FRANCESCO I Sforza, duca di Milano
Nacque il 23 luglio 1401 da Muzio Attendolo Sforza e da Lucia sua concubina, in San Miniato. Affidato a Niccolò d'Este, ed educato a Ferrara nella prima giovinezza, a dodici anni fu richiamato dal padre a Napoli; e si avviò all'arte militare. Già nel 1417 nel fatto d'arme di Toscanella, contro il Fortebracci, si comportò in modo da far invidia śi veterani; l'anno dopo il padre gli diede in moglie Polissena Ruffo, erede della contea di Altomonte, e gli affidò un corpo speciale di milizie. Fu ferito sotto Napoli, durante la campagna condotta dal padre contro la regina Giovanna e l'onnipossente Giovanni Caracciolo; riavutosi, si recò in Calabria dove, in seguito alla morte di Polissena, era scoppiata una rivolta nei suoi estesi possedimenti, e vi andò investito dall'Angioino della carica di viceré: ventenne appena ristabilì l'ordine e governò con mirabile saggezza. Dovette poi abbandonare la Calabria quando il padre mosse contro Braccio oa Montone, che assediava Aquila (1424); Muzio Attendolo, al guado della Pescara, moriva annegato e F., che già aveva passato il fiume, e batteva vigorosamente il nemico, dovette riordinare le milizie per la ritirata. Abbandonata l'impresa, Giovanna lo mandò a riconquistare Napoli. Egli assediò la capitale da terra, ma più che le armi, valse questa volta il suo accorgimento, essendo riuscito ad avere per denaro dal governatore Caldora la città. Coronò il trattato il matrimonio di lui con la figlia del Caldora. Decisa la ripresa della guerra contro Braccio, la regina diede il comando supremo al Caldora, e F. partecipò col suocero alla campagna, che si concluse con la grande vittoria dì Aquila.
Accettò nell'agosto la condotta offertagli da Filippo Maria, e mosse contro i Veneziani, per ritoglier Brescia al Carmagnola. Ma, per la discordia regnante nell'esercito, il consiglio di F. di dar battaglia non fu ascoltato, e Brescia con la riviera del Garda fu perduta. Più gravi effetti dei dispareri si videro alla battaglia di Maclodio (ottobre 1427) il cui esito fu fatale ai Viscontei. Nel 1430 Venezia era decisa a riprendere la guerra insieme coi fiorentini. Questi avrebbero voluto assoldar lo Sforza, ma Filippo, dopo aver maltrattato F., lo adescava ora con la promessa di dargli in isposa la propria figlia naturale Bianca Maria (che aveva otto anni) e adottandolo per figliolo. F. accettò la condotta, e col concorso dell'altro capitano, Niccolò Piccinino, sconfisse i Veneziani a Soncino (marzo 1431) distruggendone poi la flotta sul Po presso Cremona.
La nuova pace di Ferrara (1433) dava agio al Visconti di molestare il papa Eugenio IV, veneziano e a lui avverso, facendo rivivere la guerra nella Romagna mal governata dai legati pontifici, e allo Sforza offriva l'occasione di crearsi uno stato proprio. Informato che Giacomo Pandola infestava i suoi possessi nelle Puglie, chiese al papa il permesso di passaggio attraverso i suoi stati, mentre il duca, prevedendo che il passaggio si sarebbe mutato in conquista, tramava segreti accordi col concilio di Basilea. Nell'autunno del 1433 F. partiva dalla Lombardia.
Arrivato all'improvviso nella Marca d'Ancona la trovò tutta sconvolta dal mal governo del legato Giovanni Vitelleschi; ostentò lettere del concilio, che sembra autorizzassero l'occupazione del territorio papale, mentre le popolazioni disperate lo esortavano a prendere il Governo. In pochi giorni fu padrone di tutta la Marca, compresa Ancona. Nell'inverno, passato l'Appennino, occupò Todi, Amelia ed altri luoghi, dichiarandosi apertamente nemico del papa e rappresentante del concilio. Eugenio, per evitar di peggio, pensò bene di accordarsi con l'invasore, lo riconobbe quale marchese della Marca anconetana, e quale vicario pontificio nei luoghi occupati nell'Umbria, col titolo di Gonfaloniere della Chiesa. Nuove imprese lo chiamarono in Toscana, dove Niccolò Piccinino era piombato con la mira d'impadronirsi di Pisa: affrontatolo a Barga lo sconfisse (1437), costringendolo a ritornare in Lombardia. Filippo Maria era di nuovo assalito dai Veneziani; i quali chiamarono F., mentre, allo stipendio dei Fiorentini, stava assediando Lucca. Lo Sforza accettò, ma pose il campo a Reggio resistendo agli ordini di passare il Po: atteggiamento che ebbe conseguenze gravi, perché Venezia, indignata, si staccò dalla lega, ma che si spiega con le offerte di conciliazione che il duca gli aveva fatto. La preoccupazione di non urtare troppo di fronte il duca di Milano presiede a parecchi atti dello Sforza e conferma le sue lungimiranti aspirazioni riguardo al ducato milanese. All'offerta di conciliazione seguì un trattato che F. fece per sé, trovando modo di comprendervi indirettamente anche Firenze (28 marzo 1438): punti essenziali erano la consegna della sposa, Bianca Maria, al condottiero, la libertà da parte di quest'ultimo di prendere le armi per chi volesse, purché non contro il duca, e divieto a questo invece di combattere i Fiorentini. Ma ben presto Filippo Maria tornò sotto l'influenza dei nemici dello Sforza e le insidie ricominciarono. Mentre il Piccinino, ufficialmente per proprio conto, in realtà mandato dal Visconti, invadeva parte della Romagna, togliendo terre al papa, e le oramai sforzesche Marche, Filippo consigliava al futuro genero di entrare nell'Abruzzo per congiungersi in Napoli con Renato d'Angiò, in lotta con Alfonso d'Aragona per il possesso del reame. Era un'insidia per creargli un nemico di più nell'Aragonese e per metterlo in difficoltà che lo costringessero ad accettare la sua alleanza. Francesco ci cadde; mandato il fratello Giovanni a fronteggiare il Piccinino nelle sue Marche, marciò nell'Abruzzo e in breve ridusse in suo potere quanto è fra il Tronto e la Pescara. Raggiunto il suo scopo, Filippo lo fermò, pensando che dopo un trionfo non avrebbe avuto più bisogno di riconciliarsi con lui, e intimò con minacce ai Fiorentini di richiamarlo. Per non perdere gli stipendî dei Fiorentini e i sussidî e le promesse del Duca, lo Sforza, sebbene a malincuore, rinunciò all'impresa e tornò nelle Marche per sottomettervi alcune città ribelli.
Frattanto la guerra aveva continuato in Lombardia con grave danno dei Veneziani, che tentarono di ricostituire la lega con Firenze e lo Sforza. Facile era intendersi con la prima; difficile con l'altro la cui politica era subordinata ai suoi piani riguardo al milanese. Tuttavia, per l'influsso di Cosimo dei Medici, F. finì con l'accettare; e la nuova lega si fece. Giunto a Venezia (1439), F. trovò le cose agli estremi; tutto il paese occupato, demoralizzato l'esercito. Ma il solo suo avvicinarsi aveva già modificato la situazione: il Piccinino si era prudentemente ridotto alla difensiva. F. batté prima il rivale sul Garda per liberare Brescia; poi, approfittando dell'improvvisa diversione del Piccinino in Toscana, che ebbe per risultato la sconfitta del Visconteo ad Anghiari (27 giugno 1440), riconquistava non solo tutto il dominio di Venezia, ma portava la guerra in quello del duca. Restava solo passar l'Adda, come volevano i Veneziani; ma lo Sforza si schermì, perché la spogliazione del Duca voleva dire la propria. Finalmente Filippo s'indusse a fare offerte serie (1441): resistette alle pressioni del Piccinino per sottomettersi alla volontà dello Sforza, che pretendeva solide guarentigie e per sé l'ufficio di arbitro nel trattato definitivo di pace, che peraltro non avrebbe intavolato se non dopo il matrimonio con Bianca Maria. Venezia rimase male nel vedere tanta preponderanza d'interessi personali: il Senato lo chiamò a dare spiegazioni. F. sebbene sconsigliato da amici che temevano facesse la fine del Carmagnola, andò, spiegò lealmente il suo pensiero ed ebbe causa vinta. Il matrimonio fu celebrato in Cremona, data in dote alla sposa, nell'ottobre del 1441.
Ma neppure ora F. poteva vivere tranquillo. Il matrimonio invece di avvicinare il suocero al genero parve allontanarli di più. Filippo, sospettoso, lo teneva lontano dagli affari, e F. si stringeva sempre più a Venezia. C'era in realtà fra loro una profonda divergenza di vedute politiche: lo Sforza mirava alla pace, fondata sull'equilibrio degli stati italiani, il Visconti era ossessionato dalla smania di sterminare i Veneziani. Dei dissensi naturalmente approfittavano i nemici dello Sforza, primo il Piccinino.
Nell'Italia meridionale le cose dello Sforza andavano alla peggio: Benevento, le sue floride terre dell'Abruzzo e della Puglia erano occupate dall'Aragonese; Renato d'Angiò, ridotto agli estremi, gli mandava disperate invocazioni di soccorso. Dopo aver mandato laggiù il fratello Giovanni con milizie, stava egli stesso per passare il Tronto, quando ebbe notizia che il Piccinino aveva ancora invaso le Marche e che il papa, revocate la carica di gonfaloniere e le concessioni fattegli, lo aveva dichiarato ribelle: tutto ad opera del suocero sdegnato perché non gli riusciva di staccarlo dai Veneziani e conciliarlo col Piccinino. La maggior parte dei territorî sforzeschi cedette; finché, sopraggiunti rinforzi da Venezia e da Firenze, lo Sforza nel novembre del 1443 riportò una completa vittoria a Monte Loro e quindi a Montolmo sbaragliò i due eserciti uniti del Piccinino e di Eugenio IV; questi accettò la pace, da F. abilmente offertagli (10 ottobre 1444), e gli confermò il possesso delle Marche.
Ma la pace era illusoria: troppo premeva al papa di riavere le Marche; Alfonso temeva non venisse allo Sforza la voglia di scendere nel Reame; Filippo Maria gli si voltava contro un'altra volta e mandava genti ad assalire Cremona. Firenze e Venezia stentavano a pagargli gli stipendî. Fu un momento critico.
Finalmente, manifestatesi alcune circostanze favorevoli, prima fra tutte la disfatta subita ad opera dei Veneziani, da Francesco Piccinino, capo della spedizione di Cremona, le sorti mutarono. I Veneziani, presi da entusiasmo, passarono l'Adda: e invasero il paese fin sotto Milano. Filippo Maria finì per supplicare il genero a non abbandonarlo; e Francesco s'indusse a entrare in trattative (gennaio 1447). Sennonché Filippo, sempre sospettoso, passata l'imminenza del pericolo, mandava in lungo gli accordi, mostrando molta malafede, sì che F. esitava a venire in Lombardia e si manteneva tuttora fedele ai Veneziani. Frattanto Nicolò V, successo ad Eugenio, amico della pace, fece passi per concluderla; ma voleva che lo Sforza rinunciasse ai suoi diritti sulle Marche. Rincresceva molto a F. perdere la sua vecchia signoria: ma bisognò decidersi: Filippo era gravemente malato: rinunciò e mosse da Pesaro verso la Lombardia. Durante il viaggio ebbe la notizia della morte del duca e degli avvenimenti che seguirono in Milano: la proclamazione della repubblica ambrosiana. Se si fosse trovato a Milano al momento della morte del suocero, lo stato era suo; ora bisognava conquistarlo. Fortunatamente per lui l'effimera repubblica, osteggiata da tutte le città lombarde sottrattesi al dominio di Milano, in guerra coi Veneziani, commise lo sproposito di affidargli il comando delle proprie milizie. Era questione di tempo: egli doveva trionfare, e infatti trionfò (v. ambrosiana, repubblica). Il 26 febbraio 1450 F. Sforza entrò in Milano, che, stanca di tre anni d'anarchia repubblicana, lo accoglieva come liberatore e lo acclamava duca.
Fin dai primi giorni rifulsero le sue grandi qualità di principe. Disse di voler essere non un despota, ma un padre, volle che il suo potere fosse basato sopra un contratto, che definisse diritti e doveri reciproci del principe e dei sudditi. Firmato il 3 marzo questo solenne contratto, ritornò al campo contro i Veneziani. Ben poco riposo doveva avere durante il suo dominio. Egli pretendeva Bergamo e Brescia, già appartenenti ai Visconti, Verona e Vicenza come retaggio scaligero passato con Regina della Scala nella casa viscontea; Venezia voleva il confine all'Adda. La Serenissima strinse lega con Savoia e con Aragona; Francesco con Firenze e con Carlo VII di Francia. La guerra, durata quattro anni, finì nel 1454 con la pace di Lodi (v.) che coinvolse quasi tutti gli stati italiani. F., cedendo a ragioni d'equilibrio, rinunciò alle sue pretese sulle quattro città.
Un campo adatto all'abilità del novello duca, fu la repubblica, in questo tempo libera, di Genova, guerreggiata da Alfonso d'Aragona d'accordo coi fuorusciti genovesi. Il doge, oppresso da un cumulo di difficoltà accresciute dalle fazioni interne, aveva finito per assoggettare la repubblica al re di Francia; ma i Francesi si fecero tanto odiare che la città ricorse per aiuto a Francesco. Egli ben volontieri lo accordò, sapendo di far cosa grata al suo amico, il Delfino di Francia Luigi, in discordia col padre. Gli aiuti sforzeschi decisero della vittoria. Genova tornò libera, ma subito ripresero a straziarla le fazioni, con soddisfazione dello Sforza che, naturalmente, mirava a restaurarvi l'antico dominio di Milano. La morte di Carlo VII e l'avvento al trono di Francia di Luigi XI, gli consentirono di tradurre le sue aspirazioni in realtà: preoccupato delle cose interne, il nuovo re volle sbarazzarsi del possesso di Savona e la cedette, insieme con i suoi diritti su Genova, all'amico Sforza. Avuta Savona e tutta la riviera, dopo aver ben preparato il terreno coi nemici del partito dominante in Genova, lo Sforza fece calare dalla Polcevera Gaspare Vimercati, che entrò in città il 19 aprile 1464. Terminata nel regno di Napoli la lunga, acerba lotta fra Angiò ed Aragona, col completo trionfo di Ferdinando successo ad Alfonso, Francesco si mise in pace anche da questa parte: pegno di amicizia fu il matrimonio (estate del 1465) della sua figlia Ippolita con Alfonso figlio del re di Napoli. Al re di Francia lo Sforza dava prove tangibili di amicizia: ché, scoppiata la guerra del bene pubblico, F. mandò in soccorso del re, con un esercito, il figlio Galeazzo Maria. Il re diede al giovane guerriero le più ampie prove di gratitudine. Galeazzo Maria era ancora in Francia, quando, l'8 marzo del 1466, dopo due giorni di malattia, F. morì.
V. tav. CLXXVII.
Come uomo di stato F. fu il primo che con successo abbia tentato di realizzare la pacificazione d'Italia mediante l'equilibrio degli stati. Come condottiero, fu, con Braccio da Montone, il più celebre fra tutti gl'italiani del sec. XV: caratterizzò la sua arte militare più una sagace e prudente condotta che l'offensiva violenta.
Così il nuovo duca di Milano aveva sistemato saldamente la sua posizione in Italia: posizione rafforzata dalla stretta amicizia che lo univa con Luigi XI. Né si deve dimenticare che egli fu amministratore sagace del pubblico denaro; amante del decoro e della prosperità di Milano, che abbellì con edifici grandiosi e dotò di opere di grande utilità, come il canale della Martesana derivato dall'Adda, e l'Ospedale Maggiore, da lui fondato e insediato nel magnifico palazzo iniziato dal Filarete e continuato dal Solari. Favorì la cultura, accogliendo presso di sé insigni umanisti, e fu alta sua benemerenza l'affettuosa ospitalità offerta a Costantino Lascaris profugo dalla caduta di Costantinopoli; favorì le industrie, in modo particolare quella della seta che, introdotta in Milano da Filippo Maria, ebbe per lui, nel 1461, la sua prima organizzazione corporativa.
Fonti: B. Corio, Storia di Milano, Milano 1855; C. Simonetta, Delle memorabili imprese fatte da Francesco Sforza, Venezia 1544; P. C. Decembrio, Vita Philippi M. Vicecomitis, in Rerum Italicarum Script., 2ª ed., Bologna 1925, 1926, 1928; id., Vita Francisci Sfortiae usque ad a. 1462, Rerum Italicarum Script., XX; L. Bonincontri, Annales, ivi, XXI.
Per le fonti documentarie, la gran massa dei documenti giace ancora, inedita, negli archivî. L'unica grande raccolta, concernente la politica estera, è quella di B. de Mandrot, Dépêches des ambassadeurs milanais en France sous Louis XI et François Sforza, voll. 4, Parigi 1916-1924.
Bibl.: Manca un'esauriente monografia d'insieme, e bisogna ancora riportarsi al vecchio e assolutamente insufficiente lavoro di E. Rubieri, Francesco I Sforza, vol.. 2, Firenze 1879. Più numerosi gli studî particolari; specie per la signoria sforzesca nelle Marche. Cfr. G. Valeri, Della Signoria di F. S. nella Marca, in Archivio Stor. Lombardo, 1884; G. Benaducci, Della signoria di F. S. nella Marca e peculiarmente in Tolentino, Tolentino 1892; A. M. Rosi, Della signoria di F. S. nella Marca, Recanati 1895; A. Gianandrea, Della Signoria di F. S. nella Marca, Milano 1881; B. Feliciangeli, Delle relazioni di Francesco Sforza coi Camerti e del suo governo nella Marca, Ascoli Piceno 1909.
Per il periodo 1447-1454, v. la bibl. dell'art. ambrosiana, repubblica. Inoltre L. Rossi, Venezia e il re di Napoli, Firenze e F. Sforza (1450-1451), in Nuovo Archivio Veneto, X (1905); id., Niccolò V e le potenze d'Italia, in Rivista di Scienze Storiche, II-III (1905-1906); id., Lega tra il duca di Milano e i Fiorentini e Carlo VII re di Francia, in Arch. Stor. Lombardo, 1906; G. Soranzo, La lega italica, Milano 1926. Per il periodo posteriore: L. Fumi, F. S. contro J. Piccinino (1450-1458), Perugia 1910; id., L'atteggiamento di F. S. verso S. Malatesta in una sua istruzione del 1462, in Arch. stor. lombardo, XIX, 1913; id., Roberto Sanseverino all'impresa di Napoli per Ferdinando I, ibid., XVII, 1912; id., Il disinteresse di F. S. alla crociata di Callisto III contro i Turchi, ibid., XVII, 1912.
Sui rapporti col papato nel periodo seguente, cfr. G. Soranzo, Pio II e la polit. ital. nella lotta contro i Malatesti (1457-1463), Padova 1911. Per la politica genovese, A. Sorbelli, F. Sforza a Genova (1458-66), Bologna 1901.