Francesco De Sanctis
La biografia politica e culturale di Francesco De Sanctis si staglia con la sua esemplarità sullo sfondo delle speranze e delle angosce, dei conseguimenti e delle delusioni degli intellettuali italiani più partecipi delle svolte e degli sviluppi fra i decenni preparatori del 1848 e quelli postunitari. Pur attraverso crisi e cambiamenti maturati cercando sempre di aderire e corrispondere ai drammi italiani, si può dire che due furono gli scopi più importanti della sua opera e della sua vita civile. In primo luogo, quello di rilevare un filone aureo nelle molteplici e confliggenti tradizioni italiane che testimoniasse la modernità europea della nostra cultura. In secondo luogo, l’elaborazione di una ricostruzione storiografica che, seppur libera e non strumentale, si rivelò sempre sensibile ai problemi nazionali. La sua intensa attività politica e culturale fu rivolta a una riforma intellettuale ed etica in grado di affrancare l’Italia dalle sue remore secolari, avviandola a un’epoca di democrazia e di progresso.
Francesco De Sanctis nacque a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis) il 28 marzo 1817 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, i ‘galantuomini’ come erano denominati nel Meridione, e di professionisti. A nove anni si trasferì a Napoli. In città, fino ai diciotto anni, frequentò scuole private, fra cui quella dello zio Carlo, educandosi a studi retorico-letterari, storici, geografici, matematici, filosofici e giuridici (questi ultimi sul codice napoleonico) e leggendo autori sensistici e illuministici, come John Locke, Étienne Bonnot de Condillac, Antonio Genovesi. Nel 1833 entrò nella scuola di lingua italiana di Basilio Puoti, maestro del purismo napoletano. Questi lo abilitò a un’attenzione ai valori formali e stilistici che sarebbe rimasta costante nel suo esercizio critico. Intorno ai diciotto anni aveva già acquisito un’ampia conoscenza della letteratura italiana (dai classici trecenteschi a Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni) ed europea (da William Shakespeare a John Milton, Voltaire, François-René de Chateaubriand, Victor Hugo).
A diciotto anni, alla morte dello zio Carlo, ne ereditò la scuola e da quel momento la professione di De Sanctis sarebbe sempre stata quella del docente. Insegnò, poi, nel Collegio militare della Nunziatella e nella scuola di Puoti fino a succedergli nel magistero. Sono gli anni della «prima scuola napoletana» rievocati da De Sanctis nello scritto autobiografico La giovinezza, redatto nei suoi ultimi anni di vita e pubblicato postumo dall’allievo Pasquale Villari nel 1889. A contatto con un ambiente intellettuale e politico molto stimolante, maturò le sue scelte critico-letterarie romantiche e hegeliane (del pensatore tedesco lesse l’Ästhetik nella traduzione in francese) e politico-ideologiche, giobertiane e neoguelfe. Non fu casuale la sua partecipazione ai moti insurrezionali del 1848 insieme ad alcuni allievi, fra i quali il prediletto Luigi La Vista che vi perse la vita.
Si rifugiò poi in Calabria presso il barone Francesco Guzolini, divenendone precettore dei figli. Qui fu arrestato con l’accusa di avere aderito a gruppi democratici e mazziniani, ai quali si era avvicinato radicalizzando le sue posizioni moderate anteriori al 1848. Passò due anni e mezzo nelle prigioni di Castel dell’Ovo, durante i quali scrisse un dramma su Torquato Tasso e un carme in endecasillabi sciolti, La prigione, alcuni saggi critici sull’espistolario di Leopardi e sulle opere teatrali di Friedrich Schiller, e lesse in tedesco e sintetizzò la Wissenschaft der Logik hegeliana. Queste composizioni rivelano un’inclinazione romantica e un’interpretazione progressista del filosofo tedesco insieme a una lettura simpatetica di Leopardi, emancipata da toni pessimistici, quale poeta materialista e profeta di una nuova umanità.
Nel 1853 fu condannato all’esilio e imbarcato su una nave diretta negli Stati Uniti, ma, grazie all’aiuto di amici, riuscì a fermarsi a Malta e poi a espatriare in Piemonte, dove si aggregò al gruppo di esuli meridionali, da Bertrando Spaventa al giurista conterraneo Pasquale Stanislao Mancini a Ruggiero Bonghi. A Torino restò fino al marzo del 1856, insegnando italiano nella scuola privata di istruzione femminile della signora Eliott, tenendo cicli di conferenze su Dante e pubblicando, sul «Cimento» e sul «Diritto» di Torino, articoli di critica letteraria (romantico-hegeliani) e di politica. In questi ultimi rifiutava una soluzione ‘murattiana’ per il Regno di Napoli, ossia la sostituzione degli eredi del generale napoleonico alla dinastia borbonica, accogliendo, invece, l’ipotesi sabauda, sostenuta da Camillo Benso conte di Cavour, per l’unificazione italiana.
Trasferitosi a Zurigo, vi insegnò letteratura italiana al Politecnico e frequentò un milieu molto stimolante e illuminato da grandi personalità, come Wilhelm Richard Wagner e Jacob Burckhardt. In questi anni, notevoli sono le lezioni su Dante, sul poema cavalleresco e il saggio del 1858 su Arthur Schopenhauer e Leopardi, che è un’apologia del poeta di Recanati a confronto con il reazionario filosofo tedesco e con il suo pessimismo inerte e passivo. La lettura dei suoi versi, affermava infatti De Sanctis, suscitava ‘per contrasto’ forti sentimenti di amore per la libertà.
In seguito all’impresa dei Mille (1860), rientrò a Napoli dove fu nominato da Giuseppe Garibaldi governatore della provincia di Avellino (incarico in cui si disimpegnò egregiamente, organizzando i plebisciti, una guardia nazionale locale e contrastando il banditismo che era contaminato anche da coloriture politiche sanfediste). Divenne poi direttore dell’istruzione a Napoli e avviò una radicale riforma della scuola e dell’università (alla quale chiamò intellettuali prestigiosi, come Bertrando Spaventa, Mancini, Villari), impostata su principi laici e liberali. Per un anno, dal marzo del 1861 al marzo del 1862, nei governi Cavour e Ricasoli fu ministro dell’Istruzione pubblica, non riuscendo però a concretizzare i suoi intenti riformistici se non per l’estensione dell’applicazione della legge Casati a tutto il Regno. Dopo la morte di Cavour fu critico verso le tendenze autoritarie e antiliberali del nuovo Stato e si volse agli orientamenti di centro-sinistra di moderato democratismo. Nel 1863 fu tra i fondatori dell’Associazione unitaria costituzionale, presieduta da Domenico Settembrini, e diresse, dal 1863 al 1867, il giornale «L’Italia».
Nel 1863 sposò a Napoli Maria Teresa Testa dei baroni Arenaprimo, dalla quale non ebbe figli. Del 1869 è il Saggio critico sul Petrarca, frutto di una lunga meditazione. De Sanctis definì un metodo critico, estraneo sia al formalismo puristico sia al contenutismo romantico. Rispetto a Georg Wilhelm Friedrich Hegel e alla sua concezione dell’arte quale mera raffigurazione sensibile del concetto, De Sanctis, invece, attribuiva alla poesia una propria autonomia, essendo una forma dello spirito, indipendente e non subalterna. Fondamentale nel suo realismo esegetico è la nozione di forma, quale sintesi di soggettività e oggettività, espressione non di concetti ma di cose, di sentimenti e ideali individualizzati in determinate situazioni concrete.
Nel 1870-1871, fu pubblicata a Napoli in due volumi dalla casa editrice Morano la Storia della letteratura italiana, che nasceva come manuale scolastico. Il periodo di preparazione ed edizione del grande libro fu costellato da una serie di saggi e di conferenze, per lo più pubblicati sulla «Nuova Antologia», che palesano il suo materialismo, uscito dallo stesso hegelismo, e la sua stigmatizzazione del metodo critico pregiudiziale, cattolico-moderato di Cesare Cantù e di quello sterilmente contenutistico di Settembrini.
Dal 1871 De Sanctis fu insegnante di letteratura comparata all’Università di Napoli, dove tenne corsi sulla letteratura italiana dell’Ottocento, la «seconda scuola napoletana». Pubblicò nel 1872 una nuova silloge di Saggi critici e dal 1874 riprese il suo impegno politico, censurando, nel biennio 1877-78, duramente sulle pagine del «Diritto» di Roma la deriva trasformistica della politica italiana. Nel 1876 uscì Un viaggio elettorale, in cui racconta la sua campagna elettorale nell’avellinese. Dal 1878 al 1880, su designazione del presidente del Consiglio, Benedetto Cairoli, guida della ‘Sinistra giovane’ alla quale aveva aderito, fu di nuovo ministro della Istruzione pubblica. Ma anche questa volta non riuscì a realizzare i suoi intenti riformatori per una «scuola di tutti», e per la scuola dell’infanzia, quella primaria e quella per la formazione di maestri, e a favore di una educazione tecnica e scientifica che liberasse i giovani italiani dal male della retorica. Riuscì solo a inserire nelle scuole l’insegnamento di educazione fisica.
Lasciò il ministero nel 1880 a causa di una grave malattia agli occhi e si dedicò alla sua attività critica con saggi petrarcheschi e leopardiani, e, in particolare, con conferenze su Émile Zola e il darwinismo (quest’ultima del 1883). Morì a Napoli il 29 dicembre 1883.
La Storia è un percorso, articolato in venti capitoli, dalla Scuola siciliana a Leopardi. Il capolavoro desanctisiano può essere considerato una «fenomenologia dello spirito italiano» (E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, 1998, p. 1), perché scandisce e illustra i passaggi e le epoche della vita civile e spirituale della nazione. D’altro canto, la Storia è un affascinante Bildungsroman, con il quale De Sanctis, in pagine avvincenti e persuasive, scandisce l’educazione del popolo italiano a una progressiva conquista, nonostante arresti e fasi di declino, della materia, della realtà, della natura.
Si passa così dalla civiltà comunale, della quale De Sanctis, suggestionato dall’exemplum storiografico di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842), celebrava l’amore per la libertà, all’annuncio di una civiltà cortigiana del puro letterato (Francesco Petrarca), al mero immanentismo di Giovanni Boccaccio, espressione della realistica e cinica civiltà borghese, alle ambivalenze del Rinascimento, i cui esiti sarebbero stati valorizzati, nel loro versante positivo, da intellettuali perseguitati e isolati dal tetro clima controriformistico, prima che la concezione di una nuova umanità e una nuova letteratura fosse proclamata nel Settecento, da scrittori come Giuseppe Parini, Vittorio Alfieri e Foscolo, compiendosi nella poesia leopardiana e nella lezione manzoniana. Solo con questi ultimi classici ottocenteschi, compendio degli aspetti virtuosi della cultura italiana, era possibile favorire una letteratura nazionale moderna che affermasse i valori di libertà, di laicità e di una spiritualità indipendente e non conformistica.
Un’epoca della nostra storia sulla quale più volte De Sanctis indugiò, non solo nella Storia, ma anche in numerosi saggi, in quanto la valutò privilegiata chiave esegetica per comprendere le incongruenze e le antinomie della nazione, è il Rinascimento. Lo storico italiano poteva giovarsi di una straordinaria stagione di ricerche e studi sulla storia italiana dal Trecento al Cinquecento, nella quale, grazie soprattutto a Jules Michelet (1798-1874) e a Burckhardt (1818-1897), il Rinascimento era stato indagato nel suo insieme e nella sua complessità quale epoca cruciale e autonoma della civiltà europea e non più quale mera renaissance des lettres et des arts. Preziosa per De Sanctis fu anche la storiografia di Edgar Quinet (1803-1875) e la lettura delle sue Révolutions d’Italie (2 voll., 1848-1852), nelle quali lo storico svizzero, informato a uno spirito calvinista, democratico, ma non socialista, e sostenitore di una riforma politica e religiosa, immunizzava dagli eccessivi entusiasmi di Sismondi per l’età comunale, travagliata dal terrore ingenerato dalle continue e devastanti guerre intestine, ed elaborava la categoria di cosmopolitismo rinascimentale.
Ma è proprio su tale categoria che De Sanctis, pur subendone l’ascendente, si differenziava da Quinet, perché lo studioso svizzero vi aveva letto solo un’accezione negativa, in quanto il cosmopolitismo era stato manifestazione del detestato potere papale, mentre il critico italiano ne dava un’interpretazione ancipite. In effetti, il Rinascimento, per De Sanctis, fu un ossimoro storiografico. Fu un periodo di grande e precorritrice energia intellettuale moderna, ma nello stesso tempo di caduta dei principi morali e politici coltivati dalla civiltà comunale, e il suo cosmopolitismo, se da un lato inibì alla nostra cultura la nascita di un’identità nazionale, dall’altro le consentì un’egemonia europea.
Esemplare è una pagina del capitolo XI del suo capolavoro, nella quale De Sanctis sembra condensare e far precipitare il meglio e il peggio dello spirito italiano nella sua discordanza-accordo (anzi primogenitura) rispetto all’Europa moderna:
Quest’arte che cerca la sua base nella scienza dell’uomo, ti dà la Mandragola e la Storia di Firenze, e più tardi la Storia d’Italia del Guicciardini, e i suoi Ricordi. A questo modo si realizza questa grand’epoca, det-
ta il Risorgimento [così in quel periodo in Italia era denominato il Rinascimento, pur se De Sanctis fu tra i primi ad adottare anche l’altra definizione], che da Boccaccio si stende sino alla seconda metà del secolo decimosesto. Da una parte, mancati tutti gl’ideali, religioso, politico, morale, e non rimasta nella coscienza altra cosa salda che l’amore della cultura e dell’arte, il contenuto non ha alcun valore in sé stesso, e diviene una materia qualunque trattata a libito dall’immaginazione, che ne fa la sua creatura e spesso anche il suo gioco, il suo gioco che ha la sua idealità nell’ironia ariostesca, e trova la sua dissoluzione nella caricatura della Maccaronea. Mentre l’arte produce i suoi miracoli nella piena indifferenza del contenuto, come pura arte, un nuovo contenuto si forma e penetra nella coscienza, uno studio dell’uomo e della natura in sé stessi, che cerca la sua base nell’esperienza, e non nell’immaginazione e non nelle vane cognizioni (Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, 1958, 1996, p. 415).
Le aporie rinascimentali erano esemplificate da De Sanctis rilevando la compresenza in quella età della comicità buffonesca, del riso licenzioso e beffardo, che da Boccaccio era culminato in Luigi Pulci e in Lorenzo il Magnifico, e dell’ironia di Ludovico Ariosto e di Niccolò Machiavelli, che era stata sintomo della nascita di un mondo nuovo. E Machiavelli e Leon Battista Alberti erano stati, nella prospettiva del critico napoletano, i maggiori scrittori di una borghesia non cinica, consapevole della moralità del lavoro e della serietà della vita terrestre.
Diversamente da Friedrich Nietzsche, che in quegli stessi anni in Menschliches, Allzumenschliches (1878-1879; trad. it. Umano troppo umano, 1927) scioglieva un peana alla vitalità e al superomismo del Rinascimento, soffocato dalla duplice reazione della Riforma e della Controriforma, secondo De Sanctis il nesso fra Rinascimento e decadenza (politica, etica, spirituale, religiosa) era inestricabile, impedendo di attribuire un significato univoco a quell’età.
Per giunta, De Sanctis, mentre condannava la Controriforma, inchiodata alla repressione religiosa, al conformismo, al gesuitismo ipocrita e retorico, dava risalto nella Riforma alla rivendicazione della libertà di coscienza contro la sclerosi delle forme e l’acquiescenza obbedienziale. Per De Sanctis, Rinascimento e Riforma avevano, quindi, affermato valori moderni contro l’oscurantismo controriformistico. Tuttavia, il critico, chiamando Machiavelli il «Lutero d’Italia» e constatando la sconfitta della Riforma in Italia, non ne proponeva illusoriamente un suo richiamo e attualizzazione nella nostra cultura, che doveva invece tesaurizzare l’esemplarità del segretario fiorentino.
De Sanctis tracciava una tradizione italiana, da Machiavelli a Giordano Bruno, Galileo Galilei, Paolo Sarpi, Tommaso Campanella, Giambattista Vico, che aveva preservato e consolidato l’autonomia di ragione rinascimentale e la sua analisi scientifica dell’uomo e della natura, e che, però, a causa della Controriforma, aveva conseguito i suoi maggiori adempimenti in Europa per essere in seguito ripresa nel nostro Romanticismo leopardiano e manzoniano. Era una concezione del pensiero italiano affine alla teoria della circolarità formulata pochi anni prima da Bertrando Spaventa, ma anche dissimile. In effetti, De Sanctis, diversamente dal filosofo, non registrava il culmine del pensiero europeo in Hegel, che pure ne era stata una tappa fondamentale, ma dimostrava una maggiore sensibilità e partecipazione, come attestano le sue ultime conferenze sul naturalismo francese e sul darwinismo, a una scienza e a una letteratura permeate dal senso della realtà delle cose materiali nella loro ruvidezza e nelle loro irrisolte contraddizioni.
Il primo anello di quella ‘catena aurea’ che De Sanctis lumeggiava nella storia italiana era costituito da Machiavelli, al quale dedicava non solo, in occasione del quarto centenario dalla nascita, alcune brillanti conferenze, ma anche il capitolo XV della Storia. Il segretario fiorentino è l’auctor politico di De Sanctis. La sua interpretazione di Machiavelli è un viatico alla comprensione delle sue principali idee politiche. Infatti, Machiavelli assumeva nelle sue pagine la fisionomia del «fondatore de’ tempi moderni» (Conferenze su Machiavelli, in Id., L’arte, la scienza e la vita, a cura di M.T. Lanza, 1972, p. 43). La sua opera era stata il vaticinio di un’Italia laica e moderna e di un suo rinnovamento etico e civile, del quale De Sanctis non nascondeva le gravi inadempienze nei suoi tempi.
Dalla mente di Machiavelli e dal suo realismo politico non offuscato da remore teologiche erano usciti il mondo moderno e la creazione dello Stato nella sua indipendenza e nella sua autonomia. L’opera di Machiavelli era stata il
programma del mondo moderno […]. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’Italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli (Storia della letteratura italiana, cit., pp. 511-12).
Tuttavia, il critico irpino non si esimeva dal rilevare anche i limiti della concezione machiavelliana dello Stato. Li scorgeva (e indirettamente marcava le differenze fra la sua concezione liberale e democratica dello Stato, non etica, e quella dei neohegeliani come Bertrando Spaventa) in una propensione statolatrica:
La sua patria mi rassomiglia troppo l’antica divinità, e assorbe in sé religione, moralità, individualità. Il suo stato non è contento di essere autonomo esso, ma toglie l’autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i diritti dello stato: mancano i diritti dell’uomo (p. 512).
Ma erano mancanze che De Sanctis attribuiva all’epoca terribile e tragica del segretario fiorentino. Tuttavia, anche attraverso i suoi eccessi il pensiero machiavelliano aveva aperto i varchi della modernità europea. Machiavelli, così come il Rinascimento, era stato il paradigma con il quale si era confrontata la moderna Europa, anche se la sua lezione non aveva attecchito in Italia. Da ciò derivava l’‘utopia’ di Machiavelli che, osservava il critico, aveva delineato una politica inadeguata alla profonda corruttela italiana cinquecentesca.
Nel nostro Paese De Sanctis constatava con amarezza che, nonostante l’avvenuta unificazione, persistevano inveterati vizi e pessimi costumi. Non è improprio dire che, secondo la sua valutazione, aveva prevalso e ancora allignava nella vita italiana non l’uomo del Machiavelli, ma il guicciardiniano «uomo del particulare», con il suo egotismo incivile e incurante del bene comune. Questa tipologia italiana, tutta introflessa su egoistici fini, non era tramontata, ma, come accusava in un famoso saggio del 1869: «vivit, immo in Senatum venit» (L’uomo del Guicciardini, in Id., L’arte, la scienza, la vita, cit., pp. 93-117). Guicciardini era stato il reale senza l’ideale, mentre Machiavelli era stato il reale e l’ideale. Al guicciardinismo, fra le radici maligne della storia italiana nella diagnosi desanctisiana, si univa, da un lato, l’accondiscendenza a una retorica vuota e formalistica e, dall’altro, la «malattia dell’ideale».
Il nesso fra ideale e reale, non solo nell’estetica, ma anche nel campo etico e politico, fu al centro della riflessione di De Sanctis nel suo ultimo decennio: lo attestano le lezioni nell’ateneo napoletano; la prolusione universitaria del novembre del 1872 su La scienza e la vita; la sua attività politica e gli articoli apparsi sul «Diritto» di Roma fra il 1877 e il 1878. Le lezioni universitarie vertevano su Leopardi – del quale il critico apprezzava la demolizione di falsi ideali e l’accettazione eroica delle contraddizioni della vita –, su Manzoni, sulla scuola cattolico-liberale e sulla scuola democratica.
Molto significativi dal punto di vista politico sono gli ultimi tre corsi. Manzoni vi era elogiato in quanto, valorizzando il nesso ideale-reale, era l’ultimo rappresentante della migliore tradizione italiana, che si era sviluppata da Machiavelli in poi, passando attraverso la mediazione di Vico. Quest’ultimo era sempre più apprezzato in questi anni dal critico per avere immesso la verità effettuale del segretario fiorentino nello sviluppo storico-politico e giuridico, e per non essere stato aduggiato dagli apriorismi logici e dall’eccessiva sistematicità che lo storico avellinese rifiutava nella filosofia hegeliana. I Promessi sposi (1827, ed. definitiva 1840-1842) costituivano un modello per il loro contenuto democratico, religioso e patriottico che si dispiegava attraverso i drammi della storia nei quali agiva la Provvidenza, per la forma diretta e popolare e per un verum positivo e storico.
L’encomio desanctisiano non raggiungeva, però, la scuola cattolico-liberale, pur di derivazione manzoniana, biasimata per il reazionarismo popolare e antimoderno di Cantù e per l’inefficacia politica di Vincenzo Gioberti, sconfessato dallo stesso papato. Peraltro, sulla questione dei rapporti fra Stato e Chiesa, di estrema e bruciante attualità in quegli anni, in un discorso alla Camera del 1864 De Sanctis aveva argomentato una tesi più radicale del cavouriano «libera Chiesa in libero Stato». Quest’ultima posizione veniva criticata per il fatto di non favorire una completa separazione fra le due istituzioni (quasi che la prima fosse uno Stato nello Stato) e per la perpetuazione dei privilegi ecclesiastici (Mezzogiorno e Stato unitario, a cura di F. Ferri, 1972, pp. 205-207). Argomentazioni ribadite e rafforzate nel discorso parlamentare del 1867 sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico.
Ma anche alla scuola democratica De Sanctis non risparmiava severe censure. Innanzi tutto, chiariva la distinzione fra la democrazia settecentesca, individualistica e materialistica, e quella ottocentesca, nazionale e religiosa. Quest’ultima era stata l’ideale mazziniano, in grado di svolgere un ruolo propulsore nella fase precedente al 1848, ma dimostratosi poi inconcludente e inattuale.
Non solo l’ideale, ossia l’insieme di idee sentimenti affetti, ma anche la scienza, ovvero la coscienza razionale del mondo, venivano indagati nella loro relazione con la vita nella prolusione del 1872. Quel discorso risentiva di un clima intellettuale italiano molto ricettivo nei riguardi di questo tema. Basti pensare ai due volumi dell’amico Angelo Camillo De Meis, Dopo la laurea (1868-1869), che lo svolgeva da un punto di vista teoretico-gnoseologico, e ai saggi dell’allievo Villari, La scuola e la questione sociale in Italia (1872) e La storia è una scienza? (1891), che lo analizzava da un’angolazione sociale e metodologica.
Nel discorso desanctisiano, invece, prevalevano preoccupazioni politiche e culturali. De Sanctis avvertiva una sempre maggiore divaricazione fra una scienza accademica autoreferenziale e una realtà non illuminata da ideali che si dimostrassero storicamente inverati. È sintomatico della diffusione di questi argomenti nel contesto culturale europeo di quegli anni che, pochissimo tempo dopo, sarebbe stata pubblicata la celebre Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben (1874; trad. it. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1926) di Nietzsche, che però sarebbe stata contraddistinta da un atteggiamento decisamente antihegeliano, ‘antistorico’ e ‘sovrastorico’, che De Sanctis non avrebbe potuto condividere. Per di più De Sanctis non partecipava della polemica nietzscheana verso il sistema educativo tedesco (Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1871-72), 1925; trad. it. Sull’avvenire delle nostre scuole, 1975). Al contrario, De Sanctis e Villari, suggestionati dalla prevalenza politica della Prussia in Europa, sancita dalla vittoria del 1870 sulla Francia, ma prima ancora da quella nel 1866 contro l’Austria, si volgevano alla Bildung, ossia a una formazione non solo culturale, bensì anche morale e patriottica, reputandola un valido antidoto all’istruzione italiana inquinata da astrattezze ideali e da idoleggiamenti formalistici.
L’attenzione desanctisiana alla scuola e all’università, già esercitatasi nella fase postunitaria, fu acuta nella seconda metà degli anni Settanta e si espresse nella sua attività ministeriale e negli articoli sul «Diritto», nei quali, citando Machiavelli, Vico, Leopardi quali esempi dell’ideale nella realtà, lo storico compendiava il suo itinerario storiografico. De Sanctis, promuovendo la ‘Sinistra giovane’ e giustificando il suo appoggio a Cairoli, denunciava il trasformismo e la corruzione della Sinistra storica e il proliferare di partiti regionali e delle clientele. Lo storico e politico aveva maturato la consapevolezza dell’assenza di una coscienza civile e morale nel popolo italiano, incapace di una sua spontanea crescita, e del pericolo che i «bassi fondi sociali» divenissero preda della demagogia socialista, come era accaduto nella Comune, o del cesarismo, il quale non era altro che la demagogia nella versione autoritaria.
Proprio per evitare demagogia e cesarismo, De Sanctis accentuava la funzione primaria dello Stato, mediante il ruolo pedagogico degli intellettuali, in particolare nelle istituzioni scolastiche e universitarie, dei partiti e della stampa nella formazione di una coscienza nazionale e dell’opinione pubblica. Lo Stato, non ritirandosi in una neutralità liberale e liberista, avrebbe dovuto propiziare la trasformazione e l’educazione morale e intellettuale del popolo italiano, e il miglioramento delle sue condizioni economiche. Soltanto in questo modo, gli ideali del mondo moderno avrebbero potuto attuarsi nel «limite», vale a dire nella concreta commisurazione alla realtà e alla vita del Paese.
Dopo il ripudio della ‘scuola storica’, soprattutto da parte di Giosue Carducci, che aveva consegnato il suo lascito a un ormai trascorso e infruibile idealismo, diversi nel 20° sec. sono stati i ‘ritorni’ di De Sanctis che hanno offerto l’immagine di una ‘eredità contesa’. La prima restaurazione critica dello storico irpino avvenne grazie alla cura filologica delle sue opere e alla straordinaria produzione saggistica di Benedetto Croce. Questi ne rilevò, in virtù di un’originale rielaborazione, il magistero estetico, seppure non pretermettendo, in particolare negli anni del fascismo, i suoi ammonimenti etico-politici. Nella scia crociana, ma attraverso un’accurata ricostruzione dell’ambiente intellettuale napoletano nell’Ottocento, si inserì la monografia (1928) di Luigi Russo (1892-1961), che intese porre in evidenza il De Sanctis educatore civile e morale.
Una svolta nella ricezione desanctisiana fu segnata da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere (scritti dal 1929 al 1935), prendendo abbrivo da un articolo di Giovanni Gentile del 1933 (Torniamo a De Sanctis!), critico delle posizioni di Croce e della sua teoria dei distinti e fautore, in virtù di una diversa interpretazione del pensatore irpino, di un’arte dalla profonda ispirazione religiosa, morale e politica. Gramsci ritrasse una nuova effigie di De Sanctis, presentato quale precursore di una critica letteraria congrua alla filosofia della prassi. De Sanctis, così, dopo essere entrato nell’albero genealogico storicistico-idealistico, assurse a padre spirituale del marxismo italiano. Secondo questa impostazione, fu pubblicata, all’inizio degli anni Cinquanta presso Einaudi, l’edizione (più completa rispetto a quella coeva, diretta da Russo per Laterza) delle opere di De Sanctis, a cura di Carlo Muscetta (1912-2004).
A tale acquisizione di paternità reagirono in differenti guise, fra gli anni Sessanta e Settanta, Sergio Landucci e Alberto Asor Rosa. Per Landucci, invero, più che una reazione fu un appuramento problematico di quella eredità, mediante una precisa periodizzazione del pensiero desanctisiano e la denuncia della sua ‘involuzione’ antisocialista dell’ultimo periodo. Molto più esplicite furono, invece, le riserve di Asor Rosa verso De Sanctis, nel ripercorrere, secondo i suggerimenti gramsciani, la storia degli intellettuali italiani a partire dall’Unità, nella quale al critico avellinese era attribuito un ethos borghese, risorgimentale e paternalistico, ma sostanzialmente conservatore.
Negli anni Settanta e Ottanta, che rappresentano, dopo quello crociano e quello marxista-gramsciano, un ultimo ‘ritorno’ del maestro irpino in occasione della preparazione e della celebrazione del centenario, notevoli sono stati i contributi di Fulvio Tessitore, fortemente polemici nei confronti dell’appropriazione marxista di De Sanctis che veniva, invece, studiato quale culmine ottocentesco di una tradizione storicistico-liberale meridionale risalente a Vincenzo Cuoco. Gli anni Ottanta si concludevano con un importante saggio di Giuseppe Galasso sulla Storia, nel quale era evidenziata la centralità della categoria di Rinascimento nella concezione storica di De Sanctis ed erano illuminati i caratteri peculiari della Storia della letteratura italiana, quale «autobiografia intellettuale della nazione» e sollecitazione alla sua «riforma intellettuale e morale». In questi ultimi anni, sulla base dei puntuali contributi offerti dagli Atti dei convegni del centenario, l’attenzione critica si è spostata verso un’investigazione degli aspetti precipui dell’opera e della passione politica di De Sanctis.
Opere, sotto la direzione di C. Muscetta, 20 voll., Torino 1952-1993.
La democrazia ideale e reale, a cura di G.M. Barbuto, Napoli 1998 (raccoglie gli articoli usciti sul «Diritto» di Roma del 1877-1878).
L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885), Venezia 1928, Roma 1983.
G. Gentile, Torniamo a De Sanctis! (1933), in Id., Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze 1936, pp. 173-81.
E. Croce, A. Croce, Francesco De Sanctis, Torino 1964.
S. Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano 1964.
G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, Roma- Bari 1973.
A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975.
C. Muscetta, Francesco De Sanctis, Roma-Bari 1975.
De Sanctis e il realismo, con introduzione di G. Cuomo, 2 voll., Napoli 1978.
Francesco De Sanctis nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, 2 voll., Roma-Bari 1984.
De Sanctis un secolo dopo, Atti del Convegno internazionale, Napoli-Firenze-Roma (13-17 settembre 1984), a cura di A. Marinari, 2 voll., Roma-Bari 1985.
G. Galasso, De Sanctis e i problemi della storia d’Italia, «Archivio di storia della cultura», 1989, pp. 9-31.
A. Marinari, De Sanctis Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 39° vol., Roma 1991, ad vocem.
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