FRANCESCO I (Gennaro Giuseppe), re delle Due Sicilie
Nato a Napoli il 14 agosto 1777, morto ivi l'8 novembre 1830. Era figlio di Ferdinando I e di Maria Carolina, arciduchessa d'Austria. Alla morte di Carlo Tito, suo fratello primogenito, avvenuta il 7 dicembre 1778, ebbe il titolo di principe ereditario e di duca di Calabria. D'animo cupo, non bello di persona, non fu amato dalla madre, che cercò sempre di tenerlo lontano dai pubblici affari. Il 25 giugno 1797 sposò l'arciduchessa Maria Clementina, figlia dell'imperatore d'Austria Leopoldo II, morta il 14 novembre 1801 lasciandogli una figlia, Carolina; e il 6 luglio passò in seconde nozze con l'infante Maria Isabella, figlia di Carlo IV, re di Spagna. Seguì la sorte di suo padre, costretto a rifugiarsi in Sicilia, abbandonato il trono di Napoli dapprima a Giuseppe Bonaparte, poi a Gioacchino Murat. E a Palermo mostrò tendenze liberali, specialmente quando lord Bentinck sbarcò nell'isola, dove ebbe subito fieri contrasti con lo spodestato Ferdinando e più con la regina Maria Carolina, ai quali impose di lasciar Palermo e di proclamare vicario il duca di Calabria. Durante la sua luogotenenza fu concessa la costituzione del 15 gennaio 1812; ma quel suo potere durò breve tempo, poiché lord Bentinck abbandonò la Sicilia nel novembre del 1813; e Ferdinando, tornato a Palermo, tolse al figlio la qualità di alter ego, lasciandolo però nell'isola col titolo di suo luogotenente, quando (27 maggio 1815) tramontato l'astro napoleonico, e con esso la fortuna di Gioacchino Murat, tornò sul trono di Napoli. Il duca di Calabria rimase in Sicilia fino ai primissimi del luglio 1820, finché, scoppiati i moti rivoluzionarî, il padre lo richiamò a Napoli, sostituendolo con l'inetto generale Naselli. Raggiunse la capitale del regno nei giorni in cui, promulgata la costituzione, il popolo sfilò plaudente dinnanzi alla reggia, da dove, in rappresentanza del padre "che si era chiuso nei più remoti penetrali del palazzo" presentò la sposa e i dignitarî di corte, sventolò un fazzoletto salutando con gioia la folla, ornata in gran parte di coccarde carbonare; specialmente gratificando di sorrisi quello "squadrone sacro", cioè la compagnia che aveva disertato a Nola, innalzando il vessillo della rivoluzione. Ricevette subito dopo G. Pepe, il De Conciliis, il Minichini e pochi altri; e rivolgendosi al primo di essi, confermò il suo compiacimento per la riforma costituzionale, dichiarando che prima il "trono non era saldo" e ora invece diventava "saldissimo", perché poggiava "sulla volontà e gl'interessi del popolo". Condusse poi quella commissione dal padre, che era disteso in letto "per infermità o infingimento". Quando, dopo aver giurato la costituzione, Ferdinando I partì per il congresso di Lubiana, lasciò il figlio reggente del regno; e nonostante le tristi notizie giunte a Napoli, costui adunò il parlamento in sezione straordinaria, ripetendo il voto di fedeltà agli "antichi giuramenti"; anzi non si oppose all'invio di due eserciti, comandati dal Pepe e dal Carascosa, per respingere alla frontiera l'invasione austriaca. Tornata la reazione dopo il disastro di Rieti, il duca di Calabria si tolse quella maschera di simpatizzante per il regime costituzionale, che aveva fino allora assunto specialmente per il suo temperamento pauroso che lo costringeva alla dissimulazione più raffinata. Appena salito al trono per la morte del padre (4 gennaio 1825), educato agl'inganni dei suoi vicariati di Sicilia e di Napoli, già inoltrato negli anni, e tutt'altro che florido in salute, non si rivelò migliore di suo padre, che superò anzi nell'arte della simulazione. Uno dei suoi primi atti fu l'abolizione della guardia nazionale e la firma della convenzione del 25 ottobre 1825 con cui arruolava un corpo dî soldati svizzeri; al quale proposito, egli, nell'aprile precedente, aveva fatto in gran pompa un viaggio a Milano, insieme con la regina, chiamatovi dall'imperatore a far atto di vassallaggio, e colà aveva approvato che l'evacuazione delle forze austriache dal regno di Napoli fosse protratta fino al marzo del 1827. L'anno dopo sedò con estremo rigore la rivolta del Cilento e i tentativi insurrezionali della Calabria. Circondato da persone inette e malvagie, lasciò che sotto il suo regno si contrattassero impieghi, favori, vendette: il Caporese, per citare un esempio, per essere nominato ministro delle Finanze, pagò al Viglia, favorito del re, trentamila ducati. Nel 1828, per rintuzzare certe pretese del bey di Tripoli, inviò colà una spedizione che tornò indietro dopo un completo insuccesso; l'anno dopo (20 settembre) partì da Napoli insieme con la regina, per recarsi a Madrid, dove sua figlia andava sposa a Ferdinando VII, re di Spagna. Tornato indietro (maggio 1830), passò per Parigi ospite di Carlo X e colà seppe che si stava preparando il moto rivoluzionario che poi scoppiò nel luglio. S'affrettò quindi per la via del ritorno. Negli ultimi mesi di vita soffrì frequenti vaneggiamenti. Ebbe numerosi figli: Carlo principe di Capua, Leopoldo conte di Siracusa, Antonio conte di Lecce, Luigi conte d'Aquila e Francesco conte di Trapani, oltre a Maria Luisa Carlotta, maritata all'infante don Francesco di Paola, Maria Cristina, moglie di Ferdinando VII di Spagna, Maria Antonietta, Maria Amalia, Maria Teresa e Maria Carolina, sposate rispettivamente a Leopoldo II di Toscana, a don Sebastiano infante di Spagna, all'imperatore del Brasile e a don Carlo Borbone, conte di Montmoulin.
Oltre alle storie del Colletta, del La Farina, del De Sivo, v., per il vicariato di Sicilia, G. Bianco, La Sicilia durante l'occupazione inglese, Palermo 1902; e per la parte biografica, N. Nisco, Il reame di Napoli, Napoli 1887. Dei panegirici pubblicati dopo la sua morte non è qui da far cenno.