sinché nel 1405 venne inviato dapprima come ambasciatore a Ferrara, per ottenere il libero transito del Po per i Bolognesi, alleati dei Veneziani, quindi passò a Padova, per notificare a quella Signoria le condizioni della Repubblica, volte ad evitare un conflitto decisivo. Essendo state respinte queste proposte, fu la guerra, che si concluse rapidamente con la spietata eliminazione della famiglia Carrarese e l'annessione della città euganea.
Savio del Consiglio nel 1406, nel dicembre dello stesso anno fu eletto tra gli otto ambasciatori destinati a rendere omaggio al pontefice Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr. Era ormai uno dei più autorevoli ed influenti esponenti del Senato, giacché a partire dal 20 nov. 106, il suo nome compare spesso tra i rappresentanti ed i procuratori del doge in occasione di convenzioni, trattati ed altre operazioni diplomatiche: così, dopo aver accolto Obizzo da Polenta sotto la protezione del Comune veneziano, il 17 marzo 1407 il patto viene ripetuto con i Castelbarco di Dosso e qualche mese più tardi, il 3 giugno, con i signori di Arco, nel Trentino. Sempre in tale veste, nel luglio 1407 il C. è tra i firmatari dell'alleanza quinquennale sancita tra la Repubblica e Pandolfo Malatesta, signore di Brescia, Niccolò d'Este, Francesco Gonzaga.
Due anni dopo, il 9 apr. 1409, allorché il re di Francia., Carlo VI, sollecitò la Repubblica a privare del suo appoggio Gregorio XII che, deposto dal concilio pisano, era riparato ad Aquileia, il C., come savio del Consiglio, propose in Senato di inviare nella città toscana un ambasciatore col potere di riconoscere il papa che vi fosse stato eletto, purché Benedetto XIII avesse acconsentito a recarsi personalmente a Pisa. L'espediente, che in sostanza avrebbe lasciato mano libera a Venezia, raccolse però pochissimi voti e i suffragi dei senatori si volsero verso una deliberazione ancor meno impegnativa, che prevedeva cioè di chiedere la convocazione di un altro concilio. L'episodio non testimonia affatto una diminuzione del prestigio di cui godeva il C., che qualche mese dopo, il 9 luglio 1409, risulta tra i testimoni dal patto in base al quale Ladislao, re di Napoli e d'Ungheria, cedeva alla Repubblica tutti i suoi diritti sulla Dalmazia, con Zara e le sue pertinenze, in cambio di 100.000 ducati d'oro.
L'"emptio Dalmatie" ebbe nel C. uno dei principali ispiratori ed artefici: sin dal marzo di quello stesso 1409, infatti, nella sua qualità di savio del Consiglio, aveva caldeggiato l'operazione e quando, il 4 luglio successivo, il Senato deliberò l'invio a Zara di quattro provveditori per ottenerne la sottomissione, egli si offrì spontaneamente, ricusando per di più ogni ricompensa. Nel lodare "ista sua liberalis, fidelis et laudabilis oblatio", due giorni dopo i Pregadi gli affiancavano, come colleghi, Leonardo Mocenigo, Antonio Contarini e Fantino Michiel; la spedizione (otto galere, migliaia di armati) ottenne facilmente la dedizione di Traù e Sebenico (grazie soprattutto alla collaborazione di Giovanni Misich, al quale, come "principalis persona qui nobis dedit turres de Sibinico", il C. fece poi ottenere adeguata ricompensa), ma Zara oppose resistenza e soltanto a fine luglio fu possibile, per i Veneziani, aver ragione della città e del suo contado.
Per tutta l'estate il C. si trattenne in quei luoghi, in qualità di provveditore alle fortezze di Sebenico, ma, in pratica, con l'incarico di sovraintendere all'intero dispositivo militare della regione, che egli rinforzò, a cominciare dal castello di Laurana. Se poi dietro a tanto zelo si celassero anche interessi personali, ovvero inerenti ai beni avuti in eredità dalla madre, non è supposizione da escludere a priori; certo è che, anche dopo il ritorno in patria, il C. continuò ad occuparsi attivamente della sicurezza di quei luoghi, nei quali il dominio veneziano era messo in discussione dalla tenace resistenza della nobiltà: il 18 ottobre, come savio del Consiglio, fece votare l'invio a Sebenico di un provveditore (che fu Pietro Loredan), a capo di numerose truppe e con grandi scorte di armi.
Negli anni che seguirono il C. venne puntualmente eletto savio del Consiglio, e nel 1414 fu tra gli elettori del doge Mocenigo; nominato ambasciatore a Ferrara, il 26 ottobre dello stesso 1414, "pro tractatus pacis inter dominum Regem Romanorum et dominium nostrum, refutavit defectu persone". Era davvero ammalato, e infatti l'ultima testimonianza che rimane della sua vita è l'atto con cui, di lì a qualche mese, il 15 febbr. 1415, in qualità di procuratore del doge, rinnovava la protezione della Repubblica al feudatario Guglielmo Castelbarco.
È sepolto nella cappella maggiore ai SS. Giovanni e Paolo, sotto l'arca del padre, la cui iscrizione aveva dettato egli stesso.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii, III, pp. 9, 33, 65; Ibid., Segr. alle voci. Misti, reg. 3, cc. 45r-46r; Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti..., I, c. 191v. Sulla carriera politica del C., Arch. di Stato di Venezia, Senato Delib. secreta, regg. 3, cc. 44v-55r, 60v-80r, 92v-146v; 4, cc. 3r, 4r, 7v-235r (qui è documentata la partecipazione del C. all'impresa di Zara); 5, cc. 3r-66r, 123v-180r; 6, cc. 15r-38r; per il suo testamento, Ibid., Cancelleria inferiore. Notai, b. 18916. Si vedano inoltre, I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, III, Venezia 1883, pp. 318, 320, 323 ss., 341, 370, 375; P. M. Perret, Histoire des relations de la France avec Venise du XIIIe siècle à l'avènement de Charles VIII, I, Paris 1896, p. 120; A. Berruti, Patriziato veneto. I Cornaro, Torino 1953, p. 90; A. da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 136 s.