AVELLINO, Francesco Maria
Nacque in Napoli il 14 ag. 1788, dall'architetto e ingegnere Gioacchino e da Rosalba Barba.
Educato alla scuola dei classici da Onofrio Gargiulli, cui doveva succedere nel 1814-15 sulla cattedra napoletana di lettere greche, l'A. diede sufficienti prove di virtuosismo poetico da meritarsi di essere ascritto nel 1800 all'Accademia Sebezia, col nome arcadico di Caristio Paladio. Parallelamente allo studio dei "classici", fu educato alla giurisprudenza da Domenico Sarno, mentre il suo domestico e nativo "umanesimo" fruttificava nel commercio discepolare col celebre critico, erudito e bibliotecario, il gesuita Giovanni Andrés, poi suo mentore, il 1808, nel viaggio a Roma che permise all'A. di stringere personali relazioni con lo scrittor vaticano ed archeologo-epigrafista Gaetano Marini, e con due illustri forestieri, assai benemeriti degli studi di storia dell'arte nostra, anch'essi, come il Marini, amici al Visconti, il francese conte d'Agincourt e il danese Giorgio Zoëga.
L'A. ventenne, del soggiorno romano non era più,tuttavia, un principiante. Fatto il proprio tirocinio d'avvocato nello studio del conte de' Camaldoli, Francesco Ricciardi, da questo era stato assunto nel 1806 al ministero della Giustizia, iniziando quella carriera di magistrato-avvocato-giurista che accomunò l'A. con i maggiori de' suoi coetanei e gli meritò l'onore d'un busto in Castel Capuano. Né queste entrature ministeriali dell'A. debbono esser rimaste estranee alle sue successive relazioni con la corte napoleonica e alla nomina, il 1808, a precettore dei figli di Gioacchino Murat.
Fin dal 1804 aveva, frattanto, intrapreso una seria attività erudita, stampando un commentario latino sopra una medaglia d'oro di Arianna Augusta, moglie dell'imperatore Zenone e figlia dell'imperatore Leone (seconda metà sec. V d.C.), rifatto poi in italiano, togliendone la dedica al possessore della medaglia, monsignor A. Gervasio (Napoli, Tramater, 1826). Più ambizioso il disegno, ma non migliore, forse, la riuscita, del secondo maggior contributo dell'A. agli studi classici: l'edizione dei Captivei di Plauto (Napoli, Morelli, 1807).
"In questo libro - scrisse il discepolo, e postumo laudatore dell'A., Giulio Minervini - non solo fermò le lezioni col confronto di ben quarantasette codici manoscritti, ma aggiunse un esteso commentario, ed in fine particolari ricerche su' teatri de' Romani, e su' Parasiti dell'antica commedia". L'A. sembra però continuasse a ignorare, nel costituire il testo, il codice dell'Ambrosiana, donde, per merito del Ritschi e della stessa polemica accesa contro di lui dal Vallauri, ebbe inizio un'era nuova nella storia degli studi plautini. Né, pur nativamente disposto a cogliere i caratteri comico-mimetici dell'arte di Plauto, pare abbia dedicato troppe cure ad interpretarne la poesia o a studiarne il testo per un'esegesi "sociologica" della commedia, almeno della sola figura del parassita. La memoria (che dall'appendice dell'edizione, dedicata all'Andrés, passò poi, alquanto accresciuta, alle pagine del Giornale enciclopedico ed ebbe definitiva ristampa a conclusione del primo tomo degli Opuscoli) rivela un'impostazione "storica", per cui l'A. felicemente si differenzia dai successivi interpreti grammaticali o scolastici riesumatori e aggiustatori, come il gesuita Palumbo suo conterraneo, delle commedie latine. Ma la impostazione storica della memoria è solo affermata, il descrizionismo, desunto dall'erudita congerie dei Dipnosofisti di Ateneo, prevalendo sull'organica disamina o critica rassegna del materiale, solo tipologicamente elencato e giustapposto. I parassiti non acquistano così né i mutevoli connotati di un'esperienza storico-sociale, dalla commedia di Epicarmo alla nuova menandrea e post-menandrea, con i successivi aggiustamenti romani, né gli immutevoli connotati della singola, individua creazione artistica.
Ultimato così il tirocinio erudito e collaudata la propria esperienza nel soggiorno romano del 1808, l'A. decise, poco più che ventenne, d'intraprendere una diversa attività, direttiva e divulgativa dell'abbondante lavoro archeologico-erudito, numismatico, papirologico, ecc., che lo stesso mecenatismo bonapartesco favoriva, oltre la ripresa degli scavi a Pompei e della decifrazione dei papiri ercolanesi. Comincia quindi un quarantennio di tecnica e accademica operosità dell'A., consapevole - massime dopo la restaurazione borbonica - delle difficoltà fra cui si dibattevano l'Italia e la sua Napoli per tenersi a contatto e comunicare con i dotti d'oltr'Alpe, riceverne gli scritti, scambiare informazioni e notizie, ma insieme persuaso che l'Italia, se molto e più aveva da ricevere, aveva anche, tuttavia, un contributo da offrire. Già in un'intelligente memoria del 1809, ristampata nel tomo primo degli Opuscoli, Osservazioni sul toro a volto umano (dov'è singolarissima la familiarità dell'A. col poema dionisiaco di Nonno di Panopoli e dove conservano tutto il loro valore le annotazioni alla polemica di Polibio contro Timeo in margine al cosiddetto Toro di Falaride, restituito ex hypothesi ad Agrigento da Scipione Emiliano dopo la distruzione di Cartagine), l'A. si professava "precisamente fortunato, se sarò giunto a dimostrare, che gli eruditi napoletani, a' lavori de' quali non veggo sempre concedersi la meritata lode, aveano i primi riconosciuta felicemente la verità" (Opuscoli, I, p. 96).
Alla pubblicazione del Giornale numismatico, iniziata nel 1808, l'A. era indubbiamente ben attrezzato, oltre che per la sua competenza specifica, per la sua conoscenza di lingue modeme, tanto più necessaria in un'Europa ormai quasi universalmente affrancatasi dal panlatinismo degli eruditi e quanto meno i dotti italiani sapevano di tedesco e d'inglese. Dal canto suo, l'A. si sottraeva alla tentazione del panlatinismo sia perché indifferentemente studioso di cose greche e latine - ed anzi delle greche, o magno-greche, più ancora delle latine, alle quali semmai preferì le italiche od osco-sannitiche -, sia perché togato e cruschevole scrittore italiano.
Quest'attività di erudito bibliografo e di informatore o mediatore, come favorì il suo commercio con i dotti italiani e forestieri - e lo sviluppo d'una biblioteca ricca, alla sua morte, di quindicimila volumi -, così dovette favorire e giustificare la carriera accademica dell'Avellino. Il quale, se dal 1809 fu magna pars e dal 1815 segretario perpetuo dell'Accademia Pontaniana, fin dal 1812 fu ascritto all'Accademia di Berlino (mentre solo nell'ultimo decennio della propria laboriosa esistenza fu nominato Socio dell'Académie des Inscriptions et Belles-Lettres nonché delle Accademie di Monaco, Stoccolma e Bruxelles), e dalla fondazione appartenne all'Instituto di corrispondenza archeologica. La Crusca mostrò d'intendere la valentia e le guise spirituali dell'A. eleggendolo nel 1818 successore al Visconti, mentre l'Accademia romana di archeologia, forse perché nel proprio pavido conformismo ne temeva i "trascorsi" murattiani, l'ebbe dei suoi soltanto nel 1823, quando l'ex professore di letteratura greca del 1814-15, soppressagli nel '21 la cattedra, fu trasferito a quell'insegnamento dell'economia politica ch'era stato del Genovesi. Fosse la pratica necessità di sostentare la numerosa famiglia (accasatosi nel 1813, ebbe dal primo matrimonio sei figli, e quattro dal secondo, contratto nel 1834 con Angela de' baroni Buoninconti), fosse più probabilmente la convenienza di ricercare un diversivo e uno sfogo nella mutata atmosfera del pur moderatamente felice "quinquennio", l'A. era nel 1816 tornato al foro, e quest'esperienza gli servì nel successivo insegnamento universitario, trasferito nel 1824 dalla cattedra di economia politica a quella d'istituzioni giustiniance e nel '44 a quella di pandette - sempre in quell'università partenopea di cui anche fu, nel 1830, rettore.
Ha dell'eccezionale - e forse unicamente riscontro nella carriera d'un suo contemporaneo, il giurista e umanista, amico alSavigny e al Micali, Nicola Nicolini - la capacità dell'A. a perseguire parallelamente le due attività, anzi intensificando sempre più la sua opera di archeologo e di antiquario: ché nel 1820 fu incaricato della formazione dell'inventario delle antiche medaglie del Museo reale borbonico, nel '23 divenne membro della commissione de' restauri di Pompei, e quando nel 1831 fu scoperto a Pompei il celebre musaico di Alessandro nella cosiddetta "casa del Fauno", l'A. fu il primo a darne esatta, immediata notizia. Nel '32 segretario perpetuo della Reale Accademia Ercolanese, fu nel 1837 incaricato di dirigere la pubblicazione del Real Museo borbonico (e ne curò dodici volumi in folio), nel 1839 direttore del Museo e sovraintendente degli scavi del Regno, in questa carica aprendo la via che avrebbero percorsa i suoi epigoni Minervini e Fiorelli. Operosissimo collaboratore delle attività e pubblicazioni delle accademie Pontaniana ed Ercolanese, ideatore ed iniziatore d'un Corpus numorum dell'Italia antica, nel '42 diede anche principio al Bullettino archeologico napoletano, in cui scrissero, fra gli altri, il giovane Mommsen e il vecchio Welcker, lieto quest'ultimo di avere accolto fin dal 1833 articoli dell'A. in quel Rheinisches Museum ch'egli aveva fondato e diretto insieme col Niebuhr.
Nonostante il malanimo diffuso tra i dotti italiani nei confronti degli stranieri, con essi amichevolmente collaborò e ad essi rese costante omaggio l'A., ora dolendosi di non poterne conoscere le opere, ora elogiandole, infine "mettendo ad epigrafe del suo bullettino un notevolissimo detto dell'immortale Carlo Ottofredo Müller" (ricorda il Minervini); e il motto era in tutto conforme all'animoso ottimismo scientifico dell'A.: "è importante il conoscere tutto ciò che si può con esattezza conoscere". L'A. non partecipò, dunque, mai dell'esterofobia nazionalistica di cui peccarono i dotti dell'Accademia pontificia e, nella sua Napoli, gli anti-niebuhriani Troya e Gervasio. Ma quest'internazionalismo scientifico, probabile retaggio settecentesco, derivava forse all'A. non tanto da un suo merito quanto da un suo demerito, ché il Niebuhr, il Creuzer, K.O. Müller, gli storiografi e filologi del romanticismo germanico, e non solamente germanico, famigliari all'A. come autori o come fonti, non vennero mai da lui intesi e colti, discussi comunque, negli aspetti rivoluzionari del loro pensiero, al quale si ribellavano i continuatori del vichismo come il Troya e lo Jannelli. Ben giustamente il Mommsen contrapponeva allo Jannelli la solidità sicura dell'A., che nel metodo e in più ricerche particolari di epigrafia e linguistica osco-sannitica precorse in effetti il nuovo maestro d'oltr'Alpe. Ma, se l'A. era di gran lunga superiore sul piano della tecnica ad ogni altro italiano, escluso il Borghesi, allo Jannelli restava inferiore sul piano del metodo, della coscienza storiografica. Non solo, infatti, l'A. non scrisse mai di critica storica, ma neppur nella pratica dell'esegesi e della ricostruzione si direbbe riuscisse a conseguire utili, fruttuosamente metodici, resultati, pur provvedendo tuttavia, con la sua stessa ricerca erudita, a dar avviamento alla "storia", in quanto contribuiva a riscoprire il così detto "sostrato" italico.
Che agissero nell'A. fermenti ed echi del secolo XVIII, è ovvio e ben comprensibile, com'è naturale che intendesse sfruttare al massimo i vantaggi dell'immediatezza topografica, della ricerca in situ,della propria posizione egemonica in Napoli e nel Mezzogiorno. Così, peraltro, senza indulgere alle esagerazioni dell'anti-romanesimo e dell'esterofobia, l'A. veniva quasi senz'addarsene apprestando i materiali per l'organica ricostruzione della "storia italica", se non in antitesi, certo a completamento dell'unica ed aulica storia di Roma, che era, per lo stesso Borghesi, il solo campo, o il più vero, della propria attività.
Spentosi l'A. quasi repentinamente in Napoli il 9 gennaio 1850, la sua opera ebbe continuatori nei "tecnici" dell'erudizione partenopea (Minervini, Fiorelli, De Petra, De Ruggiero, Sogliano, ecc.) e trovò inveramento nel Mommsen. Il quale, elogiati "gli scritti eccellenti" dell'A. nel 1846, si condoleva di tanta perdita in una sua lettera privata al Borghesi del 22 febbr. 1850 e pubblicamente riaffermava il proprio rispetto e il proprio debito verso l'A. nel dedicare al Borghesi, due anni di poi, le Inscriptiones Regni Neapolitani.
A prescindere da pubblicazioni occasionali, note epigrafiche, cataloghi e descrizioni museografiche od antiquarie (per cui cfr. l'Elogio del Minervini, pp. 27-37), il meglio dell'abbondante e cospicua produzione dell'A. fu da lui raccolto nei tre volumi degli Opusculi diversi (Napoli, Tramater, 1826, 1833 e 1836).
Bibl.: Manca sull'A. uno studio adeguato. Molto materiale biografico e bibliografico (oltre che nel cenno dell'A. medesimo in D. D. Müller, Biografie autografe ed inedite di illustri italiani di questo secolo, Torino, Pomba, 1853, pp. 35-38), nell'Elogio funebre dettato da Giulio Minervini e seguito da poesie commemorative, italiane e latine, oltre che del Minervini medesimo, di Bernardo Quaranta, di Quintino Guanciali e d'altri, omaggio collettivo degli Accademici Pontaniani alla memoria del loro collega (Napoli, Tramater, 1850). Su queste fonti e altre analoghe (per es., G. Castaldi, Della regale accademia ercolanense, Napoli 1840, pp. 79-82) è basato l'articolo di A. Sogliano nell'Enciclopedia italiana (V, pp.614-615). Per i giudizi del Mommsen, cfr. specialmente Nachträge zu den oskischen Studien,Berlin 1846, p. 4; Die unteritalischen Dialekte, Leipzig 1850, p. VII; Inscriptiones Regni Neapolitani, Leipzig 1852, pp. V, XVII, e la cit. lettera al Borghesi pubbl. da E. Costa, Th. Mommsen, Bologna 1905, p. 112, nonché Mommsen-Jahn, Briefwechsel, Frankfurt 1962, pp. 38, 43. Per il posto dell'A. nella coeva cultura partenopea, cfr. E. Cione, Napoli romantica, Milano 1944, pp. 64 s.