DELLA SEGA, Francesco
Nacque all'incirca nel 1528 a Rovigo, borgo S.Bartolomeo, da Bartolomeo e da una Francesca di cui non si conosce il casato. Nulla si conosce della sua giovinezza. Probabilmente la sua famiglia era benestante visto che il D. a un certo punto si iscrisse all'università di Padova, dove intraprese gli studi di legge. Tuttavia il contatto con l'ambiente studentesco lo portò a preferire la vita gaudente e licenziosa allo studio. Con tutta probabilità la sua vita ebbe un'improvvisa svolta a seguito dei contatti che il D. cominciò ad intrattenere con gli ambienti eterodossi di Padova, dove affluivano numerosi gli studenti d'Oltralpe recanti spesso le novità religiose che da qualche anno avevano trovato fioritura nell'Europa settentrionale. Un povero calzolaio l'aveva addirittura ammonito di abbandonare la sua condotta licenziosa e di seguire l'esempio di Cristo. Tutto ciò turbò profondamente l'animo del Della Sega. Decise pertanto di abbandonare gli studi e di seguire la strada della perfezione cristiana ad ogni costo, nonostante ciò destasse lo scherno dei suoi amici, meravigliati "perché non voleva più correre nella medesima superfluità et vita lussuriosa come gli altri", e il padre reagisse cacciandolo di casa (Stella, 1967, p. 110).
Non si può escludere che sulla sua formazione religiosa possano avere influito anche le dottrine filosofiche che andavano per la maggiore all'interno dello Studio di Padova. Incontrava particolare successo il razionalismo aristotelico di Pietro Pomponazzi che negli ambienti e conventicole eterodossi si tendeva ad applicare anche al campo religioso e teologico. I dibattiti in materia religiosa in terra veneta acquistavano maggior vigore anche grazie all'affluenza di numerosi rifugiati "religionis causa" soprattutto nel periodo che va dal 1545 al 1547. Grazie all'apporto di tutti questi elementi si giunse ben presto alla formulazione di dottrine estremamente radicali rispetto al riformismo religioso di stampo luterano o calvinista. L'antitrinitarismo, cioè la negazione della Trinità divina in quanto razionalmente inconcepibile, fu lo sbocco al quale pervennero molti eterodossi veneti in questo periodo. Tra questi viene annoverato anche il D., se si presta fede alla tradizione che lo vuole tra i partecipanti ai leggendari convegni che si tennero attorno al 1546 in alcuni palazzi nobiliari vicentini. A queste riunioni convenivano personaggi di una certa levatura morale ed intellettuale provenienti da varie parti d'Italia (tra questi Giampaolo Alciati, Giorgio Biandrata, Francesco Negri da Bassano, Matteo Garibaldi Mofa, Nicolò Paruta, Valentino Gentile da Cosenza, Girolamo Busale, Giulio Gherlandi, Bernardino Ochino, Lelio Sozzini).
Per qualche tempo gli eretici poterono muoversi liberamente soprattutto perché la Repubblica sottovalutava l'importanza del fenomeno nonostante i pressanti appelli del pontefice Paolo III che ventilavano la possibilità che la ribellione religiosa potesse facilmente trasformarsi in sedizione politica. La gravità della situazione divenne manifesta nel 1551 allorché l'anabattista rinnegato Pietro Manelfi rivelò la fitta rete di nomi che formava il fronte dell'eterodossia all'interno della Repubblica veneta. La reazione delle autorità ecclesiastiche e civili non tardò a farsi sentire. Molti anabattisti (appartenenti per la maggior parte alle classi popolari) vennero ben presto incarcerati e sottoposti a processo, altri riuscirono a sfuggire alla repressione. Il D. e il trevigiano Giulio Gherlandi si rifugiarono in un primo momento in Austria, quindi, dopo qualche tempo, trovarono asilo presso la comunità dei fratelli hutteriti di Pausram in Moravia. Sia il D. sia il Gherlandi tendevano ormai a sconfessare le antiche dottrine antitrinitarie e manifestavano la volontà "di trovar un popolo, il qual per lo evangelio de la verità sia liberato da la servitù del peccato et che camini in una nuova vita et regeneration celeste per la resurretione di Giesù Cristo" (Giulio Gherlandi, cit. in Stella, 1969, p. 156). Da questo momento in avanti, grazie anche alla propaganda del Gherlandi e del D., tutti coloro che intendevano vivere nella fede anabattista si diressero ormai verso la Moravia dove le aspirazioni religiose comunitarie sembravano aver trovato realizzazione. Il Gherlandi stesso ritornò più volte in Italia, a partire dal 1557, con l'intenzione di raccogliere i fratelli dispersi e indirizzarli verso la terra promessa. Malauguratamente nel 1560, durante uno dei suoi viaggi, venne catturato a San Polo di Piave, tradotto in carcere e sottoposto a processo dal S. Offizio di Venezia. Nel frattempo in Moravia il D. aveva intrapreso la professione del sarto, si era sposato con una donna grigiona e da quel matrimonio nacque ben presto un figlio. Questo non gli impedì comunque di proseguire l'opera di proselitismo iniziata dal Gherlandi e terminata prematuramente con la sua cattura. Decise pertanto di partire a sua volta per l'Italia. Con lui viaggiava anche Antonio Rizzetto, un anabattista vicentino fuggito a seguito della repressione scatenata dalla Serenissima negli anni 1551-1552. Entrati nel territorio della Repubblica i due riuscirono a raccogliere una ventina di correligionari da condurre in Moravia, per la maggior parte famiglie di Cittadella. Con loro si trovava anche il medico padovano Niccolò Buccella. Malauguratamente non riuscirono a passare il confine poiché, a seguito della denuncia di un certo Alessio Todeschi, vennero arrestati a Pola il 27 ag. 1562 dal podestà di Capodistria. Comunque vennero trattenuti solamente il D., Rizzetto e Buccella.
Tutti gli altri riuscirono fortunosamente a proseguire il viaggio per la Moravia. Dai primi interrogatori ai quali vennero sottoposti i tre anabattisti catturati si poté appurare l'entità del fenomeno delle fughe in Moravia grazie alla continua opera di proselitismo condotta da coloro che ritornavano temporaneamente in patria. Il D. risultò particolarmente compromesso in quanto venne trovato in possesso di un documento nel quale erano contenuti i recapiti di numerosi anabattisti veneti che probabilmente erano in attesa, di poter fuggire in Moravia. Pertanto i tre vennero condotti a Venezia, rinchiusi in carcere e sottoposti a processo. Per tutta la durata del processo il Rizzetto mantenne un comportamento esemplare mostrandosi irremovibile alle esortazioni che gli venivano rivolte affinché si pentisse ed abiurasse la propria fede. Il D. sembrava a sua volta deciso ad affrontare il martirio seguendo l'esempio di Giulio Gherlandi che avevano incontrato per l'ultima volta in carcere prima che quest'ultimo venisse giustiziato. Il processo si trascinò per due anni e si risolse con l'abiura del Buccella, il quale venne ben presto assolto e rimesso in libertà, e con la condanna a morte per annegamento del Rizzetto e del Della Sega.
La pertinacia e l'ostinazione del D. nel persistere sulle proprie posizioni si manifestava sovente in astiose espressioni di avversione per la Chiesa di Roma. Frastornato dalle insistenti domande dell'Inquisitore su quale ritenesse essere la vera Chiesa di Cristo, rispondeva, che "Essendo che la chiesa di Christo die esser senza ruga, e machia di peccato, et in nessun modo tenire, ne supportare li mal fattori per membri suoi, acciò non si facci participe delli peccati d'altri, però tengo che la Chiesa Romana, del Papa non sia la Chiesa di Christo per questo, et sopporta in lei biastemadori, zugadori, maldicenti, imbriaghi, fornicatori, putane, pomposi, superbi, litigiosi, et simili molti, li quali non sono de Christo, ma del Diavolo" (Arch. di St. di Venezia, S. Uffizio, b. 19, c. 34).
A nulla valsero le esortazioni che il Buccella rivolse loro affinché non persistessero nel loro comportamento e prendessero piuttosto la facile strada dell'abiura. "Per obedientia delle rev.me et ecc.me Signorie Vostre - riferiva il Buccella ai giudici del Sant'Offizio - son stato doi giorni alle preggioni da Francesco da Rovigo et Antonio Riceto; et quantunque me sia affaticato assai a dimostrarli sono in errori gravissimi, non però ho potuto operar che ponto habbino volsuto riconoscersi et ravedersi, anzi stando pertinazi si credono esser nella verità" (Stella, 1969, p. 188). Il pio visitatore a sua volta ritrovò il D. ostinatamente "superbo, duro, astuto, che si burla di chi desidera farli bene, pieno di tanto veneno di maledicentia contra la Santa chiesa Romana, quanto non si potrebbe dire" (Arch. di St. di Venezia, S. Uffizio, b. 13, com. 26 febbr. 1565). Tuttavia il più pertinace si dimostrò il Rizzetto, rimanendo risoluto sino all'ultimo ed esortando anzi il D. a seguire la stessa condotta e a non cedere al turbamento che pareva avesse preso quest'ultimo in un primo tempo. Alla fine, come prescriveva la sentenza, vennero fatti annegare nelle acque della laguna nel mese di febbraio del 1565 condividendo così la sorte che era toccata due anni prima al Gherlandi.
Il martirio venne accettato soprattutto nella consapevolezza dell'inevitabile progresso spirituale che doveva condurre al rinnovamento della società in ottemperanza alla volontà divina. Di ciò veniva resa testimonianza nel Memoriale che il D. indirizzava nel 1564ai patrizi veneti (edito in Stella, 1969, pp.272-89). Nelle parole dell'anabattista rodigino vi era infatti la consapevolezza del ruolo che i veri cristiani si trovavano a svolgere in quel momento e che veniva testimoniato nell'aperta professione di fede e nell'accettazione del martirio. In effetti "se voi, o clarissime Signorie Vostre, vi anteporete a l'Omnipotente ponendoli tempo della sua misericordia verso de noi, et ne abbrevierete il tempo o consentirete alla morte nostra, sarete senza dubbio causa della ruina nostra et Iddio giusto giudice recercherà il sangue nostro dalle man vostre. Da l'altra parte se questa opera è da Dio, nissuno signore né principe del mondo la potrà disciolvere, essendo che lui è omnipotente; et se ben noi fussimo disciolti et morti, non però seria disciolta tal opera perché noi non siamo il principio et neancho il fine, ma li minimi delli altri delli quali molti sono statti inanzi a noi, sono et facilmente serano dapoi, li quali sono lontani da questi paesi, onde tanto mancho si possono extinguere. Ma la morte nostra et d'altri per conto della religione potria causare in questi paesi come in altri è intervenuto, che quanti più li segnori ne hano amazzadi tanti più ne sono moltiplicadi, perché per la morte di uno molti si edificano a creder il medesmo". Il Memoriale testimonia del fatto che ormai l'anabattismo degli esuli italiani in Moravia stava guadagnando l'ideale di una religione fondata interamente sull'impegno morale, tesa alla realizzazione di un cristianesimo etico che trovava il proprio fulcro nel concetto della "imitatio Christi". Era del resto un cristianesimo che rifiutava le disquisizioni dottrinali e che tendeva ormai a far proprio il tema della tolleranza religiosa, poiché "appare manifestamente che se li christiani hano da esser perseguitadi non devano, né possono perseguitar et amazar altri, anchor che fussero in verità heretici et apostati".
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Sant'Uffizio, bb. 18-19; T. Maccrie, Istoria del progresso e dell'estinzione della Riforma in Italia nel secolo sedicesimo, Genova 1858, pp. 263 s.; C.Cantù, Gli eretici d'Italia, III,Torino 1866, p. 156; B. Morsolin, L'Accademia de' Sociniani in Vicenza, in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere e arti, V (1878-79), pp. 457-461;E. Comba, I nostri protestanti, II,Firenze 1897, pp. 537-557; E. M. Wilbur, A history of Unitarianism. Socinianism and its antecedents, Cambridge, Mass., 1946, pp. 81-83; A. Stella, Dall'anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto. Ricerche storiche, Padova 1967, pp. 110-119 e passim; Id., Tradizione razionalistica patavina e radicalismo spiritualistico nel XVI secolo, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, XXXVII(1968), p. 297;Id., Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo. Nuove ricerche storiche, Padova 1969, pp. 156-159, 165-171, 181-189, 241-300 e passim; D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611). Studi e documenti, Firenze-Chicago 1970, pp. 39-46; A. Stella, Ecclesiologia degli anabattisti Hutteriti veneti (1540-1563), in Boll. della Soc. di studi valdesi, CXXXIV (1973), pp. 18-27;Id., Gli eretici a Vicenza, in Vicenza illustrata, a cura di N. Pozza, Vicenza 1976,pp. 260 s.; J. Cabianca-F. Lampertico, Storia di Vicenza e sua provincia, Brescia 1975, p. 762.