MANCINI, Francesco
Nacque a Sant'Angelo in Vado, nell'Urbinate, il 24 apr. 1679 da Sebastiano e Paola Bellocchi. Il padre esercitava l'attività di orafo. La sua formazione pittorica avvenne presso Carlo Cignani, impegnato dal 1686 a Forlì nella decorazione della cupola della cappella della Madonna del Fuoco della cattedrale, inaugurata solo nel 1706.
L'esperienza della cupola forlivese fu fondamentale per la formazione del M.; essa costituirà, anche a distanza di decenni, un punto di riferimento per la sua attività di frescante.
Gli esordi del M., in collaborazione con Cignani, risalgono ai primi anni del nuovo secolo: due dipinti per palazzo Albicini a Forlì, raffiguranti il Giorno e la Notte, menzionati da Zanelli nel 1722 e andati perduti. Al 1704 si collocano le prime opere autonome documentate, destinate ai monasteri benedettini della Madonna del Monte a Cesena e di S. Giuliano a Rimini e raffiguranti, rispettivamente, S. Mauro che resuscita un defunto e S. Mauro che risana un cieco. In questi come negli altri dipinti giovanili a lui ascritti è avvertibile il forte debito verso la pittura tanto di Carlo Cignani quanto del figlio di questo, Felice.
La prima grande commissione pubblica affidata al M. fu la decorazione della sala grande della biblioteca del convento camaldolese di Classe, presso Ravenna, affidatagli dall'abate Pietro Canneti.
Tale intervento, comprendente l'affresco della volta raffigurante il Trionfo della Divina Saggezza e le due tele poste sulla porta d'ingresso e sulla parete di fronte, con Gregorio IX e Graziano compilatori dei sacri canoni e l'Unione delle Chiese greca e latina, impegnò il M. dal 1713 al 1714.
Intorno al 1715 la critica ha datato il Carro del Sole sempre per il palazzo Albicini di Forlì.
In quegli anni il marchese Andrea Albicini commissionava infatti a vari artisti opere per l'abbellimento della dimora di famiglia, e inoltre stilisticamente la grande composizione del pittore sembra essere molto prossima a quella data. Un documento trovato di recente nell'Archivio Albicini registra però un pagamento al M. nel novembre 1732, che sembrerebbe riferirsi, in parte, proprio al Carro del Sole: "per la Pitura fatta sul volto rappresentante l'Amor virtuoso col tempio della Gloria e per il quadro del Sol Nascente" (Forlì, Archivio Albicini, b. 72, f. 1, giornale segnato "B.B."). Del primo dipinto citato, che ornava la volta di una sala, non si conosce traccia; si è invece conservato un ulteriore dipinto del M. già inserito in un soffitto del palazzo, l'ovale con la Lotta di Giacobbe con l'angelo conservato a Forlì in collezione privata.
Dopo il 1715 l'asse di attività dell'artista si spostò verso le natie Marche e l'Umbria. Di tale periodo è la pala per l'altare della chiesa dei cappuccini di Fano, che raffigura la Madonna col Bambino e i ss. Cristina, Francesco e Felice da Cantalice, dipinto (oggi conservato nella Pinacoteca civica di Fano) che si impone per la raggiunta padronanza di quello che sarà lo stile inconfondibile della maturità del M., nella resa diafana e madreperlacea delle figure, come nella poetica intensità degli affetti.
Nel 1718-19 eseguì per la chiesa degli oratoriani di Città di Castello la pala dell'altar maggiore con l'Apparizione di Cristo a s. Pietro (Domine quo vadis?), oggi nella Pinacoteca civica della città.
Secondo Mancini (1832) il M. aveva anche fornito i disegni per le statue in stucco delle Virtù cardinali all'interno della chiesa; lo stesso storico ricorda inoltre altre sue opere a Città di Castello, tutte oggi disperse.
Nei medesimi anni il M. eseguì una prima versione di due dipinti di tema erotico-moralistico, La Pudicizia che sferza Amore e Amore che doma un satiro, già di proprietà Montemellini di Perugia e finora non rintracciati.
È probabile che essi siano stati ripresi dal pittore nella coppia di quadri dello stesso soggetto da lui tenuti nel suo studio e acquistati dopo la sua morte da Clemente XIV per le collezioni pontificie (oggi divisi tra il palazzo del Quirinale e la Pinacoteca Vaticana).
Il 1719 segnò un grande successo dei sostenitori del M., tra i quali Canneti, che riuscirono ad assicurargli la decorazione dell'abside della cattedrale di Foligno, per la cui esecuzione erano già in lizza Giuseppe Nicolò Nasini e Francesco Trevisani. Solo nel 1722 il M. pose mano agli affreschi della calotta absidale, inaugurati nel gennaio 1723.
Nell'affollata composizione con S. Feliciano che raccomanda alla Religione la città di Foligno il pittore si mostra ormai perfettamente padrone degli spazi architettonici: il retaggio della grande tradizione bolognese appresa con Cignani viene reinterpretato con sicura personalità e lanciato verso le leggerezze della decorazione di pieno Settecento. Nel corso del 1723 gli venne affidata anche la decorazione della volta del presbiterio della cattedrale con S. Feliciano in gloria nel medaglione centrale e negli ovati minori quattro Virtù a monocromo.
Tali affermazioni proiettarono il M. sulla ribalta romana; e infatti nel 1724 egli si trasferì a Roma, incrementando tuttavia gli invii nella regione d'origine.
Il mancato reperimento finora di documenti per molte committenze marchigiane rende difficile datare con sicurezza un gruppo di dipinti che pure stilisticamente non dovrebbero essere molto avanzati, in particolare alcune tele eseguite per Sant'Angelo in Vado: la pala della chiesa di S. Lorenzo in Selva Nera con Il Redentore e i ss. Lorenzo, Stefano e Maddalena di strettissima derivazione cignanesca, ma con una tavolozza e una tecnica ormai pienamente settecentesche; il Transito di s. Giuseppe per la chiesa dell'omonima Confraternita (oggi conservato nella chiesa di S. Filippo), in cui coesistono raffinatezze e impacci giustificabili solo in un'opera ancora acerba; e infine le tele della chiesa dei servi di Maria. Prima tra queste ultime deve essere stata la pala con La Madonna che dona l'abito ai sette santi fondatori dell'Ordine, databile al 1725 - anno della conferma del culto - o poco oltre, per la stretta contiguità stilistica con le opere folignati. Qui il M. dà un autorevolissimo contributo alla "grande maniera" sacra, fondendo classicismo emiliano e romano: il forte contrasto cromatico ed emotivo, creato dal gioco di mani e volti estatici dei santi avvolti nelle vesti nere di contro alla diafana sostanza degli angeli e della Madonna, fa di questa forse la più bella tra le versioni del tema che si andavano licenziando in quegli anni. A un momento successivo sembra da ricondurre l'altra pala del M. nella stessa chiesa, il S. Pellegrino Laziosi curato dal Crocifisso, la cui forte carica sentimentale ne decreterà il successo, testimoniato dalle diverse copie esistenti. Attribuita concordemente al M. da tutti gli studiosi è anche un'altra pala della chiesa dei Servi, raffigurante la Visione di s. Filippo Benizi: si tratta in realtà di un'opera dell'ambito di Agostino Masucci, artista con cui il M. avrà più di un contatto.
Nel 1725 fu nominato accademico di merito dell'Accademia di S. Luca: a essa il pittore offrì la tela con Flora (consegnata nel 1728 e tuttora ivi conservata), una delle più fortunate immagini del Settecento romano, divulgata attraverso molteplici repliche di bottega, copie e riduzioni.
Per aver accolto nel suo studio e formato alla pittura Sebastiano Ceccarini (che sarà suo valido aiutante) e altri tirocinanti fanesi, nel 1726 il M. ottenne la cittadinanza onoraria di Fano.
Nel 1728 si trovava a Perugia per la decorazione ad affresco della cupola della chiesa di S. Filippo con l'Incoronazione della Vergine e il paradiso, terminata due anni dopo. Qui il M. si mostra più conservatore in confronto alle scelte adottate a Foligno, riprendendo lo schema del Correggio (Antonio Allegri) nella cupola del duomo di Parma.
Gli anni Trenta furono per il M. il periodo d'attività più fecondo. Rientrato a Roma nel 1731, il M. vi decorò la coffee-house di palazzo Colonna, nel nuovo padiglione verso piazza Venezia appena costruito da Nicola Michetti.
Nella volta della sala affrescò Psiche accolta nell'Olimpo, mentre nei pennacchi sottostanti raffigurò episodi della Favola di Amore e Psiche; tutto lo spazio è ornato da un'architettura dipinta, che continua quella reale ideata da Michetti, animata da amorini, festoni, finti cammei. La collaborazione tra il M. e Michetti crea uno degli spazi più raffinati e armoniosi del Settecento a Roma.
Questa decorazione profana era tuttavia destinata a rimanere un episodio isolato nel percorso del pittore mentre si moltiplicavano gli incarichi per opere religiose. Tra queste spiccano i dipinti per la committenza reale portoghese, facenti parte dello straordinario flusso d'opere di artisti e decoratori romani che Giovanni V di Portogallo fece pervenire a Lisbona, al palazzo-convento di Mafra e alla cattedrale di évora.
Presumibilmente nel 1731, anno dell'arrivo a Lisbona del bozzetto di Agostino Masucci per l'Incoronazione della Vergine destinata al transetto destro della chiesa di Mafra, che non era piaciuto alla committenza, l'incarico della pala venne dato al M. (o forse fu lo stesso Masucci, oberato di lavoro e non in grado di soddisfare in tempo alle consegne, a passarglielo). Nel 1732 collaborò con Masucci alla decorazione della cappella maggiore della cattedrale di évora, per la quale eseguì la Natività della Vergine. Tipico esempio della tecnica dell'artista che ottiene con l'olio su tela gli effetti sfumati del pastello e dei gessetti colorati, l'opera verrà divulgata anche in ambito italiano (replica nella Pinacoteca di Faenza e varie derivazioni nelle chiese di Forlì). Dello stesso 1732 è la pala con La Vergine Bambina e i ss. Gioacchino e Anna della chiesa di S. Teresa a Perugia (oggi nella Pinacoteca della città).
Nel 1732 il M. venne accolto dall'Accademia di Francia. A quel periodo risale una delle sue più felici creazioni, il Riposo durante la fuga in Egitto, che l'artista tenne con sé e che dopo la sua morte fu anch'esso acquistato da Clemente XIV (oggi nella Pinacoteca Vaticana).
Continuava inoltre l'attività per la regione natia, con opere che vanno dai piccoli formati alla rara raffigurazione di S. Giosafat Kuncewycz della parrocchiale di Palazzo di Arcevia e alla pala d'altare con Cristo in gloria che incorona i ss. Clemente e Ignazio di Antiochia (Urbino, Galleria nazionale), ordinata dal cardinale Annibale Albani per la cappella di S. Clemente nella chiesa di S. Francesco a Urbino, iniziata nel 1733.
Ma l'incontro più fruttuoso sarà quello tra il M. e Guarniero Marefoschi.
Il conte Marefoschi aveva affidato l'architettura del piccolo sacello della Madonna della Misericordia di Macerata nel 1734 a Luigi Vanvitelli. All'interno di esso, tra il maggio 1736 e il gennaio 1738, il M. eseguì la decorazione ad affresco della volta e le quattro tele ovali dell'aula (mentre a Sebastiano Conca verranno affidati i due dipinti laterali del presbiterio). Nella volta, in cui è raffigurata l'Assunzione della Madonna, il ricordo di Cignani - benché citato nella figura della Vergine - appare ormai lontano e trasfigurato nella materia trasparente e leggerissima delle figure. Ma è nelle quattro tele raffiguranti la Presentazione di Maria, l'Annunciazione, la Visitazione e la Presentazione di Gesù che il M. lascia quelli che si possono definire gli esiti più alti della pittura marchigiana del Settecento, per il perfetto equilibrio compositivo, per la misura che è allo stesso tempo classica e accostante, per l'altissima qualità dell'esecuzione.
Il soggiorno maceratese lo portò a eseguire altri interventi nella città.
Per la cattedrale dipinse la pala con L'angelo appare a s. Giuliano; mentre per la chiesa di S. Filippo realizzò nel 1738 la Crocifissione e i dolenti, un unicum nella sua produzione per l'intonazione scura e drammatica, nonché la pala dell'altare maggiore con S. Filippo Neri in gloria davanti alla Madonna. È incerto se in occasione di questo soggiorno il M. avesse eseguito il dipinto inserito come sopraporta nella galleria dell'Eneide di palazzo Buonaccorsi, interpretato come Sibilla cumana e quindi considerato parte del ciclo decorativo: esso raffigura in realtà La Religione che abbatte gli idoli e non sembra riferirsi al primitivo programma mitologico, realizzato venti anni prima.
Il M. fu presente anche nel rinnovamento pittorico del duomo di Pisa, cui inviò Il beato Gambacorti che costituisce il suo Ordine, di forte impronta classicheggiante. Tale impronta, che già apre verso la stagione neoclassica, è ancor più evidente nell'Immacolata Concezione dipinta nel 1739 per la chiesa di S. Gregorio al Celio a Roma: il Padre Eterno, simile a un Giove, e la gamma fredda delle tinte si pongono come un precedente per Anton Raphael Mengs.
Nel corso del quarto decennio il M. poté quindi assumere una posizione guida accanto ad altri protagonisti della pittura a Roma, in grazia della sua misura classica dove ascendenze emiliane e romane venivano riproposte in una versione intenerita da una straordinaria levità esecutiva che conteneva in sé anche esigenze di semplificazione e di decoro che avrebbero poi trovato terreno fertile nel tardo Settecento. Si è parlato per il M. di un "proto-neoclassicismo", che spiega come alla sua scuola si siano formati piccoli e grandi interpreti del nuovo corso, quali Domenico Corvi, Giovanni Andrea Lazzarini e Nicola La Piccola, e come la sua influenza sia stata fondamentale per Mariano Rossi, oltre a toccare anche artisti quali Cristoforo Unterberger e, come si è detto, lo stesso Mengs.
L'elezione di Benedetto XIV nel 1740 portò nuove affermazioni pubbliche per il M. che ebbe nel pontefice un aperto estimatore e dal quale avrebbe ricevuto la croce di cavaliere. Nel 1743 diventò membro della Compagnia dei Virtuosi al Pantheon. Intanto la forte sterzata classicistica degli ultimi dipinti, tra cui va annoverata anche l'Allegoria della Pittura, oggi in collezione Lemme a Roma, andava cedendo il passo a una sorta di ripensamento del proprio percorso pittorico, sempre sostenuto da un alto mestiere.
Ne sono esempio la S. Teresa in estasi del 1745 (Roma, chiesa di S. Maria della Scala), come altri dipinti tardi quali il Cristo con s. Giovanni Battista e santi camaldolesi della chiesa dei Ss. Biagio e Romualdo a Fabriano (1750) o la pala con Papa Alessandro II e s. Pier Damiani ancora per la chiesa di S. Gregorio al Celio (1751).
Prima del 1750, anno in cui è ricordato da Taja nei palazzi Vaticani, il M. eseguì per il papa un dipinto storico-mitologico, Alessandro Magno nel tempio di Giove Ammone, andato perduto. Per il giubileo del 1750 il M. ricevette due commissioni papali di primaria importanza.
Del ciclo di dipinti per la basilica di S. Maria Maggiore gli venne affidata la pala dell'altar maggiore con l'Adorazione dei pastori; per la basilica di S. Pietro, Benedetto XIV gli commissionò la pala per l'altare sul lato ovest del pilone della Veronica, raffigurante il Miracolo di s. Pietro alla porta Speciosa (l'enorme tela, di m 7 x 4,20, dopo diversi anni fu sostituita dalla copia in mosaico e attualmente si trova nell'aula delle benedizioni di S. Pietro).
Nel 1750 il M. fu eletto principe dell'Accademia di S. Luca, carica che mantenne per il biennio 1750-51. Nello stesso anno gli venne concessa l'iscrizione alla nobiltà della città natale, che nel 1737 gli era stata negata. Verosimilmente si collega a questo riconoscimento l'ultima opera eseguita per Sant'Angelo in Vado, il S. Michele Arcangelo trionfante per l'altare maggiore del duomo, dipinto tra il 1751 e il 1754. Il M., non sposato, viveva da tempo a Roma a palazzo Cimarra nel rione Monti. Nel 1756 fu nominato direttore dell'accademia del nudo in Campidoglio. L'anno dopo consegnò l'ultima sua fatica pittorica, il Cristo risorto per la chiesa di S. Salvatore a Foligno, andato distrutto da un incendio agli inizi del secolo XIX.
Il M. morì a Roma il 9 ag. 1759 e fu sepolto in S. Bonaventura al Palatino.
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