INDIA, Francesco (Francesco Torbido, detto anche il Moro)
Nacque a Venezia dal veronese Marco tra il 1482 e il 1485 (Repetto Contaldo, 1984, p. 53). In questa città, secondo le parole di Vasari (p. 291), apprese i principî della pittura da Giorgione, "il quale imitò poi sempre nel colorito e nella morbidezza". Nessuna altra fonte conferma però questa notizia; né trova altro riscontro la voce che l'I. fosse "alquanto manesco". Questa sarebbe stata infatti, per lo storico aretino, la causa del suo trasferimento a Verona, avvenuto con certezza tra il 1499 e il 1501 (Da Re, 1907 e 1913). Nella città atesina l'I. trovò ospitalità presso il conte Zenovello Giusti e, racconta Vasari (p. 292), prese a praticare la bottega di Liberale da Verona: ipotesi credibile perché la familiarità tra i due artisti è confermata da successivi documenti (Eberhardt). Rimane comunque una questione aperta quella della prima formazione dell'I. e di tutta la sua attività giovanile, che, vuota di opere e di documenti, si può solamente immaginare condizionata, a Venezia, da Giovanni Bellini e Giorgione e, a Verona, da Liberale.
Il nome dell'I. compare in fonti veronesi solo nel 1514, anno in cui nella contrada di S. Quirico viene alloggiato come "depentor", presso i conti Ercole e Lelio Giusti (Gerola, 1910, p. 155). A quella data era già sposato con Angela, che viveva insieme con la figlia Margherita nella casa del conte Uguccione Giusti.
La prima opera ascritta all'I. è la tela col Cristo morto sorretto da angeli (1515 circa) della parrocchiale di Montorio, presso Verona, la cui attribuzione è giustificata dal confronto con il disegno della collezione Janos Scholz di New York (Pierpont Morgan Library: cfr. Mullaly).
Nel 1516 firmò e datò il Giovane con una rosa della Alte Pinakothek di Monaco.
Il languore e la posa malinconica che caratterizzano questo ritratto non giustificano l'affermazione vasariana dell'alunnato presso il Giorgione, rimandando piuttosto a una formale adesione alla moda del giorgionismo. Inoltre, il peso eccessivo attribuito alla narrazione di Vasari, unito alla naturale propensione dell'I. per il ritratto, ha condotto la critica a perigliose attribuzioni (come Le tre età di Palazzo Pitti o la Vecchia delle Gallerie dell'Accademia di Venezia), di cui vale la pena conservare soltanto la Gentildonna di Boston (Isabella Stewart Gardner Museum) e il Doppio ritratto di Berea, Kentucky (Doris Ulmann Galleries, Kress Collection), entrambi pure del secondo decennio del Cinquecento.
Nel 1518 l'I. realizzò un S. Sebastiano, perduto, per la chiesa di S. Maria della Scala a Verona (Vasari, p. 294). Circa due anni dopo si dovrebbe collocare la grande tela raffigurante La Madonna con s. Anna e il Bambino tra i ss. Zeno, Giacomo, Cristoforo e Sebastiano in S. Zeno a Verona, le cui figure dilatate sono accostabili allo stile di Jacopo Palma il Vecchio.
Vicino al 1520 è lo splendido Ritratto virile, firmato, della Pinacoteca di Brera a Milano; mentre è forse più tardo il Ritratto d'uomo con uno stocco dei Musei civici agli Eremitani di Padova: ne emerge una ritrattistica vigorosa, tutt'altro che declinata verso gli sfinimenti del giorgionismo di maniera e invece molto attenta alla ricostruzione di espressioni e caratteri, secondo la linea lombarda e dell'entroterra veneto, da Giovanni Girolamo Savoldo a Lorenzo Lotto a Giovanni Cariani, ma anche a Francesco Morone e al Cavazzola (Paolo Morando).
Al 1523, o poco dopo, risale la pala con la Ss. Trinità, la Madonna e il Bambino in gloria tra l'arcangelo Raffaele e s. Giustina in S. Fermo Maggiore a Verona, eseguita per l'altare del dottore in legge e umanista Torello Saraina.
La sensuale Madonna denuncia i debiti con la pittura emiliana; una conoscenza diretta del Parmigianino (Francesco Mazzola) è forse dimostrabile qualora sia esatta l'attribuzione a quest'ultimo di un disegno del Christ Church College di Oxford che ritrae di profilo "Franciscus Turbidus ven(etus) pic(tor)", come recita la sottostante scritta (Popham).
Sempre in questi anni l'I. ritrasse il nobile veneziano Francesco Badoer, figlio di Giovanni che fu capitano a Verona dal febbraio 1525 al maggio 1526. L'opera è stata identificata da M. Repetto Contaldo (1984, p. 56) con il Giovane pastore dei Musei civici di Padova: in effetti il ritratto fu più tardi trasformato dallo stesso I. "in abito di pecoraio o pastore" per monsignor Benedetto de' Martini, presso il quale lo vide Vasari (p. 294).
Il 24 marzo 1526 il nobile Giacomo Fontanelli, redigendo le sue ultime volontà, ordinava all'I. una pala del valore di 100 ducati da destinarsi alla cappella di famiglia nella chiesa di S. Maria in Organo a Verona; disponeva inoltre che fossero pagati al pittore i lavori già eseguiti nella cappella.
Si tratta di un notevole ciclo pittorico con quattro santi ad affresco disposti entro finte nicchie, due all'interno, Pietro Martire e Francesco (staccati e trasferiti nella vicina cappella di S. Michele) e due all'esterno della cappella, Giovanni Battista e Girolamo. La pala d'altare, firmata, che raffigurava le Nozze mistiche di s. Caterina e santi (già Potsdam-Sanssouci, Neues Palais), è andata distrutta nel 1945. La soprastante lunetta in tela, con la Trasfigurazione (Monaco, Alte Pinakothek), ostenta il passaggio dell'I. all'imitazione della pittura bresciana, del Moretto (Alessandro Bonvicino) e di Callisto Piazza, imputabile sia alla mediazione di Giovanni Francesco Caroto e di Nicola Giolfino sia a un suo non documentato viaggio in Lombardia, ipotizzato da M. Repetto Contaldo (1982, p. 70). Sotto l'egida di questa adesione ai moduli lombardi si collocano anche la Madonna col Bambino, s. Antonio, angeli e il donatore di Princeton (University Museum of art) e il S. Lorenzo tra i ss. Giovanni Battista e Pietro della parrocchiale di Bagolino (Brescia), databili entrambi nella seconda metà del terzo decennio.
Il 25 ag. 1526 l'I., nel testimoniare a favore del pittore Nicola Crollalanza, dichiarò di abitare a Verona da venticinque anni e di non aver mai cessato di dipingere (Da Re, 1907).
Nell'agosto dell'anno seguente Liberale da Verona dettò il proprio testamento, designando come eredi universali Lucrezia e Margherita, le due figlie dell'I. "quum neminem habeat quem magis diligat" (Eberhardt). Il 24 settembre l'I. fu presente alla stesura del testamento di Angela Colpani, suocera del conte Lelio Giusti (Gerola, 1910, p. 146).
Probabilmente nel 1528 l'I. eseguì il ritratto di Girolamo Fracastoro in occasione dell'ingresso a Verona del nuovo vescovo Gian Matteo Giberti, ex datario di Clemente VII, che, secondo Vasari (p. 295), avrebbe poi regalato il dipinto a Paolo Giovio: già erroneamente identificato con il Ritratto virile della National Gallery di Londra, è al momento da considerarsi perduto. S'iniziò allora un periodo di grande fertilità artistica dell'I. che, protetto e aiutato dal vescovo, frequentò artisti, letterati e uomini di cultura che animavano la cosiddetta "accademia" gibertina: lo stesso Fracastoro, Michele Sanmicheli, Torello Saraina, Marcantonio Flaminio, Francesco Berni, il grecista Bernardino Donato.
Nel 1529 l'I. viveva in contrada S. Vitale con la sua famiglia e con la vedova di Liberale. Il 22 dic. 1531, a nome delle sue figlie eredi di Liberale, restituì alla vedova di costui, passata a nuove nozze, la dote di 200 libbre. La somma fu sostituita con due terreni e una casa in contrada S. Giovanni in Valle, prontamente dati in locazione alle figlie dell'I.; ma nel 1536, alla morte della vedova, questi beni passarono in eredità al convento di S. Domenico, al quale l'I. pagò l'affitto fino alla sua morte (Gerola, 1909, p. 33).
Dopo il 1531-32 si devono datare gli affreschi con Scene di storia antica un tempo sulla facciata di casa Saraina in via Stella a Verona, oggi staccati e conservati nel Museo degli affreschi Giovanni Battista Cavalcaselle. Nel 1533 dipinse la tela con S. Lorenzo Giustiniani tra i ss. Michele e Giorgio del Museo civico di Castelvecchio a Verona, in cui si può riconoscere un primo sentore delle novità proposte da Giulio Romano a palazzo Te.
Nel 1534 l'I. terminò la sua più importante impresa pittorica: gli affreschi dell'abside, del coro e dell'arco trionfale del duomo di Verona, eseguiti per conto del vescovo Giberti su disegni preparatori di Giulio Romano.
La decorazione ricopre interamente le pareti del presbiterio, secondo un programma complesso e articolato per cui ci vollero forse più di un anno di lavoro e sicuramente collaboratori valenti, tra cui il giovane Battista D'Angolo detto del Moro (Serafini, 1996, p. 87): sull'arco trionfale, l'Annunciazione e i profeti Isaia ed Ezechiele, sotto i quali c'è la firma e la data "Franciscus Turbidus faciebat MDXXXIIII"; nella volta del presbiterio, tre riquadri con la Nascita di Maria, la Presentazione di Maria al tempio; e sulla volta, tre Angeli con la corona di stelle in ardito scorcio da sottinsù; nell'abside, l'Assunzione di Maria e, sopra lo scanno vescovile, la figura di S. Zeno, patrono di Verona; tutt'intorno, una finta decorazione marmorea con paraste e candelabre, rosette dorate e clipei con Prefigurazioni veterotestamentarie della Vergine. Lo svolgimento non cronologico delle storie mariane è funzionale a una rappresentazione dell'Assunzione incentrata sul mistero dell'Incarnazione di Cristo e sul sacrificio della Croce, simbolicamente rappresentato dall'altare centrale che, nella nuova disposizione presbiteriale predisposta da Sanmicheli con il "tornacoro" di colonne ioniche, coincide idealmente con la tomba della Vergine. Il binomio Maria-Chiesa, Maria-tabernacolo recupera la tradizione delle antiche absidi romane e si coniuga al programma gibertino di purificazione della Chiesa sulla base del modello apostolico, una linea ecclesiologica per molti versi analoga a quella del cardinale Gasparo Contarini (Serafini, 1998). Nulla traspare da questi affreschi che possa seriamente far ipotizzare contenuti eterodossi, né sentimenti filochiniani o genericamente "evangelici" (Conforti); c'è casomai una convinta adesione alla centralità della Chiesa di Roma e alla funzione pastorale dei vescovi e dei papi, compreso quel Clemente VII che fu protettore di Giberti. Sicuramente con questo lavoro il manierismo romano e giuliesco fece il suo ingresso nella città scaligera; ma l'interpretazione data dall'I. dei cartoni di Giulio Romano non fu né piatta né banale: le storie mariane dispiegano un ciclo ricco di colori vivaci, di volti ed espressioni caricate al limite del grottesco, di figure contorte affiancate da altre più classiche quasi raffaellesche, in un connubio singolare, forse provinciale, ma nello stesso tempo vivissimo e sorprendente, che condizionerà la produzione della vecchia generazione veronese. L'invenzione poi di uno spazio finto (la balaustra degli apostoli), la scenografia volutamente chiassosa e il coinvolgimento teatrale dello spazio circostante saranno fonte di imitazione da parte dei giovani pittori, da Paolo Farinati a Paolo Veronese, da Bernardino India a Battista del Moro.
Le tematiche, queste sì "evangeliche", della vocazione e del "libero arbitrio" sono invece al centro dell'altra impresa dell'I. per Giberti: gli affreschi, firmati e datati 1535, nell'abside e nel coro della chiesa abbaziale di Rosazzo, in Friuli, dal 1527 commenda del vescovo veronese.
La Trasfigurazione nell'abside, la Vocazione di Pietro e Andrea e la Pesca miracolosa ai lati del presbiterio seguono una linea fortemente cristologica, ma ancora del tutto in accordo con l'immagine ortodossa del Cristo pescatore d'anime, di Pietro come santo "papale" e, di conseguenza, del sacerdozio quale veicolo insostituibile della salvezza del credente (Brownell, p. 70). Privo questa volta del vademecum grafico di Giulio Romano, l'I. a molti è sembrato perdersi in un tentativo, fallito, di imitazione dei modelli manieristici, anche se l'impoverimento del tessuto cromatico originale compromette una corretta lettura degli affreschi. Tuttavia, là dove riesce a trovare un modello, e cioè nei cartoni raffaelleschi per gli arazzi sistini, l'I. recupera immediatamente la misura compositiva fornendo nei riquadri laterali due episodi importanti del paesaggismo veronese.
Successivi alle opere per Giberti sono gli affreschi un tempo sulla facciata di casa Manuelli a Verona, andati distrutti per la piena dell'Adige del 1882. Più difficile da datare, ma certo oltre il terzo decennio del secolo, è ciò che rimane della pala con la Sacra Famiglia, s. Francesco e il conte Francesco Sambonifacio (Verona, Museo civico di Castelvecchio), ora quasi illeggibile. La parte centrale di questa tela è ripresa quasi integralmente nella Madonna col Bambino, pure a Castelvecchio.
Intorno al 1535 Battista del Moro, già collaboratore dell'I. nel duomo veronese e a Rosazzo, ne sposò la figlia Margherita e si trasferì in casa del suocero in contrada S. Vitale (Repetto Contaldo, 1984, p. 50). Il 10 luglio dell'anno successivo, chiamato come testimone in una controversia tra il pittore Sebastiano Cicogna e un suo garzone, l'I. affermò di essere nato a Venezia, ma di abitare a Verona da trentasette anni (Da Re, 1913).
Il 3 ag. 1537 l'I. era presente al testamento del conte Lelio fu Zenovello Giusti (Gerola, 1910, p. 146); e il 17 giugno 1539 presenziò al testamento di tale Balzanino, pittore di S. Stefano a Verona (Repetto Contaldo, 1984, p. 53).
Sullo scorcio del quarto decennio si può datare la tela centinata raffigurante S. Barbara in gloria tra i ss. Antonio Abate e Rocco nella chiesa di S. Eufemia a Verona, originariamente collocata nella cappella della Compagnia dei bombardieri, dove la ricorda Vasari (p. 293).
Il consueto schema triangolare, già usato nella pala di S. Fermo, si modernizza qui nell'uso di contrasti luministici che richiamano la contemporanea opera del Moretto (Alessandro Bonvicino) per S. Eufemia (1540).
Dopo l'agosto del 1538 si deve datare anche la frammentaria decorazione ad affresco che circonda l'altare della Vergine nella basilica di S. Zeno (Repetto Contaldo, 1984, p. 60). Nel 1541 l'I. è registrato come abitante in contrada S. Vitale, insieme con la sua famiglia e quella del genero (Gerola, 1910, p. 155).
All'inizio del quinto decennio si può datare il Ritratto di vecchio, firmato, della Galleria nazionale di Capodimonte a Napoli. È invece incerta l'attribuzione all'I. degli affreschi con scene mitologiche ovidiane che decorano la grande sala centrale di villa Pisani a Bagnolo di Lonigo (Vicenza), realizzata dal giovane Andrea Palladio dopo il 1542 (Mason, p. 72).
Da una lettera scritta all'I. da Pietro Aretino (p. 136) nel gennaio del 1546, si può supporre che già nell'anno precedente egli si fosse trasferito a Venezia. Nel 1546 era però sicuramente nella città lagunare. Qui mise fine a una lite tra Michele Sanmicheli e lo stesso Pietro Aretino, al quale consegnò alcuni carpioni inviatigli in dono dall'architetto veronese (ibid., pp. 130, 163).
Purtroppo sono andate tutte perdute le opere realizzate dall'I. a Venezia, il che ci priva di un capitolo fondamentale della sua carriera: le quattro tele con episodi della Genesi eseguite tra il 1547 e il 1550 per la Scuola della Ss. Trinità (Ludwig; van Hadeln), ciclo poi completato da Jacopo Tintoretto; e i ritratti ricordati da Vasari (pp. 294 s.), due di Sanmicheli e uno del condottiero Alessandro Contarini.
Nel dicembre 1554 l'I., oramai settantenne, si accordava a Padova nella chiesa di S. Urbano con il cellario dell'abbazia di Praglia per dipingere un "Christo passo", sinora non identificato (Repetto Contaldo, 1990, p. 374).
Nel 1557 è documentato a Verona abitante in casa del conte Uguccione Giusti in contrada S. Quirico, mentre la moglie con il resto della famiglia si era spostata nella contrada di S. Giovanni in Valle (Gerola, 1910, p. 156).
L'I. morì a Verona probabilmente alla fine del 1561, come si deduce dai registri del convento di S. Domenico (ibid., p. 148); fu sepolto nella chiesa di S. Maria in Stella.
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